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Una truffa chiamata debito pubblico – Umberto Bianchi

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E’ da un po’ troppo tempo che ci sentiamo ripetere, a mò di ossessivo “mantra”, che il debito pubblico è eccessivo, o che il suo sforamento può portare a gravi conseguenze per l’economia del nostro paese o che, ancor peggio, in virtù di tale debito siamo obbligati ad adottare delle politiche all’insegna dell’ “austerity” e della stagnazione economica, attraverso odiosi taglia alle spese sociali ed ai salari. L’immagine di un’Italia quale “sorvegliata speciale”, non rende giustizia ad uno stato di cose conseguente ad un’ altra e ben più scomoda, verità. Ma vediamo di procedere per gradi.

Cerchiamo, anzitutto, di dare una definizione di debito pubblico. Per debito pubblico “strictu sensu”, in scienza economica si intende il debito dello Stato nei confronti di altri soggetti sia nazionali che esteri - quali individui, imprese, banche o addirittura Stati che, attraverso l’acquisto di obbligazioni o titoli di stato (in Italia BOT, BTP, CCT, CTZ e altri) hanno sottoscritto un credito a quello stesso Stato, destinato a coprirne il fabbisogno monetario di cassa, ovvero l'eventuale deficit pubblico cumulato nel proprio bilancio e la copertura dei relativi interessi. A questo punto, però, al di là di una rigorosa, ma arida definizione, sorgono, immediate, due considerazioni strettamente interrelate.

La prima ci pone dinanzi alla riflessione di ordine statistico per cui, a fronte di un progressivo indebitamento pubblico, si ha una maggior crescita di reddito e ricchezza tra i privati. Ed il fatto che l’Italia, con il suo tanto deprecato debito pubblico, sia uno tra i maggiori paesi al mondo detentori di ricchezza privata ce la dovrebbe dir lunga. Da questa prima considerazione ne deriva una seconda, per la quale, le politiche di bilancio ed indebitamento ben coordinate dallo Stato, hanno sempre finito con il creare occupazione, spinta al consumo e, di conseguenza, benessere generalizzato. E siamo arrivati alla teoria keynesiana ed alle sue più eclatanti applicazioni, dal New Deal di Roosvelt, alla organizzazione delle economie degli Stati Totalitari presenti prima dell’ultimo conflitto mondiale, quali Germania ed Italia e via discorrendo con altri similari esempi.

La qual cosa potrebbe ingenerare un certo mal di pancia nei vari apologeti di uno sterile politically correct che, in preda ad un mistico furore, ci risponderebbero che quegli sciagurati esempi non dovrebbero far testo e che, comunque, a lungo andare, tutte quelle economie successive al secondo conflitto mondiale che hanno continuato a cullarsi in un ozioso keynesismo o, comunque, in un rilevante interventismo pubblico, son finite male assai, Grecia, Spagna ed Italia, con il suo abnorme debito, in primis. Per non parlare di quelle economie di Paesi emergenti del Terzo Mondo, ove il pubblico intervento, (sempre a detta di costoro…), ha ingenerato spirali debitorie ed un susseguirsi di fallimenti a non finire.

La prima e più spontanea risposta sta proprio nel “come” il debito viene gestito ed emesso. E veniamo ad un esempio di stretta attualità. Il Brasile sta vivendo una tra le più pesanti crisi economiche della sua pluridecennale storia di alternanze tra momenti di subitanea ascesa ed di altrettanto subitaneo ripiombare in ambasce ed esiziali difficoltà economiche. I precedenti governi a guida PT (Partido dos Trabalhadores, Sinistra-quasi-radicale...) a guida Lula da Silva e, successivamente Dilma Roussef, avevano fatto leva su un indebitamento pubblico che nell’attingere direttamente dalla Caixa Economica Federal (Istituto di Credito Pubblico) attraverso una sconsiderata ed incontrollata elargizione di credito alle fasce più povere di popolazione che ne andava ad aumentare, momentaneamente, il livello di benessere individuale ,senza però, arrivare a creare nuove opportunità di quel lavoro, i cui proventi, invece, avrebbero potuto determinare quel salto di qualità necessario a determinare una duratura stabilizzazione economica.

Il tutto, accompagnato ad un regime di elevata pressione fiscale (la prima in America Latina…) che non ha di certo contribuito alla riuscita delle politiche “petiste”. Quell’elargizione ha determinato un debito mai rientrato nelle casse statali e comunque non foriero di crescita nel medio termine. Ed alla fine, come abbiamo potuto vedere, il conto si è presentato. La mala gestione del debito, può costituire una sicura aggravante e pesare in modo determinante sui destini di un paese ma, a ben vedere, non ne rappresenta certo il motivo principale.

Quello del debito pubblico è un problema che ha la propria scaturigine in motivi diversi da quelli legati al suo semplice palesarsi in quanto tale. E tanto per fare un esempio sulla sua inanità e sulla sua assoluta solvibilità, senza tante tragedie, riportiamo un rapporto della McKinsey Global Institute (MGI) a firma di Richard Dobbs, Susan Lund, Jonathan Woetzel e Mina Mutafchieva ed intitolato “Debt and (not much) deleveraging”, che afferma che ”il debito di Stato detenuto dalle Banche Centrali (o qualunque altro ente governativo) in un certo senso è solo un’entrata contabile, che rappresenta la rivendicazione di una parte del governo verso un’altra. Inoltre, tutti i pagamenti dell’interesse su questo debito sono tipicamente inviati alla tesoreria nazionale, quindi il governo sta effettivamente pagando sé stesso”. Stiamo parlando, praticamente, di una cosiddetta “partita di giro”: lo Stato, deve dei soldi a sé stesso e pertanto non bisogna dare niente a nessuno.

Ipotesi questa, tranquillamente palesata negli anni passati su molti ed influenti media internazionali. Tanto per citare un altro esempio. Nell’Ottobre 2012, Ambrose Evans-Pritchard del Telegraph cita il rapporto di due ricercatori del Fondo Monetario uscito l’agosto di quello stesso anno, dimostrante con dati matematici che, se lo stato stampa moneta in misura sufficiente, può eliminare sia il debito pubblico che il credito bancario con risultati ampiamente satisfattori per PIL, reddito e via discorrendo.

Un altro studio, a firma degli esperti di Pictet Asset Management, Steve Donzè e Hiroshi Matsumoto, “Helicopter money: credible irresponsibility in Japan?” ci suggerisce che, anche in casi come quello dell’Eurozona, in cui la Banca Centrale non è sotto il controllo del governo, si potrebbe “rimpiazzare il debito governativo sul bilancio della Banca Centrale con una obbligazione perpetua a tasso zero”, tramite l’acquisto di bond “zero-coupon” a scadenza illimitata, cioè titoli del debito governativo che non generano interessi e che non devono essere mai pagati in quanto non scadranno mai. L’ipotesi allo studio dalla stessa BoJ (Bank of japan) prevederebbe inoltre la graduale sostituzione dei titoli di stato con questi “perpetual zero-coupon”.

Con questa soluzione, a detta degli studi che abbiamo citato, il debito verrebbe azzerato e cancellato dal bilancio statale. Anche se tecnicamente, un fatto del genere comporterebