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Il grembo materno, simbolo di protezione e rigenerazione – Stefano Mayorca ©

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Esistono delle specifiche analogie tra la caverna e il grembo materno, non solo di ordine psicologico, ma fortemente iniziatico ed ermetico. Da questo punto di vista, come già accennato, nell’antro litico sono racchiuse le matrici del femmineo nel quale l’essere umano trova rifugio e protezione rientrando in maniera simbolica nel ventre materno. Nei riti di incubazione tale connotazione occulta era diffusa, ed era riconducibile alla rinascita che seguiva alla morte dell’iniziato. La caverna è da tempi immemori legata all’eros, in virtù della sua concezione che la vede incarnare l’utero materno o Utero Primordiale.

Il mistero più grande è custodito nella vulva, elemento dalle forze terrigene pronunciate, che sottende alla germinazione dell’anima fecondata dal principio luminoso solare che trova la sua giusta collocazione nelle profondità della roccia-utero, in cui il seme si diffonde e genera.

Il contadino egualmente getta il seme nella terra oscura e lì sotto la vita prende forma portando alla luce il germoglio, specchio vivente della futura pianta. Nonostante le visioni negative che si sono volute accreditare alla grotta quale sede del male e di entità aliene e malvagie, estremo confine fra il consueto e l’inconsueto, tra il mondo conosciuto e razionale e l’ignoto, vi sono nel contesto religioso riferimenti positivi che ne segnano la simbologia. Secondo una certa tradizione ebraica e cristiana, infatti, assume aspetti divini e divinizzanti.

Nella Genesi si parla della caverna di Machpelah, situata nel Paradiso Terrestre, in cui si dice fosse custodita l’essenza del Bene. Qui sarebbe stato creato il primo uomo: Adamo. Gli antri, ad ogni modo, sono il crogiuolo delle forme, regno della Grande Madre (o Terra-Madre). Nella cultura medievale la caverna era rapportata al cuore umano quale centro spirituale e divino.

Nell’antica Roma le grotte venivano dedicate al dio Fauno, divinità dei boschi e signore delle profezie. In tali santuari sotterranei si trovavano delle are cultuali e sacre. Chi intendeva ottenere una visione sopranaturale doveva trascorrere la notte al suo interno avvolto in una pelle di pecora, attendendo la comunicazione trascendente operata dal dio. Anche la festa dei Lupercalia officiata dai Luperci, sacerdoti addetti al rituale, si svolgeva internamente ad una grotta (sita alle pendici del Palatino).

La caverna dunque, è la regione che travalica l’immaginario, dove si sostanzia l’unione tra le Forze cosmiche e quelle terrestri, simboleggiata dai sette pianeti che configurano i sette metalli racchiusi nelle viscere della Terra, come attestato dalla Tradizione alchimica.

- Stefano Mayorca - riproduzione riservata

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“Il Milite Ignoto illustrato al Popolo” di Karl Evver: una prima lettura di Sandro Giovannini

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Credo sia non solo giusto ma anche utile che Carlo Fabrizio Carli nella sua “Un’appassionata scelta di pittura”, sincera introduzione all’aureo libretto “Il Milite Ignoto illustrato al Popolo” di Karl Evver, insista sull’“austerità di linguaggio”- sia dell’-“elaborazione pittorica, che nella scelta dei temi e delle didascalie”. Forse perché, oggi, nell’orgia dell’antiretorica paredro apparentemente insostituibile della precedente retorica storica, si spera possa tornar utile a legittimamente diradare la nuvolaglia ideologica e la cortina velenosa della dialettica coll’aprire la terra di mezzo tra i due fuochi (troppo spesso, proprio, terra di nessuno) ad un cielo meno plumbeo e mortifero. Ma - al di là della sempre più rara educazione dei rapporti - non credo questa sincerità possa servire a molto se non per spiriti che si siano già autonomamente liberati dall’iprite della fazione e della lettura strumentale (“...vincetossico è il viatico per entrare l’arcano”... e già il moly - protezione contro la magia maligna di Circe - è condizione necessaria ma non sufficiente). Basterebbe sottoporre il complesso poetico di Evver (inventio e dispositio) a dei lettori meno provveduti d’efficienti maschere antigas e tutto ricadrebbe nell’intossicazione gravida di conseguenti spasimi.

E questo non lo credo perché non veda quanto il lavoro di Evver sia realmente al di sopra delle miserie dicotomiche, quanto proprio perché non m’illudo che anche il più nobile lavoro non sottostia, volenti o nolenti, al giogo spaventoso della pesanteur. Tu potrai essere anche il più grande degli artisti (persino i sommi ne hanno dolorosamente sofferto) ma dovrai mercanteggiare alquanto - prima con te stesso e poi con altri - per cercare possibilmente d’evitare quei paesaggi di rovine e macerie. Che tali restano, anche se tu - od altri - sopra hanno elevato monumenti. Leggeri o pesanti, archetipi o stereotipi che siano.

Per questo i furbi - coloro che sempre e comunque e dovunque arraffano - si dilatano in astrattezze fascinose e si restringono in dialoghi ammiccanti, senza neanche far finta d’assumersi il carico di quel portato storico (ma eventualmente solo di beceri od insignificanti déjà-vu) leggeri come falsi angeli di plastica, come palloncini egoici gonfiati ad autostima. Perché è vero che Evver è realmente sopra quelle miserie dicotomiche, ma non fugge le rovine e le macerie. Lui le sorvola, le attraversa, le rilegge con la telecamera di un drone che tutto vede e nulla perde col suo occhio di falco.

Allora sarà già più facile intuire quanto il suo “minimalismo” (titolo oggi - in troppi contesti - ambiguo se non azzardato) sia una costante di penetrazione più che una via di fuga - sempre contrato poi da un discernimento poetico-filosofico allusivo e tangenziale ma profondamente significante - e dia comunque, qui, il senso d’una compiutezza che il bianco di moda troppo spesso o quasi sempre, lascia sconsolatamente irrisolto, per difetto più di visione (di cuore, di sangue) che di stile di facciata (prevedibilmente racchio ma convintamente posatore).

Dobbiamo essere grati ad Evver per il suo coraggio, ch’è coraggio d’artista persino prima che coraggio d’uomo, per averci donato ancora un sogno lieve ma pervasivo d’una Patria morta, ma, per noi che crediamo nel più d’uno, ancora vitale, qualsiasi siano i suoi futuri, temuti od auspicabili.

Egli, come un buon padre che tutto sacrifica al dovere di testimonianza, legato docilmente ai suoi parenti ma prodigo del seme senza iattanza e senza boria, ci tende la mano - un’ultima volta - dalla linea del fronte, per ricordarci ancora quanto si possa essere solidali, puliti, generosi.

Il Milite Ignoto illustrato al Popolo. Un mito portato in pittura. (La vita di un uomo dalla madre alla morte in 14 stazioni dipinte da Karl Evver): testo critico di Carlo Fabrizio Carli, catalogo di mostra, edito da “la Casa del Calicanto”, 2018, Euro 12.

INDICE:
Un’appassionata scelta di pittura, di Carlo Fabrizio Carli.
Elenco delle stazioni.
Vox Populo.
Il Milite Ignoto illustrato al Popolo.
Perché.
Cenni biografici.

Consigliamo a tutti i nostri amici e conoscenti d’affrontare quest’autentica avventura conoscitiva ‘in’ Karl Evver e ci auguriamo che acquistino il libro-catalogo. Noi ritorneremo volentieri a parlarne, ampliando la richiesta di riscontri al proposito.

Sandro Giovannini

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L’elastico e la molla – Vittorio Varano

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Un uomo con un elastico legato alla schiena viene sparato come un proiettile : più procede in avanti, più l'elastico si tende, finché non raggiunga la sua massima lunghezza possibile ; a quel punto il movimento si ferma, l'uomo rimane bloccato in un apparente equilibrio in cui la forza d'inerzia che lo spinge a proseguire è bilanciata esattamente dalla resistenza dell'elastico, poi l'energia accumulata si esaurisce, prende il sopravvento la trazione esercitata a tergo, inverte la rotta, ed inizia a tornare indietro. Al termine del tragitto si ritrova al punto di partenza, si schianta su una molla, la molla si schiaccia, poi reagisce alla forza che la comprime, rilascia la tensione delle sue spire, e lo scaglia lontano, ricominciando da capo la fase di andata dello stesso percorso appena compiuto camminando come un gambero a ritroso, come un salmone che risale la corrente del fiume fino ad arrivare alla sorgente.

Ma contrariamente a quello che credono i suoi adoratori, la fatica del ritorno all'Unico è completamente inutile, perché se l'Uno è il Principio di Tutto, in Esso è implicita una propensione-propulsiva che funziona come un'inespressa proibizione, come se Lì vi fosse affisso un cartello di divieto con scritto “PERMANENZA NON PERMESSA” ; l'Origine di ogni cosa si comporta necessariamente come l'immagine che ho descritto : l'apertura scambiata per una porta della caverna cosmica è in realtà la bocca di un cannone che viene preparato ad esplodere un nuovo colpo da chi ci s'introduce illudendosi di uscire dalla ruota della ricorrenza, mentre invece, per una pallottola, rientrare nel caricatore della pistola è la premessa per essere spedita un'altra volta ancora verso il bersaglio. L'idea che il ritorno alla Fonte sia il risveglio dal sogno della vita universale, è assurda quanto lo sarebbe ritenere che l'inspirazione metta fine alla respirazione, come se la respirazione consistesse solamente nell'espirazione. Non serve squarciare il velo di Maya se lo si fa per gettarsi tra le braccia del Sarto che lo tesse : i fili che intrecciandosi formano l'arazzo sul quale ricama le scene della rappresentazione da cui la nostra mente si lascia intrappolare, sono i rami di cui si compone la chioma intricata di un albero che dalla potatura non è estirpata e non scompare, ma anzi con la potatura si irrobustisce, e a cui neanche il taglio del tronco, finché ne rimane la radice, impedirebbe di ricrescere, e magari ancor più rigogliosa di prima.

Poiché l'apparire della conseguenza dipende dall'agire della causa, soltanto la cessazione dell'attività della causa può avere come effetto la cancellazione della conseguenza ; e poiché la causalità coincide con la sua operazione ( non ne è occupata solo nel senso di impegnata-in ma anche di riempita-da ) non c'è sistema per ottenere l'estinzione della conseguenza all'infuori dell'eliminazione della causa : chi conserva la causa conferma la conseguenza. Una cosa si può reggere in due modi : se appoggia-su o se è appesa-a ; poiché il Principio non può essere soppresso, si può liberarsene non per sottrazione ma per sostituzione, se a prenderne il posto è qualcosa che gli corrisponda ma capovolga il rapporto che si ha con la realtà. Una nave ancorata al fondale marino è al sicuro dalle onde e dai venti che la farebbero andare alla deriva, ma non è al rischio di venir risucchiata da un gorgo, perché l'ancoraggio impedisce di spostarsi in orizzontale ma non di affondare, perché, per la nave, affondare significa proprio dirigersi verso quel punto a cui la si è voluta saldare ( proprio verso quel punto alla cui stabilità ci si è voluta affidare ) ; per salvare la nave bisogna salpare ( cioè staccare l'ancora dalla superficie della terra sottostante la superficie del mare ) non per viaggiare verso una riva a cui approdare ( che sarebbe pur sempre terra, e il passaggio dal legame con una superficie terrestre sottostante la superficie marina al legame con una superficie terrestre sovrastante la superficie marina non è rilevante, perché è relativo : la differenza fra terre sommerse e terre emerse è una differenza secondaria ) ma per lanciare in alto l'ancora per agganciarla al cielo.

Ma né il cerchio zodiacale né il disco solare né il ciclo lunare sono utilizzabili come carrucole per sollevarla, perché girano per conto loro : il meccanismo che provoca il movimento ascensionale deve essere azionato dalla corda tirata con la forza delle nostre braccia, altrimenti non si arresta al momento opportuno ossia all'arrivo alla Meta ( il καιρός non è l'hic-et-nunc del carpe-diem epicureoraziano ) ma permanendo nel suo moto perpetuo vanifica ogni conquista : la svolta lungo una linea curva non è conclusiva se la linea continua, ed ogni linea chiusa è una linea continua. Chi compie lo scambio tra la Causa e il suo “contrario” ( la scelta dello Scopo / il rifiuto di fare ritorno al Luogo Originario ) ormai non è più un essere vivente fissato al Fondamento ma d'ora in poi un essere volente issatosi alla Finalità : il θεός = τέλος ( che trascende l'ἀρχή ) il cui fraintendimento riduttivo in chiave temporalmondana è la leggendaria “evoluzione delle specie” / utopia progressista.

Vittorio Varano

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Classical Renaissance: a new temple dedicated to Apollo is rising (english version)

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At the end of the 5th of December 2018 of the vulgar age, the new temple devoted to Apollo is completed in its essential geometry.

This announcement came directly from the leader of Traditional Association Pietas, Giuseppe Barbera. The building is implemented inside a sanctuary at the gates of modern Rome, in the city of Ardea, where the myth set up the clash between the Troyans led by Enea and the Rutuli led by Turnus with the Troyans win upon these latters.

The sanctuary was founded and sacredly inaugurated the day 11th of November 2761 a.V.c. (2018 e.V.) at 11 o'clock. The founding stone was placed following the ancient rite. At the center of the sacred citadel the sacred Temple of Apollo arises (temple built up in less than a month thanks to the work of Pietas Association's volunteers), solar god that join the Greek and the Italic people. It was because of the Delos oracle's will that Enea started his voyage to land in Hesperia (ancient name of Italian peninsula), a promised land for the Troyans that reunited themselves with the homeland of their oldest ancestors. The temple was dedicated to the solar god Apollo, bringer of equilibrium and order, sovereign of harmony and father of Pitagora, by the members of Traditional Association Pietas.

Around the temple there are a welcome center for guests (the B&B "La culla degli Dei"), meeting halls, a gym where to practice arts inherent in the movement of inner energies, an esoteric library with a reading hall and rooms dedicated for refreshment. Flower gardens, fruit trees, green meadows and a pool of brackish water for catharsis decorate the house of Apollo. This sanctuary is a new place of light that comes from the darkness of the contemporary era to bring conscience and wellbeing to pious people, really interested in the rediscovery of that italian sacred world, once considered lost but now recovered. At this temple it will be possible to approach the classical sacredness, to the solar mysteries preserved within and preserved to worthy souls, to obtain oracular consultations and much more. The temple will now have to be decorated, for this reason the president Giuseppe Barbera invites all the people who adhere to the idea of the return of the ancient cult, to register or renew the card to the Traditional Association Pietas to support us in this titanic work. Every form of contribution, such as donations and practical help, is welcome. The temple will be active as early as December, at meetings there will be meetings related to the ancient myths and also here, as at the temple of Jupiter, will be based an headquarter of the Hermetic-Pitagorean Italic Schola, and there the next winter solstice will be celebrated.

Further information on the activities will soon be published on the website www.tradizioneromana.org and through the various official channels of the Traditional Association Pietas.

Another victory of conscience against the mental darkness of the contemporary era.

Signed, the Traditional Association Pietas.

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Cartagine contro l’Europa: dibattito storico – filosofico sul destino dell’Europa

Ottavio Missoni. A cura di Emanuele Casalena

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L’armonia di un eretico è il soggetto della sua vita colorata. Eretico perché? Beh, Atletica agonistica da record fino ai novant’anni! Guerra, battaglia di El Alamein, anni di prigionia per non aver giurato a Badoglio, due volte italiano (per nascita e per scelta), profugo dalla Dalmazia, sposato sessant’anni con Rosita, patriarca d’ una famiglia d’altri tempi. Fu il “Mago del colore” nella moda per materie, tinte e quella leggerezza gioiosa che ti fa dire: è un Missoni. Ironico, scanzonato, un tantino pigro, saldato alla sua terra tanto da spegnersi da Sindaco in esilio del “libero comune di Zara” il 9 maggio 2013, quando Ottavio Missoni, 92enne, se ne tornò in spirito alla sua “Dresda dell’Adriatico”.

[caption id="attachment_31600" align="alignright" width="300"] (Ragusa di Dalmazia 1921-Sumirago 2013)[/caption]

Erano trascorsi quasi cinque anni, dal Natale del’41 al settembre del’46, quando tornò dalla guerra, militar di leva in Africa Settentrionale, era alla battaglia di El Alamein col 65º Reggimento di fanteria, Divisione Trieste, fatto prigioniero dagli inglesi fu recluso quattro anni al Fascist Criminal Camp in Egitto rifiutandosi di collaborare con Albione. Fante in una guerra “stronza”, senza senso perché la guerra è sì un peccato mortale ma, come diceva, una volta in campo devi vincerla. Al suo ritorno Zara non c’era più, trasformata in un fantasma con le ossa aperte dopo 54 bombardamenti anglo-americani, oltre tremila morti e la fuga degli esuli incalzati dai titini comunisti. Riabbracciò genitori e suo fratello Attilio a Trieste ma ormai Jadera, così chiamata in dalmatico, era terra della repubblica socialista jugoslava. Ci vorranno quasi sessant’anni per riaprire le pagine d’un libro ben chiuso nel cassetto, storia della tragedia istriano-dalmata dopo l’8 settembre del ’43, 360.000 esuli dalle terre irredente, a migliaia precipitati nell’abisso delle foibe, il silenzio omertoso ha reso volutamente difficile la conta dei morti ammazzati nella pulizia etnica di Tito. Per quegli italiani, ammassati nei campi profughi, fu la diaspora, l’emigrazione forzata spesso in altri Paesi ripartendo da 0, mentre in Patria venivano nascosti o ricoperti d’insulti dai “liberatori” rossi. Cosa restava della loro terra? La lirica dei ricordi, un addio gonfio di nostalgia perché diceva quella Zara «non esiste più, solo nel nostro ricordo, nel nostro amore» per una città tornata italiana nel 1918.

Il conflitto aveva staccato la spina a un grande atleta, “Tai” era un campione sbocciato a 16 anni nell’Arena di Milano, diceva l’amico lumbard Gianni Brera: «Ottavio Missoni è apparso nel cielo della nostra atletica come una radiosa cometa con la coda lunghissima”. Nel ’37, batté nei 400 metri piani l’americano Elroy Robinson primatista mondiale delle 880 yards. Il tempo? Un fantastico 48’’8, ancora oggi record mondiale per un sedicenne, un spilungone ma col fisico scolpito dal nuoto. Un  dio Apollo che volava come Mercurio lasciandosi dietro americani e autoctoni ma anche i francesi quando li batté, l’anno seguente, a Parigi. Nel ‘39, sulla stessa distanza, stabilì il suo record personale nella “gara che uccide”, 47’’8 (primato europeo juniores), era la sfida Italia-Germania, tagliò da terzo il traguardo prendendosi poi l’oro alle Universiadi di Vienna. Dai 400 piani passò ai 400 ostacoli, gara più riflessiva, occorre contare i passi, ottenendo comunque tempi d’ assoluto rilievo internazionale, poi il precetto verde interruppe il suo volo sulle piste per vestirlo di grigio verde,  passeranno sei anni prima di riscendere in agone.

Tornato dalla prigionia, qualcosa s’ha da fare per vivere, allora aprì, a Trieste, un piccolo laboratorio d’ indumenti sportivi con l’amico-collega Giorgio Oberweger, triestino, primatista italiano nel lancio del disco e nei 110 ostacoli, asso volante della Regia Aeronautica, Medaglia d’Argento al valor militare con due Croci di guerra. Entrambi erano a Milano per ragioni sportive, decisero di fare  società partendo da una macchina da cucito, la loro Venjiulia produrrà indumenti per atleti fino al’53 vestendo di tute con la lampo e magliette le nazionali italiane di atletica, cacio e pallacanestro, grazie anche al lavoro del cugino di  Tai, Livio Fabiani. Ottavio era un noto ghiro con un rapporto disincantato verso il lavoro, Giorgio, nel ’48, era diventato CT della nazionale di atletica leggera, perciò alla spoletta occorrevano altre mani. Sei anni di stop sono tanti per un atleta, si fossero svolte le Olimpiadi nel ’44 sicuro lo avremmo visto sul podio, invece dovette riprendere ad allenarsi duro, per ridare volume alle masse muscolari, obiettivo le Olimpiadi del ’48 a Londra. A ventisette anni conquistò la finale dei 400 ostacoli, ma sul traguardo giunse sesto col tempo di 54’’secchi. Ma la città di Dickens fu malandrina, vi conobbe l’allora sedicenne Rosita Jelmini in vacanza studio nella città del fumo, ruppero il ghiaccio sul treno per Brighton grazie ad un intreccio di comuni amicizie.

 

[caption id="attachment_31599" align="alignleft" width="210"] Ottavio Missoni affronta gli ostacoli, fotogallery della Gazzetta dello Sport[/caption]

La pasta di quel primo incontro fu messa a lievitare fino al 12 luglio del ’50, giorno della scintilla lungo la spiaggietta di Golasecca (VA) sulle rive del Ticino. Che fa quel giovanottone apollineo prossimo alla pensione come atleta? Presente ed avvenire sembravano incerti agli occhi dei genitori di Rosita, imprenditori tessili dopo la crisi del ’29, specializzati in scialli, vestaglie, tessuti ricamati. A dire il vero quella coda lunghissima di Missoni nell’atletica gli aveva permesso, proprio nel ’50, di conquistare un onorevolissimo 4° posto agli Europei d’Atletica a Bruxelles nei 400 ostacoli. In bacheca aveva sette titoli nazionali assoluti ed una finale alle Olimpiadi del ’48, però la coda si sarebbe allungata fino ai master di atletica “under 90”, continuando a collezionare titoli nazionali ed internazionali per “maturi”. Il suo vero amore restava lo sport, quello puro dell’atleta che si misura da solo contro il tempo, magari perché no, anche nel lancio del peso come nel master del 2007.

Nel 1953 Ottavio taglia il filo di lana del matrimonio impalmando la sua Rosita a Golasecca, lei aveva alle spalle la Jelmini, della T & J Vestor, lui la Venjulia a Trieste, mollarono tutto, mettondosi in proprio a Gallarate nel varesotto. In quei cento metri quadrati di seminterrato nascerà la loro leggenda con il primo happening d’una loro collezione in un piccolo teatro di Milano il “Teatro Gerolamo” privo di camerini. Le mannequins erano costrette a cambiarsi d’abito dietro le tende, quelle ombre erano d’un pepe malizioso, fu un gran successo quella sfilata al peperoncino. La maglieria a righe di Missoni erano assai apprezzata da Biki, anfitriona allora  della moda milanese, con quel nomignolo pucciniano per il suo carattere birichino, “sarta” del bel mondo meneghino, crogiolo della sua vita sin dall’infanzia. La maglieria prodotta in quel seminterrato di Gallarate compariva nelle sue boutique e da lì i manufatti trovarono visibilità, con mini collezioni, in Piazza Duomo alla Rinascente.

Gli anni del dopo guerra vedono affacciarsi nell’industria dell’abbigliamento come nelle sartorie artigianali i filati artificiali e sintetici, e proprio Biki ne fu antesignana coi suoi capi moderni dando il là anche ai coniugi Missoni che troveranno nel rayon-viscosa uno dei loro cavalli di battaglia.

Il 25 aprile del ‘54 primo tappo di spumante per gli sposi, nasce Vittorio, scomparirà nelle acque antistanti il Venezuela nel 2013 a bordo di un bimotore privato diretto a Los Roques, un pugno al cuore del papà patriarca, lo raggiungerà dopo quattro mesi. L’anno della grande nevicata, il ’56, la famiglia si allarga coll’arrivo di Luca, c’è da fare per la Missoni per aggredire il futuro, bisogna “sfondare” e l’occasione propizia gliela fornisce proprio la Rinascente con la presentazione della collezione Milano-Simpathy del’58, fu successo e vetrine di capi firmati affacciati su P.za Duomo con tanto di articolo sul Corriere della sera.

Non c’è due senza tre dice un detto così nel ’58 vede la luce la terzogenita Angela, voilà! in 4 anni la famiglia è fatta, era nato anche un quarto figlio: lo stile Missoni, prodotto di un legame strettissimo tra Ottavio e Rosita alla ricerca comune di rivestire il mondo, con gioia immaginifica, ricca di colori trattati come note musicali, toni, sfumature sui tessuti, in fondo tutto questo era, senza retorica, il prodotto del loro amore.

Le idee sono molto belle ma occorre metterle in pratica tecnicamente, la svolta fu l’acquisto, nel ’62, della macchina da cucire Rachel, un ottimo by pass per trasferire il celeberrimo zig-zag sulle confezioni, permetteva di tradurre su stoffa le fantasie disegnate sulla carta a quadretti.

La prima sfilata della maison Missoni fu uno scandalo, s’era a Palazzo Pitti, Firenze, nel’67, i capi della sartoria gallaratese sono flessuosi, sottili, fasciano i corpi delle modelle, ma la biancheria intima, sottovesti e reggiseni, alterano non poco l’armonia della collezione. Via tutto allora, decise Rosita, tranne gli slip e fu la prima volta del nude-look! Una passerella hard che regalò popolarità alla casa di moda, non solo per ragioni pruriginose ma per quell’arcobaleno di colori che esaltava la figura femminile. Un incanto di trame, cuciture, accostamenti d’avanguardia, che ricordavano la vivacità sognante di Marc Chagall, il futurismo geometrico di Giacomo Balla, forse anche l’espressionismo gioioso di H. Matisse. Così il brand Missoni conquistò la copertina di una celebre rivista modaiola, che fa opinione, Arianna grazie alla redattrice Anna Piaggi, scrittrice e giornalista su pubblicazioni di Fashion, inventrice del vintage prima del termine, nelle sue acute analisi sulle radici d’ un abito pescate nel passato per rivisitarle al presente.

Cosa non è successo nel ’68, dalla contestazione a Padre Pio salito in cielo, Missoni invece sbarca nella grande mela grazie alla Direttrice di Vogue, Diana Vreeland, affascinata dalle onde geometriche di colori che si rincorrono sui capi firmati da Tai. La Missoni moda, a quel punto, esplode come i fuochi d’artificio sul mercato americano lasciando a bocca aperta chi scruta le vetrine, goduria immensa, finalmente era arrivato il Bum internazionale certificato nel ’69 dalla rivista Woman’s Wear Daily che sbatte i Missoni in copertina definendo fantastico il loro stile.

Non che in Europa Ottavio e Rosita non avessero già salito la scala di Giacobbe, tutt’altro, una loro collezione estiva del ’67 era rimasta memorabile a Milano quanto di più a Parigi, ma l’America era l’America anche come merchandising. Quel salto è un business che dà la stura alla coppia di aprire uno stabilimento tutto nuovo a Sumirago, comune tornato nel ’27 alla provincia varesina.

Missoni si era trasformato in un fenomeno popolare, di costume, quelle idee variopinte viaggiavano non solo nelle boutique di tutto il mondo ma ispiravano anche la produzione di serie B di altre industrie tessili, quella che imita, finendo nei grandi magazzini fin sopra le bancarelle.

Tai s’era inventato il “mettere insieme” (put together), con armonia certosina ordiva filati diversi (lana e cotone, fibre naturali e artificiali, ecc.), accostava tipi di cucitura, tessuti, stampati, sia in bianco e nero che con colori fiammati (cioè densi di sfumature), un caleidoscopio di composizioni da rendere l’abito un’opera d’arte da portare con leggerezza senza prendersi troppo sul serio. Il “genio dei colori” conquista New York, i grandi magazzini Bloomingdale’s al loro interno aprono una boutique tutta per i Missoni, è il primo passo di danza d’ un successo spumeggiante, oggi il brand conta oltre 1.100 punti vendita in tutto il mondo. Gli anni ’70 furono decisivi, non solo zig-zag, cardigan, gonne a righe o con frange, tessuti fiammati con quella competenza unica di creare dialogo tra elementi diversi costruendo mosaici fruscianti, ma Missoni sperimenta il patchwork cioè  l’ assemblaggio di ritagli della lavorazione giustapposti e cuciti l’uno accanto all’altro, un riciclo di scarti, da disegno, tessuto e colori differenti. Furono applausi alla “prima”, la sfilata après ski del ’71 a Cortina d’Ampezzo, dieci anni dopo Tai esporrà a Venezia gli arazzi da lui creati appunto col patchwork, è sempre di più un artista assoluto prestato alla moda, i suoi “nuovi arazzi” volano fin all’Università di Berkeley in California grazie allo scultore Arnaldo Pomodoro.

[caption id="attachment_31602" align="aligncenter" width="625"] Ottavio Missoni. Arazzo, Mostra Chagall-Missoni a Noto[/caption]

Fioccano i riconoscimenti, dal Tiberio d’oro all’equivalente dell’Oscar del Fashion conferitogli a Dallas nel ’73 che segue il successo ottenuto anche sulla sponda del Pacifico a Los Angeles, Missoni è tra i venti creatori di moda più importanti del mondo, tra i quattro personaggi più eleganti, i suoi abiti uno status symbol degno d’ entrare nei Musei (il Metropolitan Museumof Art di N.Y., il Museum of Fine Arts di Dallas, etc…). I campi di produzione si allargano, maglieria ed abiti sempre, ma anche biancheria per la casa, arredamento, profumi (una bacheca di riconoscimenti), interni di automobili FIAT, borse, guanti, accessri, persino hotel come se Missoni volesse ricreare il mondo, un’idea futurista trasferita nell’industria. Il vulcano di Zara sottobraccio a Rosita lancia i suoi lapilli colorati ovunque, apre boutique, inaugura mostre, famosa quella milanese per le nozze d’argento alla carriera poi riproposta a New York al Whitney Museum of American Art. Milano lo beatifica per il lustro conferito alla città appuntandogli la medaglia d’oro di Benemerenza Civica. I Missoni nella stagione ’83-’84 vestono di costumi variopinti gli artisti della Scala di Milano nella Lucia di Lammermoor di Donizetti nel solco di un “Teatro alla Moda” che aveva illustri predecessori quale Coco Chanel.

1986 la moglie laboriosa precede l’augusto marito, Francesco Cossiga insignisce Rosita della Commenda al merito della Repubblica Italiana, stesso Presidente, stessa onorificenza a Tai nell’88.

Le notti magiche dei mondiali italiani di calcio del ‘90 s’infrangono sui rigori, le magliette dei pedatori africani sono firmate Missoni, peccato non lo siano le azzurre Savoia dei nostri attesi eroi, in compenso i Missoni vestono le guardie forestali.

Gli anni a seguire sono un rosario di premi (premio Moda ’92 del Mode Woche, premio Pitti Image nel ‘94), onorificenze (Cavaliere Ottavio M.al merito del Lavoro, chissà perché non anche a Rosita). Laurea honoris causa con il titolo Honorary Royal Designer for Industry, conferita ai coniugi come il più alto riconoscimento britannico alla loro creatività estetica con benefica ricaduta sulla società. Nel ’99, nella Londra che fu fatal, Laurea ad Honorem a entrambi del Central Saint Martin College of Art and Design cui segue, nello stesso anno a San Francisco, la Laurea ad Honorem Doctor of Humane Letters dell’Academy of Art College. Poi mostre, tante mostre, a partire da Tokio nel ’91, passando per Gallarate, fino all’itinerante Missonologia andata in scena a Firenze, poi replicata negli U.S.A. Il rischio a questo punto è un mantra di grani tra premi, riconoscimenti, boutique aperte fino in Giappone, design di mobili Missoni, eaux de parfum pour femmes et hommes, accessori, hotels di lusso perfino la linea per bambini, la loro creatività s’espande come olio sul tavolo di un mondo piatto, grigio, restituendogli il colore.

[caption id="attachment_31598" align="alignleft" width="300"] Missoni, arredo acquarellato[/caption]

[caption id="attachment_31597" align="alignright" width="277"] Hotel Missoni a Edimburgo[/caption]

Giriamo pagine indietro, il figlio dell’omo del mare e di una nobildonna dalmata, non si sottraeva mai alle commemorazioni, fossero la battaglia nel deserto di El Alamein o la tragedia istriano-dalmata, col disincanto ironico che lo distingueva sapeva bene che la sua Itaca non c’era più, soprattutto non c’era più la speranza di affrancarla all’Italia e allora, sic stantibus rebus nell’Italietta rintanata del dopoguerra, pareva inutile chiedergli sempre le stesse cose, così esclamava tra il serio ed il faceto nel suo dialetto: “ma xe proprio tuti mona, me ciamè per dirve sempre le stese robe, no xe stufi”come ricordava Gian Micallesin sulle colonne de “Il Giornale”, perché il problema non è solo ricordare, e poi?

Emanuele Casalena

Bibliografia

Articolo di Matteo Unterweger su Il Piccolo dell'11 settembre 2009.

Marco Valle, Ottavio è salpato. Verso la sua Dalmazia perduta, Destra.it, 10 Mag. 2013

Chiara Rizzo, E’ morto Ottavio Missoni. L’intervista a Tempi in cui raccontò la sua vita, avventurosa e colorata, Tempi, 9 Mag. 2013.

Dario Pelizzari, Missoni, lo sportivo prestato alla moda, Il Sole 24Ore, 9 Mag, 2013.

Eurosport, Home of the Olimpics, Ottavio Missoni, dalle Olimpiadi di Londra 1948 alle sfilate di moda, 12/02/2016 aggiornato il 16/05/2017.

Paolo Scandaletti, Ottavio Missoni con Paolo Scandaletti, Una vita sul filo di lana, Rizzoli Editore, 2011

MIBAC-Archivi culturali, Archivi della Moda del Novecento, Missoni Ottavio, 1921-2013.

L. Caramel, E. Zanella, Missoni, l’arte, il colore, Ediz. Illustrata, Rizzoli Editore, 2015

Enciclopedia Treccani on line, Missóni.

Biografie online, Ottavio Missoni.

Wikipedia, Enciclopedia libera, Ottavio Missoni.

 

 

 

 

 

 

 

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La privacy è una ipocrisia – Gianfranco De Turris

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La privacy, termine in uso per intendere la riservatezza personale, è da un bel pezzo uno dei più ferrei tabù, internazionale e nazionale, del nostro tempo. In Italia abbiamo una Autorità garante dei dati personali istituita nientemeno che più di venti anni fa, nel 1996. Ma è questo uno dei tabù inviolabili che maggiormente viene violato e con la più grande facilità sia in senso passivo che attivo. Sono più le violazioni, per motivi di ordine generale superiore, che la sua salvaguardia e protezione a livello individuale. In senso passivo si deve intendere quel che subiamo e passa inesorabilmente sulle nostre teste senza che ci si possa opporre. L’esempio più tipico è sotto gli occhi di tutti, anche se ormai non ci facciamo più caso tanta la sua pervasività: sono le telecamere di sorveglianza. Ce ne sono talmente tante in vie, piazze, monumenti, edifici pubblici e privati, banche, negozi, scuole, ministeri, fabbriche, caselli, in città, paesi e campagne che tutto viene registrato a nostra insaputa. Naturalmente è proprio per questo motivo che ormai moltissimi reati, crimini e delitti spesso efferati, di sangue, vengono immediatamente scoperti e risolti, con l’arresto dei responsabili, anche solo nel giro di 48 ore. Ne siamo felici, è un bene per tutti, ma ciò vuol dire che allo stesso tempo la nostra vita quotidiana è costantemente sotto controllo, che la privacy è una ipocrisia, che nei fatti non esiste.E si tende ad aumentare la dose.

Il Parlamento, infatti, sta per approvare una proposta di legge per cui sarà obbligatorio installare negli asili nido e negli ospizi e case di riposo delle telecamere di sorveglianza. Dopo il recente aumento degli abusi e vessazioni nei confronti dei più piccoli e dei più anziani, scopeti appunto perché le forze dell’ordine sulla base di denunce, ne avevano installate di nascoste. Per la difesa dei più deboli si è ritenuto di renderle obbligatorie come deterrente di inqualificabili e assurde violenze. Utilissime, ma la privacy è sempre più una ipocrisia. Non solo. Chiunque possiede uno smartphone (praticamente tutti, eccetto il sottoscritto) può impunemente riprendere e far circolare fra privati e in rete ad un pubblico infinito, foto e soprattutto filmati ripresi dappertutto e in ogni occasione, importante e banale, drammatica e felice, senza chiedere alcun permesso a chi viene immortalato, a sua insaputa, a fin di bene e a fin di male. La privacy è una ipocrisia.

Del resto tutti coloro che hanno a che fare con banche, assicurazioni, uffici, pubbliche amministrazioni se vogliono ottenere certe prestazioni e non vogliono bloccati dei servizi, devono firmare una liberatoria che consente agli enti di utilizzare i loro dati privati, i “dati sensibili”, come si usa dire con locuzione aulica. E la stessa Autorità garante non ha forse dato via libera alla richiesta della Agenzia delle Entrate e alla Guardia di Finanza di controllare direttamente tutti i movimenti dei nostri conti correnti bancari e postali senza chiedere ad un magistrato il permesso anche se non esiste alcun reato? Mettendo così in mora il famoso e inviolabile segreto bancario? La privacy non è allora una ipocrisia?

Altro che Grande Fratello di 1984! Nel sua famoso romanzo Orwell immaginava un controllo capillare della popolazione, nelle case stesse dei cittadini, tramite schermi televisivi. Oggi questo controllo è individuale tramite cellulari e smartphone che permettono, a chi vuole ed è attrezzato alla bisogna, di sapere sempre dove siamo. Anche tramite l’uso diretto dell’aggeggio se acceso, e indirettamente tramite le “celle” cui esso si collega, le forze dell’ordine rintracciano a catturano criminali. La sicurezza pubblica fa aggio sulla riservatezza privata. Ma non basta. C’’è anche il lato attivo della questione, quello cioè di cui sono responsabili diretti i singoli che tengono di certo alla loro privacy ma per sciocchezze, e la violano senza problemi per questioni ben più gravi. La messa in pubblico dei propri fatti personali e dei propri sentimenti è un vezzo che dura da molti decenni ormai, soprattutto grazie a specifiche trasmissioni televisive, alle quali si è aggiunto il cosiddetto reality show per eccellenza, appunto chiamato “Grande Fratello” cui è seguita “L’isola dei famosi”. Storie di letto, di corna, di tradimenti, di triangoli sono in primo piano, argomenti di cui un tempo ci si vergognava di parlare in pubblico specie se personali. Di recente in varie trasmissioni tv ci sono state “confessioni” le più disparate e da nessuno richieste e tantomeno estorte sotto tortura, ma spontaneamente. Chi ha rivelato di essere omosessuale, chi di essere malato di tumore, chi ha fatto sapere che un suo figlio si è suicidato, chi di non riuscire ad andare avanti con la propria pensione, chi di fare uso di droghe e chi di aver subito una importante operazioni o una violenza sessuale da piccolo. Personaggi più o meno pubblici, più o meno noti, ma in fondo chi se ne frega? O forse ci si sbaglia: a molta gente frega moltissimo. In fondo è come leggere un giornale scandalistico e di pettegolezzi moltiplicato per un milione. Il pubblico è sempre più curioso, per non dire morboso. Ma c’è anche chi – attori, ex ministri, giornalisti noti – che preferiscono altri mezzi, ad esempio Twitter o Facebook, per far sapere ai propri seguaci (followers)che ad esempio la propria moglie è malata di cancro, che ha personali problemi psicologi, che sta passando un brutto momento esistenziale, che ha avuto un lutto in famiglia…

Ma allora a questi cosiddetti VIP chi glielo fa fare, perché vogliono far conoscere alla piazza televisiva e virtuale (c’è anche la Rete, non si dimentichi) le loro faccende private, anche gravi e gravissime? Perché questo smodato narcisismo? Quel che sconcerta sono infatti personaggi pubblici,, politici, giornalisti/e, attori, cantanti, modelle, che attraverso un loro medium personale, appunto Twitter o Facebook, comunicano coram populo loro fatti intimi da nessuno chiesti. E via con i commenti in rete o sui giornali. Una cosa terribile da tenersi per sé, ma evidentemente è il fascino irresistibile di essere in primo piano per un qualsiasi motivo tramite i media, di essere comunque sia al centro della attenzione, la paura di essere dimenticati, la voglia di continuare a far parlare di sé. E poiché l’occasione fa l’uomo ladro, qui i media fanno l’uomo narciso e chiacchierone. Il che vuol dire che in fondo della privacy, checché se ne dica, importata poco o nulla a nessuno. Che è una ipocrita e spesso anche una tragica buffonata.

Gianfranco de Turris

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Fascismo e Massoneria, storia di rapporti complessi – 2^ parte

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2.  La nascita del fascismo e la massoneria

La crisi economica dell’immediato dopoguerra è determinata dalla ricaduta delle spese di guerra sull’economia nazionale, dall’abbandono delle campagne per la chiamata alle armi dei contadini che aveva portato ad una gravissima contrazione della produzione agricola e, dunque, alla crisi alimentare. L’industria, che aveva sostenuto lo sforzo bellico, paga lo scotto del mancato adeguamento degli impianti, e della mancanza di capitali per poterlo effettuare, anche perché le banche non hanno i capitali necessari per poter finanziare gli ammodernamenti dell’agricoltura e dell’industria. Inoltre, la spinta determinata dalla partecipazione popolare alla guerra, che per la prima volta è guerra di massa, nonché l’entusiasmo dei partiti marxisti cresciuto in seguito alla rivoluzione russa, si unisce alla scelta, per la prima volta dall’Unità, di un sistema elettorale proporzionale, che diminuisce il peso dei notabili, anche per la permanenza del suffragio universale maschile, con una conseguente generalizzata domanda di partecipazione alla vita politica, che fino alla guerra era stata questione ristretta alle conventicole (1). Nell’immediato dopoguerra esplodono, inoltre, quelle forze che già erano in nuce in fenomeni apparsi a cavallo tra i due secoli: futurismo, sindacalismo rivoluzionario, neoclassicismo, caratterizzati da una forte carica antisistema, carica che ora trovava il suo detonatore in una vera e propria rottura tra le élites intellettuali e la sclerotica burocrazia dell’apparato statale, ivi compreso il Parlamento (2).

Alle problematiche economiche e sociali, si uniscono le rivendicazioni patriottiche. I nazionalisti come Alfredo Rocco avevano visto lungo: l’alleanza con le forze dell’Intesa aveva facilitato il disegno britannico di uno stato degli slavi del Sud a discapito delle rivendicazioni italiane sull’Adriatico Orientale (3). Il trattato di Versailles dà la stura alla percezione di una vittoria “mutilata” (4), e alla classe politica venne addebitata anche l’incapacità di far valere sul tavolo della pace il valore militare (5). Di fronte a queste sfide, i “notabili” sono incapaci di intuire il cambiamento. L’ala riformista del partito socialista viene travolta dai massimalisti, in piazza prima che negli organismi di partito (6). I socialisti italiani non aderiscono alle posizioni “moderate” della conferenza di Berna; un’ondata di scioperi sconvolge la Nazione aggravando la crisi economica. Sull’altro fronte, nazionalisti e futuristi fanno leva sullo spirito di révanche dei reduci, verso cui i socialisti dimostrano di sottovalutare il peso specifico all’interno della società italiana. Mussolini, che durante la guerra era diventato il perno dei movimenti “trinceristi”, chiama a raccolta i reduci per una “rivoluzione nazionale” con il fine portare al governo una classe dirigente di combattenti (7). L’appello è raccolto, e vengono fondati i Fasci Italiani di Combattimento «… il 23 marzo 1919, in un palazzo di piazza San Sepolcro, parteciparono un centinaio di persone, quasi tutti militanti della sinistra interventista: ex socialisti, repubblicani, sindacalisti, arditi, futuristi. Dalla sinistra rivoluzionaria provenivano anche i dirigenti del nuovo movimento, in massima parte giovani e giovanissimi appartenenti alla piccola borghesia. Il primo segretario generale dei Fasci di combattimento fu Attilio Longoni, lombardo, ex sindacalista rivoluzionario» (8). Indipendentemente dalla partecipazione di molti massoni alla fondazione dei Fasci, che in sé non rileverebbe (come era accaduto in epoche precedenti, massoni erano distribuiti in tutte le formazioni), va notato che, all’inizio, non vi erano molti motivi di conflittualità tra Fascismo e Massoneria. In fondo, i “nemici” erano i medesimi: la classe politica al tramonto, i socialisti, il partito popolare (9).

Sia il GOI, sia la Gran Loggia, evitano di essere ostili al fascismo nascente, ma non risponde a verità quanto spesso si sente dire, circa i finanziamenti che “la massoneria” avrebbe erogato ai fascisti. Fino alla marcia su Roma, vi furono finanziamenti da parte di fascisti massoni, ma non si ha notizia di erogazioni dal fondo dell’Associazione, né dell’apertura di sottoscrizioni. Dopo la conquista fascista del potere, le cose cambieranno, come vedremo. Eugenio Chiesa, che dopo la Guerra diventerà Gran Maestro del GOI, sostiene che vi sono finanziamenti di singoli massoni al fascismo, ma «a titolo personale», senza coinvolgimento della Fratellanza (10). I fascisti si presentano alle elezioni del novembre 1919 senza ottenere alcun seggio, mentre la svolta massimalista dei socialisti viene premiata dagli elettori, che consegnano loro la maggioranza relativa. Il Parlamento che esce da quelle elezioni ha, però, una maggioranza fortemente frammentata. L’instabilità politica si unisce alle violenze di piazza, in quello che passerà alla storia come “biennio rosso”. Il radicale Francesco Saverio Nitti, chiamato a presiedere un governo di minoranza, non riesce a garantire stabilità. Vittorio Emanuele III chiama il vecchio Giolitti, che reitera la tattica attendistica già utilizzata a cavallo tra i due secoli. I fascisti imprimono una svolta alla loro azione politica. Si presentano come garanti di un ordine che il governo non riesce a garantire.

Una storiografia “orientata” interpreta questa svolta come determinata dai finanziamenti erogati ai fascisti da agrari ed industriali “spaventati” dalla possibile vittoria bolscevica. Tale interpretazione è a nostro avviso faziosa. Come è stato acutamente notato: «Se lo squadrismo poté operare ed estendersi ciò non fu dovuto infatti solo all’essersi fatto difensore degli interessi economici lesi dal movimento dei lavoratori e, specie nelle zone agricole, di essersi messo addirittura al soldo di tali interessi. Oltre agli interessi materiali, per due anni erano stati lesi anche molti interessi e valori morali, che invano si era sperato fossero tutelati dallo Stato» (11). L’ “ordine” di cui i fascisti si propongono come garanti non è quello caro alla classe economica dominante, è quello profondo, che interessa il tessuto morale dell’intera società, è l’esigenza di un ordinato vivere, della tutela di valori come la Patria, la famiglia, l’onore. Emilio Gentile (12) definisce lo squadrismo fascista come «massimalismo dei ceti medi», ma a sommesso avviso di chi scrive tale definizione è riduttiva. È certamente vero che il ceto medio è numericamente cresciuto, è certamente vero che la maggior parte dei fascisti proviene dal ceto medio, ma collegare la definizione a tali constatazioni appare ispirata alla logica del post hoc, ergo propter hoc. Il “sogno” fascista, la sua “volontà di potenza” non è da “ceto medio”. La visione eroica dell’azione politica è da élite nel senso paretiano del termine. E l’appoggio iniziale della massoneria al fascismo è determinato da questa convergenza “ideale” sull’esigenza di creare una “avanguardia” capace, da una parte, di rovesciare uno stantìostatus quo e, dall’altro, di porsi come argine alla sovversione bolscevica.

 

Verso il regime fascista

Nel 1920 i Fasci crescono in modo esponenziale, mentre si spengono i fuochi del biennio rosso. La politica temporeggiatrice di Giolitti ha dato i suoi frutti: come all’epoca dellasuccessione a Di Rudinì, il vecchio piemontese ha saputo resistere alla tentazione della repressione violenta, ed alle pressioni degli industriali, e le occupazioni delle fabbriche sono cessate per consunzione naturale (13). Neanche Giolitti, tuttavia, riesce a garantire stabilità, per cui il Parlamento viene sciolto e, nel maggio 1921, si svolgono le elezioni anticipate. I fascisti si presentano nei blocchi nazionali, alleati con Giolitti, ed eleggono 35 deputati. La Camera è frammentata ancora una volta, con tre gruppi sostanzialmente omogenei: socialisti, popolari e blocchi nazionali. Nel frattempo, si è svolto a Livorno il XVII Congresso socialista, che ha visto uscire dal partito la fazione comunista, con la nascita del P.C.d’I., che alle elezioni consegue un esiguo numero di seggi. L’incarico di formare il governo viene affidato al riformista Ivanoe Bonomi, mentre continuano le violenze di piazza. A Bonomi succede Facta, ma è chiara a tutti la crisi della democrazia parlamentare. Due elezioni succedutesi a distanza di due anni, ben 4 governi nello stesso periodo, ugualmente incapaci di garantire un minimo di ritorno alla normalità, incapaci di contenere le violenze tra le fazioni politiche (14).

Il fascismo, che nell’originario programma sansepolcrista aveva prefigurato una continuità della democrazia parlamentare, dà spazio alle sue componenti più rivoluzionarie. Dirà nel 1935 Togliatti: «… è un grave errore il credere che il fascismo sia partito dal 1920, oppure dalla marcia su Roma, con un piano prestabilito, fissato in precedenza, di regime di dittatura, quale questo regime si è poi organizzato» (15). Alla fine del 1921, il movimento “antipartito” diventa partito. Viene fondato il PNF (Partito Nazionale Fascista) ed alla segreteria viene chiamato Michele Bianchi, proveniente dalle fila del sindacalismo rivoluzionario, caratterizzato da una forte carica antiparlamentare. Voci insistenti vogliono Michele Bianchi massone dell’obbedienza di piazza del Gesù (16). Ove lo sia, non deve stupire che un avversario dell’istituzione parlamentare aderisca ad una fratellanza che nella sua azione politica “esterna” ha sempre parlato di democrazia (lo stesso appoggio all’Intesa nella Prima guerra mondiale fu giustificato dalla necessità di allearsi con le “nazioni democratiche”). Come abbiamo già detto, l’obbedienza di piazza del Gesù si caratterizza per la sua collocazione definita “reazionaria” dal GOI (17), ma l’istituzione parlamentare appare vetusta anche ai fratelli del GOI, a cui appartiene uno dei leader dell’interventismo nel 1914-15, il calabrese Vincenzo Morello (18), che sulla Tribuna del 29 maggio 1921, scrive che non è possibile concepire lo Stato se non come una dittatura: «… dittatura intellettuale, morale sia pure: ma dittatura. Soltanto l'imbecillità liberale italiana ha potuto concepire lo Stato, al di fuori della dittatura, cioè senza autorità in un Paese in cui tutte le forme particolari della vita politica e religiosa si affermano sempre con espressioni di dittatura».

Proprio in tale ottica, la massoneria non ostacola l’ascesa del fascismo, neanche in questa fase. Ed evita di “rompere” con il Movimento Fascista, nonostante nel suo primo discorso parlamentare (21 giugno 1921), Benito Mussolini dica: «Il fascismo non predica e non pratica l'anticlericalismo. Il fascismo, anche questo si può dire, non è legato alla massoneria, la quale in realtà non merita gli spaventi da cui sembrano pervasi taluni del partito popolare. Per me la massoneria è un enorme paravento dietro al quale generalmente vi sono piccole cose e piccoli uomini … Affermo qui che la tradizione latina e imperiale di Roma oggi è rappresentata dal cattolicismo. Se, come diceva Mommsen, 25 o 30 anni fa, non si resta a Roma senza una idea universale, io penso e affermo che l'unica idea universale che oggi esista a Roma, è quella che s'irradia dal Vaticano», così non solo sminuendo la Massoneria, ma operando una vera e propria “apertura di credito” nei confronti dell’ormai secolare nemica della Libera Muratoria: la Chiesa cattolica romana. Probabilmente, è diffusa tra i massoni fascisti il convincimento del “fratello” Dino Grandi: «Mussolini può dire ciò che vuole contro la democrazia: in fondo non si può che sboccare a uno stato democratico» (19). In buona sostanza, la massoneria adotta nei confronti del Fascismo la strategia da sempre usata: utilizzare i “fratelli” per condizionare “dall’interno” la direzione politica.

Può essere utile, per avvalorare tale ipotesi, quanto deciso dal Consiglio del GOI il 24 febbraio 1921: «La massoneria non deve dividere alcuna responsabilità col fascismo ed i fratelli che vi abbiano qualche contatto debbono riservatamente adoperarsi affinché esso perda ogni spirito e colore antidemocratico e diventi una tendenza spirituale di patriottismo e di rinnovamento democratico della vita italiana» (20). Nell’ottobre 1922, perdurante lo stato di incertezza, dopo aver rimarcato la vittoria “militare” sulle forze di sinistra, con il fallimento dello “sciopero legalitario” di agosto, i fascisti rompono gli indugi. Mentre trattano con le forze liberali e popolari per la formazione di un governo di coalizione comprendente i fascisti, organizzano la “Marcia su Roma”, una dimostrazione di forza che gli storici sono concordi a ritenere un bluff sul piano militare. Nonostante ciò, il tentativo combinato riesce: Vittorio Emanuele III conferisce a Mussolini l’incarico di formare il governo, rifiutando di decretare lo stato d’assedio come chiede Facta. Perché? La storiografia “orientata” oscilla tra due posizioni:
1. la classe politica liberale (e la massoneria) si illusero di “cavalcare” il fenomeno fascista sottovalutandone la capacità di durata (21);
2. le forze reazionarie, spaventate dalla possibilità di una rivoluzione bolscevica in Italia, si affidarono al militarismo fascista per soffocare le forze operaie (22).

Ma, come è stato autorevolmente detto: «Nella storiografia italiana è prevalsa a lungo dopo il 1945, e non è stata ancora del tutto superata, la tendenza a interpretare in termini generali il fascismo, sulla base di prospettive ideologiche e politiche, piuttosto che a conoscere la sua realtà, basando l’interpretazione su ricerche concrete e approfondite. Fino agli anni Sessanta, gli studi sul fascismo si limitarono principalmente al periodo delle origini e furono svolti nell’ambito delle interpretazioni tradizionali, sia nella versione liberale che in quella radicale e marxista» (23). In verità, come nota De Felice (24), la situazione nel 1922 non è chiara, e la forza militare dei fascisti appariva forse maggiore di quanto non fosse. Non solo, ma larghi settori dell’Esercito simpatizzano con il movimento mussoliniano, per cui non è chiaro a cosa porterebbe la proclamazione dello stato d’assedio, ondesi preferisce una soluzione tesa ad “istituzionalizzare” il movimento fascista, conferendo a Mussolini l’incarico di formare un governo di coalizione. Ci sia, comunque, consentito di osservare, in aggiunta all’acuta analisi di De Felice, che le posizioni su evidenziate, oltre ad essere “orientate”, secondo la citata annotazione di Emilio Gentile, peccano riguardo alla “visione d’insieme”: la crisi dello stato ottocentesco è un fenomeno europeo, onde l’analisi dell’ascesa del fascismo in Italia non può essere condotta con semplice riferimento alla vicende italiane, senza considerare la dimensione “globale” della situazione da cui nasce il fascismo italiano, che ha la peculiarità di essere stato il primo movimento di tale natura a giungere al governo (25). Prima di prendere in esame la posizione della massoneria sull’avvento dei fascisti al governo, riteniamo che una certa storiografia enfatizzi in modo preconcetto il ruolo della massoneria nella “marcia su Roma”. È una tendenza storiografica che mira ad accreditare l’avvento del Fascismo come un “complotto massonico”, a partire dall’inizio degli anni 80 (26) Di recente, tale tesi è stata rilanciata, in vari interventi (27), in cui, enfatizzando alcuni dati, dando per accertati altri, si dipingono i fascisti come strumenti della massoneria, fino ad affermare, in modo quanto meno discutibile: «… la nascita e la fortuna dei fasci nel 1919 furono l’esito profano di una scisma massonico» (28). Chi si accoda a tale tesi, però, dimostra a nostro avviso una scarsa conoscenza del mondo massonico, confondendo “il massone” con “la massoneria”, laddove, invece: «Esiste un vissuto massonico personale, un vissuto massonico come nucleo di loggia, un vissuto massonico come dirigenza dell’ordine, un vissuto massonico come appartenenza a un determinato rito che può anche essere conflittuale con il rapporto che si deve necessariamente avere anche con l’ordine. Il tutto va poi moltiplicato per il numero delle comunioni e dei riti, ognuno dei quali vive di vita propria, spesso in competizione con gli altri. Queste realtà nazionali vanno poi calate nelle diverse e spesso conflittuali realtà internazionali» (29).

Così, vengono ricostruiti minuziosamente i finanziatori del fascismo, tra cui molti massoni, ma – come detto – non vi è traccia di finanziamenti provenienti dal fondo comune, e tale dato o viene fideisticamente attribuito alla “lacunosità delle fonti” (30) o viene definito privo di importanza (31), quando è – invece – rilevante, alla luce della differenza tra l’azione individuale del massone e quello della Massoneria come Istituzione. Sul piano del coinvolgimento personale, si afferma – ad esempio - che nella riunione del 16 ottobre 1922 a Milano, di preparazione alla marcia su Roma, vi fossero solo massoni, ma nel fare gli esempi, si esalta il ruolo del generale Gustavo Fara, pur rimarcando che Fara era stato iniziato nel 1912, per uscire dal GOI appena l’anno dopo (32). Si ripete, ossessivamente, che i “quadrumviri” della Marcia su Roma erano tutti massoni (33), ma – come si è visto - non esistono prove certe dell’appartenenza alla massoneria nemmeno per Michele Bianchi. Italo Balbo, unico dei quadrumviri citato come massone da De Felice (34), con una lettera autografa del 4 agosto 1924 a Mussolini, respingerà con sdegno l’appartenenza alla massoneria, men che mai al GOI; altrettanto farà per Cesare Maria de Vecchi di Val Cismon il nipote Paolo con una lettera al Tempo del 26 luglio 1993, mai pubblicata dal quotidiano romano, e ribadita il 9 dicembre 2010 al sito Internet Archiviostorico.info (35). Su quest’ultimo quadrumviro, aristocratico della nobiltà sabauda, vale forse la pena di ricordare che, rivestendo durante il regime la carica di responsabile della Società Nazionale per la Storia del Risorgimento, sarà fautore di un’interpretazione storica del risorgimento negatrice qualunque apporto della massoneria alla formazione dell’Italia Unita (36). Ma, si ripete, quel che conta è che si tratta di affermazione di cui si omette di citare la fonte primaria (37).

Il fatto è che mancano documenti sia di fonte massonica, sia di fonte fascista, da cui evincere un coinvolgimento della Massoneria quale “Istituzione” nella preparazione della marcia su Roma. E, nella particolare pignoleria che contraddistingue i massoni nella tenuta archivistica, non è dato da poco (38). Quello che è certo, è che Mussolini incontra Palermi prima del 28 ottobre (39), ma la sopravvalutazione del ruolo di Palermi proviene o da fautori della tesi del “complotto massonico”, o da massoni del GOI (40) quasi in polemica interna alla Massoneria, per addossare ai “fratelli scissionisti” la responsabilità della nascita del regime fascista. In realtà, come riconosce Cesare Rossi (41), quasi testualmente riportato da Vannoni (42), Palermi bluffa sulle sue capacità di influire sugli alti vertici militari per una captatio benevolentiae nei confronti del Fascismo che gli appariva ormai avviato alla conquista del potere. L’ipotesi più probabile, è che l’attivismo di Palermi trovi una sua ragione nelle lotte interne alla Massoneria italiana, con le reciproche ricerche di riconoscimento internazionale tra le due obbedienze, onde «Così facendo il Palermi credeva di risolvere a proprio favore il contrasto con Palazzo Giustiniani» (43).

Quanto a Mussolini, riteniamo plausibile l’ipotesi che egli, superando la sua posizione antimassonica, nella temperie della marcia su Roma abbia comunque “usato” la massoneria per i suoi scopi (44). Dopo la marcia su Roma, Torrigiani invia a Mussolini un messaggio datato 3 novembre 1922 (45) con cui si congratula per l’incarico e gli augura di “superare la prova nel modo più glorioso per la Patria”. Torrigiani si assume tutta la responsabilità del messaggio, del contenuto del quale è costretto a giustificarsi nella Giunta del GOI del 9 novembre 1922, dichiarando: «Era indispensabile ed urgente svalutare presso il nuovo Governo l'azione ostile dei nazionalisti e dei ferani [gli scissionisti di piazza del Gesù – N.d.A.]. Noi dobbiamo fare di tutto per allontanare ferani e nazionalisti dal Governo fascista» (46). E confida a Michele Terzaghi: «Noi abbiamo la nostra linea ben definita. Staremo a vedere come si comporterà Mussolini. Se egli rimane nell’ambito delle libertà democratiche e parlamentari, lo appoggeremo; in caso diverso lo combatteremo» (47). Torrigiani, dunque, da una parte, ha in mente di condizionare il governo fascista, dall’altro, di limitare le conseguenze dell’attivismo di Palermi all’interno del mondo massonico. Quest’ultimo, fa di più: omaggia Mussolini di grembiule, sciarpa e catechismo della Gran Loggia (48). Mussolini, al momento, evita qualunque reazione. Nella riunione del Governo dell'Ordine del 18 novembre 1922, Torrigiani comincia ad avere qualche perplessità. Pur lieto di alcuni incarichi conferiti dal governo ai “fratelli”, afferma: «Siamo naturalmente preoccupati della situazione che non si presenta ancora chiara e precisa. Noi dovremmo sempre difendere non i partiti parlamentari ma il principio fondamentale democratico; che se dovesse sorgere, ciò che non si crede, un governo dispotico, dovremmo organizzare la resistenza, specie a base delle organizzazioni operaie: bisogna che la massoneria intenda a conciliare lo spirito nazionale con lo spirito sociale» (49). Dopo la marcia su Roma, i finanziamenti dei massoni al PNF diventano massicci. E si ha prova della consapevolezza da parte di Torrigiani dell’esistenza di questi finanziamenti.

Scrive Fulvio Conti che non c’è dubbio: «… né sul finanziamento massonico al movimento fascista, né sul fatto che l'erogazione dei soldi, ancorché fuori dai canali ufficiali, avvenisse con l'approvazione consapevole della suprema guida del Grande Oriente d'Italia, il gran maestro Domizio Torrigiani. Siamo però - vale la pena ripeterlo - all'indomani della marcia, in una fase in cui la principale Obbedienza massonica italiana era ormai mai da qualche tempo sottoposta agli attacchi da un lato della Gran Loggia di Piazza del Gesù, che cercava di screditarla agli occhi di Mussolini per la linea democratica e antifascista di parecchi dei suoi aderenti, e dall'altro dell'ala filonazionalista e più intransigente del Pnf, che era intenzionata a rompere re ogni legame con la massoneria e ad eliminare le conventicole interne al partito che ad essa facevano capo. Si spiega così la posizione difficile in cui vennero a trovarsi proprio quei giustinianei che erano più vicini al fascismo, o che comunque, come Torrigiani, guardavano ad esso con favore, cercando semmai di utilizzare la leva del sostegno finanziario per condizionarlo e per orientarne le scelte» (50). Riteniamo di dissentire dall’idea del coinvolgimento dell’Ordine in quanto Istituzione nei finanziamenti, e di aderire sul resto. I documenti esaminati da Conti sono essenzialmente due lettere inviate il 5 e 9 novembre 1922 a Torrigiani da Federico Cerasola, Maestro Venerabile della Loggia Regionale Insubria di Milano, tra i fondatori dei Fasci di Combattimento. Cerasola scrive che sta finanziando i fascisti raccogliendo ingenti fondi tra i Fratelli e ne esplicita gli scopi: «Nessuna dedizione al trionfatore, ma adesione allo spirito che animò il movimento. Quando questo dovesse deviare, saremo avversari decisi. Ciò fu detto e fu scritto. Che cosa vogliono dippiù?» (51).

Le lettere sono scritte non solo dopo la marcia su Roma, quando il Fascismo appare trionfante («nessuna dedizione al trionfatore», scrive il Venerabile), ma prima della riunione del Governo dell'Ordine del 18 novembre 1922 di cui si è detto. È, dunque, il momento in cui Torregiani tenta, per sua stessa ammissione, di arginare le influenze che sul Fascismo potrebbero esercitare i nazionalisti ed i “Ferani”, mediante una politica di appeasement con i Fascisti. E, come abbiamo visto, la posizione di Torregiani non è la posizione dell’Ordine in quanto Istituzione, tanto è vero che la sua prolusione appare una vera e propria autodifesa nei confronti dei Dignitari del GOI (52). Vero è, invece, che la massoneria tenta di influenzare il fascismo “dall’interno”, come abbiamo visto da numerosi elementi sopra esaminati. Come sarà chiaro in seguito, non ci riuscirà. Ed è lo stesso Cerasola, in una lettera a Torregiani del 2 gennaio 1923 (53), a rendersene conto. Mussolini sospetta che la Massoneria voglia “impadronirsi” del Fascismo, quindi è bene stare fermi e non muoversi, perché ogni tentativo di “dialogo” con il PNF potrebbe avvalorare il “sospetto” di volerlo “infiltrare”.

Il 1923 è un anno decisivo per i rapporti tra fascismo e massoneria. Palermi, quasi a riecheggiare quanto ha intuito Cerasola, attacca pesantemente il GOI, accusato di tentare di “infiltrare” il PNF e di “tramare” contemporaneamente contro il governo, cercando di mettere fascisti e nazionalisti gli uni contro gli altri (54). I nazionalisti, dalla loro parte, riprendono la vecchia polemica antimassonica di cui si è detto supra e L’Idea Nazionale tuona: «La massoneria rappresenta l’antitesi della riscossa nazionale. Essa è democratica, filosocialista, materialista, internazionale: rappresenta, insomma, quanto è stato dalla nuova Italia superbamente travolto» (55). Il processo di avvicinamento tra fascismo e nazionalismo trova il suo compimento il 25 febbraio 1925, e la convenzione tra i due partiti è preceduta da un “preambolo” in cui si sancisce la incompatibilità tra fascismo e Massoneria. Questa dichiarazione è il culmine di una campagna antimassonica iniziata – come detto - dai nazionalisti e proseguita dai fascisti all’inizio di febbraio, con una serie di articoli sia sul Popolo d’Italia, sia su altri giornali, fascisti o filofascisti, finché, nella seduta del 13 febbraio 1923, il Gran Consiglio del PNF (56) approva quasi all’unanimità un ordine del giorno così concepito: «... considerato che gli ultimi avvenimenti politici e certi atteggiamenti e voti della Massoneria danno fondato motivo di ritenere che la Massoneria persegue programmi e adotta metodi che sono in contrasto con quelli che ispirano tutta l’attività del Fascismo, il Gran Consiglio invita tutti i fascisti che sono massoni a scegliere tra l’appartenere al Partito Nazionale Fascista o alla Massoneria, poiché non vi è per i fascisti che una sola disciplina, la disciplina del Fascismo; che una sola gerarchia, la gerarchia del Fascismo; che una sola obbedienza, l’obbedienza assoluta, devota e quotidiana, al Capo e ai capi del Fascismo» (57). Torrigiani prende atto della decisione, dicendo ai fratelli: « …i Fratelli fascisti sono lasciati interamente liberi … di rompere ogni rapporto con la Massoneria per rimanere nel Fascio; sa per certo che quelli che si allontaneranno continueranno a dimostrare con l’esempio che nelle Logge appresero a praticare come dovere supremo la devozione incondizionata alla patria» (58). Palermi non reagisce, interpretando la risoluzione del Gran Consiglio come riferita ai soli aderenti al GOI, ritenendo comunque i principi fascisti conformi all’azione massonica come da lui intesa. La posizione di Palermi provoca grandi risentimenti all’interno dell’obbedienza, ma egli rimane al vertice, molte logge confluiscono nel GOI, mentre altri rimangono tra i “ferani”, ma all’opposizione di Palermi (59).

Note:
1 - cfr. la puntuale analisi di De Felice, “Fascismo”, Le Lettere, Firenze 2011, pos. Kindle 271 (d’ora innanzi, De Felice 2011)
2 - cfr. Emilio Gentile, “Il Fascismo in tre capitoli”, Laterza, Bari-Roma 2003 (d’ora innanzi, Gentile 2003), cap. I, § 1
3 - Raffaele Molinelli, I nazionalisti italiani e l’intervento, Urbino, Argalia, 1973, pp. 25 ss.
4 - D’Annunzio, in via quasi preventiva, aveva usato questa espressione nel pezzo di apertura del Corriere della Sera del 24 ottobre 1918
5 - ibidem
6 - Nel XVI Congresso di Bologna (5-8 ottobre 1919), i massimalisti conquisteranno tutti i posti disponibili in Direzione Nazionale, verrà riformato lo Statuto con l’indicazione della dittatura del proletariato come fine della lotta politica e si indicherà la violenza proletaria quale metodo di lotta – cfr. Cento e venti anni di storia socialista, 1892-2012, a cura di Gennaro Acquaviva, Luigi Covatta, Angelo Molaioli, Polistampa, Firenze 2012, p. 184
7 - cfr. Gentile 2003, De Felice 2011, opere citate
8 - Gentile 2003, pos. Kindle 260
9 - Fabio Venzi, “Massoneria e fascismo: Dall'intesa cordiale alla distruzione delle Logge” – Castelvecchi, Roma 2017, pos. Kindle 311; cfr. Cuzzi, op. cit., pos. Kindle 7044; Natale Massimo Di Luca, “La Massoneria. Storia, miti, riti”, Atanòr, Roma, 2000, p. 165
10 - Eugenio Chiesa, “La mano nel sacco. Osservazioni per La Voce Repubblicana”, Libreria politica moderna, Roma 1925, p. 6.
11 - De Felice 2011 pos. Kindle 426
12 - Gentile 2003, pos. Kindle 311
13 - Anche per effetto di aumenti salariali senza precedenti: fatto 100 l’indice del 1913, nel 1921 i salari erano aumentati a 127: cfr. De Felice, op. cit., pos. Kindle 358
14 - Una parte della storiografia rimprovera a Bonomi e Facta una certa accondiscendenza nei confronti delle squadre fasciste, ma in realtà il governo aveva perso il controllo della piazza: a Sarzana, si erano fronteggiati squadre fasciste ed Arditi del Popolo ed i Carabinieri avevano ucciso 14 fascisti, ma già nel gennaio 1921 a Firenze gli Arditi avevano ucciso il fascista Giovanni Berta
15 - Ciclo di lezioni tenuto a Mosca e noto come Corso sugli avversari, ora pubblicato in “Palmiro Togliatti - La politica nel pensiero e nell'azione: Scritti e discorsi 1917-1964” a cura di Michele Ciliberto e Giuseppe Vacca, Bompiani, Milano 2014 – il passo citato è a p. 373
16 - Antonino Zarcone, “Domenico Maiocco. Lo sconosciuto messaggero del colpo di Stato”, Prefazione ed introduzione di Aldo A. Mola e Luigi Pruneti, Annales, Milano 2015, p. 60, lo definisce “massone”, ma senza alcun riferimento; nega che Bianchi sia massone Alarico Modigliani Rossi, Maestro Venerabile della Loggia “Concordia” in una lettera a Torrigiani, Firenze, 19 dicembre 1922, in ISRT, Archivio Torrigiani, serie I, fasc. 15, ins. 10, che – comunque – lo definisce «uomo purissimo». In realtà, chi scrive nutre forti dubbi sull’affiliazione massonica di Bianchi, attesa la sua posizione in occasione della Guerra di Libia, contraria all’intervento, in contrasto con la posizione di ambo le obbedienze (v. supra)
17 - Anche nel dibattito sull’interventismo, Raoul Palermi fu sospettato di simpatie austro-tedesche
18 - Su Vincenzo Morello (non de plumeRastignac), cfr. Lina Anzalone, “Storia di Rastignac - Un calabrese protagonista e testimone del suo tempo”, Rubettino, Soveria Mannelli 2005
19 - Mola 2018, p. 625
20 - ASGOI, Processi verbali della Giunta dell’Ordine, 24 febbraio 1921, citato da Anna Maria Isastia, “Massoneria e fascismo: la grande repressione”, in AA.VV.. “La Massoneria: La storia, gli uomini, le idee”, cit. pos. Kindle 3528
21 - Tra gli altri, Isastia, “Massoneria e fascismo: la repressione degli anni Venti”, Libreria Chiari, Firenze 2003, p. 26.
22 - Tra gli altri, Alberto De Bernardi - Luigi Ganapini“Storia dell’Italia Unita”, p. 192
23 - Gentile, “Fascismo, Storia e interpretazione” – Laterza, Bari-Roma 2005, p. 40
24 - “Mussolini il fascista - la conquista del potere” – Einaudi, Torino 1965, pp. 345 ss.
25 - Ernst Nolte “I tre volti del Fascismo” – SugarCo, Milano 1966;“Bolscevismo e nazionalsocialismo. La guerra civile europea 1917-1945”, BUR, Milano 2008; George Lachmann Mosse, “La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1812-1933)”, Il Mulino, Bologna 1975; “Il fascismo. Verso una teoria generale”, Laterza, Roma-Bari, 1996; TarnoKunnas, “Il fascino del fascismo. L'adesione degli intellettuali europei”, Settimo Sigillo-Europa Lib. Ed., Roma 2017
26 - soprattutto Gianni Vannoni, op. cit., in cui – però – (p. 63), riportando quasi testualmente Cesare Rossi, sostiene che Mussolini ignorava l’appartenenza alla massoneria di molti fascisti
27 - Soprattutto da Gerardo Padulo - “Contributo alla storia della Massoneria da Giolitti a Mussolini”, in “Annali dell’istituto italiano per gli studi storici”, VIII, 1983-1984, pp. 219-347; “Palazzo Giustiniani e/o Piazza San Sepolcro”, in “Mezzosecolo”, 1985-86, pp. 123-45
28 - Antonella Beccaria, “I segreti della massoneria in Italia”, Newton Compton, Roma 2013,p. 31
29 - Isastia “Massoneria e fascismo: la grande repressione”, in AA.VV.. “La Massoneria: La storia, gli uomini, le idee”, cit., pos. Kindle 3283
30 - cfr. supra, nota 62.
31 - Carlo Francovich, “Studi su storia e politica della massoneria”, in Storia Contemporanea, 1978, vol. 30, fasc. 130, p. 88 – Francovich, però, sostiene chiaramente: «Con questo non si vuole far credere che l’avvento del fascismo fosse frutto di un complotto massonico»
32 - cfr. Pruneti, “La Massoneria italiana nella Grande Guerra”, in AA.VV., 1914-1915. “Il liberalismo italiano alla prova. L’anno delle scelte, a cura di Aldo A. Mola”, Torino-Cuneo, Consiglio Regionale del Piemonte-Centro Giolitti, 2015.
33 - A partire da Angelo Tasca, “Nascita e avvento del fascismo”, edito in Francia nel 1938 – La Nuova Italia, Firenze 2002 - p. 433 – di recente, cfr. Angelo Livi, “Massoneria e Fascismo”, Bastogi, Foggia 2016, p. 72
34 - De Felice, “Mussolini il fascista - la conquista del potere” – cit., p. 349 – evidentemente De Felice ritiene attendibile la testimonianza “di prima mano” di Cesare Rossi, op. e loc. ult. cit. Nella lettera di Modigliani Rossi a Torrigiani, citata supra, Balbo viene definito « … massone sì ardente e puro, che sono sicuro rimetterebbe a posto i vari papaveri del fascismo locale». Come si può notare, i massoni sperano in un “condizionamento interno” del Fascismo da parte dei “Fratelli” fascisti
35 - Reperibile all’indirizzo http://www.archiviostorico.info/articoli/4535-cesare-maria-de-vecchi-e-la-massoneria
36 - sul ruolo di Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon nel dibattito storiografico sul Risorgimento, cfr. Di Rienzo – “Storia d’Italia e identità nazionale” – Le Lettere, Firenze 2006
37 - un caso particolare, tra i teorici del “complotto massonico”, è quello di Peter Tompkins, che in un libro pubblicato in Italia con il titolo “Dalle carte segrete del Duce”, sostiene di aver avuto accesso a delle carte secretate nei National Archives di Washington, a cui non possono accedere altri studiosi – riteniamo superfluo sottolineare l’inattendibilità scientifica di questa pubblicazione, onde evitiamo persino di prenderla in considerazione
38 - Le ricostruzioni dei rapporti dei massoni con il movimento fascista sono state possibile grazie a documenti di fonte massonica
39 - Cesare Rossi, op. e loc. ult. cit.; Gianni Vannoni, op. cit., p. 76
40 - Terzaghi, op. cit., pp. 59 ss.; Cesare Rossi, op. e loc. ult. cit.
41 - op. cit., pp. 143 ss.
42 - op. e loc. ult. cit.
43 - De Felice “Mussolini il Fascista – La conquista del Potere”, cit., p. 352. Identico concetto l’A. aveva espresso nella voce “Massoneria” in Novissimo Digesto Italiano, UTET, Torino 1964, p. 320
44 - ibidem – cfr. Isastia, op. ult. cit. pos. Kindle 3516
45 - La lettera fu pubblicata dal Popolo d’Italia del 4 novembre 1922 e poi su Rivista Massonica settembre-ottobre 1922
46 - Isastia: “Torrigiani Gran Maestro”, in AA.VV., “La massoneria italiana da Giolitti a Mussolini”, cit., pos. Kindle 795
47 - Terzaghi, op. e loc. ult. cit.
48 - Mola 2018 p. 548
49 - Isastia, op. ult. cit., pos. Kindle 800-802
50 - Conti, “Massoneria e fascismo: dalla marcia su Roma alla legge sulle associazioni segrete” in AA.VV., La massoneria italiana da Giolitti a Mussolini: Il gran maestro Domizio Torrigiani, cit., pos. Kindle 870 ss.
51 - Lettera del 5 novembre 1922, in ISRT, Archivio Torrigiani, serie I, fasc. 10, ins. 9.
52 - Sui dissensi alla politica di appaesementverso il Fascismo da parte di Torrigiani, cfr. Conti, op. ult. cit., pos. Kindle 890 ss.
53 -In ISRT, Archivio Torrigiani, serie I, fasc. 10, ins. 9.
54 - Gli interventi di Palermi sono riprodotti nella rassegna Polemica massonica, pubblicata in «Rivista massonica», gennaio 1923, pp. 2-15
55 - Parla il Grande Architetto, in “L’Idea Nazionale”, 2 gennaio 1923
56 - Molti storici insistono sul fatto che il Gran Consiglio fosse, all’epoca, una “conventicola privata”. Francamente, non si capisce tale affermazione. Prima che il regime istituzionalizzasse il PNF, lo stesso era un’associazione privata al pari degli altri partiti, libera, quindi, di decidere i propri interna corporis
57 - Venzi, “Massoneria e fascismo”, cit., pos. Kindle 586
58 - ibidem pos. Kindle 591
59 - Pruneti, “La Tradizione massonica scozzese in Italia” - Edimai, Roma 1994, p. 123.

(continua…)

Studio storiografico a cura della Redazione di EreticaMente

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Il mito solstiziale – Carlo Giuliano Manfredi

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“Fammi andare
Dal Non-Essere all'Essere
dalla Tenebra alla Luce
dalla Morte all'Immortalità”
Brihad Aranyaka Upanishad

Quando l'anno volge al termine, si vive un momento di passaggio tra i più drammatici, quanto paradossale, dell'intero ciclo naturale delle stagioni (quale manifestazione delle leggi che regolano quella realtà fisica strutturata dalla nascita, crescita, maturazione e morte).

Qui l'oscuritá regna sovrana, le notti si allungano e la luce sembra vinta, tuttavia nel momento in cui quest'ultima sembra estinguersi totalmente e il mondo delle tenebre festeggia il proprio trionfo, mentre tutto sembra perduto, nel giorno del 21 dicembre avviene un capovolgimento della situazione, è l'evento del Solstizio d'inverno (dal lat. solstitium, sol ‘sole’ e stare ‘fermarsi’).

Circostanza caratterizzata da una misterica (con particolare riferimento all'azione/intento del chiudere la bocca, esser muti) dimensione in cui tutto risulta sospeso nell'attesa di una rivoluzione (dal lat. revolutio -onis ‘rivolgimento, ritorno’), e il tempo stesso in effetti pare fermarsi. Ecco allora che il buio cede alla luce che, lentamente, inizia a prevalere sulle brume invernali. E' la rinascita dopo la morte, vittoria e resurrezione del nuovo Sole concepito come una forza invitta simbolo di un nuovo ciclo luminoso.

Tale aspetto rappresenta in parallelo un orientamento interiore per coloro che vivono coscientemente l'evento, momento rituale (di passaggio o di iniziazione) destinato a rinnovare le energie (l'uomo vecchio muore perchè il nuovo possa nascere).

D'altronde, il passaggio tra l'anno vecchio e il nuovo, è anche analogo a quello tra due cicli cosmici: ed è simbolicamente una reintegrazione del mondo nella sua origine informale. Al riguardo ed in riferimento al calendario romano arcaico, evocando Giano e Saturno, si evidenzia che il primo Dio citato è legato ai solstizi (nello specifico con il nome di 'janua coeli' per quello d'inverno) ed è colui che introduce all'età primordiale accogliendo Saturno a Roma. E' quindi identificato al Creatore (jan significa 'generare') e Saturno è il suo germoglio d'oro. Relativamente a quest'ultimo, egli corrisponde al primo terzo dell'inverno ed, in suo onore, veniva celebrata la ricorrenza pre-solstiziale appunto chiamata 'Saturnalia' (17 – 24 dicembre). In un clima particolarmente festoso (in cui gli schiavi erano temporaneamente liberi, venivano scambiati doni, e si eleggeva anche una specie di re di burla) si ricordava la 'notte artica' ed il rinnovamento del suo Sole Iperboreo (settentrionale), rinnovamento annuale in cui si ristabiliscono dunque simbolicamente le condizioni anteriori all'inizio (motivo per cui i riti e le usanze di rovesciamento e di "sospensione dell'ordine" si innestano coerentemente sul corpo più antico della festa).

Infine, come tutti i momenti di passaggio, quello solstiziale è un periodo carico di valenze simboliche e magiche, dominato da miti e simboli provenienti da un passato lontanissimo e, soprattutto, ricorrente in tutta l'aerea relativa alla civiltà indoeuropea e sue ramificazioni. In particolare si fa riferimento a Yule/Jól (festa del solstizio d'inverno nella tradizione norrena) dove si evidenzia il mito della ridda della “Caccia Selvaggia”.

La ridda si disvela come veicolo di sapienza al di là e al di sopra del tempo profano: eterna e profonda Verità che ancor oggi può essere colta e vissuta come nel tempo iperboreo delle origini delle stirpi indoarie, poichè tutti i miti conducono indubbiamente al “ritorno all’origine”.

Questo Mito, riferito ai giorni solstiziali, avviene nelle “dodici notti sante”, quelle che vanno dal Natale all'Epifania, quando il tempo non scorre e la realtà è sospesa.

Le Dodici si dividono in due metà e cioè nei sei giorni dal 25 al 30 dicembre e gli altri sei dall'uno al 6 gennaio. Il 31 dicembre viene quindi escluso dai Dodici perchè rappresenta la “divisione nel tempo”, che come il nunc, il presente, esclude simbolicamente l'Ur (ciò che è passato) e introduce ciò che deve avvenire, quanto ciò che è spirito divide e contemporaneamente unisce il divino dal mondano, il passato dal presente. La notte di S.Silvestro è da riferire al mutare, alla scomparsa per rinascere, al "passaggio della divinità nella vita umana". L'Armanismo (gli insegnamenti), come il suo sistema religioso , il Wuotanismo, ha fuso intimamente conoscenza, azione e fede, cosicchè l'ario-germanico non solo sapeva ciò che credeva bensì confermava con la sua azione ciò che sapeva e credeva e con ciò riconosceva la sua 'Wihinei' (sacro) non solo come opinione dottrinale con vuote parole, confermandola invece nel più ampio senso della parola con il suo agire ed operare nella vita.

Prepariamoci quindi all’avvicinarsi di questa importante data poichè nella Tradizione di riferimento rappresenta non solo il passaggio stagionale ma soprattutto la rinascita dell’Uomo spirituale.

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Un’analisi strategica sul populismo – Umberto Bianchi

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Sono tra quelli che, senza remore di sorta, considera quella del Ministro dell’Interno Salvini, durante il suo ultimo viaggio nel Vicino Oriente, in visita alle nostrane truppe inquadrate nella locale missione Unifil, al confine tra Israele e Libano, una uscita sicuramente poco felice. Il dire che quella degli Hizbollah sia una formazione terroristica, ci pare una forzatura ed una inesattezza macroscopica, non confortata, tra l’altro, da alcun fatto che possa orientarci in tale direzione.

Anzi. In tempi recentissimi Hizbollah si è attivamente impegnato a contrastare il terrorismo stragista qaedista, sponsorizzato ed appoggiato a fasi alterne, proprio da quell’ambiguo “fronte occidentale” (Usa, Gran Bretagna, Francia, Israele… sic!) tanto lesto nell’additare quali terroristi agli occhi del mondo, coloro che non si allineano ai loro desiderata strategici, quanto altrettanto lesto nell’abbandonare certo bon ton, per imporre “manu militari” le proprie scelte strategiche, con tutti i disastrosi annessi politico-militari, come nel caso delle “primavere arabe” e del conflitto siriano.

Non solo. In quell’intricato puzzle di confessioni religiose e politiche che è ed è sempre stato il Libano, Hizbollah è riuscito ad attrarre attorno a sé una serie di attori politici e di consensi provenienti dai più disparati settori politici e religiosi, incluso quello cristiano. Questo, grazie ad una solida struttura politico-militare che, oltre a riuscire a tener testa e ad infliggere delle sonore lezioni sul campo a quello che, sino a poco tempo fa, sembrava un esercito invincibile, ovverosia lo Tsahal Israeliano, è divenuto con il tempo, una garanzia di ordine e stabilità anche nel vespaio libanese. E questo ha probabilmente infastidito chi avrebbe voluto lasciare il Libano, in uno stato di semi perenne caos e pertanto facilmente manovrabile ed indirizzabile, a seconda delle occasioni del momento.

Senza ulteriormente addentrarci in analisi che ci porterebbero molto lontano, permane il fatto di un’uscita sicuramente poco attenta al locale contesto geopolitico e che sembra esser stata fatta, con il preciso intento di elargire un contentino mediatico ai “soliti noti”. Quale che sia la motivazione che sta alla base di questa ed altre simili dichiarazioni, da parte di ambienti e personaggi riconducibili ad aree antagoniste, si è scatenata una ridda di polemiche sul personaggio Salvini, più o meno accusato, a vario titolo, di essere filo questo, piuttosto che filo quello, oppure di non esser stato coerente con determinati canoni di pensiero identitario e via dicendo e già qualcuno parla di “delusione” e così via…

Arrivati a questo punto, però, andrebbe chiarito in modo esaustivo e senza riserve, quello che rappresenta il punto nodale dell’intera “vexata quaestio”. Pensare che un personaggio come Matteo Salvini possa essere associato ad un qualsivoglia parametro ideologico, nel nome di una di quelle classiche operazioni copia-incolla, con le quali, sino a poco tempo fa, si cercavano di incasellare e delimitare situazioni e personaggi, è follia pura e dimostra solamente che, poco o nulla si è capito della vera essenza del Populismo.

Come abbiamo già avuto modo di illustrare, il termine “Populismo” non è indicativo di una specifica costruzione ideologica, bensì di uno stato d’animo, di una modalità di azione politica, che fa unicamente leva sul malcontento delle masse verso le elites economiche e politiche di un dato paese.

Rappresentando tutte e nessuna ideologia in particolare, il Populismo può essere di essere di destra o di sinistra, di matrice liberista o socialista, o tutte le cose assieme. Esso è liquido, come la odierna società Post Moderna. Sa interpretare, adeguare e piegare il cieco risentimento delle masse a quelle che possono essere le opportunità di quel momento ed, in quanto “liquido”, superare e vanificare qualsiasi linea guida, senza temere di ricevere accuse di revisionistica incoerenza da chicchessia.

Cercare, pertanto, di collocare un Salvini o un Di Maio in un ambito ideologico di “destra” o di “sinistra” è una operazione che non ha alcun senso politico-ideologico. Ne ha, invece, quando all’indomani di determinate scelte, si possano andare a palesare conseguenze tali da incidere sugli equilibri interni di un paese, senza che si riesca a compensare adeguatamente, quanto poco prima provocato. Il Populismo può allora rivelare tutta la sua inaspettata fragilità, vanificando la sua azione politica, sino a scomparire. Ed è un po’ quello che è accaduto con la storia di tutti i Populismi…

Il rischio è sempre alle porte, la vicenda dell’Uomo Qualunque di Giannini o del Poujadismo francese dovrebbero esser di monito. Ed allora, il compito del presente e del futuro per tutti gli uomini “di buona volontà”, animati da una visione completa ed organica del mondo, è quella di cercare di penetrare, contaminare di sé e delle proprie idee, con certosina pazienza, i nuovi contesti politici che ora vanno affermandosi. Senza dimenticare, però, i limiti ed i rischi che una simile operazione può comportare, determinati dalla costitutiva fragilità politico-ideologica di certi contesti e dalla ancora insuperata capacità di reazione del Globalismo e dei suoi vari emissari.

D’altronde, stavolta, la sfida va facendosi via via, sempre più chiara e netta. Il Globalismo da una parte, con tutti i suoi infiniti ed infidi tentacoli, il Fronte delle coscienze Identitarie e Sovraniste dall’altra, che va muovendo i suoi primi confusi passi, in direzione di una sua più completa e comprensiva presa di coscienza e strutturazione…una ineludibile sfida per chiunque sia animato da senso di giustizia e da volontà di ribellione. Una sfida che, come tutte le sfide, vista la posta stavolta in giuoco, presenta i propri inevitabili rischi, di cui bisogna prender coscienza sin dall’inizio, proprio per evitare di incorrere in confusioni e sviste che, altro non fanno che allontanarci dallo scopo primario di questa nostra azione politica, rappresentato dalla lotta e dalla definitiva sconfitta del mostro Globalista.

UMBERTO BIANCHI

 

Fonte copertina: corriere.it

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Le cause mistiche della guerra in Siria e l’accelerazione dei tempi – Mizar dell’Orsa

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«Se dici: “Sono ebreo”, nessuno si commuove.
Se dici: “Sono romano”, nessuno trema.
Se dici: “Sono greco, barbaro, schiavo o libero”, nessuno si agita.
Ma se dico: “Sono cristiano!”, il mondo trema»

(Vangelo di Filippo)

 

«Ecco, Damasco è tolta dal numero delle città e non sarà più che un ammasso di rovine»
(Isaia)

 

 

È un po’arduo scrivere in poco spazio un argomento come questo perché i temi soggiacenti sono molti e si possono qui solo accennare. In primo luogo la premessa è quella di chi non teme di seguire una lettura metafisica della Storia, e che a volte le cause dei conflitti o di certi eventi non siano quelli ufficiali del mero interesse economico, politico o geopolitico, ma che vi possa essere anche (e soprattutto) dell’ “altro”. In questo “altro” si affaccia una sorta di terza dimensione della geopolitica, che vi proietta un aspetto verticale, religioso, o come in questo caso esoterico-mistico, dimensione non ignota a chi detiene il vero potere.  Questa è la premessa. Si vaglierà quindi una serie di concezioni che sono giustificate più secondo le nozioni dell’esoterismo e dell’occultismo ma che, d’altra parte, trovano una conferma o almeno punti di tangenza, con l’escatologia e la letteratura apocalittica delle principali religioni esoteriche coinvolte.

Senza voler essere presi per ingenui visionari o essere accusati di eccessivo idealismo storiografico, riteniamo legittimo informare quanto meno sulle possibilità di questa “terza dimensione” e offrire un piano di lettura in più, oltre quello orizzontale.

La Siria è un territorio particolare, di sicuro interesse per geomanzia e geografia sacra come anche per la storia sacra. Nella provincia romana di Siria nacque per la prima volta la parola “cristiano” e qui nacque una delle prime chiese cristiane, quella siriaca, o “antiochena”. Ma non si esaurisce qui il motivo per cui la Siria è un territorio di rilevanza geomantica: un insegnamento poco diffuso, contenuto in alcune comunicazioni private di R. Guénon, la prima ad Arturo Reghini nel 1935, la seconda a Vasile Lovinescu nel 1936 ci informa dell’esistenza di sette centri di irradiazione di forze oscure, propriamente contro-iniziatiche, sparsi nell’ “isola del mondo”, fra Eurasia ed Africa (o meglio, non vi sarebbero nell’Europa propriamente detta e nelle Americhe, dove però si possono trovare centri minori di cui uno molto importante in California). Guénon ne parlava come delle “Sette torri del diavolo” e secondo questo insegnamento avrebbero relazione sia con i sette pianeti del settenario antico, di cui incarnerebbero ciascuno una qualità, sia con le sette stelle della costellazione dell’Orsa Maggiore, il cui schema geometrico riprodurrebbero sulla Terra .

Di queste “torri” una sarebbe verso il delta del Niger, nell’area di cultura Yoruba, centro di irradiazione di culti animistici con una ben nota inclinazione al demonico; un’altra torre sarebbe in Sudan, (Nubia e Alto Egitto, antico centro del culto di Seth); un’altra nel “Turkestan”, forse il Turkestan cinese, provincia del Xinjiang  (altra area “calda” di instabilità geopolitica); una sui rilievi del Jebel Sinjar vicino Mosul, nel Kurdistan iracheno. Altre due torri non vengono situate in modo preciso e si troverebbero una sugli Urali e una in Siberia alla foce dell’Ob. Ne rimane una, che viene situata proprio in Siria, e che Guénon mette in relazione con gli Ismaeliti (les Ismaïliens et quelques autres sectes assez suspectes) ma che invece dovrebbe avere un riferimento ben più antico nel Monte Hermon su cui si innesta la tradizione apocrifo-enochiana degli “Angeli Caduti”.

A prescindere dalla lettura guénoniana, a volte discutibile per via di certi suoi pregiudizi antignostici (esemplare la sua erronea assimilazione degli Yezidi alla contro-iniziazione), possiamo limitarci ad osservare l’essenza di questa informazione, che indica dei “luoghi di potere”, anche volendo prescindere dalla collocazione più o meno esatta nel contesto di quella che lui chiama Contro-iniziazione (del resto generalmente è impossibile un’attribuzione univoca perché dove si manifesta maggiormente una forza si trova parimenti anche la sua polarità opposta, sebbene una delle due possa prevalere). Anche secondo questa serie di informazioni la Siria risulterebbe un luogo già denso di tali “luoghi di potere”. Densità che si accresce perché in Siria si trova, come anche il Libano, territorio storicamente e geograficamente connesso con la Siria, un gran numero di culti e confessioni, che ne fanno un mosaico multi-religioso, a fianco all’Islam, religione maggioritaria ma non esclusiva. I cristiani sono circa due milioni e mezzo (dato di prima della guerra), e in questo numero vi sono rappresentate le confessioni cristiane più antiche: greco-ortodossa antiochena, maronita, melchita, caldea, armeno-cattolica, nonché l’antichissima Chiesa ortodossa siriaca, monofisita (non segue il concilio di Calcedonia), che nasconde un’eco dell’antico gnosticismo cristiano in quanto, riconoscendo la sola natura divina del Cristo, adombra in forma teologica la distinzione gnostica fra Gesù e Cristo.

Non dissimile la situazione dell’Islam che vede rappresentate la maggior parte delle correnti islamiche, quella sunnita, prevalente, quella sciita duodecimana, e una serie di sette minori, fortemente eterodosse, tanto che ancora si discute se appartengano effettivamente all’Islam (al cui testo sacro si appoggiano) oppure se siano piuttosto delle religioni autonome, avendo in effetti delle scritture proprie. Tali sono ad esempio i Drusi, o gli Alawiti, alla cui ultima corrente appartiene anche la famiglia del presidente siriano Assad. Tali correnti hanno un fondo esoterico, essendo l’insegnamento completo della dottrina dato per gradi, e solo a chi si impegna in tal senso, a volte la “porta dell’adesione” essendo persino chiusa, e presentano tratti fortemente gnostici, in alcuni casi sincretici: credono nella metempsicosi, e l’assimilazione all’Islam potrebbe essere più che altro il frutto di un processo di inclusione/inculturazione finalizzato a garantirne la sopravvivenza politica.

A questo quadro vanno poi aggiunti i non meno misteriosi Yezidi, seguaci dell’ “Angelo Pavone”, anch’essi con tratti propriamente gnostici, erroneamente dagli islamici ortodossi assimilati a poco meno che “satanisti”. In realtà yazdismo, che conta fedeli soprattutto fra i curdi, è forse il residuo di una dottrina gnostica pre-islamica, con forti influenza di dualismo iranico.

Tale il quadro religioso e spirituale della Siria, che annovera quasi tutte le principali religioni dell’area mediterranea e soprattutto, ciò che è più significativo, nelle forme più antiche e originarie, a tratti quasi dimenticate.

Questa presentazione serve a far capire l’estrema “densità” dello spazio geo-religioso siriano oltre alla già detta rilevanza geomantica, se diamo per buona la dottrina riferita da Guénon.

A questo punto è necessario, per comprendere il senso della nostra esposizione, tornare indietro, esponendo quanto seguirà non nel quadro di una qualche teologia specifica ma in un’ottica metareligiosa o esoterica.

La Siria si trova su una linea particolare di progressione su cui sembrano manifestarsi, ad ogni cambio di eone o era astrologica, scandita dalla precessione del punto equinoziale, le discese “avatariche” del principio supremo (se per analogia ci rifacciamo alla corrispondente teoria induista) o almeno di qualche grande “personalità spirituale”, profeta o messaggero divino che segna l’apertura di tale ciclo, almeno per il contesto religioso occidentale-mediterraneo (per l’ambito orientale il discorso sarebbe più complesso e comporterebbe l’apertura di una riflessione più ampia). Non potendo risalire troppo indietro la nostra memoria storica, consideriamo la fine dell’età del Toro (la civiltà minoica o il  Medio Regno in Egitto, ad esempio), simboleggiata dalla distruzione del Vitello d’oro, come la crisi della civiltà religiosa egizia (seppur fatta rifiorire politicamente dall’impero della Dinastia ramesside), come inizio della nuova era. Il sacerdote egizio Mosé (Tut-Mosi, in egiziano) probabilmente un gran sacerdote di Amon, oppure di Aton, come riteneva Freud, si sarebbe allontanato dall’Egitto portandosi dietro diversi fuoriusciti egiziani, che sfuggivano alle persecuzioni contro il culto di Aton introdotto dalle riforme dello sventurato faraone Amenotes, e gruppi di popolazioni semitiche, letteralmente inventando dal nulla un popolo “ebraico”. Diciamo così perché la prima attestazione scritta dell’esistenza di un popolo ysrỉr (cioè Israele) è di poco successiva ed è la stele del Faraone Meremptah. Mosè creò anche la religione ebraica, prendendo tratti del culto di un sanguinario dio locale della guerra e della montagna dei popoli del Sinai (la tribù di Jetro). Tale nuova fondazione avvenne sotto il segno dell’Ariete nel deserto del Sinai. Su questa linea ancora, risalendo verso nord, si trova Gerusalemme, capitale del successivo regno di Israele, poi provincia romana, nella quale alla fine dell’era dell’Ariete e all’inizio dell’era dei Pesci (Ychthys = pesce, anagramma del sotér cristiano) si manifestò appunto il Cristo. È per questa ragione che nella religione cristiana è simboleggiato il sacrificio dell’Agnello, non solo come simbolo del sacrifico eucaristico ma anche, esotericamente, allusione alla chiusura dell’era processionale precedente, quella aperta con la legge mosaica. Quanto al successivo passaggio storico verso l’Acquario un cenno se ne trova nel Vangelo di Marco: “Egli mandò due dei suoi discepoli e disse loro: «Andate in città, e vi verrà incontro un uomo che porta una brocca d'acqua; seguitelo; dove entrerà, dite al padrone di casa: - Il Maestro dice: 'Dov'è la stanza in cui mangerò la Pasqua con i miei discepoli?” (Mc 14.13-14), l' uomo che “porta la brocca d'acqua” essendo appunto l'Acquario e il "padrone" essendo il sole, ossia Gesù stesso, che entra nella casa dell'Acquario. Un riferimento astrologico al passaggio fra Pesci ed Acquario si trova anche in una scrittura buddhista (cfr. “Sutra della Luce dorata”, Je Tzong Khapa Edizioni).

Ora, mentre i passaggi di ere non sono perfettamente costanti in termini cronologici (circa 1400 anni fra Mosè e Gesù; più di duemila la durata dell’era dei Pesci) - anche in ragione della differente ampiezza reale delle costellazioni, diversa da quella convenzionale basata sulla divisione per dodici dell’eclittica - gli spazi che separano i luoghi lungo questa “linea” ideale sono costanti: la distanza che separa il Nilo dal monte Sinai è grosso modo duecento chilometri, ma duecento chilometri è anche la distanza che separa con una certa approssimazione l’area del Sinai da Gerusalemme. Sarebbe pensabile che il luogo di un prossimo evento di portata planetaria possa collocarsi a 200 km da Gerusalemme sulla direttrice Nord. Damasco, capitale della Siria, si troverebbe esattamente a quella distanza e su quella direzione, proseguendo la linea leggermente curva che a partire dall’eone del Toro costeggia e risale il Mediterraneo.

Qui si appunta il vero nodo della questione, non tanto sull’ipotesi, invero poco oppugnabile che sarà proprio a Damasco (poi vedremo quali fonti del profetismo ne diano ulteriore conferma), quanto sul “chi” si manifesterà…poiché qui si incontrano e si scontrano le tradizioni apocalittiche delle tre religioni del Libro. Essendo la tradizione principale di riferimento quella più articolata, cioè quella cristiana, legata essenzialmente al misterioso testo dell’Apocalissi giovannea, non si può ignorare che la rivelazione in questione parli di una seconda discesa del Cristo (Parusìa). Quindi, almeno per quanto riguarda chi assume questo filone della rivelazione, la Tradizione sembra annunciare almeno per lo spazio mistico dell’Occidente, come futuro “avatara” divino (ci si permetta l’uso analogico di questo tecnicismo) lo stesso Cristo, che si manifesterà nella prossima era processionale, ormai non troppo lontana. Non serve aggiungere che la natura di questo “Cristo” non coincide automaticamente con quella postulata dalla cristologia cattolica o dalla religione convenzionale, ma questo non è argomento della nostra trattazione…

Le fonti islamiche peraltro, soprattutto quelle sciite, la corrente relativamente più “esoterica” dell’Islam (secondo il giudizio di H. Corbin), concordano sul tema della seconda venuta del Cristo o meglio, secondo le fonti di islamiche (che non ne riconoscono propriamente la natura “cristica”) di Gesù (ʿĪsā). Nell’apocalittica islamica si fa anche riferimento ad una figura analoga, il Mahdi ( = “Il ben guidato”), il quale assume per gli sciiti duodecimani un particolare significato, essendo in realtà la seconda manifestazione del Dodicesimo imam, che si sarebbe “occultato” nell’anno 874. Il profetismo islamico-sciita si salda in un certo senso con quello cristiano perché sia il Mahdi cheʿĪsā si manifesteranno nello stesso tempo, prima del Giudizio (yawm al-dīn). E Īsā ibn Maryam, il Cristo figlio di Maria, si paleserà proprio a Damasco, secondo la profezia islamica, nel minareto della Moschea degli Omayyadi, che gli è “destinato” e che infatti è chiamato minareto di Isa. Il suo compito sarà quello di difendere i credenti dal Dajjal ( = Mentitore, falso Messia), l’equivalente dell’Anticristo. Un hadith recita esattamente:

E mentre il Dajjal sarà occupato da queste cose, Dio invierà il Messia figlio di Maria, che discenderà presso il bianco minareto orientale di Damasco (…) e non è permesso a nessun miscredente di sentire il profumo della sua bocca senza morire. Quindi lo cercherà, finché lo raggiungerà alla porta di al-Ludd (presso Gerusalemme), e visto Gesù, il nemico di Dio si scioglierà come il sale si scioglie nell’acqua.

Poi il Mahdi e Gesù il Messia governeranno insieme e collaboreranno per portare la pace e la giustizia sulla Terra e addirittura un hadith afferma che pregheranno insieme. Il regno di Gesù (che per la teologia islamica non è mai morto ma assunto con il corpo fisico in Cielo, apertis verbis: passato integralmente e senza residuo ad un altro stato di  esistenza) durerà 40 anni e alla sua morte vi sarà il giudizio finale. È interessante che anche nell’Apocalisse giovannea si affaccia una parusia intermedia, un regno del Cristo della durata di mille anni, che sarà poi seguito da un’ultima battaglia contro Satana e poi dalla Parusia definitiva. Tale interpretazione non è “canonica” nel magistero cattolico, tuttavia è diffusa e sembra alludere al fatto che tale ritorno, come nella profezia islamica, sarà per un periodo temporaneo e non definitivo. Un altro dato interessante, su cui ritorneremo, è che nella profezia islamica l’Antricristo si troverà nell’area di Lod (in arabo al-Ludd) una località nei pressi di Tel Aviv, attuale capitale dello Stato di Israele, cosa che ne rafforza il profetismo dato che Gerusalemme e le altre località limitrofe furono conquistata all’Islam quasi subito, sotto il terzo Califfo e forse addirittura prima della effettiva redazione di quell’hadith, e non può quindi trovare fondamento nella politica dell’epoca.

Vi è anche però il fronte della letteratura apocalittica ebraica. Senza entrare troppo nello specifico delle varie scuole e correnti, la visione escatologica prevalente nell’ebraismo è anch’essa millenarista: prevede un tempo sacro di “sei giorni”, ciascuno di mille anni. L’ultimo sarà il giorno dello shabbat, un’era che durerà mille anni sotto la guida del Masiach atteso dal popolo di Israele. Si ritiene che oggi sia verosimilmente prossimo l’arrivo di tale Messia.

La condizione dell’ebraismo è particolare. Privo di un sacerdozio, il sacerdozio Kohanim che la religione ebraica non possiede più dalla distruzione del Secondo Tempio (i suoi rabbini non essendo che degli esperti di diritto), esso nulla è se non la perpetuazione della Vecchia Legge, quasi un fossile spirituale, residuo psichico dell’Era dell’Ariete che - a differenza di altre antiche religioni, come lo zoroastrismo - non è più contenitore di un’ordinazione sacerdotale. Come tale esso si dibatte fra un ebraismo riformato, che accetta questa desacralizzazione e si conforma all’egualitarismo e al laicismo moderno, e uno conservatore che crede che il Messia ripristinerà i sacrifici e l’ordine sacerdotale innalzando il Terzo Tempio. In realtà il messianismo è centrale nella cultura ebraica degli ultimi duemila anni, ma assume un ruolo teologico-politico essenziale nell’ultimo mezzo secolo, e soprattutto ora, con la destra ebraica al potere in Israele. Dall’originario modello politico laico-socialista, lo Stato di Israele si sta trasformando sempre più in uno Stato etnico-identitatio e talmudico, che aspira ad assimilarsi all’Eretz Israel del mito religioso. Ma l’edificazione stessa dell’entità sionista è già di per sé un atto di orgoglio umano, perché solo il Santo può ricostruire il Regno di Israele. Per questo, dal punto di vista religioso, il sionismo politico è un vero abuso. I rabbini più ortodossi non riconoscono l’entità sionista e alcune scuole religiose come i Naturei Karta la condannano apertamente come un atto di blasfemia e orgoglio. L’avvento del Messia sarebbe l’unico evento in grado di dare vera legittimità religiosa allo Stato ebraico stando al vero spirito delle Scritture giudaiche, e questo la dirigenza ebraica lo sa perfettamente.

Resta da vedere chi sia il Messia atteso dall’ebraismo e,  se esso fosse già stato il Cristo, allora sarebbe ben distante dalle attese del messianismo ebraico che vi attendeva invece un re nazionale. Questa  interpretazione, in realtà da tempo sostenuta anche dai cabalisti cristiani per ragioni di opportunità, è tuttavia il sospetto che gli stessi ebrei hanno e che di recente è tornata di attualità per la scioccante rivelazione postuma del centenario rabbino Ytzak Kaduri, cabalista ed haredì (ultraortodosso), che avrebbe lasciato una “nota profetica sul Messia” la quale, aperta dopo la sua morte (2006), nell’estremo imbarazzo di tutti ha rivelato che il vero nome del Masiah era proprio Yehoshua, Gesù, secondo il metodo cabalistico del notaricon.

Non possiamo rispondere per gli Ebrei, ma il dubbio è: se come, crediamo, quel Logos si manifestò davvero in Yoshua ben Yosef o in qualcuno del suo circolo (suo cugino Giovanni il Battista?) o comunque in quel contesto storico, e se gli ebrei lo hanno mistificato e rifiutato, essi riconosceranno allora la sua missione cosmica oppure di nuovo la disconoscereanno?

E se, dato che le profezie islamiche parlano del Dajjal come “al-Masīḥ al-dajjāl” cioè il falso Messia,  se cioè l’Anticristo avrà dei tratti dichiaratamente messianici, allora c’è da chiedersi se tale Anti-Messia non sarà preso proprio dagli ebrei (e dagli israeliani), o da una parte di essi, come il loro atteso Messia. Quindi il Messia illusoriamente identificato come tale dagli ebrei potrebbe essere il vero Anticristo.

Fermo restando che ciò rimane nell’ambito delle congetture, ci pare tuttavia che questo dato troverebbe ulteriore giustificazione nelle fonti tradizionali, in particolare nell’hadith citato che dice “Egli (Īsā, il Cristo) lo raggiungerà al cancello di al-Ludd”, Cioè vicino Tel Aviv, capitale dello Stato Ebraico. Ripetiamo, si tratta di ipotesi, ma questo passo sembrerebbe confermare la possibilità di un’associazione politica fra l’Anticristo e un falso Messia sostenuto da gruppi religiosi ebraici connessi con lo Stato di Israele.

Se le cose stessero così avremmo che le tre personalità escatologiche delle tre religioni del Libro si troveranno ad incarnarsi contemporaneamente: il Cristo, il Mahdi dell’Islam (quello sciita, visto che per i sunniti il Mahdi potrebbero essere il Cristo stesso), e il Masiah (qualunque cosa esso sia) degli ebrei!

E adesso veniamo alla guerra in Siria, cominciata nel 2011. Come siamo arrivati noi, attraverso un ragionamento induttivo, peraltro corroborato dal citato hadith che parla del minareto bianco di Damasco come luogo della futura Parusia nell’eone d’Acquario, così non ci illudiamo che non vi siano pervenuti anche altri, ben prima di noi, soprattutto coloro che traggono dall’“Invisibile” l’origine reale del loro potere. La prima ragione per cui le potenze mondiali si combattono in Siria in una specie di guerra mondiale per procura è che chi controllerà Damasco quando sarà il tempo della Parusia avrà modo di controllare (o penserà di controllare o contrastare se necessario) la forza del Logos che vi si manifesterà. Vi è anche una seconda possibilità complementare alla prima: gli strateghi del potere sionista possono aver valutato cioè quella di un tentativo di “accelerazione” dei tempi della Profezia per favorire la venuta del Messia (o dell’Antimessia a seconda della prospettiva che si adotta). Questo risponde ad una mentalità tipicamente ebraica, una visione quasi meccanicistica del rapporto fra la storia umana e il divino, di poter cioè forzare la mano sui tempi, facendo «accadere», anche se intenzionalmente, certi segni così che i tempi della profezia saranno compiuti. In quest’ottica acquisisce un senso il succedersi di “segni” che si sarebbero registrati in Israele in questo anno: la nascita di un vitello rosso (in realtà frutto di una manipolazione zootecnica, l’impianto di embrioni della razza red angus in vacche autoctone), oppure la fuoriuscita di un serpente, immancabilmente in favore di telecamera, da una fenditura del Muro del Pianto: tutti eventi che dovrebbero anticipare la costruzione del Terzo Tempio. Tali segni, ovviamente artificiali, che sulle prime potrebbero apparire delle semplici boutade propagandistiche, potrebbero invece, se messi insieme, confermare il sospetto di “strategia” di questo tipo. Il fatto che si siano succeduti in tempi così rapidi fa proprio pensare ad un insieme di eventi organizzati in questo senso. Israele ha bisogno del Masiah atteso per trarre piena legittimazione teologica alla sua esistenza politica, agli occhi delle stesse comunità ebraiche che al momento rappresenta solo in modo parziale e discontinuo. In quest’ottica di “compimento” dei tempi, in cui tutti gli eventi annunciati dai profeti dovranno essere avverati prima che il tempo possa dirsi compiuto, rientra anche una profezia di Isaia (17, 1):

Ecco, Damasco è tolta dal numero delle città e non sarà più che un ammasso di rovine

che spesso viene citata da alcuni predicatori americani come giustificazione della guerra in Siria, e che gli agenti alleati di Israele hanno fatto di tutto per (quasi) avverare. Il senso tecnico del termine accelerazione dei tempi è esatto, dato che l’era dei Pesci è praticamente conclusa ma quella dell’Acquario non è ancora arrivata, dato che il punto equinoziale non è ancora entrato in Acquario. L’idea di antipicare i tempi della Parusia non è così fantasiosa come si possa pensar,e e fu anzi già tentata, in modo infruttuoso, circa un secolo fa dalla Società Teosofica.

Un dato importante da tener presente è che non potrà esservi nessuna Parusia, nessuna venuta, senza precedente manifestazione dell’Anticristo o del falso Messia. È interessante a questo proposito osservare che le fonti talmudiche non parlano di nessun nemico individuale da abbattere, di nessun anti-messia, cosa che ci appare molto sospetta e che potrebbe anch’essa corroborare l’ipotesi che il Masiah ebraico, se vi sarà, potrebbe avere esso la funzione di falso Messia, Dajjal ed Anticristo… Dunque il tempo non sarà compiuto finché, come dice San Paolo (Tes. 2, 6-7), non avrà piena manifestazione il Mysterium iniquitatis, e quindi “non sia tolto di mezzo il katechon che finora lo trattiene”. (Ts. 2,7). Perché l’Anticristo possa effettivamente manifestarsi, o propriamente incarnarsi, sarà necessario che venga tolto di mezzo questo misterioso Katéchon su cui molto si scrive da secoli. Fermo restando che a tale entità simbolica possono corrispondere diversi piani di lettura, a seconda del tempo a cui sono riferiti, è difficile non riconoscere che tale forza “che trattiene” sia ad oggi, e in riferimento alla politica internazionale, esattamente la Russia. Non solo la Russia come nazione ma la sua attuale dirigenza che, fra alti e bassi, ha costituito un argine inatteso alle trionfanti forze atlanto-sioniste ma soprattutto al nichilismo dell’Occidente liberale.

Qualcosa fa in modo dunque che quell’energia antispirituale non possa manifestarsi in pieno fino ad incarnarsi completamente. Ovviamente l’azione di Katéchon di cui parliamo è specifica, limitata e relativa, non pretendiamo di aver individuato il Katéchon nel senso assoluto, ma solo una sua manifestazione locale. È certo tuttavia che il dopo Putin nella Federazione russa è tutt’ora un’incognita visto che non si sa chi e come raccoglierà il suo testimonio politico. Pertanto la fine dell’era Putin potrebbe essere, a meno che forze eurasiatiste non prendano piede nella coscienza politica della dirigenza russa, l’evento che toglierà di mezzo il katéchon, il freno all’avanzata delle forze anti-spirituali.

Il quadro degli schieramenti geopolitici attuali, al netto degli aspetti contingenti, sta in modo sorprendente riproducendo lo schema di contrapposizione che vediamo predetto negli hadith islamici: una forza politica rappresentante del vero cristianesimo, la Russia ortodossa, e l’asse sciita composto da Iran ed Hezbollah alleati contro lo Stato sionista e le forze cripto-giudaiche che si manifestano delle sette evangeliche del protestantesimo americano, il Cristo e il Mahdi contro il Dajjal. È inutile ricordare che nella teologia politica sciita, gli Usa e Israele sono apertamente identificati come il Grande Satana (Shaytân-e Bozorg) e il Piccolo Satana  (Shaytân-e Kuchak). Hezbollah oggi è il principale difensore dei cristiani di Siria (interessante a questo riguardo il libro di Sebastiano Caputo ‘Mezzaluna sciita’). D’altra parte si comprende come la Russia possa voler in un certo senso non dare alla grande potenza sciita, l’Iran, eccessivo spazio in Siria. Si tratta di rapporti di potenza: chi dei due “alleati” dovesse prevalere, potrebbe forse influenzare l’equilibrio della nuova era “religiosa” (con le riserve del caso in relazione alle segnature astrologiche dell’Acquario) in favore dell’elemento islamico o di quello “cristico”, inverando maggiormente l’una o l’altra versione della stessa profezia.

La divisione dei due fronti, fra forze dello Spirito e anti-spirituali, in realtà taglia obliquamente le stesse religioni, come una evangelica separazione del grano dal loglio in ognuna di esse. Vediamo così i cristiani divisi, e gli stessi islamici divisi, militare in entrambi gli schieramenti.

Il cristianesimo ortodosso, quello autentico, perché più vicino a quella che potrebbe essere la Gnosi cristiana (per tante ragioni che non possiamo qui trattare) si vede alleato con la corrente più esoterica dell’Islam, lo sciismo.

Dall’altra parte uno pseudo-cristianesimo, il protestantesimo americano e le sue correnti più radicali, le “chiese evangeliche”, che sono un mero cristianesimo di aspirazione, essendo tagliate fuori dalla Successione apostolica: vuoto che per una legge metafisica qualche altra forza avrà dovuto occupare... Lo stesso islam sunnita, in cui la corrente predominante è ormai il waabismo, finanziato da decenni dalla casa Al Saud, fedele alleata degli Stati Uniti e di recente anche di Israele, presenta degli aspetti molto controversi: è proprio in ambito sunnita che nasce il Daesh, l’autodichiarato neo-Califfato, o Isis, in realtà una marionetta sionista e saudita, composta per lo più da mercenari pagati da questi, come ormai sufficientemente documentato . Sempre in linea con la nostra ipotesi, si spiega l’uso delle bandiere nere da parte di Daesh, in luogo di quelle verdi dell’Islam: le bandiere nere sono quelle tradizionalmente associate al Mahdi, quindi si tratta anche qui di un tentativo di anticipazione dei tempi. Tentativo che in realtà è una contraffazione umana, una parodia del divino e soprattutto, come lo stesso Stato sionista, un abuso del diritto religioso di riferimento: la Guerra Santa nell’Islam, e di conseguenza anche il Califfato, può essere proclamata e risvegliata solo da un seyyed, un religioso dal turbante nero cioè un discendente del Profeta, figura che hanno solo gli sciiti. I militanti del Daesh sono quindi formalmente ritenuti dei taqfiri (cioè eretici) nel mondo islamico, e lo stesso waabismo, oggi prevalente fra i sunniti, è giudicato con un certo sospetto. D’altra parte sappiamo bene che l’asse sunnita è un alleato strategico per Israele che punterebbe a smembrare gli Stati arabi nati dal trattato Sykes-Picot, per creare un Sunnistan, di fatto come suo indiretto protettorato, per attuare anche qui la profezia del Grande Israele (altrimenti non realizzabile ad oggi) che deve andare dal Nilo all’Eufrate. Anche per la piena attuazione di ciò si attenderebbe l’imminente instaurazione del Terzo Tempio.

Quanto al “sionismo cristiano”, la corrente religiosa dei Neoconservatori americani che controllano gli organi non politici degli Usa cioè la Cia e il Pentagono, esso il frutto dell’indirizzo giudaizzante delle chiese evangeliche. Questo orientamento teologico, non si limita ad enfatizzare il ruolo dell’ebraismo e la centralità della tradizione veterotestamentaria, come spesso si è visto in certo protestantesimo, né all’idea che alla seconda venuta di Cristo molti ebrei lo accetteranno come Messia, ma ha una presupposto molto più stringente: la bizzarra idea che il ritorno degli ebrei in Palestina e la ricostruzione di Israele, sia la condizione indispensabile per il ritorno di Cristo. Di nuovo si ripresenta, e in forma totalmente esplicita, che un avvenimento frutto dell’intervento umano possa preludere o determinare un evento escatologico. Corollari della visione di queste sette evangeliche sono: la convinzione che gli ebrei siano ancora il Popolo eletto di Dio, e che questo implichi il dovere dei cristiani di sostenere Israele; che Eretz Israel appartenga esclusivamente al popolo ebraico e che tutti i palestinesi vadano scacciati dai loro storici insediamenti, che Eretz Israel debba estendersi dal Nilo all’Eufrate, quindi inglobare una parte del territorio egiziano, il Libano, la Siria, la Giordania, e quasi mezzo Iraq. Condividono una visione pessimistica e la prospettiva di una imminente battaglia di Armegeddon che essi attendono con zelo, perché solo dopo la sconfitta degli arabi e degli altri popoli per mano degli ebrei, potrà avverarsi il ritorno di Cristo. Queste sette, fra cui la più nota è quella dei Dispensazionalisti, sono sorte della seconda metà del XIX secolo e praticamente hanno preceduto di cinquant’anni il sionismo di Herzl nel sostegno alla creazione del focolare ebraico. Va senza dire che l’origine di queste sette evangeliche è molto sospetta, anche se il cristianesimo americano in generale appare, sin dalla nascita, come una sorta di giudeo-protestantesimo. Ribadiamo che dai tempi almeno di Bush figlio i think tank americani che più influenzano le scelte politiche statunitensi sono legati a queste sette. I neocon, che in modo quasi traversale hanno forte presa sulle istituzioni e sugli apparati, imponendosi tanto ai governi repubblicani, alla cui area appartengono, quanto ai democratici a cui sono legati tramite la dirigenza Clinton, aderiscono esattamente a questa visione apocalittica.

Tale dunque il contesto dello scontro, fra due contro una delle tre religioni del Libro dell’ormai conclusa ronda storica, e che vede frammentarsi in modo traversale il quadro delle alleanze con gli sciiti alleati dei cristiano-ortodossi, contro il potere ebraico e i suoi alleati giudeo-protestanti e una parte importante del mondo sunnita, e con l’apparente complice latitanza del cattolicesimo. Sullo sfondo, oltre la battaglia fra eggregori religiosi, la contrapposizione quasi ancestrale che trascende i culti teologico-politici contingenti: quella metapolitica che contrappone potenze del mare a potenze di terra, di cui eurasiatismo contro atlantismo è solo la versione novecentesca,  la lotta fra le due bestie bibliche, Leviatan e Behemoth.

Il controllo della Siria e di Damasco durante i “tempi ultimi” deciderà ben più della pipeline siriana o del controllo del porto di Tartus, cioè chi fra questi due poteri eternamente in lotta, questi due  corni della piramide bicefala del potere sulla Terra, avrà il predominio sul prossimo eone.

 

 

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Il tunnel degli italiani – Emanuele Casalena

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Era il 26 novembre 2009, Gino Ragno ci lasciava con la riconoscenza di chi lo aveva conosciuto nelle sue battaglie da politico e giornalista. Era l’ormai lontano 1972 quando un bel gruppo di giovani, tra cui chi scrive, si recò in Germania per le Olimpiadi di Monaco di Baviera. Tutti studenti universitari con pochi sghei ma nello zaino l’entusiasmo non solo per i cinque cerchi ma per l’idea d’una Europa dei popoli tutta da costruire, ancora oggi. Quello era il sogno di Gino quando fondò l’Associazione di Amicizia Italia-Germania ripartendo da due Patrie sconfitte, umiliate dopo l’ultimo conflitto mondiale. Furono un’esperienza forte quelle due settimane di tarda estate, Olimpiadi di sangue per l’attacco terroristico a sorpresa dell’organizzazione palestinese Settembre Nero. Assalirono gli alloggi degli atleti israeliani, ne sequestrarono nove dopo averne uccisi due a bruciapelo, finale una strage, nove ostaggi, cinque fedayyn e un poliziotto uccisi, Monaco blindata dal 5 al 6 settembre, cingolati per le strade, controlli, confusione, tanta impreparazione, Brandt piegato da Golda Meir nel no secco alla  trattativa con i terroristi.

Il viaggio ci portò anche a Dachau, visita al primo campo di concentramento nazista voluto da H. Himmler, prototipo di tutti gli altri lager, persino con la satanica scritta Arbeit macht frei (“Il lavoro rende liberi”) sulla “porta dell’inferno”. Ma fu anche escursione d’un giorno a Berlino a vedere quel muro della vergogna, simbolo triste della cortina di ferro, della guerra fredda, imbecille, ottusa “barriera di protezione antifascista” (Antifaschistischer Schutzwall) della DDR. Costruito nel ’61 cadrà solo nell’89 (ne conservo una scheggia) lasciandosi dietro una lunga lista di vittime della VoPos (oltre duecento) con arresti e internamenti “rieducativi”, anche una farfalla se l’avesse sorvolato sarebbe stata catturata, considerata una spia del capitalismo. Per Gino quel muro era la sconfitta dell’Europa doganale, quella mercantile di otto Stati membri ma politicamente uno 0 spaccato come adesso.  E’ stato lui Gino Ragno a sollevare la coltre sugli italiani che hanno spinto a tutta forza contro quel manufatto dell’orrore, quanti furono? Sedici per quel che s’è potuto ricostruire stante il silenzio ipocrita del nostro Paese impelagato nell’equilibrismo col Partito comunista più forte del vecchio Continente. Raccontava Gino: «Sono cinquemila gli italiani che parteciparono in 28 anni, a Berlino Ovest, a manifestazioni di protesta contro la dittatura della Germania Est; 16 gli italiani arrestati e rinchiusi nelle carceri della Stasi per attività di fluchthilfe, ossia per aver tentato di aiutare ad oltrepassare il Muro decine di tedeschi di Berlino est ». I primi eroi furono due studenti, Mimmo (Domenico) Sesta e Luigi Spina conosciutisi a Gorizia alle medie superiori, ragazzi di un’intelligenza contagiosa, erano in classe con Bruno Pizzul. Mimmo era di Vieste, orfano di padre caduto nella guerra civile spagnola, s’era trasferito al nord a Chioggia, “Gigi” era goriziano d.o.c., alto, smilzo, gran disegnatore, entrambi si iscrissero alla Technische Universität  di Berlino. Mimmo alla facoltà di Ingegneria civile, Gigi all’Accademia di Arti grafiche. Quando i chiodati prussiani, decisero di sbarrare il confine est-ovest con fili spinati arrotolati e poi con blocchi di cemento per impedire, con una barriera sorvegliata, la fuga dei loro concittadini, Peter Schmidt compagno di studi universitari dei due italiani, restò intrappolato con la famiglia oltre la cortina di ferro, era il 13 agosto 1961. Il “mostro” aveva preso forma nel silenzio generale, alla fine sarà lungo 155 Km con un gemello parallelo al suo interno di pari lunghezza, lasciando, in mezzo, una zona brulla tra i due chiamata” striscia della morte”, dice tutto.

Da quella notte del 13 dicembre Berlino era spaccata a metà come una mela, impossibile per i tedeschi dell’Est fuggire ad ovest, erano in trappola, divisi dai loro parenti, amici, studi, Zac, la porta di Brandeburgo non era più simbolo di pace ma della guerra fredda ,“meglio un muro che la guerra” fu il lepido commento di J. F. Kennedy.

Che fare per il caro amico Peter Schmidt intrappolato con moglie e figlioletta, impedito di proseguire i suoi studi? Mimmo e Gigi pensarono di scavare un tunnel, come a volte fanno i carcerati, come sempre debbono fare i minatori, bisognava farsi talpe sotto quel muro di confine. Domenico era ingegnere civile, starà a lui progettare la galleria dirigendone i lavori, ma occorreva far presto e bene, servivano attrezzature e braccia dopo aver individuato, con un sopralluogo, il sito più adatto per dar corso al progetto. La guerra aveva bombardato una vecchia fabbrica lasciandone uno scheletro abbandonato, si trovava in Bernauer Strasse, quello era il posto giusto per iniziare a “bucare” il suolo, partendo dalla Berlino occidentale. Pale, picconi, vanghe e carriole furono prese “in prestito” da un cimitero, la luce elettrica con un allaccio volante, sputo sulle mani e si comincia a scavare in tre, oltre ai due italiani c’era un loro amico Harry Seidel cui si aggiungeranno i coniugi Fuchs, ma presto, per passa parola, il piccolo gruppo fece proseliti arrivando a 40 componenti impegnati nell’impresa, seppur le difficoltà incontrate già nel settembre del ’61 erano tante compreso il finanziamento dell’opera, i pochi soldi di quegli studenti volarono via rapidamente. Per finanziare l’opera Mimmo e Gigi ebbero l’idea di bussare alla televisione americana NBC dandole l’esclusiva delle riprese dei lavori nel tunnel in cambio di un contributo per eseguirlo, in pratica quel filmato sarebbe stato il primo reality ante litteram. Accordo fatto, si procedette con lena.

Quel budello era esattamente come una galleria mineraria, realizzarono un carrello su monorotaia per tirar fuori terra e detriti, illuminarono il tunnel, rinforzarono con travi e puntoni le volte e le pareti dello scavo, spicconavano quasi in ginocchio, lavorando i turni di tre ore, questo esofago doveva raggiungere inizialmente i 170 m. Ma i problemi erano tanti, il più grave in assoluto quello dell’allagamento imprevisto della galleria, con conseguente fermo dei lavori, blocco dell’erogazione idrica, idrovore in prestito, tirar via la fanghiglia con evidente allungamento dei tempi ed il pericolo d’essere scoperti. Per recuperare si decise una variante, accorciare la lunghezza del tunnel a 126 m.  Man mano che ci si avvicinava alla bocca d’uscita ad est, prevista nello scantinato del palazzo al civico 7 di Schonholzer Strasse, si rendeva necessario organizzare la fuga istruendo i prossimi fuggitivi sul come, dove, quando. A tutto questo pensò una donna sola, Ellen, residente a Düsserdolf, fidanzata di Domenico (diverrà poi sua moglie) che aveva libertà d’accesso a Berlino Est. Il coraggio ed il lavoro di questa ragazza furono determinanti allorché, dopo sette mesi, il 14 settembre 1962, fu aperta la bocca della fuga, fu lei ad organizzare in segreto l’operazione, accompagnare a piccoli gruppi i fuggitivi, facendo la spola, riuscendo a beffare l’occhio grifagno della Stasi. Così quel giorno 29 persone, in primis l’amico Peter con moglie e figliola, s’infilarono in quel cunicolo raggiungendo la libertà. Appena in tempo, come in un thriller, perché gli ultimi già uscirono col fango fino ai fianchi, il tunnel purtroppo si stava allagando, non fu possibile portare fuori altra gente, fu per questo che passò alla storia col nome di tunnel 29 o “tunnel della libertà” titolo del romanzo scritto da Ellen Sesta nel 2002. A chi legge queste nostre scarne righe suggerisco di vedere il filmato della NBC cliccando su Un eroe italiano. La storia di Mimmo Sesta e del tunnel 29- stonehenge, più delle parole le immagini trasmettono l’umanità dei fatti.

Domenico Sesta e Luigi Spina non si fermeranno, rimasti a lavorare in Germania continueranno a favorire la fuga verso la libertà di altri cittadini “reclusi” nella Repubblica di Pancow, fino ad essere insigniti della medaglia d’oro al valor civile conferitagli, nel 2000, dall’allora Presidente Ciampi.

La fuga del tunnel 29 fu vincente, ma, come ricordava G. Ragno altri connazionali si son tirati su le maniche, fatto il cuore grande per riuscire ad aggirare il muro, scoperti dalla Stasi, finirono nelle carceri della DDR abbandonati dalla coraggiosa Repubblica Italiana. Le loro storie sembrano dissolte nella memoria come il ballerino Nereo Darmolin cui molti tedeschi dell’est debbono la conquista della libertà, lui non finì ai ceppi che conobbero invece Graziano Bertussin, Benito Corghi (freddato dalla polizia doganale), Pasquale Cervera, Ernesto De Persilis, Antono Di Muccio, Michela Duani, Nicola Marcucci, Vittorio Palmieri, Natale Pirri, Pietro Porcu, Elena Sciascia. Quest’ultima, italo-tedesca, nel ’73 venne arrestata dalla polizia segreta con l’accusa di aver tentato di far fuggire da Berlino Est la sua amica Eva Solingen. Venne torturata in carcere per estorcerle una confessione, poi condannata a 7 anni di reclusione, fu rimessa in libertà nel ’76 dietro il pagamento cauzionale di 80.000 marchi della Germania Federale. Sevizie e regime carcerario le piagheranno per sempre le forze, un marchio a fuoco indelebile, procurandole nel tempo due ictus, il primo a pochi mesi dalla scarcerazione, il secondo in modo irreversibile nel ‘96 tanto da ridurla in coma per sette anni fino alla morte avvenuta il 14 ottobre del 2003. Tra tante memorie e condimenti postumi di lacrime ci chiediamo il perché non siano degni di un ricordo questi eroi quotidiani seppelliti, a loro tempo, per meschine ragioni di diplomazia da bottega.

Emanuele Casalena

Bibliografia

L'articolo Il tunnel degli italiani – Emanuele Casalena proviene da EreticaMente.

Caro Babbo Natale…. Le radici tradizionali di un mito “moderno” – Andrea Marcigliano

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Caro Babbo Natale… i bambini che, nelle scorse settimane, hanno indirizzato lettere e sogni al fantastico personaggio vestito di rosso che, nella notte fra il 24 ed il 25 Dicembre di ogni anno, vola “intorno al mondo” su una slitta trainata da renne per portare doni, sono gli ultimi, ormai, a celebrare, senza ovviamente saperlo, un culto antichissimo. Un culto di cui, nelle loro fantasie infantili, nei gesti e nei riti che preparano la  Notte Incantata, è ancora avvolto di poesia e mistero. Non così, ovviamente, per i loro genitori, che vedono in Santa Claus, o Babbo Natale che dir si voglia, per lo più soltanto l’immagine riflessa di una festività ormai completamente laicizzata e trasformata in celebrazione dei fasti del cosiddetto Consumismo. Genitori che, sovente, dimentichi della loro infanzia, si limitano a credere, quando pure se lo chiedono, che il personaggio in questione altro non sia che un’invenzione di qualche pubblicitario più o meno ispirato….nello specifico dei designer dell’americanissima, e modernissima, Coca Cola, la multinazionale che avrebbe lanciato Santa Claus come immagine simbolo delle Festività Natalizie; simbolo globale che, in breve tempo, ha oscurato e sospinto nell’oblio tante altre tradizioni, locali, riguardante portatori mitici di doni collegati alle feste invernali: San Nicola, Santa Lucia, i Magi, la Befana….tutte figure che ormai sopravvivono solo in sempre più ristrette enclave culturali. Mentre la scena globale è ormai dominata solo da lui, da Santa Claus. Potenza della Coca Cola e, più in generale, del pervasivo Soft Power a stelle e strisce…

Eppure, se si osserva con attenzione, dietro le luci scintillanti delle luminarie natalizie, dietro ai Babbi Natale, più o meno credibili, che siedono negli Ipermercati e ascoltano, annoiati, richieste di bambini seduti sulle loro ginocchia – richieste più o meno mirabolanti, che toccherà poi a preoccupati genitori cercare di esaudire – traspare ben altro. L’ombra, lunga, di una figura che si perde nella notte dei tempi. Una figura connessa, ora, con il moderno Natale de-cristianizzato, trasformato in festa laica….ma che, in realtà, riemerge da profondità remote, da epoche di molto precedenti l’inizio del culto cristiano. Cristianesimo che, per altro, ha cominciato a celebrare la festività natalizia solo a partire dal IV secolo, stando al Chronographus di Furio Dionisio Filocalo, e con ogni probabilità per cercare di contrastare la tendenza dei fedeli a partecipare, comunque, alle celebrazioni del Natalis Solis Invicti; celebrazioni particolarmente sentite nella Roma dell’epoca, perché feste splendide, con tanto di addobbi delle case, feste, banchetti… e che seguivano, per altro, ai giorni dei Saturnalia, tra le più antiche ed arcane tradizioni romane, che, però, in età imperiale si configuravano come una sorta di Carnevale – dal quale, poi, vennero in certo senso assorbite – al termine  dei quali era uso scambiarsi doni. Doni in genere decorati con un ramo di vischio colto, in antico, nel bosco sacro alla Dea Strenua – da cui le Strenne di Natale per indicare i regali – portatrice di salute e prosperità.

E proprio al IV secolo risale quel San Nicola vescovo di Myra in Anatolia, che viene in genere indicato come l’archetipo da cui discenderebbe Babbo Natale. L’antico Vescovo è infatti figura leggendaria cui vengono attribuite molte imprese fantastiche. Due di queste in particolare sarebbero all’origine del suo essere divenuto, nei secoli, un Portatore di Doni. La tradizione secondo cui, avendo saputo che in una famiglia vi erano tre buone fanciulle che non potevano sposarsi perché troppo povere e prive di dote, Nicola avrebbe nottetempo portato tre sacchetti di monete sulla finestra di queste, l’altra più complessa, secondo cui il Santo Vescovo avrebbe strappato al Diavolo dei fanciulli che questo aveva trascinato con sé all’Inferno. Di qui il suo essere poi considerato “protettore dei bambini”. Non l’unica categoria, però, devota al Santo, il quale riveste nella tradizione il ruolo di patrono di molti gruppi sociali, tra i quali anche quello delle prostitute. Un fatto non casuale, anzi, particolarmente significativo, visto che al termine dei Saturnalia si celebravano il 23 Dicembre  i Larentialia. Festa di Acca Larentia, mitica prostituta cara ad Ercole; un segno dell’uso arcaico della “prostituzione sacra”, connessa con le Feste Solstiziali.

Il culto di San Nicola come portatore di doni si è poi, nei secoli diffuso lungo i Balcani ed in Europa Centrale, dove ancora, in parte, vige l’usanza di far trovare ai bambini i regali il 4 Dicembre giorno del Santo. Come avviene, per altro, anche a Trieste e in altre località dell’Italia nord-orientale. Giunto poi in Olanda sarebbe divenuto Sinterklaas, e, privato dei vecchi connotati vescovili dalla Riforma, portato in America dai coloni olandesi che fondarono Nuova Amsterdam, poi rinominata New York. E proprio in “Una storia di New York” di Washington Irving del 1908, appare Santa Claus che vola sopra i tetti della città su un carro, gettando doni attraverso i camini delle case. L’inizio della definizione del mito e della moderna iconografia del nostro Babbo Natale. Mito ed iconografia certamente, nella loro definizione e sviluppo, americani, nei quali, però, i famigerati pubblicitari della Coca Cola avrebbero avuto ben poca parte, limitandosi a predare un immaginario che si era già sostanzialmente definito in modo compiuto.

La storia dell’iconografia tutta americana di Santa Claus e di come si è andata definendo nel tempo è, certo, complessa ed ha un suo fascino. Anche perché, a ben vedere, spiega la nascita di un “mito” moderno; oggetto del culto collettivo da parte di una ben precisa categoria di persone: i bambini. Argomento affascinante per studiosi di sociologia culturale, ma non quello che qui ci deve interessare. Piuttosto il nostro oggetto di riflessione sono le radici tradizionali del mito/culto di Babbo Natale, il loro complesso intreccio e, in particolare, come continuino ad affiorare in particolari e gesti ancora in uso.

Babbo Natale veste, usualmente, di rosso. Usualmente perché alcune immagini vittoriane lo rappresentano in verde, sorta di vecchio e gigantesco Elfo, o meglio di <oberon invecchiato ed in versione invernale. Mentre l’immaginario dell’Europa Orientale e della Russia, pur non escludendo il rosso, predilige i toni del bianco, dell’oro dell’argento. Ma è il rosso a prevalere. Ed è abbastanza ovvio, visto che rievoca la luce calda del Sole che risorge nel Solstizio dopo la lunga notte. La sua  slitta – di per sé simbolo dell’Inverno – è trainata da renne volanti. E la renna , come tutti i cervidi, con le sue corna evoca l’immagine della Luna. I culti di Diana e Artemide per noi popoli mediterranei. E questo perché il Vecchio giunge nel cuore della notte. Anzi, esattamente a mezzanotte secondo alcune tradizioni.

Negli States e nel nord Europa vige l’usanza di appendere delle calze al camino perché vengano riempite di doni. Un tempo si ponevano fuori dalla finestra scarpe o zoccoli, con lo stesso scopo. Tradizione legata al mito norreno e germanico della Cavalcata Selvaggia, secondo il quale Odino – Wotan per i germanici – nella notte del Solstizio guida attorno a Mittagard una schiera di cavalieri fantastici, elfi, troll, dei, giganti…e reca doni agli uomini. Narrazione mitica della promessa del risorgere della natura dal gelo, del prossimo ritorno del Sole e dei frutti della terra. Che è poi il simbolismo dei doni che si ripete, in diversi modi, negli usi natalizi di tutti i popoli, e che perdura nell’attesa, fiabesca, di Babbo Natale da parte degli odierni bambini. O per lo meno di quelli che non hanno ancora dovuto subire la delusione del disincanto da parte di genitori o amici privi ormai di ogni…poesia. Ovvero di    ogni forma di legame con la dimensione mitica. Ed altre poi le antiche tradizioni precristiane che si collegano alla figura di Santa Claus. Come quella, di origine celtica, del gigante Gargan, un leggendario pastore che scende dai monti nella note del Solstizio e reca doni. Gargan dal cui nome sembra possa derivare quello del promontorio del nostro Gargano, non a caso, nell’età cristiana poi consacrato a San Michele Arcangelo, simbolo della Luce che sconfigge le tenebre. Gargan che ha subito poi la metamorfosi letteraria in figura grottesca – ma non priva di reconditi significati esoterici – nel capolavoro di Rabelais “Gargantua e Pantagruel”. Dove dominante è l’elemento del cibo, il banchetto, l’abbondanza che tornerà, appunto, grazie alla rinascita del Sole. Immagine che riporta alla mente quella dickensiana dello Spirito del Natale Presente, nel Christmas Carroll. Dove la figura dello Spirito, opulento, gioioso, evoca chiaramente quella del nostro Babbo Natale.

Per altro proprio lo straordinario racconto di Dickens ci introduce all’elemento fondamentale per comprendere la dimensione mitica di Babbo Natale. La sua capacità di governare, anzi dominare il Tempo. Pensiamoci bene: proprio il rapporto con il Tempo rappresenta il carattere fondamentale di Santa Claus. Che viaggia sì nello spazio, sorvolando tutta la Terra, ma lo fa in un’unica Notte. Una Notte magica, che sembra dilatarsi all’infinito, non avere mai termine. Una Notte ove vige una dimensione temporale diversa, un Tempo perpetuo, l’Aiòn della filosofia e del simbolismo neoplatonico, che è ben oltre al Cronos ordinario, al tempo che scorre irrefrenabile, al fluire incessante e sempre mutevole di eraclitea memoria. Tempo Cosmico, dunque, dimensione propria di Esseri mitici che solo in speciali occasioni, Feste, entrano in relazione coi mortali, irrompendo nella realtà ordinaria e sospendendo il flusso del tempo comune.

La dimensione di Saturno, Dio romano dell’Età dell’Oro, è, appunto, quella del Tempo. Del Tempo Cosmico, il piano della perpetuità, nel quale ogni atto diviene assoluto, e si ripete, sempre uguale eppure sempre nuovo, la dimensione spirituale sempre evocata attraverso gesti rituali e sacrali. Saturno che, “cacciato dal regno” si rifugiò, secondo tradizione, in una dimora diversa, un luogo ove l’età aurea perdura perennemente. Il Lazio, Saturnia Tellus secondo Virgilio. Ma si tratta di un’identificazione solo superficiale con l’odierna regione dell’Italia Centrale. Infatti il “Lazio” della tradizione latina rappresenta un “altrove”, una dimensione spirituale diversa,  equivalente all’Eden, al Paradiso Terrestre. Equivalente anche alle “dimore degli Iperborei” ove, nel mito greco, si ritirava Apollo nei mesi invernali. Apollo che è sì il Sole Spirituale, la dimensione fisica, e quindi temporale dell’astro, essendo, invece, rappresentata da Helios. E le Dimore Iperboree sono settentrionali. Anzi, Polari. E, appunto, Babbo Natale risiede, secondo leggenda, al Polo Nord, un luogo incantato popolato da folletti ed altri esseri magici.

Babbo Natale che dimora al Polo Nord e in una sola notte incantata vola, con le sue renne lunari, intorno alla  Terra. E visita ogni luogo, ogni casa. Ogni bambino che lo attende speranzoso. Babbo Natale cui si lascxia, come offerta, un bicchiere di latte, bevanda della Vita, perciò sacra anche ai defunti.

Babbo Natale che una volta all’anno risveglia sogni incantati, evoca, con la sua opulenta e gaia presenza ricordi remoti. La memoria sopita, ma mai cancellata, di antiche divinità. E di un’età aure che ogni anno rivive negli occhi e nelle fantasie dei fanciulli.

 

Andrea Marcigliano

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Fascismo e Massoneria, storia di rapporti complessi – 3^ parte – Luigi Morrone

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 La nascita del Regime e la Massoneria

Le temperie seguenti sono note: alle elezioni del 1924 il PNF conquista una maggioranza schiacciante, il deputato socialista Giacomo Matteotti viene assassinato dopo un durissimo discorso alla Camera, l’opposizione si ritira in un immaginario “Aventino”, non partecipando ai lavori parlamentari. Viene ventilato da più parti l’ipotesi di un “complotto massonico” che fomenta l’avversione al fascismo. I fascisti più intransigenti tuonano contro i camerati provenienti dalla massoneria, applicando ai massoni la regola ecclesiastica del semel abas, semperabas, per cui “il massone” non cessa mai di essere tale (1). Il risentimento antimassonico monta all’interno del mondo fascista, ed il 15 agosto 1924, il Gran Consiglio approva un deliberato durissimo. I massoni sono nemici del fascismo e vanno combattuti senza pietà. Il Ministro dell’Interno, il nazionalista Luigi Federzoni, noto antimassone, lascia che gli squadristi devastino le logge in tutta Italia senza far intervenire le forze dell’Ordine. È la premessa alla “stretta di freni” definitiva, che avverrà dopo qualche mese. Il 12 gennaio 1925, il Governo presenta alla Camera il disegno di legge sulla «Regolarizzazione dell’attività delle Associazioni, Enti ed Istituti e dell’appartenenza ai medesimi del personale dipendente dallo Stato, dalle provincie, dai comuni e da istituti sottoposti per legge alla tutela dello Stato, delle provincie e dei comuni».

Tale legge contiene due pilastri fondamentali:
1. l’obbligo, per qualunque associazione, di comunicare all’Autorità di Pubblica Sicurezza tutte le notizie inerenti all’attività dell’associazione, ivi compresi gli elenchi degli associati;
2. il divieto dei pubblici dipendenti di appartenere ad associazioni comunque legate al vincolo del segreto, sotto pena della destituzione.

La Massoneria non viene menzionata, ma è chiaro a tutti che costituisce il bersaglio principale della legge. Il 14 aprile 1925, nelle more della discussione parlamentare, l’Ufficio Massoneria del Partito nazionale fascista dirama a tutte le Federazioni la Circolare n. 4 (2), in cui si dice: «Le Federazioni tengano presente che la Massoneria costituisce in Italia l’unica organizzazione concreta di quella mentalità democratica che è al nostro partito e alla nostra idea della Nazione nefasta ed irriducibilmente ostile, che essa, ed essa soltanto, permette ai vari partiti, borghesi e socialisti, dell’opposizione parlamentare ed aventiniana, la resistenza, la consistenza e l’unità di azione». La discussione alla Camera è fissata per il 16 maggio (slitterà al 19). Relatore è il nazionalista Emilio Bodrero, uno dei protagonisti della “guerra alla massoneria” condotta dal suo partito nel 1912, conclusa con la sanzione dell’incompatibilità. Nella relazione, si legge: «Qualsiasi specie di società occulta, anche se, per ipotesi, il suo fine sia eticamente e giuridicamente lecito, è da ritenersi, pel fatto stesso della segretezza, incompatibile con la sovranità dello Stato», ed è chiarissimo il riferimento alla Massoneria, anche per il successivo “passaggio” sull’obbligo del segreto. Il primo a prendere la parola nel dibattito del 16 maggio è Gioacchino Volpe (3), il quale toglie ogni dubbio sul riferimento alla Massoneria: «… quando si dice società segrete, si dice massoneria» e sulla Massoneria ed il suo ruolo storico incentra tutto l’intervento: ne sminuisce il ruolo nel processo risorgimentale, ricorda la posizione antimassonica di varie organizzazioni e partiti che nella Massoneria vedevano «… l’equivoco politico, la degenerazione della vita pubblica, il confusionismo delle idee, la sopravvivenza di illuminismo e di ideologie settecentesche, il pacifismo spappolato, l’internazionalismo, la disorganizzazione dello Stato, lo strumento di stranieri interessi a danno del Paese, il vecchio e vacuo anticlericalesimo, specialmente l’intrigo e la camorra» (4).

La stragrande maggioranza annuncia il voto favorevole. Il “fascista anarchico” Massimo Rocca (5), dal canto suo, annuncia il voto contrario, assumendo l’attuale “irrilevanza” della Massoneria, che egli rivendica di aver combattuto «allorché la massoneria era veramente una casta dirigente, tanto che soltanto i massoni potevano riuscire nella vita pubblica, aprirsi una carriera intellettuale, e trovare degli editori per stampare i loro libri e divulgare le loro idee». Egli teme che la legge sia una sorta di “grimaldello” per la «fascistizzazione che si vuol fare della nostra burocrazia». Violenta la posizione, contraria all’approvazione della legge, di Antonio Gramsci, che tuona: «Che cosa è la Massoneria? Voi avete fatto molte parole sul suo significato spirituale, sulle correnti ideologiche che essa rappresenta, ecc.; ma tutte queste sono forme di espressione di cui voi vi servite solo per ingannarvi reciprocamente, sapendo di farlo. La Massoneria, dato il modo con cui si è costituita l’Italia in unità, data la debolezza iniziale della borghesia capitalistica italiana, la Massoneria è stata l’unico partito reale ed efficiente che la classe borghese ha avuto per lungo tempo. Non bisogna dimenticare che poco meno che venti anni dopo l’entrata a Roma dei piemontesi, il Parlamento è stato sciolto e il corpo elettorale da circa 3 milioni di elettori è stato ridotto ad 800 mila. È stata questa la confessione esplicita da parte della borghesia di essere un’infima minoranza della popolazione, se dopo venti anni di unità, essa è stata costretta a ricorrere ai mezzi più estremi di dittatura per mantenersi al potere, per schiacciare i suoi nemici di classe, che erano i nemici dello Stato unitario». Come nota Aldo A. Mola (6), Gramsci «votò contro la legge, non per difendere la Libera Muratoria ma perché essa faceva presagire lo scioglimento coatto dei partiti di opposizione … ma il suo voto non può essere frainteso sino a farne un difensore della Libera Muratoria».

Viceversa, è in atto un’operazione di mistificazione storica, che viene condotta isolando dal contesto la frase “la Massoneria è stata l’unico partito reale ed efficiente che la classe borghese ha avuto per lungo tempo” (7) per presentarla a sostegno della tesi per la quale Gramsci avrebbe difeso la Massoneria affermando che essa «Rappresentava la parte illuminata della tradizione politica risorgimentale e si era scontrata con le correnti reazionarie e clericali che si erano impossessate del regime usando la forza del fascismo agrario» (8). Gramsci non sostiene questo, né lo lascia intendere. Anzi, sostiene che il vero bersaglio della legge non è la Massoneria, ma il movimento operaio, che l’eventuale sostituzione dell’egemonia massonica con l’egemonia fascista sarà solo un’operazione di facciata (9) «In realtà il Fascismo lotta contro la sola forza organizzata efficacemente che la borghesia capitalistica avesse in Italia, per soppiantarla nella occupazione dei posti che lo Stato dà ai suoi funzionari. La rivoluzione fascista è solo la sostituzione di un personale amministrativo ad un altro personale … La realtà dunque è che la legge contro la massoneria non è prevalentemente contro la massoneria: coi massoni il fascismo arriverà facilmente ad un compromesso». Chiusa la discussione del 16 maggio, al momento della votazione manca il numero legale, la seduta viene aggiornata e la proposta di legge viene approvata il 19 maggio con 289 voti contro 4. La legge diviene definitiva dopo l’approvazione da parte del Senato nella seduta del 22 novembre 1925. Lo stesso giorno, una balaustra di Torrigiani scioglie tutte le logge aderenti al GOI, ma non scioglie il GOI, che continua la sua opera. Certamente quella della ricerca esoterica. E, forse, anche quella “esterna”, soprattutto di collegamento tra “fratelli”. Raoul Palermi, nel frattempo, scioglie l’obbedienza di piazza del Gesù e comincia una peregrinazione “elemosinando” benemerenze al Regime, dopo di che, sparisce nel nulla, vivacchiando con un vitalizio assegnatogli da Costanzo Ciano, vecchio massone “in sonno” fin dalla sancita incompatibilità tra iscrizione al PNF ed affiliazione alla Massoneria (10). La Massoneria di piazza del Gesù è scomparsa.

 

La Massoneria durante il Regime

Nell’affrontare la disamina dell’azione massonica durante il regime, bisogna rifuggire dall’errore di confondere “il massone” con “la massoneria”. Che – ad esempio – il grande matematico Arturo Reghini rimanga massone pur collaborando con il regime (11), non significa certo che “la massoneria” abbia in qualche modo parte nelle vicende del Ventennio. Che – al contrario – siano massoni molti fuoriusciti, non significa di per sé che “la Massoneria” tessa le sue “trame” contro in Regime, come spesso si enfatizza, sia da parte fascista e neofascista, sia da parte massonica. Che non si debba incorrere nell’errore di interpretare l’azione del massone con l’appartenenza alla massoneria, è sufficiente un esempio: durante la guerra d'indipendenza americana, quasi tutti i comandanti in entrambi i campi erano massoni (12). Di conseguenza, ci sia o no Luigi Capello (alto dignitario del GOI) dietro la preparazione dell’attentato di Tito Zaniboni (altro affiliato al GOI – l’attentato è sventato in via preventiva da un’operazione di polizia), ci sia o no Colonna di Cesarò (teosofo, massone dell’obbedienza di piazza del Gesù) dietro l’attentato di Violet Gibson, non significa che “la massoneria” abbia organizzato gli attentati al Duce (13). Con la recrudescenza delle manifestazioni ostili della polizia nei confronti dei Massoni, molti “fratelli” riparano all’estero, soprattutto in Francia, dove è ancora vivo il ricordo dell’opera del GOI in favore dell’entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa. Sospettato di aver contatti con i fuoriusciti, a loro volta sospettati di “tramare” contro il Regime, Torrigiani viene inviato al confino a Lipari, e lascia la reggenza della Gran Maestranza al Gran Maestro Aggiunto Giuseppe Meoni. Ma all’estero è già riparato Giuseppe Leti, gran segretario cancelliere del Supremo consiglio del Rito Scozzese Antico e Accettato all’interno del GOI. A Parigi, dove morirà nel 1939, riorganizza le fila del GOI tramite i massoni fuoriusciti e tende all’ingresso della Massoneria come Istituzione nella “Concentrazione di azione antifascista” promossa dal “Fratello” Alceste De Ambris (14).

Le funzioni del GOI in quel periodo sono svolte, però, dalle logge argentine (la balaustra del 1925 aveva sciolto solo le logge italiane, non le logge del GOI operanti all’estero), coordinate da Alessandro Tedeschi. La riorganizzazione “ufficiale” del GOI in esilio avviene a Londra nel 1930, eleggendo secondo Gran Maestro Aggiunto Eugenio Chiesa ed affidandogli la “reggenza” dell’Ordine (il Gran Maestro restava ancora Torrigiani). Alla morte di Chiesa, la “reggenza” è affidata al socialista napoletano Arturo Labriola. Non c’è dubbio che il GOI in esilio si attivi nel tentativo velleitario di rovesciare il regime, con la suddetta “Concentrazione”, e con “Giustizia e Libertà”, formazione fondata da Carlo Rosselli nel 1929 (15), nella quale si scioglierà nel 1934 la “Concentrazione” (16), ma all’interno di tali formazioni, deve scontrarsi con la diffidenza degli altri fuorusciti, che temono una sorta di opera “anestetizzante” dei massoni nei confronti della lotta antifascista (17). Quel che più conta, è che tale azione si perde già nel fallimento di tutto il fuoriuscitismo, tanto è vero che nel 1936 i comunisti, che vedono al suo apice il successo popolare del Fascismo, lanciano un appello alla conciliazione ai “Fratelli in camicia nera” (18), dicendo: «Solo la unione fraterna del popolo italiano, raggiunta attraverso alla riconciliazione tra fascisti e non fascisti, potrà abbattere la potenza dei pescicani nel nostro paese e potrà strappare le promesse che per molti anni sono state fatte alle masse popolari e che non sono state mantenute … I comunisti fanno proprio il programma fascista del 1919, che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori … Noi proclamiamo che siamo disposti a combattere assieme a voi.». Non solo, ma le logge europee, durante il convegno internazionale del rito scozzese del 1937, riconoscono che Mussolini in Italia e Hitler in Germania hanno il consenso della popolazione, onde si esclude che la Massoneria come istituzione possa impegnarsi in una lotta contro i suddetti totalitarismi (19).

Ma il GOI deve scontrarsi con un’altra difficoltà, tutta interna all’Istituzione. Le fratellanze non riconoscono l’attività massonica del GOI all’estero. Accolti individualmente come “fratelli”, non lo sono come “organizzazione”: la loro attività all’estero in quanto logge italiane contrasta con il principio della Massoneria Universale sulla territorialità dell’organizzazione, principio per il quale un Ordine non può operare nel territorio in cui è presente un’altra fratellanza (20). Nel solstizio d’Estate del 1937, il GOI cerca di trovare un rimedio a questa situazione, onde Alessandro Tedeschi, divenuto Gran Maestro del GOI nel 1931, convoca presso il suo domicilio le fratellanze di Portogallo e Germania in esilio (21) al fine di unire «… le massonerie perseguitate che non hanno trovato in quelle non perseguitate una solidarietà efficace» (22), onde viene fondata quella che viene definita una “intesa cordiale”, a cui viene dato il nome di “Alliance des Francs-maçonneries persecutées” (23). Letteralmente nulla l’attività “esterna” di questa “Alleanza”. Last, butnotleast, il silenzio totale della Massoneria sull’introduzione, nel 1938, delle leggi razziali da parte del regime fascista, silenzio che, in realtà, è di tutto l’universo antifascista in Patria, e che vede poche voci di protesta tra i fuorusciti (24). Tirando le fila del discorso, e considerando:
1. la irrilevante o nulla incidenza dei fuorusciti sulla stabilità del Regime;
2. la irrilevanza della presenza del GOI nelle organizzazioni antifasciste all’estero;
3. la irrilevanza del GOI in esilio nell’ambito della Massoneria internazionale, appaiono del tutto sproporzionate sia le ossessioni fasciste per le “logge” viste perennemente sul piede di una guerra aperta all’Italia fascista (25), sia le rivendicazioni massoniche di grandi meriti nella lotta antifascista tra il 1927 ed il 1939 (26).

Note:
1 - Mola 2018, p. 643;
2 - Pubblicata in «Rivista massonica», I (nuova serie), 11-12, 1966, pp. 225-28;
3 - L’illustre storico è il redattore della relazione finale dei lavori della Commissione dei quindici (presieduta da Giovanni Gentile) su “Le origini e l’opera della Massoneria”, che accompagna la presentazione del disegno di legge;
4 - Questo e gli altri interventi citati, sono tratti dagli atti Parlamentari della Camera dei Deputati – XXVII legislatura del Regno - 1asessione - discussioni - tornata del 16 maggio 1925;
5 - Tra i primi a seguire Mussolini dopo l’uscita dal Partito Socialista, ed eletto nelle file fasciste alle elezioni, ed espulso subito dopodal PNF, dichiara di parlare da “oppositore” (sarà dichiarato decaduto dalla carica parlamentare nel 1926);
6 - op. cit., pos. Kindle 8364-8365;
7 - L’operazione è ancor più evidente nella trasmissione televisiva “La storia siamo noi”, andata in onda su Rai3 il 13 luglio 2018, in cui la frase suddetta viene isolata dal contesto inquadrando gli atti parlamentari, ma mettendo in luce solo quella, “oscurando” il resto;
8 - Isastia, “Massoneria e fascismo: la grande repressione”, cit., pos. Kindle 3267-3269
9 - È da notare che tutti gli interventi, anche quelli contrari alla legge, danno per scontata l’occupazione della burocrazia da parte della massoneria, cfr. supra;
10 - Mola 2018, pp. 649 ss. Logicamente, non seguiamo i “pettegolezzi” sparsi qua e là su questa figura, di cui – semplicemente – si perdono le tracce nel 1929. Riapparirà dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, come vedremo. Sull’appartenenza di Costanzo Ciano alla Massoneria e sulla sua obbedienza alla sanzione di incompatibilità, cfr. Eugenio Di Rienzo, “Ciano”, Salerno Editrice, Roma 2018, pos. Kindle 535;
11 - Arturo Reghini fu un grande esoterista, oltre che illustre matematico, fondatore del gruppo esoterico “I Pitagorici”, comunque attivo durante il Regime. Collaboratore nella rivista Ur con Julius Evola, dopo i dissidi con quest’ultimo, rifondò con Giulio Parise l’altra rivista esoterica “Ignis” (già pubblicata da Reghini un decennio prima). Sospettato di aver mantenuto i rapporti con la massoneria, apparentemente cessò ogni attività esoterica, dedicandosi all’insegnamento ed alla pubblicistica, ottenendo anche riconoscimenti ufficiali dal Regime. Ma dalla prefazione del suddetto Parise al libro di Reghini “Considerazioni sul rituale dell'apprendista libero muratore”, si apprende che egli non cessò mai gli studi esoterici. Sul presunto progetto di Reghini di una massoneria “parallela”, che condizioni il Fascismo dall’interno, al fine di intraprendere una strada “pagana”, sulle segnalazioni poliziesche ed il conseguente accantonamento del progetto, cfr. Fedele, “La massoneria sotto il fascismo tra esilio e clandestinità: la questione Torrigiani” in AA.VV., “La massoneria italiana da Giolitti a Mussolini: Il gran maestro Domizio Torrigiani”, cit., pos. Kindle 1852
12 - Baigent, Leigh, op. cit., p. 194;
13 - La formazione ideale di chi scrive porterebbe ad interpretare il rapporto fascismo – massoneria sotto un’altra luce, metastorica, ma si è deciso di dare al presente lavoro un “taglio” rigorosamente storicistico, per cui si rimanda, per altri piani, alla pregevole raccolta “Esoterismo e fascismo: storia, interpretazioni, documenti”, a cura di Gianfranco De Turris – Edizioni Mediterranee, Roma 2006;
14 - Mola 2018, pp. 836 ss;
15 - ci sono circoli massonici lombardi dietro il tentativo insurrezionale sventato dalla polizia nell’ottobre 1930 con l’arresto dei “cospiratori”;
16 - Mario Giovana, “Giustizia e libertà in Italia: storia di una cospirazione antifascista, 1929-1937”, Bollati Boringhieri, Torino 2005;
17 - ibidem, p. 128;
18 - Leonardo Pompeo D’Alessandro, “‘Per la salvezza dell'Italia’. I comunisti italiani, il problema del Fronte popolare e l’appello ai ‘Fratelli in camicia nera’”, in Studi storici, a. LIV, n. 4, ottobre-dicembre 2013, pp. 951-987;
19 - Pierre Chevallier, Histoire de la Franc-Maçonnerie française, La Maçonnerie, Eglise de la République (1877-1944), Librairie Athène Fayard, Paris 1975, p. 123 ;
20 - Mola 2018, pp. 580 ss;
21 - La massoneria è fuori legge in Germania ed in Portogallo dal 1935;
22 - Mola 2018, ibidem;
23 - Fedele, “La massoneria italiana nell'esilio e nella clandestinità 1927-1939”, Franco Angeli, Milano 2005, pp. 168 ss.; id.: “La massoneria sotto il fascismo tra esilio e clandestinità: la questione Torrigiani”, cit.;
24 - Vittorio Foa, “Questo Novecento”, Einaudi, Torino 1996, p. 151;
25 - Per tutti, il discorso di Torino del 23 ottobre 1932: «Eppure, oltre le frontiere, ci sono dei farneticanti, i quali non perdonano all'Italia fascista di essere in piedi. Per questi residui e residuati di tutte le logge, è veramente uno scandalo inaudito che ci sia l'Italia fascista, perché essa rappresenta una irrisione documentata ai loro principii, che il tempo ha superato. Essi hanno inventato il popolo, non già per andargli incontro alla nostra franca maniera; ma lo hanno inventato per mistificarlo, per dargli dei bisogni immaginari e dei diritti illusorii. Costoro non sarebbero alieni dal considerare quella che si potrebbe chiamare una guerra di dottrina tra principii opposti, poiché nessuno è nemico peggiore della pace di colui che fa di professione il panciafichista o il pacifondaio. Ebbene, se questa ipotesi dovesse verificarsi, la partita è decisa sin dall'inizio, poiché, tra i principii che sorgono e si affermano e i principii che declinano, la vittoria è per i primi, è per noi!». Le parole di Mussolini sono influenzate dai rapporti dell’OVRA (il servizio segreto), che attribuiscono a “trame massoniche” qualunque operazione antiregime che venga scoperta in Italia – cfr. Mario Giovana, op. cit., p. 124;
26 - cfr. Fedeli, op. cit.

(continua…)

Luigi Morrone per la Redazione di Ereticamente

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Il culto apollineo ed il mistero solstiziale – Stefano Mayorca

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Il Sole immortale nasce, feconda e dissipa il buio. La sua forza vitale conferisce rigenerazione e rinascita. Il simbolismo dei solstizi si fonde con i miti solari e stranamente non coincide con il carattere generale delle stagioni corrispondenti. Anche in questo caso sono presenti all’interno di queste manifestazioni due aspetti opposti: luminoso e oscuro. Il solstizio d’inverno, infatti, apre la fase ascendente del ciclo annuale, il solstizio d’estate, invece, quella discendente. Di qui il simbolismo greco-latino delle porte solstiziali, rappresentato dalle due facce di Giano e successivamente dai due San Giovanni, invernale ed estivo. Appare chiaro, da questo punto di vista, che la porta invernale introduce alla fase luminosa del ciclo e la porta estiva alla fase oscura. Non bisogna sottovalutare a riguardo, che la nascita di Cristo si determina nel solstizio d’inverno e quella del Battista durante il solstizio d’estate, come recita la formula evangelica: “Bisogna che egli cresca e io decada” (Giovanni, 3, 30).

Nella simbolica cinese il solstizio d’estate corrisponde al trigramma Li, al fuoco, al Sole, alla testa. Il solstizio d’inverno, viceversa, è legato al trigramma K’an, all’acqua, all’abisso, ai piedi. Il primo è l’origine della decadenza del principio Yang, il secondo l’origine della sua crescita. Nell’alchimia interna la corrente di energia sale da K’an a Li, discende da Li a K’an.

In altri ambiti, il solstizio d’inverno è connesso con il regno dei morti e segna la loro rinascita. L’Oltretomba in questo caso è associato alla gestazione, al parto, allude al tempo favorevole per il concepimento. In modo analogo, nella tradizione indù, il solstizio invernale apre la devàyana, la via degli dèi, e il solstizio estivo la pitri-yana, la via degli antenati, corrispondenti alle porte degli dèi e degli uomini del simbolismo pitagorico.

Anche nell’iconografia cristiana il solstizio incorpora interessanti funzioni. Il solstizio d’estate (24 giugno) segna l’apogeo del corso solare: il Sole è allo Zenith, nel punto più alto del cielo. Questo giorno è stato scelto per celebrare la festa del Sole. Poiché il Cristo è paragonato al Sole, viene rappresentato dal Cancro solstiziale. Di qui deriva tutto il simbolismo del Cristo governatore del tempo.

Tutte queste considerazioni si raccordano al mito di Apollo, e interagiscono con il simbolismo espresso dal Santuario di Delfo e della Sibilla. Apollo, è da considerarsi uno degli dèi più importanti dell’Olimpo greco, quasi quanto lo stesso Zeus. Il mito di questo dio solare è intimamente legato a quello di Artemide, la quale nonostante le differenze costituite dal sesso mostrava un carattere parallelo al suo. Si narra nella leggenda che Apollo e Artemide per una metà dell’anno si ritirassero nel favoloso e remoto paese degli Iperborei (la cosiddetta apodemia o migrazione), dove abitava un popolo sacro che non conosceva né malattia né vecchiaia, né fatiche né lotte. Da questo luogo incantato, sul suo carro tirato da cigni, Apollo ritornava a Delfo, in concomitanza con la stagione degli usignoli, delle rondini e delle cicale. Nella spiegazione di questo mito rinveniamo la ciclicità che sottende al ritorno e al passare dell’estate, ponendo in rilievo quel senso di “lontananza”, propria ad Apollo.

Il dio di luce incarna l’autocontrollo, l’autoconoscenza, l’equilibrio interno e la misura (“Conosci te stesso”). E’ dunque colui che concede la purificazione, l’espiazione che segue al male perpetrato volontariamente o involontariamente. Egli è il dio risanatore e guaritore, che cura tanto le malattie di ordine fisico, quanto gli squilibri interiori e i disordini psichici.

Stefano Mayorca

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Solzhenitsyn profeta della verità – Roberto Pecchioli

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Mancano pochi giorni alla fine del 2018, l’anno dei centenari. Un secolo fa finiva il massacro della prima guerra mondiale che concluse la secolare storia degli imperi europei, inaugurò l’egemonia americana e il tramonto dell’Europa. Nello stesso anno terminò nel sangue la vicenda umana della monarchia zarista, con l’uccisione dello zar Nicola II Romanov e dei suoi familiari a Ekaterinenburg e si consolidò la rivoluzione bolscevica in Russia. Nel 1918 veniva alla luce a Kislovodsk, cittadina della Russia europea meridionale alle pendici del Caucaso, Aleksandr Solzhenitsyn, il grande scrittore premio Nobel, autore di Arcipelago Gulag, drammatica opera di denuncia della repressione nel sistema comunista sovietico.

In questo tempo immemore, l’Italia ufficiale ha pressoché cancellato la memoria dei tre anni e mezzo di guerra di trincea, la disfatta di Caporetto dell’autunno 1917 e la successiva vittoria del novembre 1918. Poco ricordata è anche la gigantesca figura di Solzhenitsyn, testimone della storia, potente scrittore e autentico profeta della verità. Le università milanesi, Cattolica e Statale, hanno meritoriamente dedicato al grande uomo di cultura due convegni di studio nel novembre scorso, nel decennale della morte, avvenuta a Mosca, dove era tornato dopo la “riabilitazione” nel 1994. Il grande storico francese François Furet disse, in occasione della pubblicazione di Arcipelago Gulag, che il mondo non sarebbe stato più lo stesso: avremmo vissuto un prima e un dopo Solzhenitsyn.

Ci piace ricordare una frase tratta da Una giornata di Ivan Denisovic, il suo primo importante racconto dell’universo concentrazionario sovietico. Un detenuto si rivolge così a un pezzo grosso del partito: ad un uomo a cui avete tolto tutto, non potete togliere più niente: è di nuovo libero. Letteratura e verità. E’ impossibile separare i due elementi nell’opera e nella biografia del grande russo, maestro di intensa spiritualità, intransigente anticomunista ma altrettanto fermo oppositore della deriva relativistica del liberalismo occidentale, che attaccò nel famoso discorso all’università di Harvard del giugno 1974, dopo quattro anni vissuti tra i monti del Vermont, a pochi mesi dalla travagliata uscita in Francia di Arcipelago Gulag.

Oltre l’inferno comunista, al di là della descrizione dei Gulag, la straordinaria lezione di Solzhenitsyn resta quella di un profeta che si è addentrato nelle più assolute profondità ed è uscito dal ventre del mostro per testimoniare la dignità dell’essere umano unitamente alla difficoltà di custodirla. Riuscì a fondersi, attraverso la scrittura, con l’anima profonda del suo popolo, ed è nella sua ampia letteratura che ne comprendiamo l’elevata statura di profeta di verità, più che mai necessario nel nostro secolo che ha dimenticato Dio. Solzhenitsyn è stato l’ultimo vero grande del secolo passato.

Al di là di Arcipelago Gulag, Solzhenitsyn teneva particolarmente alla sua ultima, monumentale opera, la tetralogia intitolata La ruota rossa, migliaia di pagine di riflessione storica, filosofica e morale in forma di romanzo sugli eventi che, dall’inizio della prima guerra mondiale portarono alla rivoluzione bolscevica. Il primo volume, Agosto 1914, pubblicato nel 1972, dallo stile nervoso, quasi cinematografico, visivo e documentale, contiene un passo assai significativo dell’universo morale dello scrittore. Un giovane intenzionato a presentarsi volontario per la guerra contro la Germania raggiunge Jasnaia Poliana, la residenza di Lev Tolstoj. Il suo desiderio è chiedere al grande romanziere quale sia il fine dell’uomo sulla terra. La risposta è netta: “Servire il bene. E solo così creare il regno di Dio in terra.” Con l’ amore? insiste il ragazzo. Sì, solo con l’amore, conferma il vecchio.

Anni dopo, nelle sue Memorie, Solzhenitsyn rivelò di avere spedito un manoscritto microfilmato di Agosto 1914 alla figlia di Tolstoj, Alexandra, negli Stati Uniti, nascosto nel dorso di un libro. Non conosceva nessuno in Occidente, ma era certo che la figlia dell’autore di Guerra e Pace e Anna Karenina lo avrebbe aiutato. Il filo della continuità spezzata del popolo russo, la sua antica energia morale diffusa dai suoi grandi figli, emerge da questo episodio come nel commovente racconto di intima spiritualità La casa di Matriona. L’io narrante, Ignatic, insegnante di matematica (lo stesso Solzhenitsyn era laureato in matematica) fa ritorno in Russia nel fatidico 1953, anno della morte di Stalin e anche della liberazione dello scrittore dopo otto anni di prigionia, va a vivere nella povera isba di una vecchia sola, Matriona, un po’ strana, di reputazione dubbia, ma buona e religiosa, la personificazione della Russia eterna e santa. Alla sua morte, tutto cambia e l’ultima riflessione con cui si chiude il libro è un grido d’amore e di rimpianto: “le eravamo vissuti tutti accanto e non avevamo compreso che lei era il Giusto senza il quale, come dice il proverbio, non esiste il villaggio. Né la città; né tutta la terra nostra. “

Profeta è colui che conosce e svela la verità in anticipo. Solzhenitsyn fu un testimone di verità con tutta la sua esistenza, le scelte difficili, la schiena mai piegata dinanzi al Male. Dopo l’esilio, con altrettanta intransigenza fu profeta inascoltato della decadenza dell’Occidente, il mondo orgoglioso ma in frantumi che l’aveva accolto senza capirlo, preso dalle idee alla moda, dalla negazione di Dio, dalla futile “tendenza a prosternarsi davanti all’uomo e ai suoi bisogni materiali”, immerso nella dittatura dell’individuo in un clima di ingiustificata euforia al quale dedicò una riflessione fulminante: tanta allegria, e perché poi?

Solzhenitsyn fu anche uno straordinario profeta della volontà. Trascorse anni con l’idea fissa di scrivere, senza riposo, in ogni luogo possibile, durante le marce, nel campo di prigionia, ai lavori forzati, memorizzando tutto e bruciando qualunque traccia di scrittura per sottrarla agli aguzzini. Bisogna immaginare quest’uomo che scrive nelle condizioni più estreme e con i mezzi che riusciva a procurarsi, per dare testimonianza dell’inferno che stava vivendo. Da questo impegno nacquero Una giornata di Ivan Denisovic, di cui Kruscev, successore di Stalin, dopo mille esitazioni consentì la pubblicazione e poi il monumentale Arcipelago Gulag, una vera e propria bomba contro il regime comunista. La parola stessa, gulag, acronimo per Direzione principale dei campi di lavoro correttivi, entrò nel vocabolario comune. Nell’affresco della Ruota Rossa restano memorabili il monologo di Lenin in Aprile 17, preceduto dal ritratto del capo rivoluzionario, mentre la figura di Stalin è descritta in modo indimenticabile nel romanzo Il primo cerchio.

L’amore di Solzhenitsyn per la patria fu straordinario. Non volle andare a Stoccolma per ritirare il premio Nobel, nel 1970, per il timore di non poter rientrare. Una delle riflessioni più importanti della sua opera fu l’analisi dello straordinario alone positivo di cui era circondato il comunismo in Occidente nonostante l’evidenza. La sua conclusione è illuminante: uguali sono le radici profonde dell’umanesimo secolare e del comunismo, identico il materialismo, parallela la carica irreligiosa e la pretesa di costruire il paradiso in terra.

La storia di Arcipelago Gulag è essa stessa un romanzo. L’autore ci lavorò per almeno cinque anni durante giornate interminabili, richiamando alla memoria quanto annotato negli anni di prigionia, nascondendo il materiale sempre in posti diversi, come diversi furono i luoghi dove scrisse. Nelle sue memorie rivela: “devo chiarire che le diverse parti del libro non sono mai state sul medesimo scrittoio nello stesso tempo”. Duramente provato dalla repressione, fu al punto di abbandonare l’impresa, ma i documenti che gli pervenivano clandestinamente da altri oppositori lo persuasero a resistere. Arcipelago è in effetti la testimonianza individuale e collettiva di ben 227 prigionieri, gli zeks nel linguaggio carcerario.

Alla fine, il libro fu pubblicato a Parigi alla fine del 1972, seguito in patria da una lettera aperta ai dirigenti sovietici in cui Solzhenitsyn invitava il regime ad abbandonare l’ideologia marxista leninista. Lo scandalo fu immenso, lo scrittore fu arrestato alla Lubianka e poi deportato in Germania con la famiglia. Un nobile contributo di verità fu la sua convinzione che in ogni angolo del mondo l’uomo un giorno può vedersi ridotto alla perdita della coscienza e alla completa sottomissione. E’ solo per caso, talvolta, se si è vittime e non carnefici, e questo è uno dei temi dei tre intensi saggi dal titolo Rivoluzione e menzogna, in cui il grande profeta della verità, il dissidente “spirituale” attinse straordinarie vette morali. Vivere senza menzogna, il primo dei tre, uscì lo stesso giorno della sua espulsione dall’URSS. Per combattere il totalitarismo, l’unica arma vincente è la verità. E se non si è capaci di dire il vero per timore del carcere e delle conseguenze, aggiunge, si deve quanto meno evitare che dalle nostre labbra escano menzogne.

Si tratta di una delle massime apologie della verità dell’intera letteratura. I dirigenti totalitari esigono che ci incorporiamo al loro mondo di falsità, sino a difendere con entusiasmo la bugia “ufficiale”. Temono un’unica cosa, che noi non lo facciamo, poiché “quando l’uomo volta le spalle alla menzogna, questa smette immediatamente di esistere”. La chiave della nostra liberazione è “il rifiuto di partecipare personalmente alla menzogna”. Agli uomini non animati dallo stesso suo coraggio rivolge una preghiera: “se non ci arrischiamo a dire quel che pensiamo, almeno non diciamo ciò che non pensiamo”.

Nell’ultimo dei tre saggi, scritti in America all’inizio degli anni Ottanta, Due rivoluzioni, Solzhenitsyn cercò di stabilire similitudini e differenze tra due grandi eventi che hanno cambiato il mondo, la rivoluzione francese e quella russa. Entrambe ebbero un nucleo moderato, i girondini in Francia e i il partito dei cadetti in Russia, e un gruppo terrorista, i giacobini e i bolscevichi. Tutte e due, a un certo momento, virarono a sinistra e finì per imporsi il terrore. In entrambe venne cambiato il calendario, si perseguitò la chiesa e si demonizzarono i cristiani. Soprattutto, la comune arma rivoluzionaria fu la pratica della falsità. Bugie tanto persistenti da rendere ciechi milioni di europei e di occidentali nel giudizio sull’ideologia marxista leninista. L’unica via attraverso la quale si può sfuggire alle pretese totalitarie è vivere senza mentire. Questa è la grande lezione di Solzhenitsyn, più potente e sofferta della testimonianza di un Orwell, adesso ancora più attuale dinanzi alla menzogna neoliberista e all’imposizione dello schema mentale autocensorio del politicamente corretto, totalitarismo light dell’occidente terminale.

La grandezza di Arcipelago Gulag risiede altresì nell’aver reso evidente che la violenza repressiva era l’essenza del comunismo. Troppi inferni edifica l’uomo quando pretende di costruire paradisi ideologici. Una vittima innocente del libro fu Elizaveta Voronskaya, la dattilografa che copiò molte opere di Solzhenitsyn. Arrestata e torturata, crollò e rivelò dove era nascosta una copia del libro. Liberata, la poveretta si suicidò. Subito dopo, Solzhenitsyn diede via libera alla pubblicazione di Arcipelago in Occidente, il cui testo era avventurosamente pervenuto microfilmato in Svizzera.

Lo scandalo fu enorme in Russia, l’ira del Cremlino provocò una riunione straordinaria del Politburo del partito. La Pravda (che significa verità!), organo del regime, definì il libro calunnioso, frutto di una mente malata, pieno di “ciniche falsificazioni inventate per servire le forze della reazione imperialista”. Un perfetto esercizio di bispensiero orwelliano, la deliberata inversione della verità, una prova in più della natura disgustosa e totalitaria del comunismo. Accusato di tradimento, lo scrittore fu arrestato, privato della cittadinanza ed espulso. Non lo uccisero come sarebbe accaduto negli anni di Stalin per timore dello scandalo internazionale, ma il suo lavoro era compiuto, con l’enorme prezzo personale pagato sin dal 1945, anno del suo primo arresto, accusato di aver parlato male dei dirigenti del PCUS.

Arcipelago Gulag fece scoprire al mondo, o almeno a chi ebbe occhi e dignità per vedere, non tanto i dettagli del sistema concentrazionario, non solo la sofferenza di milioni di esseri umani (secondo la storica Anne Applebaum passarono per i campi di prigionia diciotto milioni di persone dal 1921 agli anni 70) ma la sua ragione di essere, l’ideologia marxista leninista. Ci furono altre testimonianze, come quella di un libro collettivo degli anni 50, Il Dio che ha fallito, ma sempre l’autodifesa comunista fu di attribuire alla persona di Stalin le malefatte che al contrario iniziarono con Lenin ed erano la sostanza stessa del sistema. Morte e origine del terrore era l’ideologia, non un singolo dirigente malvagio e sanguinario, eppure non si riusciva a scalfire il prestigio del comunismo presso uomini di cultura e leader di opinione.

Significativo fu un viaggio in Spagna di Solzhenitsyn nel 1976, l’anno successivo alla morte di Franco. Preso atto che nel paese si poteva leggere la stampa internazionale, risiedere ed emigrare liberamente, fotocopiare senza restrizioni ogni testo, lo stupore del russo a sentir paragonare la morente dittatura iberica all’Unione Sovietica suscitò attacchi violentissimi. Uno scrittore spagnolo, Juan Benet, comunista radical chic affermò: “finché ci saranno persone come Aleksandr Solzhenitsyn, i campi di concentramento esisteranno e devono sussistere. Magari dovrebbero essere sorvegliati meglio, affinché quelli come lui non ne possano uscire”. Fosca, rivoltante sincerità rossa.

Se l’opera di S. è gigantesca sul piano morale, profetica nella costante affermazione della verità, importante è anche la suggestione letteraria dei suoi scritti e racconti, tra i quali, oltre alla citata Casa di Matriona, va ricordato Padiglione Cancro, la storia di un gruppo di pazienti oncologici in un ospedale dell’Asia centrale. Parzialmente autobiografico, poiché S. si ammalò davvero di tumore negli anni di prigionia, è un ritratto di chi si era adattato al regime o ne aveva beneficiato, un’esplorazione della responsabilità morale delle generazioni che non mossero un dito nei tempi delle “purghe”, degli assassini di massa e delle deportazioni.

La figura di Solzhenitsyn non è mai stata amata in Occidente; anticomunista, credente cristiano, nemico del materialismo liberale, non gli fu perdonato, dopo Harvard, di essere stato profeta del nostro disfacimento morale. La verità fa male, specie al fragile uomo del tramonto, spiritualmente già morto. “Se l’uomo fosse nato, come sostiene l’umanesimo, solo per la felicità, non sarebbe nato anche per la morte”. La speranza di rinascimento spirituale ha un’unica via, “andare più in alto “. Parole indigeste per il materialismo consumista, fratello del collettivismo, simili a quelle di un altro grande esule russo, il filosofo Nikolay Berdjaev, secondo cui il senso dell’agire morale “non è ostacolare il movimento in alto o in avanti, ma nel contrastare il moto all’indietro e verso il basso, il buio caotico, il ritorno allo stato barbarico”. Parole che riguardano l’opposizione al comunismo tanto quanto la regressione neoliberale, consumista e transumana.

Non si può rendere omaggio al grande profeta di verità che fu Aleksandr Solzhenitsyn senza unirlo nella memoria a un’altra limpida figura di intellettuale e uomo di fede russo, il matematico, filosofo della scienza e sacerdote ortodosso Pavel Florenskij, fucilato dal regime comunista nel 1937. Convertito al cristianesimo dopo la lettura della Confessione di Tolstoj, fu uno straordinario scienziato e pensatore, che ha lasciato testi come La colonna e il fondamento della verità e le lettere dalla prigionia dal titolo Non dimenticatemi. Testimone e profeta di verità quanto Solzhenitsyn, un suo brano è il suggello dell’orma che la migliore cultura russa del Novecento lascia a noi posteri incerti malati di nichilismo. “Tutto passa, ma tutto rimane. Questa è la mia sensazione più profonda: che niente si perde completamente, niente svanisce, ma si conserva in qualche modo e da qualche parte. Ciò che ha valore rimane, anche se noi cessiamo di percepirlo.”

Roberto PECCHIOLI

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Il Sauro Bardato e la Tradizione Arcana di Marte – Julianus ©

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Dalle ceneri del tempo e della storia, dopo le raffigurazioni parietali di Leda, la regina spartana ingravidata dal cigno apollineo, dopo un nuovo ed enigmatico affresco del culto ermetico dei Lari, dopo il braccio di Athena armata a Paestum, ancora e sempre a Pompei, nell’area dell’arcaica sapienza romana, pitagorica e nilense, in una lussuosa residenza, sulla stesso livello della celebre “Villa dei Misteri”, ancora tutta da investigare, nei giorni scorsi gli archeologi hanno riportato alla luce un Sauro Bardato di un importante magistrato militare. Ornato da una sella di legno e bronzo e con il muso decorato con preziosi e ricchi finimenti, il cavallo del comandante militare era ancora sito nella stalla all’arrivo della nube piroclastica, che determinò la sua morte insieme con il suo prode padrone. Gli scavi in quel sito archeologico, come testimonia Massimo Osanna, responsabile dell’area archeologica pompeiana, furono iniziati ai primi del ‘900 e poi fu tutto interrotto e riposto nuovamente sottoterra: una villa, come riporta sempre l’archeologo che “era di grandissimo pregio, con ambienti riccamente affrescati e arredati, sontuose terrazze digradanti che affacciavano sul golfo di Napoli e Capri, oltre a un efficiente quartiere di servizio, con l'aia, i magazzini per l'olio e per il vino, e ampi terreni fittamente coltivati”. Qui termina il resoconto giornalistico, ma è tutto, solo, un mero dato di cronaca oppure tutti questi ritrovamenti sono i segni di una nuova epifania del Sacro? E, nel caso, che collegamento hanno tra di loro? Che natura altra possono avere taluni ritrovamenti?

Per noi è la provata evidenza che un deposito sapienziale sia ancora a disposizione di chi all’Athena armata sappia ancora votarsi, di chi il Bardo, simbolo della Forza uranica di Marte, possa e sappia ancora cavalcare e condurre verso le vette pimandrie degli Elisi: la dimensione sottile della Luna è legata all’umida emozionalità del cavallo, bardato perché purificato, magistralmente “preparato”, come a Mercurio è legato il pensiero del Comandante che lo dirige, come, infine, a Helios - Apollo è ricollegabile l’Io Assoluto che incarna sino alla fine il lungo tragitto da compiere, cioè la Vittoria.

Nell’arcana dimora di Marte, infatti, la forza primigenia è costituita dalla potenza che non va respinta ma re-indirizzata, governata, cavalcata, divenendo agente unico, con la parte intellettuale e con quella senziente, che ascende la scala degli stati dell’essere tramite l’amore unitivo, con Venere Victrix, che, trasmutati, si dirigono in una medesima direzione, lo status spirituale ultracosmico e non-manifestativo, ove è perenne la Divina Realtà Intelligibile, cioè Padre Giove.

L’ignificazione mercuriale e della potenza solare arietina, secondo le pratiche della Tradizione Nostra e Romana, è connessa alla costituzione dell’Animo Vegliante, cioè desto, conscio di se stesso, tanto dei limiti quanto delle proprie capacità realizzative: quella libertà di coscienza insita alla dimensione esoterica della Cavalleria, che è stabilità, che è permanenza sottile e di pensiero, secondo l’insegnamento magico di Cornelio Agrippa, per cui l’ “anima stabile e non caduca” è principio irrinunciabile dell’Opus Magicum.

Risorge dalle ceneri l’immagine gloriosa di un popolo che con la sua Potenza, con i suoi riti, con il suo Ius seppe condizionare, comandare e ordinare il Fas degli Dei, la loro volontà, cioè Roma e la sua “eterna presenza eroica” ed il Nume che ne detiene la chiave d’accesso. Ed a questa eroicità, scevra da ogni formalismo neopagano e neospiritualista, che fu comune nell’antichità anche alla Grecia Dorica ed a tutta l’ecumene indoeuropea, che bisogna modellare il proprio modus vivendi, rifacendosi ai “isti sunt potentes a saeculo viri famosi”, riscoprendo quella Sapienza, che unicamente promana da una pratica misterica che nei millenni si è perpetuata alle falde di quel Vesuvio che occultò Pompei alla vista della storia e degli uomini, ma non dello Spirito.

La megalopsichìa per i Greci e la magnanimitas per i Romani, cioè la rispettabilità civile e la personale grandezza d’animo, sono i presupposti irrinunciabili di ciò che si realizza quasi come un fine da raggiungere, cioè uno status tanto ontologico quanto pubblico, lo spirito incorrotto delle origini, la sua forza vitale, la manifestazione del Genius, che si incarna nel mondo greco-romano, quale nobiltà solare, di dirittura spirituale e guerriera, di primordiale superiorità. L’affermazione del Vir Magnanimus è la ripresa autentica, iniziatica, del Mos dei Majores, dei Maggiori, di coloro che noeticamente si differenziano ed al Popolo si votano, alla sua Salute, al suo benessere, come nel caso del Sauro Bardato e del suo Generale, alla sua salvezza dalla furia di Vulcano, che non annienta col suo fuoco ctonio, ma riconduce alle ceneri, all’essenzialità. Per ceneri, se consideriamo il suddetto Vaso di Trasmutazione, sono da intendersi le scorie dei vari processi di macerazione sottile, in cui i continui lavacri ed un calibrato utilizzo del fornello consentono l'estrazione del Solfo dalla Terra, che diviene Spirito volatile a cui, però, non è concesso di evadere dall'Athanor, perchè nello stesso la Pietra diviene levigata tramite l'intero suo corpo, attraverso la sua completa purificazione, ma riuscendo a trasmutare interamente l'aggregato di partenza, sublimandolo.

Come nella soluzione è da ricavare il soluto ed il solvente, così nell’azione delle genialità legate al Dio Marte sono da rintracciare le peculiarità cavalleresche, nella conversione del ferro e della conseguente ruggine, maturate dal furor e dalla forza virile, che il Bardo simboleggia, tramite il processo alchimico che gli antichi alchimisti alessandrini denominavano Iosi, cioè l’esplicitazione, tramite separazione eroica, dello stato di virulenza, del metallo rosso cinabro espressione della solarità apollinea e dell’Oro incombustibile dell’Ars Magna.

Fratrie non sono morte e cavalieri non sono domi; l’Arte a sé ha richiamato la Potenza e il Segno richiesto è giunto! Io sono Julianus, sacerdote di Marte, il pellegrino nascosto dalle pesanti coltri del ramingo che bussa alla porta degli Elisi chiedendo udienza ai Numi. Io sono Julianus.

JULIANUS
Fraternitas Mavortis Ultoris

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Intervista al grecista Angelo Tonelli, presidente dell’associazione culturale Arthena – Marco Angella

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(da “Il Porticciolo”, anno XI, n. 4 (dicembre), La Spezia 2018, pp. 105-114)

Angelo Tonelli (nato a Lerici nel 1954), poeta, performer, regista teatrale, è riconosciuto come uno tra i massimi studiosi e traduttori italiani di classici greci. Vanta numerose pubblicazioni. Riportiamo le più importanti. Edizioni di classici: Oracoli caldaici, Coliseum 1993 - Rizzoli 1995 – Bompiani 2016; Eraclito, Dell’Origine, Feltrinelli 1993 e ristampa riveduta 2005; Properzio, Il libro di Cinzia, Marsilio 1993 (4 edizioni); T. S. Eliot, La Terra desolata e Quattro Quartetti, Feltrinelli 1995 (6 edizioni, con ristampa riveduta per il 2005); Seneca, Mondadori 1998; Zosimo di Panopoli, Coliseum 1988, Rizzoli 2004; Empedocle, Origini e Purificazioni, Bompiani 2002. Opere di poesia: Canti del Tempo (vincitore premio Eugenio Montale), Crocetti 1988; Frammenti del perpetuo poema, Campanotto 1998; Poemi dal Golfo degli Dei / Poems from the Gulf of the Gods, Agorà 2003; Canti di apocalisse e d’estasi, con appendice di traduzioni in inglese, tedesco, ungherese, latino (Campanotto 2008, vincitore assoluto Premio Città di Atri; menzione d’onore premio Lorenzo Montano 2009). Pubblicazioni recenti: Sulle tracce della Sapienza (Moretti & Vitali Editore 2009), un libro in cui sintetizza trenta anni di ricerche sulla sapienza presso i Greci, in Oriente, in Jung e in Eliot; il primo volume, Parmenide, Zenone, Melisso, Senofane di Le parole dei Sapienti, in sette volumi per Feltrinelli, sul pensiero dei sapienti greci preplatonici; Sperare l’insperabile. Per una democrazia sapienziale (Armando 2010); l’edizione Bompiani con testo greco a fronte di Tutta la tragedia greca già pubblicato con Marsilio (2011): per la prima volta al mondo un unico curatore, insieme filologo, drammaturgo e poeta, pubblica edizione con testo a fronte, introduzioni, note di tutti e tre i tragici greci; Le lamine d’oro orfiche con Tallone editore (2012); Eleusi, Orfismo. Misteri e tradizione iniziatica greca (Feltrinelli 2015); Seminare il possibile: democrazia e rivoluzione spirituale (AlboVersorio 2015); Guardare negli occhi la Gorgone: piccolo vademecum per attraversare le paure (Agorà editore 2016); Sulla Morte: considerazioni sul possibile Oltre (Le parole editore 2017); La degenerazione della politica e la democrazia smarrita. Una nuova etica per la sopravvivenza della civiltà (Armando Editore 2018). Per la sua opera complessiva ha ricevuto il premio speciale della giuria del Lerici Pea nel settembre 2008. Per il libro Eschilo Sofocle Euripide, tutte le tragedie (Bompiani 2011) ha ricevuto il Premio Speciale Lerici Pea 2011 e il Premio La Spezia-Lunigiana 2011. Lo intervistiamo, per conoscerlo meglio, in occasione del 20° anniversario della sua Presidenza all’Associazione culturale “Arthena”.

 

Quali sono stati i tuoi “maestri”?

Innumerevoli sono i maestri nel corso della vita, dalle persone che già fin da bambini ci insegnano a parlare e camminare, e dunque la madre e il padre e i nonni, a certe figure che, più avanti negli anni, colpiscono la nostra immaginazione magari per un attimo: ricordo sempre un artista un po’ dandy che circolava per Lerici quando avevo sui venti anni, e mi ispirava all’eccentricità creativa, un altro ancora di cui mi colpì lo sguardo luminoso, aperto. Anche il mare può essere maestro, a chi viva sulla costa, con quel senso di libertà e di illimitata apertura di spazi che sono anche gli spazi infiniti della nostra interiorità: “I confini dell’anima, per quanto lontano tu vada, non li scoprirai: così abissalmente si dispiega”, ci dice Eraclito.  Ognuno può essere maestro all’altro in certi tratti della vita, ma il vero Maestro è il nostro Sé profondo, che sa cogliere il tragitto che certe figure indicano, e a cui ci convocano: le stesse figure che per noi sono maestri, per altri, qualora le incontrino, sono poco significative. Fatta questa premessa, se dovessi indicare le persone che maggiormente hanno contribuito alla mia formazione interiore, esistenziale e artistica, oltre a figure di riferimento nella mia formazione psicoanalitica junghiana e a amiche e amici che hanno condiviso e condividono con me la ricerca artistica e sapienziale, partirei da mio padre Francesco, poeta e portatore di poesia, figura molto amata nella nostra terra, che mi ha consentito di respirare da subito l’aria dell’arte e della libertà di pensiero e comportamento e non ha mai ostacolato le mie scelte, anche quando erano rischiose e molto controcorrente, come quella di sospendere gli studi universitari pressoché ultimati quando morì Giorgio Colli, con cui avrei dovuto laurearmi in Filosofia Greca Antica, per dedicarmi alla vita d’arte e di ricerca non condizionata.

Incontrai Colli quando frequentavo l’Università di Pisa, credo nel 1976. Era il Colli più essoterico, quello che aveva appena pubblicato La nascita della filosofia, e stava pubblicando La Sapienza greca. La prima impressione fu di avere incontrato il diavolo. Modi aristocratici, voce un po’ nasale con accento torinese: effetto distanza e arcano. In piena marea marxista e strutturalista introduceva il misticismo, Eleusi, Apollo e Dioniso. Una bestemmia che anticipava i tempi e l’apertura a esperienze sapienziali e mistiche. Colli voleva salvare la ragione purché connessa con il misticismo, io ero più interessato alla dimensione mistico-intuitiva. Nel corso della sua ultima lezione invitò a praticare la filologia come azione editoriale e quindi politica. Dopo che ebbe attraversato lo specchio lo sognai che mi indicava un libro nella biblioteca di Filologia greca di Pisa. Il giorno dopo andai. Presi il volume, lo aprii a caso: Zosimo di Panopoli, sull’acqua divina. Iniziai così il mio primo libro, che terminai 10 anni dopo. Da Colli ereditai la fondamentale intuizione che il mondo visibile è espressione di una immediatezza che ne è costantemente alla radice, e questa intuizione, ulteriormente consolidata da pratiche meditative e approfondimenti personali, rimane tuttora centrale nel mio modo di attraversare la vita.

Altra figura di grande importanza nella mia bildung è stata Madame Diane Ode-Beck Clotty (per tutti, a Lerici, “Diane”) a metà degli anni Ottanta. Di origine svizzera-francese, soggiornò a Lerici, in via Roma 36, a partire dagli anni Sessanta, se non prima, fino al duemila, estasiata dalla bellezza del Golfo, che battezzammo insieme Golfo degli Dei. Figura musaica, univa l’estro dell’artista (scrittrice, pittrice, raffinata cesellatrice di porcellane) a una potente ispirazione mistica e iniziatica. Ci unì questa comune vocazione, e condividemmo per lunghi anni la celebrazione della vita e la ricerca interiore. Diane univa Arte e Vita in una straordinaria sintesi ignea e solare, senza rinnegare Selene-Tanith, la Luna che veglia sulle malinconie e i fantasmi dell’anima. Diane è stata fondamentale soprattutto per la mia poesia e per la coltivazione della vita come via iniziatica. Aggiungerei infine, Achan Sumedho, maestro di meditazione buddhista della tradizione Theravada, che vidi solo per pochi minuti un giorno di trenta e più anni fa, il cui sorriso e la cui aura di sapienza e compassionevolezza mi indicarono anche quella via, insieme con il tragitto iniziatico greco (il misticismo eleusino, eracliteo, parmenideo, empedocleo) come centrale per la mia realizzazione. E il Venerabile Tae Hye Sunim, maestro di meditazione zen, il cui eremo, vicino a Lerici, ho il privilegio di frequentare da oltre venti anni in piena devozione e autonomia spirituale. Soprattutto, infine, Cristo, Buddha e Eraclito. Ma lo ripeto, il vero Maestro è il Sé.

Dal 1998 presiedi l’Associazione Culturale Arthena di Lerici. Ci puoi spiegare perché è nata e come ha operato sul territorio in questi anni?

Arthena è una Libera repubblica delle Arti e delle Lettere, animata dall’ideale di favorire una crescita culturale e soprattutto interiore di chi la frequenta e dei cittadini in generale. Si colloca al di fuori di ideologie e partiti, e è riuscita a resistere a numerosi attacchi istituzionali e non, consolidandosi sempre più come catalizzatore di una rigenerazione artistica, etica e spirituale. L’Associazione, fondata da Mario Tamberi all’inizio degli anni Novanta, è diretta da me a partire dal 1998, e ha sede a Pozzuolo, in una ex scuola elementare, nelle colline sopra San Terenzo di Lerici. Nel corso degli anni abbiamo trasformato un luogo degradato e dimenticato nella sede di raccordo e realizzazione comunale e provinciale di Corsi di formazione di alto livello (tra cui Teatro, Pittura, Restauro, Scrittura creativa, Canto, Pianoforte, Filosofia Greca Antica, Ricerca del Sé); ne abbiamo fatto lo spazio per mostre e azioni performative, a cui hanno dato vita i maggiori pittori, artisti, scultori della zona. Arthena si è avvalsa di numerose collaborazioni con Atenei Universitari italiani, come quello di Pisa e Parma, di cui abbiamo ospitato stagisti e con cui abbiamo organizzato eventi, il Trinity College di Dublino e il College of Charleston della South Carolina. Vi si sono tenuti innumerevoli convegni, dibattiti, spettacoli teatrali, e da qui sono partiti alcuni dei più rilevanti eventi di Poesia nazionali, come la rassegna Altramarea quest’anno alla sua ventitreesima edizione e Argonauti nel Golfo degli Dei, evento rito-mitomodernista (diciannovesima edizione). Argonauti, Altramarea e altre rassegne come Fuochi d’inverno, Synphilosophein, Cafè philosophique e soprattutto, a partire dal 2014, Mythoslogos, vanno a costituire un continuum culturale in espansione. Arthena ha realizzato nel corso degli anni varie pubblicazioni, tra cui gli Atti della Rassegna poetica Altramarea e il volume Per un teatro iniziatico, con fotografie di Ugo Ugolini, disegni di Giuliano Diofili e il copione di circa un decennio di spettacoli con regia e testo di Angelo Tonelli. Il Laboratorio di Poesia ha realizzato un volume, Parole sulla punta dei capelli, che raccoglie gli atti del seminario di poesia da me diretto dal 2000 al 2009, pubblicato dall’editore Giovane Holden di Viareggio. Nel 2013, inoltre, abbiamo pubblicato gli Atti del Convegno Spiritualità etica politica, realizzato a Lerici, che hanno ricevuto il plauso del Presidente della Repubblica. E abbiamo realizzato convegni con lo stesso titolo a Pisa (ottobre 2014) e Genova. Sono stati pubblicati anche, con Agorà Editore, gli Atti del Convegno Il giovane Colli, svoltosi con grande successo nell’inverno 2013, che hanno goduto eco nazionale e internazionale. Continua inoltre la pubblicazione della rivista LibereLuci, con crescente successo e collaboratori prestigiosi.

Di rilievo è a mio avviso l’Archivio della poesia ligure e italiana contemporanea, con oltre mille volumi in gran parte donati dagli autori, a cui si aggiunge dal 2017 l’Archivio Francesco Tonelli con la biblioteca, fotografie, e numerosissimi inediti di mio padre che attendono chi voglia impegnarsi nella loro edizione. L’Arthena nel ventennale della mia Direzione è dunque sempre più una realtà della cultura locale e provinciale e anche nazionale e internazionale, avendo esteso la sua rete di collaborazioni in tutta Italia e in Irlanda, USA, Germania, Ungheria, soprattutto grazie a eventi ormai entrati nella storia della cultura contemporanea come Argonauti e Altramarea, e MythosLogos, che anche quest’anno ha riscosso grande successo, con oltre diecimila spettatori.

Hai effettuato la traduzione di tutti i tragici greci e con la compagnia dell’Arthena porti in scena il teatro greco. Perché è importante, oggi, studiare ed interpretare i classici?

La civiltà contemporanea sta attraversando una crisi ecoantropologica di proporzioni inaudite su scala planetaria. Nel corso della storia si sono seminate, per inconsapevolezza e incapacità di governare le tendenze negative di base – ignoranza, avidità, spirito di prevaricazione –, cause che producono e produrranno effetti negativi che sono sotto gli occhi di tutti. La storia nasce dalle menti degli umani, dal modo in cui progettano e quindi agiscono. La storia come è stata fino a ora è bestemmia alla dignità originaria degli umani, e viviamo in una distopia globale. L’unico modo di porre rimedio a questa crisi, poiché essa nasce da una distorsione nella psiche degli individui e nella psiche collettiva, consiste in un recupero di strumenti di consapevolezza che troviamo nel DNA della nostra cultura, in particolare in Grecia. Qui fiorì la stagione della Sapienza, che circolava segreta nei Misteri di Eleusis, e trovava voce e incarnazione in Eraclito, Parmenide, Empedocle, Platone. A questa fonte, riconoscendo che le sue acque erano le stesse che circolavano nella Sapienza d’Oriente, in Egitto, nello sciamanesimo eurasiatico, possiamo e dobbiamo attingere per compensare l’unilateralizzazione tecnorazionalistica della psiche collettiva, che ha smarrito il senso dell’appartenenza dell’individuo all’ Uno-Tutto, e quindi della sua responsabilità nei confronti della pólis. Come la Sapienza – forgiata a Eleusi o in esperienze iniziatiche più o meno collettive – di Eraclito, Parmenide, Empedocle, Pitagora, Platone, anche la tragedia greca, consacrata a Dioniso, dio dei Misteri, dell’ebbrezza (la trance) e della contemplazione (lo specchio) induce uno stato di coscienza specifico, a chi abbia occhi per guardarla: trascendimento dell’Io ordinario e senso di appartenenza al cosmo e alla pólis; esplorazione delle ombre (Edipo) e solidificazione di una postazione interiore di risveglio e consapevolezza; acquisizione della capacità di gestire le emozioni perturbanti. In questo consiste la funzione educatrice della tragedia-sapienza. La parola poetica si inarca in direzione della vita, Apollo è Dioniso, e viceversa, la musica e la danza trascinano il linguaggio oltre i propri cerebrali confini, lo sguardo degli astanti sigilla le immagini in un circuito sacro. Alla fine resta nuovamente il silenzio della pietra, sguardo senza soggetto, oggetti vuoti. Dioniso e Ades sono lo stesso dio. Per questo con la Compagnia Teatro Iniziatico da venti anni mi dedico alla messa in scena di tragedie greche in chiave, appunto, iniziatica e rituale.

Nel 2009 hai pubblicato “Sulle tracce della sapienza” (Moretti & Vitali Editore), un libro in cui hai sintetizzato trent’anni di ricerche. Cos’era la “sapienza”? Chi, oggi, è da ritenersi “sapiente”?

Sapienza, in greco sophía, a differenza della filosofia, come scrivevo in incipit di quel libro, è un modo di essere, non di pensare. I Sapienti greci, come quelli orientali, dedicano la vita a conseguire e coltivare uno stato di coscienza privilegiato, che consiste nella intuizione fondamentale che “tutte le cose sono Uno, e l’Uno è tutte le cose”, come folgora Eraclito, e come troviamo nella concezione parmenidea del tò eón (“ciò che è”, erroneamente tradotto con “l’essere” da tutti gli studiosi, fuorché da Colli e me, che ne riprendo l’interpretazione); lo stesso dicasi per il “Bene” di Platone e la Mente Cosmica di Empedocle. Di questo stato di coscienza, ben radicato nella spiritualità ellenica perché in esso consisteva l’epopteía, ovvero l’esperienza culminante dell’iniziazione eleusina, i Sapienti si fanno portatori e comunicatori, in primis alla cerchia dei loro discepoli (gli allievi della scuola Eleatica per Parmenide, dell’Accademia per Platone, e così via), e in generale, attraverso la scrittura, per una cerchia più allargata, essoterica, di individui. Chi può definirsi Sapiente oggi? Chi si ponga nella loro stessa posizione e nello stesso stato di coscienza risvegliato.

Dal 2014 dirigi il festival MythosLogos, da te ideato, dedicato a sapienza, arte, filosofia della Grecia Antica. Ci puoi parlare di come è nato, di come è cresciuto e di come si sta sviluppando?

MythosLogos vede la sua prima edizione nel luglio 2014, con il patrocinio morale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo, dell’Ambasciata di Grecia a Roma, della Provincia di La Spezia, del Centro Ellenico di Cultura-Comunità Ellenica di Milano, della Federazione delle Comunità e Confraternite Elleniche in Italia, e con il contributo economico del Comune di Lerici. In seguito abbiamo realizzato altre quattro edizioni dell’evento, tutte di successo, e quella del 2019 sarà la sesta. E’ una Rassegna (amo poco il termine Festival) che mette in evidenza l’inattuale attualità della cultura greco-romana alla luce delle ricerche più avanzate, perché gli studi più recenti e seri intorno alla cultura greca la affrancano da una visione “chiusa” e autoctona di matrice ottocentesca con i suoi tristi risvolti nel Novecento mitteleuropeo e non solo, ravvisandone la feconda interazione con le civiltà coeve, orientali, nordeuropee, centroasiatiche e africane, e consentendo così una apertura di vastissimi orizzonti di ricerca intorno a queste interconnessioni da cui germina la grande stagione della cultura greca, sottratta a classicismi di maniera. Altrettanto attuale, in relazione al pensiero filosofico e scientifico contemporaneo, si rivela la riflessione intorno alle acquisizioni teoretiche e etiche della Sapienza e della filosofia greca, dai Preplatonici a Aristotele all’Ellenismo di Stoici, Scettici e Epicurei, nonché intorno alla democrazia originaria che è alla base della nostra. Abbiamo potuto verificare nel corso degli anni che esiste un interesse davvero eccezionale per la cultura greca e romana, in particolare per la mitologia, la drammaturgia, e la sapienza e la filosofia greca, e per la filosofia e la letteratura latina, qualora vengano presentate nella loro inattuale attualità di profondi sguardi sulla vita, capaci ancora adesso, riconducendoci alle nostre radici culturali, di ispirare un rinnovamento e un approfondimento della ricerca e un recupero della nostra identità. La scelta di Lerici e della Provincia di Spezia in generale, come sede per l’evento, ha anche motivazioni legate al genius loci e alla storia del Golfo.

In particolare la recente creazione di un Parco Subacqueo in seguito al ritrovamento di resti di una trireme romana alla Caletta di Fiascherino, nei pressi di Lerici, mi è sembrata occasione per rilanciare, nella prospettiva di una eventuale valorizzazione del castello monumentale o di Casa Doria come polo museale e espositivo dedicato alla cultura greco-romana e in generale mediterranea, il progetto di un grande evento catalizzatore, da mettere in atto in sinergia con altre località e istituzioni della Provincia. Inoltre Lerici si trova a soli dieci chilometri di distanza dall’area museale e archeologica di Luni, che è un sito di altissimo rilievo storico e archeologico, in relazione con la cultura di Roma antica. Il rinvenimento di epigrafi che celebrano l’offerta da parte di personaggi illustri di opere d’arte provenienti da varie località della Grecia e quella di oggetti di importazione o di ispirazione ellenica ne sono testimonianza. Altrettanto si può dire per iscrizioni bilingui in latino e greco rintracciate in Lunigiana e sicuramente provenienti dall’area di Luni, datate primo secolo dopo Cristo e che testimoniano la presenza certa di lavoratori greci.

Anche il Golfo di Spezia, e la Liguria di cui fa parte, ha una tradizione di legami con la grecità, per il comune e condiviso paesaggio costiero mediterraneo, propizio allo sviluppo di una fantasia lirico-mitopoietica non troppo lontana da quella che fiorì nella cultura greca (se ne trovano tracce evidenti, per esempio, in Mediterraneo di Montale); anche i suoi più illustri frequentatori, Byron, Shelley e Lawrence erano appassionati di grecità, tanto che Byron andò a morire a Mesolonghion in Grecia, e Shelley celebra ampiamente la grecità in particolare nel suo libro Defense of Poetry. Inoltre il libro dello studioso spezzino Ubaldo Formentini “I divini abitatori del Golfo” (in corso di ristampa presso Agorà edizioni), rievoca mitopoieticamente con suggestioni toponomastiche e collegamenti talora arditi il legame tra mitologia greca e Golfo. Senza dimenticare che le navi magnogreche, alla volta di Marsiglia, transitavano per una rotta parallela alla nostra costa, che non escludeva approdi sul litorale ligure e lunense. In sintesi: nel Golfo ci sono tutti gli indizi di una presenza del mondo antico in quanto componente costitutiva del paesaggio e del genius loci, ovvero dell’anima e della cultura del luogo in cui viviamo. Si pensi al nome stesso di Porto Venere, l’ellenica Afrodite, alla ben documentata presenza romana nel Golfo, dalle battaglie al Senato di Lerici, alla colonna ritrovata alla Caletta di Fiascherino, alle numerose vestigia di ville romane (Bocca di Magra, Mezzano, etc.), e soprattutto alla densità di ritrovamenti a Marola, San Vito, Muggiano, ma anche nel centro di Spezia, in via Biassa.

E’ inoltre evidente nel contesto in questione la centralità del nostro mare, sia perché è certa la presenza di un Lunai portus, sia perché il Golfo dei poeti fa parte del Mare Nostrum mediterraneo, culla delle grandi civiltà e culture afroeuropee e vicino orientali: uno dei punti di forza della Rassegna è proprio la ricostruzione di una visione della grecità non fondata sul modello “ariano”, ma come luogo di originale rielaborazione di un sostrato culturale, linguistico, mitologico e rituale che va dall’Egitto all’estremo Oriente alla Persia alla Mesopotamia.

Il 30 giugno ti sei esibito con la Compagnia Teatro Iniziatico Arthena al Teatro Andromeda di Santo Stefano Quisquina (Agrigento), visionaria creazione del pastore-scultore siciliano Lorenzo Reina. Ci puoi raccontare qualcosa di quel luogo e di questa esperienza?

Il teatro Andromeda è una della più alte realizzazioni dell’arte contemporanea, capolavoro di quello che io chiamo un approccio ritomodernista alla creazione artistica. E’ opera di un uomo di eccezionale talento, Lorenzo Reina, pastore-scultore siciliano, che si è lasciato ispirare dalle Muse, o dagli dei, o dagli astri, e fin da giovanissimo, quando portava al pascolo le pecore, coltivava un sogno: costruire un teatro. Vedendo che in un altipiano di sua proprietà, dove portava il gregge, le pecore amavano fermarsi sempre nello stesso posto, decise che lì doveva nascere il suo teatro, e ci lavorò per trenta anni, seguendo il progetto che gli dettavano le Muse o gli dei, o gli astri, e utilizzando solo pietre non lavorate da mano umana, con il solo aiuto di un trattore e di un operaio. Così è nato questo capolavoro di architettura naturale, paragonabile, per aura e bellezza, ai più significativi siti archeologici del pianeta: architettura sacra, con uno spazio scenico circolare e i sedili, in pietra, allineati come le stelle della costellazione Andromeda, a cui si accede incontrando altre fantastiche creazioni giganti di Reina, tra cui parole di Pietra e Parole di Luce; quest’ultima è costituita da un grande volto di pietra i cui occhi e la cui bocca, al solstizio d’estate,vengono attraversati dai raggi del sole verso il tramonto. Qui, con la cantante Paola Polito (che ha creato anche le melodie) e l’attrice della Compagnia di Teatro Iniziatico Galliana Barabini, ho avuto l’onore e la gioia di mettere in scena Páthei máthos, una alternanza di testi recitati e canti tratti dalle tragedie di Eschilo, Sofocle e Euripide, nell’area sacra del théatron Andromeda, a mille metri di altezza, sotto lo sguardo visibile di Helios, e quello invisibile degli astri evocati nella pietra, di fronte a un pubblico scelto, complice del rito antico della tragedia, dedicato a Dioniso, che ci ha travolti in un grande abbraccio finale, al grido condiviso dell’EUOE’!. Ci torneremo il 2 giugno 2019, theón bouloménon, con l’intera Compagnia Teatro Iniziatico, a mettere in scena Elettra di Euripide. E non vedo l’ora, anche perché Lorenzo Reina, oltre che grandissimo artista, è anche un principe di ospitalità, insieme con la sua deliziosa famiglia.

Tu scrivi versi da molti anni. Quali sono i tuoi punti di riferimento? Dove sta andando la “poesia” oggi?

Negli ultimi venti anni la poesia in Italia ha visto ridursi esponenzialmente la propria funzione di guida estetica morale, esistenziale e spirituale. Mai come adesso la poesia è tagliata fuori dalla comunicazione editoriale: gli editori non la pubblicano più perché nessuno la legge, e nessuno la legge perché non circola più una poesia capace di offrire paradigmi di vita interiore e poeti capaci di incarnare tale funzione della poesia. Trapassati gli esponenti della poesia ideologica del Novecento, e godendo, per fortuna, di pessima salute le ideologie, al momento attuale la più interiore delle arti sembra avere perduto appeal mediatico, con l’aggiunta di una sonora beffa: vengono trattati da poeti i cantautori che, pur presentando talora carattere di poeticità, banalizzano la póiesis volgendola a ritmi orecchiabili dalle moltitudini, e si cambia il nome di Piazza Dante Alighieri in Piazza Fabrizio De André. O si incorona premio nobel Bob Dylan.

Accanto alla responsabilità dei poeti (quelli di moda in Italia si caratterizzano proprio per un minimalismo metropolitano depressionario, o per eccessiva sudditanza all’ideologia cattolica e vaticana, o per un cerebralismo che poco ha a che fare con la profonda dimensione intuitiva dell’ispirazione), assai più grave è quella dei critici, che salvo rarissime eccezioni sono rimasti arenati nella formazione novecentesca, e non sanno cogliere lo spirito del tempo di adesso, che richiede una profonda rivoluzione nel modo di pensare il pianeta, e quindi promuovere nuove parole e pensieri, nuovo respiro, che includa una nuova spiritualità, sapienza, consapevolezza, senso di appartenenza di ognuno al Tutto. Questo nonostante in Italia e nel mondo vi siano voci poetiche ecospirituali che hanno anticipato tale nuova necessaria sensibilità. Cito, per tutti, rispondendo trasversalmente alla tua domanda, il Mitomodernismo, fondato da Giuseppe Conte e altri poeti, che io ho declinato in una personale chiave orfica e ritomodernista; e il movimento Poetry and Discovery, che mi vede nel comitato direttivo, insieme con Tomaso Kemeny, Flaminia Cruciani, Paola Pennecchi, Pietro Berra e altri poeti italiani e europei. Con Massimo Maggiari, poeta e scrittore italiano che vive negli Stati Uniti, collaboro da venti anni alla realizzazione di eventi poetici, in primis Argonauti nel Golfo degli Dei, che diffondano una poesia capace di rasentare lo sciamanesimo e elicitare stati di coscienza unitari. La poesia inoltre, come la meditazione (uso il termine in senso tecnico, trattandosi di una pratica spirituale di matrice orientale, e più specificamente buddista) è disciplina dello spirito apollodionisiaca. Entrambe, poesia e meditazione, attingono dalla sfera schopenhaueriana della volontà di vivere, o dalla zoé, o dalla vita nel suo palpitare radioso e straziante, la materia-energia del proprio páthos (Dioniso) e lo distillano con strumenti diversi (la scrittura, introversa o comunicativa, per l’una, la contemplazione interiorizzante per la seconda), ma accomunati dalla condivisa postazione di distanza inerente rispetto alla materia-energia emozionale, sensoriale, sentimentale, pulsionale del páthos. Esistono varie forme di ispirazione e espressione poetica: emozionale, sentimentale, intellettuale e la combinazione di queste. Ma esiste anche una poesia transmentale, che definirei sostanzialmente orfica: qui la parola si inarca oltre di sé e allude all’Assoluto che dimora alla radice delle cose sensibili e riverbera in esse questo stesso Assoluto, che è pura coscienza unitaria. E’una poesia che costringe la ratio a cortocircuitare e, per essere intesa, la obbliga al salto nell’intuizione: quel noûs che uno scoliasta anonimo di Platone definiva “occhio dell’anima”, e che ha radici nel sacro profondo. E’ questa la poesia in cui credo, e in questa direzione deve andare la poesia oggi, per contribuire alla edificazione dell’homo sapiens e di una civiltà illuminata, l’unica in grado di evitare la apocalissi in atto nel pianeta Terra.

Compito del poietés nell’epoca contemporanea, vero e proprio kaliyuga dello spirito e della civiltà, è ricomporre questa trama spezzata, far vibrare di sapienza poesia, prosa e pensiero, attingendo, al di là delle ecclesie secolarizzate e colluse con il potere, dalle tradizioni spirituali viventi – tra cui il buddismo spicca per profondità e sublime riflessione sulla possibile creazione dell’homonovus, e dunque per capacità di emancipazione collettiva – la scintilla del Risveglio, e facendola collidere e colludere con l’immaginario contemporaneo, in una sempre rinnovantesi creazione di bellezza e intensità artistica. Che sia impulso alla rigenerazione spirituale e quindi politica della civitas umana.

MARCO ANGELLA

ALLEGATO: IL GRECISTA ANGELO TONELLI (FOTO DI MARCO ANGELLA)
FOTO SCATTATA IL 24 LUGLIO 2018 IN PIAZZA MOTTINO A LERICI

L’INTERVISTA E’ STATA PRESENTATA PRESSO IL MUNICIPIO DI LERICI SABATO 22 DICEMBRE 2018, IN OCCASIONE DELL’EVENTO “ARTHENA DAY: SCATENIAMO IL PARADISO!”

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Clima ed effetto serra, ritardi e menzogne – Roberto Pecchioli

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Si è concluso a Katowice con esiti modesti l’incontro Cop 24 sul cambiamento climatico. L’unica intesa raggiunta riguarda il metodo con cui si dovrà discutere il vigente accordo di Parigi. Tra sciocchi negazionismi sui cambiamenti climatici da parte degli adoratori del libero mercato che risolve tutto e di alcuni fanatici delle soluzioni tecnologiche ai grandi problemi della biosfera, la montagna, ancora una volta, sembra aver partorito il topolino. Entro alcuni decenni si tenterà – forse e non dappertutto-  di ridurre le emissioni di gas a effetto serra nel tentativo di limitare il surriscaldamento del pianeta.

Al di là delle polemiche, una cosa è certa: è in corso un riscaldamento globale della terra unito al peggioramento dell’aria che respiriamo e all’aumento dell’impronta ecologica, il consumo delle risorse a ritmi più elevati rispetto alla sua capacità di rigenerazione. In attesa di conoscere in modo certo le cause del fenomeno, antropiche e no, l’homo consumens, dimentico dell’entropia, della dissipazione e del secondo principio della termodinamica, prosegue la sua marcia verso lo sfruttamento dissennato del pianeta. Sul banco degli imputati a Katowice c’erano le emissioni di anidride carbonica, il CO2 responsabile principale dell’effetto serra, ovvero l’accumulo dell’energia termica all’interno dell’atmosfera.

All’opinione pubblica arrivano messaggi contraddittori nei quali è difficile distinguere la verità dall’ideologia o dall’interesse economico. Due temi ne sono la dimostrazione, quello relativo alle automobili elettriche e le campagne che attribuiscono alla filiera zootecnica gran parte della responsabilità per l’aumento dei gas a effetto serra. Dell’auto elettrica non si è parlato a Katowice, ma l’argomento è stato presente come idea forte dei paesi più sviluppati per mitigare il cambiamento climatico. In diverse tavole rotonde e eventi paralleli del vertice polacco, l’autovettura a motore elettrico è stata protagonista. Per molti sarà lo strumento chiave per combattere le emissioni più contaminanti e migliorare la qualità dell’aria, altri negano che possa trasformarsi nella panacea per liberarci dall’eccesso di anidride carbonica.

L’evidenza dei giganteschi interessi geopolitici, industriali e strategici in ballo rende necessario conoscere i veri obiettivi dei contendenti. La chiave di lettura più equilibrata è sostenere la riduzione nelle aree urbane del numero di veicoli in circolazione- anche elettrici – e lavorare affinché l’energia necessaria per alimentare milioni di autovetture elettriche futuribili provenga da fonti diverse dagli idrocarburi, in particolare da energie rinnovabili. Si tratta di uno sforzo scientifico enorme, dai risultati tutt’altro che certi, ma indispensabile per diventare finalmente non i padroni indifferenti di una natura schiava, ma i curatori della terra di tutti. Se l’energia necessaria continuerà a provenire da combustibili fossili, infatti, l’unico risultato sarà trasferire inquinamento e contaminazione da un ambito ad un altro.

In Europa sarà la Norvegia il primo paese che limiterà la vendita di veicoli contaminanti. Nel regno scandinavo, dal 2025 si venderanno esclusivamente autovetture a emissioni di CO2 zero. In molti Stati membri dell’Unione, come la Germania e i suoi satelliti economici, la data limite è il 2030, mentre i divieti raggiungeranno Italia, Francia e Regno Unito solo nel 2040. Scelte assai diverse, frutto delle distinte capacità industriali e del peso dei gruppi di pressione.

L’Agenzia Europea dell’Ambiente (EEA) ha rivelato che le emissioni di gas a effetto serra nel settore dei trasporti sono cresciute nell’UE per il terzo anno consecutivo. Il diesel continua ad essere il combustibile più venduto. Due terzi del trasporto su ruota si muove con motori diesel, ma nel 2016, per la prima volta dal 2010, sono stati vendute più automobili a benzina rispetto alle altre. Nel frattempo, gli investimenti dell’industria automobilistica si sono orientati verso la ricerca su motori elettrici. Enel e altri produttori di energia elettrica e detentori di reti stanno lavorando nella stessa direzione, affiancando le loro scelte in materia di punti di ricarica con quelle sui superconduttori destinati a contenere la dispersione.

Dopo il 2020 la svedese Volvo, inglobata dal 2010 nel gruppo cinese Geely, produrrà esclusivamente veicoli elettrici o ibridi. Volkswagen sta investendo 40 miliardi per incorporare fabbriche di batterie. L’elettrificazione della flotta automobilistica è indispensabile per migliorare la qualità dell’aria e la salute umana e imprescindibile per combattere gli effetti del cambio climatico, ma resta inevasa la questione di fondo: la produzione di energia elettrica rimarrà legata ai combustibili fossili o la ricerca andrà nella direzione di fonti alternative, specie rinnovabili?

Intanto, nel mondo occidentale si diffondono comportamenti alimentari che escludono la carne e i prodotti di origine animale (veganesimo), talora in ossequio a ideologie che considerano la specie umana come il cancro dell’universo, e si pone una domanda cruciale, ovvero se mangiare carne sia una sorta di delitto contro l’ambiente. Alcuni attivisti arrivano a richiedere l’imposizione di tasse specifiche per ridurne il consumo. Uno dei massimi studiosi mondiali, tuttavia, il professore dell’University of California Frank M. Mitloehner è netto: smettere di mangiare carne non salverà il pianeta. La tesi che la produzione zootecnica generi più gas a effetto serra dei trasporti, afferma, è falsa.

Indipendentemente dalle ragioni dei vegetariani e dei “carnivori”. Il maggiore sostegno alle tesi anti allevamento animale giunge da uno studio del 2009 del Worldwatch Institute di Washington, le cui conclusioni furono impressionanti: il 51 per cento delle emissioni proverrebbero dall’allevamento di bestiame e dalle lavorazioni industriali relative. Più recentemente, l’agenzia per la protezione ambientale degli Usa è pervenuta a conclusioni assai diverse. Le fonti di emissioni registrate negli Stati Uniti sono state nel 2016 la produzione elettrica (!!!) per il 28 per cento del totale, alla pari con i trasporti, mentre il 22 per cento ha riguardato l’industria e solo il 9 per cento l’agricoltura, una cifra cui l’allevamento contribuirebbe per meno della metà.

I dati della Fao, l’agenzia dell’Onu per il cibo e l’alimentazione, nel 2006 registrarono dati ancora diversi. In un rapporto intitolato L’ombra lunga dell’allevamento: problemi ambientali e scelte, si attribuiva al settore zootecnico un preoccupante 18 per cento di tutti i gas a effetto serra del pianeta, tanto da arrecare al clima danni maggiori dell’intero sistema dei trasporti. Lo stesso autore, Henning Steinfeld, smentì successivamente quelle conclusioni, riconoscendo che gli analisti realizzarono una valutazione integrale dell’intero ciclo dell’allevamento di bestiame, impiegando un metodo differente nello studio dei trasporti. E’ dunque evidente la difficoltà di trarre conseguenze certe da studi non sempre indipendenti, condotti con metodi e per finalità diverse.

Nel caso della carne per alimentazione, vennero considerate le emissioni generate nella produzione di fertilizzanti, la trasformazione dei boschi in pascoli, la coltivazione e la filiera dei mangimi, oltreché le vere e proprie emissioni di provenienza animale. Al contrario, furono ignorati gli effetti prodotti dalla fabbricazione dei veicoli e delle navi, il mantenimento e lo sviluppo delle reti stradali, dei porti, aeroporti e delle altre infrastrutture. L’effetto fu una significativa distorsione dei risultati, con notevole effetto sulle opinioni pubbliche.

La stessa Fao, in studi più recenti, ha stimato che l’allevamento nella sua intera catena produttiva genera circa il 15 per cento dei gas di effetto serra da attività umane, quanto le sole emissioni dirette dei trasporti. Negli Usa, al fine di contribuire alla diminuzione delle emissioni, si è diffusa l’abitudine di non consumare carne un giorno alla settimana, il cosiddetto meatless Monday. Al di là del significato civile, nulla di più lontano dall’obiettivo, poiché secondo l’Università della California, se tutti gli americani eliminassero dalla dieta le proteine animali le emissioni di gas a effetto serra diminuirebbero di un modesto 3 per cento.

Ribadiamo una certa diffidenza per le statistiche, ma nei paesi sviluppati i cambiamenti tecnologici, la genetica e le modifiche gestionali delle imprese hanno reso più efficiente e meno dannoso per l’ambiente l’allevamento, tanto che le emissioni sono diminuite di oltre il dieci per cento in alcuni decenni nonostante il contemporaneo raddoppio della produzione. Altra cosa sono il giudizio sulle condizioni di vita del bestiame e tutte le perplessità sulle tecniche di selezione e riproduzione, che la tecnologia tende a trasferire sulla specie umana.  Un ulteriore elemento è la crescente domanda di carne da parte della popolazione del pianeta appartenente alle economie in ascesa, Asia e Medio Oriente, il che rende le scelte occidentali poco determinanti a lungo termine.

Evidente è l’urgenza di pratiche ecologicamente sostenibili nel settore zootecnico come nei trasporti e nell’industria. Il fatto è che, anche a prescindere dall’aumento della popolazione umana– quasi dieci miliardi la previsione per il 2050 – la diminuzione delle emissioni di origine zootecnica a seguito di profondi cambiamenti nelle abitudini alimentari, diminuirebbe sì parte dell’inquinamento ma non ne conseguirebbero positivi vantaggi nutrizionali per l’essere umano. Qualcuno ha suggerito un’alimentazione futura a base di insetti. Più realisticamente, altri spingono per la scelta vegetale, in grado, si dice, di assicurare una maggiore quantità di cibo e calorie per persona. Tuttavia, l’uomo è onnivoro e ha bisogno per il suo benessere anche di carni.

In più, non tutte le parti delle piante sono commestibili o in grado di soddisfare il gusto umano. Un esempio è il consumo animale di prodotti la cui energia consiste principalmente nella cellulosa, non digeribile per gli esseri umani e molti altri mammiferi, ma che è digerita da bovini, ovini e altri ruminanti, liberando l’energia che contengono. Per di più il 70 per cento delle terre agricole del mondo sarebbe utilizzabile unicamente come pascolo per ruminanti. La vera sfida è alimentare una massa di popolazione in aumento; le sostanze nutritive delle carni superano le opzioni vegetariane, ma i ruminanti crescono grazie ad alimenti non commestibili per la nostra specie. L’allevamento, poi, è il sostentamento economico per i piccoli agricoltori dei paesi in via di sviluppo: di esso vive un miliardo di persone.

Il cambio climatico impone un’attenzione urgente e condivisa dai governi di tutto il pianeta e, oltre i numeri delle statistiche, la zootecnia intensiva genera una grande quantità di effetti negativi che riguardano l’aria, l’acqua e la terra. Le ragioni per ricercare una maggiore efficienza sono immense, ma non basteranno la scienza e la tecnologia. Il cambio di paradigma è necessario e non può aspettare i tempi lunghi degli interessi economici e politici contrastanti. Un detto in lingua latina, attribuito a Hobbes, ricorda agli uomini di ogni tempo e origine primum vivere, deinde philosophari, prima occorre vivere, poi discutere di massimi sistemi.

Una parte di umanità può (ancora?) permettersi di dibattere di emissioni di gas, ecologia e inquinamento, peraltro senza risolvere granché. Un’altra, ben più numerosa, spinge per partecipare al benessere o lotta per sopravvivere.  Se la Terra è una e la sua sorte riguarda l’intera umanità, molti e contrapposti sono i bisogni e le emergenze. Certo non si risolve nulla rimandando i problemi o attardandosi in interminabili discussioni, vertici, congressi nei quali ciascuno rappresenta esclusivamente il tornaconto del proprio pezzo di mondo e dei gruppi dominanti.

Qui ci ammaliamo e moriamo di inquinamento, pessima aria, obesità. Altrove, con ottime ragioni, bussano alla porta con forza crescente. Riumanizzare il mondo significa innanzitutto proteggerlo dallo sfruttamento insensato di alcuni, ricordando un brano del Don Chisciotte, il dialogo immaginario tra Babieca, il formidabile cavallo del Cid, l’eroe nazionale spagnolo e Ronzinante, il macilento destriero di Don Chisciotte. Babieca, colpito dalla magrezza dell’altro, gli chiede: Sei metafisico? No, è che non mangio, risponde lo sfortunato Ronzinante.

ROBERTO PECCHIOLI

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Fascismo e Massoneria, storia di rapporti complessi – 4^ parte – Luigi Morrone

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La Massoneria e la Seconda guerra mondiale

La Società delle Nazioni, creatura che la Massoneria Universale aveva fortemente voluto (1), aveva approvato le sanzioni contro l’Italia quale rappresaglia per la Campagna di Etiopia, con l’effetto di consolidare il consenso verso il regime ed acuire i sentimenti antimassonici in Italia (2). L’obiettivo dell’isolamento internazionale dell’Italia, perseguito dalla Società delle Nazioni, non aveva avuto l’esito sperato. Anzi, aveva avuto l’effetto di avvicinare l’Italia alla Germania che, dal 1933, vedeva al potere il Partito nazionalsocialista (NDSAP), di ispirazione fascista, avente come leader l’austriaco Adolf Hitler. La Germania, in nome del pangermanesimo, aveva tentato un’espansione verso Est fin dall’ascesa al potere di Hitler. Un’accelerazione era conseguita all’assassinio del Cancelliere Austriaco EngelbertDollfuß ad opera di simpatizzanti NDSAP, il 25 luglio 1934. Mussolini aveva bloccato il tentativo di Anschluß (annessione) dell’Austria alla Germania schierando le truppe sul Brennero ed impedendo all’esercito tedesco di invadere l’Austria. Nel 1935, a Stresa, Francia, Italia e Regno Unito avevano sottoscritto un protocollo d’intesa che saldava i rapporti fra le tre nazioni, vincitrici della Prima guerra mondiale, quale contrappeso alla decisione tedesca di denunciare i trattati di Versailles e procedere al riarmo (3). Dopo le sanzioni, la situazione cambia radicalmente. L’Italia si salda alla Germania (4) e, quando nel febbraio 1938 Hitler ripete l’esperimento dell’Anschluß, non trova opposizione da parte dell’Italia.

La Massoneria italiana, alle prese con i problemi di cui abbiamo parlato, non ha una posizione ufficiale sul precipitare della situazione internazionale. La Massoneria Universale, a cominciare da quella francese, reagisce, stigmatizzando con forza quella che percepisce come deriva ipernazionalista e ribadendo la tendenza internazionalista della fratellanza (5). Il pangermanesimo hitleriano apre un nuovo capitolo. La Cecoslovacchia, una creatura di Versailles, ricomprende territori abitati da una popolazione di etnia tedesca, i Sudeti. E Hitler rivendica il diritto di queste popolazioni a ricongiungersi alla madrepatria. Venti di guerra sembrano agitarsi per l’Europa. E si sveglia il GOI, con una balaustra del Gran Maestro Tedeschi che, il 26 settembre 1938, scrive ai (pochi) venerabili delle logge aderenti all’Obbedienza: «… noi deprechiamo la guerra che tentano di scatenare i nazisti ed i fascisti. Non confondete e non identificate la Germania col nazismo e l'Italia col fascismo … Non partecipare alla guerra fascista non è una diserzione ma un'affermazione di principi, un atto antifascista ed un aiuto indiretto alla lotta nella quale noi siamo impegnati per il trionfo dei nostri ideali di libertà e di giustizia» (6).

Ma è, soprattutto, la fratellanza internazionale che si mobilita in ausilio del “fratello” Edvard Beneš, Presidente cecoslovacco che, andando oltre lo stesso Trattato di Versailles, ha compresso fortemente le identità delle minoranze presenti nello Stato “artificiale”, ivi compresi i Sudeti. Nel Congresso massonico di Lucerna, la Massoneria Internazionale lancia un appello alla pace, ricordando come la Cecoslovacchia del “fratello” Beneš costituisca un “avamposto” delle Democrazie Occidentali, schiacciato tra stati “fascisti” e l’URSS bolscevica (7). Gli accordi di Monaco del novembre 1938, però, spiazzano la Massoneria. Francia e Regno Unito lasciano mano libera a Hitler nei Sudeti. Non solo la massoneria, ma tutti i ceti intellettuali internazionalisti vengono colti in contropiede. Simone Weil, nonostante la sua avversione a Hitler, benedice l’esito della Conferenza di Monaco come unico viatico per la pace. Si ricrederà a tamburo battente (8). Quando Hitler, andando oltre gli accordi di Monaco, approfitta dell’esplosione dei nazionalismi all’interno della Cecoslovacchia, ed occupa la parte occidentale del Paese, salta il fragile sistema uscito dagli accordi di Monaco. Francia e Regno Unito, però, non disperano di ricucire i rapporti con la Germania. Fondamentale è quanto detto da Lord Halifax, ministro degli esteri britannico, in un discorso alla Camera dei Lords il 20 marzo 1939 (9). Egli sostiene: «… il popolo Britannico ha fermamente desiderato di instaurare dei rapporti amichevoli con quello Tedesco. Esso non ha esitato a riconoscere che alcuni degli errori del Trattato di Versailles dovessero essere emendati … Questa iniziativa però è stata frustrata dall’azione intrapresa la settimana scorsa dal Governo Tedesco e diventa quindi difficile prevedere se e quando potrà essere ripresa. In seguito a questi eventi sono stati sollevati diversi interrogativi che impongono sia al Governo di Sua Maestà che a quelli di altri popoli liberi, di rivedere il proprio atteggiamento nei confronti della Germania ... Se la storia rappresenta un punto di riferimento, allora il popolo Tedesco deve rammaricarsi dell’azione compiuta in suo nome contro il popolo della Cecoslovacchia». Solidarietà alla Cecoslovacchia, dunque, ma ancora si spera in una soluzione diplomatica.

Nel frattempo, l’URSS dichiara che non interverrà in aiuto del governo capitalista della Cecoslovacchia (10). Effettivamente, già da più di un anno Germania e URSS stanno conducendo trattative segretissime per l’assetto dell’Est Europa (11) e – dunque – Hitler sa di poter contare sul non liquetsovietico per attuare i suoi disegni (12). L’occupazione di Praga da parte delle truppe tedesche ha quale immediata conseguenza il “sonno” dell’intera massoneria cecoslovacca (13). Benès si rifugia a Londra e trova ospitalità presso i “fratelli” inglesi, organizzando, anche con il loro ausilio, un governo cecoslovacco in esilio di cui fa parte anche il “fratello” JanMasaryk, figlio di Thomas, primo presidente cecoslovacco dopo Versailles, che sarà protagonista delle vicende cecoslovacche postbelliche, dalla ritrovata indipendenza al colpo di stato comunista del 1948 (14). La situazione cecoslovacca innesca una polemica interna ai Conservatori britannici. Primo Ministro è Lord Neville Chamberlain, fautore della politica dell’appeasement con la Germania, politica già sfociata negli accordi di Monaco. Dall’altra parte, Winston Churchill, che – invece – preme per un’alleanza con l’URSS e la Francia, tentando di ripetere l’esperienza del 1907, mediante una nuova “Triplice Intesa”, che isoli Italia, Germania ed Ungheria (15). Chamberlain aveva continuato nella sua politica attendista anche quando la Germania aveva rivendicato dalla Polonia il territorio di Danzica, occupato da popolazioni di etnia tedesca (16). Resta attendista anche dopo che l’Italia occupa l’Albania il 7 aprile 1939 (Venerdì Santo) e dopo la stipula del “patto d’acciaio” tra Roma e Berlino il 22 maggio 1939 (17). Il 23 agosto 1939, i ministri degli Esteri della Germania, von Ribbentrop, e dell’URSS, Molotov, stipulano un patto di non aggressione a conclusione di trattative portate avanti per oltre un anno in gran segreto. Il patto coglie di sorpresa Francia e Regno Unito (18), e spiazza la Massoneria francese, che aveva tentato di porre la fratellanza al centro della diplomazia mondiale: il 1° febbraio 1939, il Gran Maestro del Grande Oriente di Francia, Arthur Groussier, ed il Gran Maestro della Gran Loggia di Francia, Michel Dumesnil de Gramont, avevano invitato il “fratello” Franklin Delano Roosevelt (19), presidente degli S.U.A., ad indire una conferenza internazionale «… per studiare le soluzioni a tutti i problemi territoriali, etnici ed economici che oggi dividono le nazioni» (20).

Le conseguenze del patto, per le potenze occidentali, appaiono disastrose: «… il patto Hitler-Stalin dell’agosto 1939, “Waterloo” della diplomazia franco-britannica, aveva avuto solo l’effetto secondario di riconciliare fra loro quei francesi che, sull’orlo della guerra civile dopo il 1934 e il Fronte popolare, avevano ora il pretesto di combattere insieme il comunismo e il nazismo. Tuttavia … il sentimento anti-inglese gareggiava con il timore del bolscevismo e con l’odio contro ebrei e massoni. In Inghilterra esisteva una forte tradizione antibolscevica … ma questo antibolscevismo non era controbilanciato, come in Francia, da un antifascismo militante, cosicché nel Paese non regnava un’atmosfera da guerra civile. L’Inghilterra benestante era per la pace ed uomini come Lloyd George, uno dei vincitori del 1914-18, erano pronti, al pari di Chamberlain e di lord Halifax, ad accettare compromessi con Hitler» (21). Tra l’altro, il patto si stipula nel momento in cui il parlamento inglese è chiuso dal 5 agosto. Chamberlain è pressato da una campagna dei mezzi di comunicazione di massa che vede soprattutto la BBC dare ampio spazio a Churchill ed al governo cecoslovacco in esilio, che premono perché cessi la politica di appeasement e si argini la politica di espansione verso Est di Germania e Italia. Campanello d’allarme, le elezioni suppletive di luglio in Cornovaglia, con la sconfitta del candidato conservatore in favore del candidato liberale, che aveva condotto la campagna elettorale con lo slogan “Torni Churchill” (22). Pertanto, il Premier corre ai ripari, abbandonando la strategia attendista. Convoca d’urgenza la Camera dei Comuni all’indomani del patto tra tedeschi e sovietici, stipula un patto di alleanza con la Polonia, che prevede l’intervento britannico in caso di aggressione esterna, richiama la flotta, chiama Churchill a far parte di un gabinetto di guerra. Chiaramente, ha vinto la linea di Churchill (23).

La propaganda fascista tende ad avvalorare l’ipotesi di un “complotto massonico” che manipola l’opinione pubblica del Regno Unito per rovesciare il governo Chamberlain ed imporre la linea di Churchill. Ma, a sostegno di tale ipotesi, le argomentazioni addotte appaiono piuttosto deboli. Certo, è massone Winston Churchill, è massone il re Giorgio VI, sono massoni alcuni proprietari di emittenti radio americane che danno ampio spazio a Churchill, come James Harbord, Presidente della Radio Corporation of America (24). Ma – come si è detto – l’azione dei singoli massoni non impegna certo la Massoneria come associazione. A ciò va aggiunto che il re d’Inghilterra, poi di Gran Bretagna, poi dei Regno Unito, fin dal XVII secolo “regna ma non governa”, essendo una mera figura rappresentativa dell’Unione, né, prima dell’entrata in guerra del Regno Unito, vi è traccia di intervento regio per mutare la politica estera del governo (25). Inoltre, Churchill è quel che si dice un “massone tiepido” (26), nel senso che, iniziato nel 1901, non risulta attivo frequentatore dell’attività di loggia. Inoltre, non è massone Lloyd George, a fianco di Churchill nella linea interventista, non lo è Sir Frederick Wolff Ogilvie, il direttore generale della BBC che tanto spazio da a Churchill ed al governo cecoslovacco in esilio. Quindi, l’appartenenza di Churchill alla massoneria non può essere l’unico elemento a sostegno dell’ipotesi di un “complotto massonico” che abbia determinato il mutamento della politica estera del Regno Unito tra il 1938 ed il 1939.

Va, comunque, esaminato il perché Winston Churchill, non certo ostile all’Italia fascista, quel Winston Churchill che era Cancelliere dello Scacchiere al momento delle “Leggi fascistissime”, ma era stato comunque tra i fautori dell’alleanza italo – inglese al momento della crisi sulla Bessarabia (27), quello stesso che nel 1927, pur dopo l’esilio delle logge, scriveva a Mussolini «Il vostro movimento ha reso un servigio al mondo intero» (28), perché proprio quello stesso Winston Churchill decide di spaccare il partito conservatore, di cercare l’intesa con il “nemico bolscevico”, verso cui riteneva che l’Italia fascista fosse adeguato argine? (29) Perché l’imperialista Winston Churchill, reduce della guerra anglo – boera, feroce repressore delle rivolte nelle colonie, fautore del “pugno di ferro” verso i popoli dominati (30) , inizia un’avventura che egli, fin dall’inizio, sa che importerà la perdita dell’impero? (31) La sua appartenenza alla Massoneria, gioca un ruolo in questa sua azione? Indubbiamente, la Massoneria ha assunto un atteggiamento ostile verso tutti i regimi “fascisti”, in parallelo agli scioglimenti delle logge in Italia, Germania, Ungheria, Spagna, Portogallo; indubbiamente le varie obbedienze nazionali hanno accordato supporto logistico ed economico agli anti franchisti nella guerra di Spagna; indubbiamente in Italia ed in Germania si va diffondendo la psicosi della cospirazione delle “logge giudaico-massoniche”, in un mélange di ostilità a massoni ed ebrei, che portava a scandire slogan come “Tutti i massoni sono ebrei – tutti gli ebrei sono massoni” (32).

Il convegno internazionale del rito scozzese del 1937, e quello dell’AMI (Associazione Massonica Internazionale) del 1938, di cui si è detto, però, avevano chiaramente indicato il pacifismo come imperativo primario della Fratellanza. Quindi, riesce davvero difficile pensare che ci sia stata la Massoneria dietro l’azione di Churchill intesa a determinare il mutamento di politica estera del Regno Unito. Neanche il voltafaccia della Francia rispetto a Monaco può avere come mentore la Fratellanza. In disparte la scelta pacifista del 1937, la Massoneria francese in quegli anni è scossa dall’onda d’urto dell’affaire Stavinsky. Alla fine del 1933, un funzionario del Crédit municipal di Bayonne, Gustave Tissier, viene tratto in arresto per avere sottratto dalle casse della banca, mediante un ingegnoso sistema di frodi, 261 milioni di franchi. Una cifra enorme. Ma da subito emerge il ruolo di mero esecutore di Tissier: la frode è opera del fondatore della banca, il finanziere di origine russa Serge Alexandre Stavisky. L’inchiesta mette in luce una fitta rete di complicità, tra politici, funzionari di polizia, prefetti, su su fino a sfiorare il Presidente del Consiglio Camille Chautemps, che sarà costretto a dimettersi. L’8 gennaio 1934 Stavinsky viene trovato morto al momento dell’arresto, con due pallottole in testa. La morte viene frettolosamente archiviata come suicidio, ma l’affaire innesca una serie di reazioni a catena sul piano politico (33). L’intera classe politica viene bollata come corrotta dall’opposizione. E monta il risentimento antimassonico. Quasi tutti i coinvolti nell’inchiesta sono massoni, da Stavinsky a Chautemps. La massoneria viene accusata di aver ucciso Stavisky per evitare la violazione del segreto massonico. La Massoneria francese, dopo una riunione tra le due maggiori obbedienze dell’11 febbraio 1934, decide di “chiudersi” a qualunque attività esterna. I Maestri venerabili sono invitati a fare “pulizia” nelle logge, in modo da sbarazzarsi degli adepti che hanno aderito alla Massoneria solo per tornaconto personale (34).

Il prestigio della Fratellanza è scosso. Il tentativo di porsi al centro della diplomazia con l’appello al “fratello” Roosevelt naufraga per gli accordi di Monaco. Ed il Presidente del Consiglio Édouard Daladier non solo non è massone, ma proprio per le conseguenze dell’affaire Stavinskysi guarda bene dall’avere qualunque rapporto con la Fratellanza. Sia per questa sua debolezza intrinseca, sia per l’insistenza sul pacifismo, confermato dall’ultimo congresso dell’AMI prima della guerra, nel gennaio 1940 (35), la Massoneria francese resterà incerta al momento dell’entrata in guerra della Francia, quando gli eventi precipiteranno. Anzi, il segretario generale del GODF, Jean Baylot, redigerà un pamphlet pacifista: “Le Grand-Orient de France et la Paix” (36). Esclusa, dunque, la decisività di un’eventuale azione massonica nel révirement della politica estera britannica, resta da capirne il motivo. Perché Churchill prepara minuziosamente la guerra, prefigurando la Germania come nemico e la Francia come alleato, trovando riscontro sulla sponda opposta della Manica (37). Pur essendo estraneo al tema di questo lavoro, riteniamo di dire la nostra opinione in merito. A nostro avviso, se Chamberlain aveva firmato con piena convinzione l’accordo di Monaco, Daladier lo aveva fatto con una sorta di “riserva mentale”, spinto solo dal convincimento di non possedere più gli strumenti politici, economici e militari per continuare ad esercitare la funzione di “gendarme di Versailles”, come dichiara candidamente il Ministro degli Esteri Étienne Flandin davanti alla Commissione Affari Esteri dell’Assemblea nel febbraio 1938 (38). Ed in questo quadro, Daladier aderisce all’accordo di Monaco a traino di Chamberlain, non potendo fare a meno della stretta alleanza con il Regno Unito, onde il frenetico attivismo di Churchill gli consente di rimettere in gioco la sua tendenza antitedesca (39). In realtà, sia Churchill, sia Daladier vogliono la guerra con la Germania perché, in un gioco geopolitico che coinvolge Europa, Asia ed Africa, temono più l’espansionismo verso Est della Germania e la contemporanea presenza dell’Italia in Africa che non l’espansionismo sovietico verso Ovest: anzi, in questo gioco “globale”, l’URSS viene vista come un argine all’imperialismo nipponico (40).

Il 1° settembre 1939, la Germania invade la Polonia. È la scintilla che farà scoppiare quella che sarà denominata “Seconda Guerra Mondiale”, che vedrà schierate le democrazie “occidentali” a fianco dell’URSS contro gli stati fascisti e l’Impero del Giappone. Se è da escludere qualunque influenza massonica nella decisione di Francia e Regno Unito di abbandonare l’appeasement e preparare la guerra, è viceversa massiccia la partecipazione massonica alla guerra, in supporto alla coalizione antifascista. La guerra – infatti – inizia per motivazioni squisitamente geopolitiche, ma presto assume le caratteristiche di uno scontro tra Weltanshauung, riassunte dallo slogan fascista della “lotta del sangue contro l’oro” (41) e dal discorso di Churchill ai Comuni il 3 settembre 1939: «Combattiamo per salvare il mondo dalla pestilenza della tirannide nazista e in difesa di quanto vi è di più sacro per l'uomo ... È una guerra, considerata nella sua qualità intrinseca, per edificare su fondamenta incrollabili i diritti dell'individuo, una guerra per affermare e ripristinare la statura dell'uomo» (42). Soprattutto dopo l’entrata in guerra degli USA, le logge statunitensi si mobilitano con un grande sforzo finanziario e logistico. La Fratellanza istituisce i “Masonic Service Centers” per il coordinamento delle attività massoniche in supporto agli Alleati. Si apre una sottoscrizione di massa tra i fratelli, che alla fine della guerra raggiungerà una cifra superiore a 5 milioni di dollari (43); si istituiscono centri logistici in vicinanza delle basi militari dove si provvede a reclutare ed addestrare i militi da inviare al fronte. Non solo, ma il supporto logistico viene fornito dalle logge statunitensi anche alle truppe impegnate oltremare, fornendo pasti caldi e attrezzature ricreative attraverso l’allestimento di strutture gestite con i fondi della Fratellanza (44). Già, comunque, la Massoneria francese, nel momento dell’invasione tedesca, superando il precedente tentennamento di cui si è detto, si mobilita e chiama i fratelli alla lotta. Con una lettera del 21 maggio 1940, il GODF assicura al Presidente del Consiglio che la Fratellanza porta il suo contributo al governo per la lotta all’invasore (45).

Dopo la capitolazione, il maresciallo Pétain, vincitore di Verdun (battaglia decisiva della Prima Guerra Mondiale), forma il governo che riceverà i pieni poteri il 10 luglio 1940. Del governo fa parte uno dei dignitari del GODF, l’ex Presidente del Consiglio Camille Chautemps, il quale viene avvisato da Pétain circa l’intento repressivo del governo nei confronti della fratellanza. Nonostante ciò, 68 deputati massoni votano favorevolmente all’attribuzione dei pieni poteri a Pétain. A fronte della repressione del governo, l’intero GODF è posto in sonno, come il 7 agosto 1940 comunica a Pétain il Gran segretario dell’Ordine, Louis Villard (46). Inizia la resistenza all’occupazione tedesca ed al governo di Pétain. Alcuni dei capi del movimento (Pierre Mendès France, Marius Dubois, Jean Zay), appartengono alla fratellanza; tra i caduti della resistenza, figura Constant Chevillon, Gran Maestro dell’Ordine Martinista (47). Ma, soprattutto, nuclei armati si organizzano attorno alle logge, che vengono create nella clandestinità, a volte da “fratelli” appartenenti ad ambo le maggiori obbedienze; le varie logge si riuniscono per dare vita ad un organismo resistenziale aperto anche ai profani, “Le Cercle”, un continuo supporto viene offerto ai resistenti francesi dalle logge inglesi, con l’opera di collegamento curata incessantemente da Henri Manhès, onde, a giusta ragione si può parlare di una “resistenza massonica” nella Francia di Vichy (48), come sarà rivendicato alla convenzione massonica del 1945 dal Gran Maestro della GLDF Michel Dumesnil de Gramont (49).

Il 10 giugno 1940, alla vigilia della capitolazione della Francia, l’Italia dichiara guerra alla stessa Francia ed al Regno Unito. Nel discorso di annuncio, rivendica a sé tutti i tentativi compiuti per la causa della pace, e addossa ai nemici la responsabilità dello scoppio della guerra, di cui individua le cause nelle sanzioni del 1935, concetto che ripeterà più volte nel corso della guerra (50). Nel frattempo, i massoni italiani, pur continuando la loro azione nella clandestinità, non riescono a trovare riscontro né in Italia (dove, comunque, l’attività è ridotta al minimo, stante la stretta sorveglianza della polizia), né all’estero, dove continua l’ostracismo delle logge nei confronti dell’Istituzione, pur nella cordiale ospitalità accordata ai “Fratelli” (51). Tedeschi tenta di tenere comunque in piedi l’organizzazione. In una lettera dell’11 maggio 1939 (52), Tedeschi ribadisce i concetti già espressi qualche mese prima, portandosi ben oltre il semplice invito alla diserzione e “chiamando alle armi” i Fratelli: «Se vi sarà la guerra ... non sarà una guerra fra la Francia e l’Italia ma fra la democrazia e la dittatura e gli italiani che si batteranno nelle fila francesi avranno di fronte no gli italiani ma gli attuali dominatori del nostro paese i nazional-socialisti ed i fascisti». Morto Giuseppe Leti il 1° giugno 1939, Tedeschi perde quello che era stato il perno dell’attività della Fratellanza in esilio. Al momento dell’invasione della Francia da parte della Germania, Tedeschi, ebreo e massone, teme per la sua libertà e per la sua stessa incolumità, onde prepara la successione ed alla sua morte, il 19 agosto 1940, ne prende il posto Davide Augusto Albarin, Ma l’attività dei massoni italiani è nulla. Le ossessioni fasciste per le “trame delle logge”, che montano sempre più, soprattutto quando le sorti della guerra volgono in favore degli Alleati, attribuendo ad ebrei e massoni il “sabotaggio” antitaliano (53), hanno un fondo di attendibilità se si riferiscono all’attività della Massoneria Universale, in particolare attraverso le logge statunitensi, inglesi e francesi (54), ma non certo al GOI (l’obbedienza di Piazza del Gesù, come detto, è sparita dal 1926).

Note:
1 – Eugen Lennhoff, “Il libero muratore”, pref. di Lino Salvini, appendice di Giordano Gamberini, Bastogi, Livorno 1972, pp. 317-23 (Internazionalismo massonico) e pp. 365-68 (Massoneria e Società delle Nazioni).
2 - Gentile “Fascismo, storia e interpretazione”, cit., pp. 31 ss.; De Felice, Mussolini: Il duce: 1. Gli anni del consenso, 1929-1936. Einaudi, Torino 1974, pp. 331 ss.
3 - Di Rienzo - «Una Grande Potenza a solo titolo di cortesia» - Appunti sulla continuità tra tradizione diplomatica dell’Italia liberale e politica estera fascista 1922-1935, in NRS, 2017, p. 451.
4 - Di Rienzo, op. e loc. ult. cit.; Ernst Nolte, voce “Razzismo” in “Alfabeto Treccani”, pos. Kindle 532; De Felice – “Mussolini il duce: Lo Statototalitario 1936-1940”, Einaudi, Torino 1981, pp. 88 ss.; Gentile, “Fascismo e interpretazioni”, cit., p. 33; Patrick Buchanan, “Churchill, Hitler and the Unnecessary War: How Britain Lost Its Empire and the West Lost the World”, New York, Crown, 2008, pp. 157-161.
5 - Pierre Chevallier,op. cit., p. 162
6 - ASGOI, b. 6
7 - André Combes, 1914-1968 La franc-maçonnerie, coeur battant de la République, Éditions Dervy, Paris 2018, p. 61
8 - Sul punto, cfr. David Bidussa, “Gli intellettuali e la questione della pace (1938-1941)”, in Annali della Fondazione Feltrinelli, 1985, pp. 69 ss.
9 - Il discorso è in “The British War Bluebook”, pubblicato nel 1997
10 - Antonio Spinosa, “Hitler”, Mondadori, Milano 1991, p. 409
11 - Eugenio Di Rienzo – Emilio Gin, “Le Potenze dell’Asse e l’Unione Sovietica, 1939-1945”, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, p. 45
12 - L’espansione a Est era un’aspirazione di Hitler fin dagli inizi della sua attività politica (tra l’altro, era figlio di una boema): il penultimo capitolo del suo manifesto politico “MeinKampf” è – appunto – intitolato “Ostpolitik” (politica verso Est)
13 - André Combes, op. cit., p. 61; Daniel Beresniak, “La franc-maçonnerie en Europe de l'Est”, Editions du Rocher, Monaco 1992, pp. 73 ss.
14 - ibidem
15 - Martin Gilbert, “Churchill, vita pubblica e privata”, trad. it. Davide Panzieri, Mondadori, Milano 2017, cap. 23, “Da Monaco alla guerra”
16 - La Polonia, risorta dalle sue ceneri dopo la Prima Guerra Mondiale, era stata (ri)creata dal nulla con il Trattato di Versailles, che aveva annesso alla neonata entità statale territori di etnia diversa. Il territorio di Danzica era stato eretto a “Città libera”, che – però – era legata alla Polonia da un’unione doganale. La Germania rivendicava non solo il territorio libero, ma anche un “corridoio”, che lo unisse alla Germania.
17 - Gilbert, op. e loc. ult. cit.
18 - Di Rienzo –Gin, op. e loc. ult. cit.
19 - All’epoca Gran Maestro Onorario dell’Ordine di Demolay, l’organizzazione giovanile massonica – cfr. William Denslow, “10,000 FamousFreemasons” - Cornerstone Book Publishers – New Orleans, 2007, pos. Kindle 37145
20 - Chevallier, op. cit., p. 163 – il virgolettato è in francese nell’originale - traduzione a cura di chi scrive
21 - Marc Ferro, “La Seconda Guerra Mondiale. Problemi aperti”, trad. Giovanni Campari - Giunti, Firenze 1993, p. 13
22 - Gilbert, op. e loc. ult. cit.
23 - Norman Davies, “Storia d’Europa”, Bruno Mondadori, Milano, 2001, pp. 1115 ss.
24 - Denslow, op. cit.
25 - In effetti, il «Times» del 20 agosto 1939 riporta che il Gran Maestro delle UnitedGrand Lodge of England avrebbe promesso l’appoggio della Massoneria in caso di guerra, ma ad avviso di chi scrive l’episodio è stato fin troppo enfatizzato. Il Gran Maestro era il duca di Kent, figlio del Re, appena assurto alla carica. L’ipotesi più probabile, visto che ormai era chiaro che la guerra sarebbe stata inevitabile, è che si sia trattato di un colloquio privato nel corso del quale il padre avrebbe chiesto al figlio quale sarebbe stato l’atteggiamento della Massoneria a guerra scoppiata.
26 - Mark Stanford, “Masons and War: Freemasonry during World War Two”, in Historica, 2013, p. 142
27 - James Burgwyn, “Italian Foreign Policy in the Interwar Period”, 1918-1940, Greenwood Publishing Group, 1997 - p. 38
28 - Churchill by Himself: The Definitive Collection of Quotations (2011) by Richard Langworth, p. 169 – in inglese nell’originale, traduzione a cura di chi scrive
29 - Tariq Alì, Introduction on Ralph Miliband, “Class War Conservatism and Other Essays Paperback”, 2015
30 - Gilbert, op. cit., cap. 8, “Al Parlamento”; cfr. l’autobiografico Winston Churchill, “Riconquistare Karthoum”, Piemme, Milano 1999. Il comportamento di Churchill nelle colonie ha portato Ludo Mertens a giudicare il premier britannico come «criminale … paragonabile a Hitler» – “Stalin: un altro punto di vista”, Zambon, Venezia 2017, p. 56
31 - Buchanan, op. cit., p. 17; Giorgio Galli, “La Magia e il potere”, Lindau, Torino 2012, p. 330
32 - Ad accomunare ebrei e massoni come nemici della Germania era stato l’eroe della Prima guerra mondiale Erich Ludendorff, in diversi pamphlets in cui addossa agli uni ed agli altri la responsabilità dell’umiliazione della Germania con il trattato di Versailles ed auspica una Germania liberata da ebrei e massoni. Ad indicare ebrei e massoni quali cospiratori contro la Germania è anche il teorico del razzismo biologico Alfred Rosenberg con il libro “DasVerbrechenderFreimaurerei. Judentum, Jesuitismus, DeutschesChristentum”, pubblicato nel 1921, ma soprattutto con il suo più famoso “DerMythusdes 20.steJahrhunderts”, del 1929, che, insieme con il MeinKampf, costituirà il vademecum dell’ideologia nazionalsocialista.
33 – Per approfondimenti, si rimanda a Paul Jankowski, «Cette vilaine affaire Stavisky, Histoire d'un scandale politique», Paris, Fayard, 2000
34 - Combes, op. cit., pp. 37 ss.; Pierre Chevallier, op. cit., pp. 126 ss.
35 - Combes, op. cit., p. 62
36 - Chevallier, op. cit., pp. 166 ss.
37 - Gilbert, op. cit., cap. 23, “Da Monaco alla guerra”
38 - Jean Quellien, Histoire de la Seconde Guerre mondiale, Éditions Ouest-France, Rennes 1995, p. 28
39 - Daladier, di ritorno da Monaco, teme di essere linciato dalla folla per il patto stretto con chi considera nemico della Francia. Resta sorpreso dall’accoglienza festante che trova a Le Bourget – cfr. Patrick Buchanan, op. cit., p. 232. Questo episodio ci consente di dissentire da Eric Hobsbawm che, in “The Age of Extremes” – “Il secolo breve”, Rizzoli, Milano 1994, sostiene che fu la piazza a spingere Daladier alla guerra.
40 - Churchill, pur da personaggio formalmente marginale del governo Baldwin, era stato tra i principali fautori delle sanzioni economiche all’Italia per la guerra d’Abissinia – cfr. Martin Gilbert, op. cit., cap. 21 – “Il momento della verità”. Sulle motivazioni geopolitiche delle preoccupazioni inglesi per l’espansione italiana in Africa, cfr. Eugenio Di Rienzo, “Il «Gioco degli Imperi», la Guerra d’Etiopia e le origini del secondo conflitto mondiale” - Biblioteca di Nuova Rivista Storica” – Società Editrice Dante Alighieri, 2016.
41 - «contro Giuda, contro l'oro sarà il sangue a far la storia», cantavano i Battaglioni M
42 - Gilpert, op.cit., cap. 24, “Ritorno all’Ammiragliato”
43 - “Freemasonry in Europe. Report of the Committee sent abroad in August,1945, by the Masonic Service Association to ascertain the conditionsand needs of the Grand Lodges and Brethrern in the OccupiedCountries” - The Masonic Service Association, Washington,1945
44 - Stanford, op. cit., p. 143
45 - Chevallier, op. cit., pp. 168 ss.
46 - Combes, op. cit., p. 62
47 - Chevallier, op. cit., p. 219
48 - Combes, op. cit., pp. 65 ss.
49 - Chevallier, op. cit., pp. 204 ss
50 - tra l’altro, nel discorso all’Adriano di Roma il 1° febbraio 1941
51 - Tipico il caso del massone calabrese Francesco Galasso, che opera all’interno della Gran Loggia di Londra – Fedeli, “La Massoneria nell’esilio e nella clandestinità”, cit., pp. 55 ss.; id., “La diaspora massonica e l’antifascismo”, in AA.VV.. “La Massoneria: La storia, gli uomini, le idee”, cit., pos. Kindle 4291 ss.
52 - ASGOI, Lettera di Tedeschi dell’11 maggio 1939.
53 - È del 1941 il violentissimo pamphlet di Giovanni Preziosi “Giudaismo Bolscevismo Plutocrazia Massoneria”
54 - Difatti Preziosi si riferisce alle logge inglesi e francesi, anche se parla di un piano di “infiltrazione massonica” nelle Forze Armate Italiane e nel PNF.

(continua…)

Luigi Morrone per la Redazione di Ereticamente

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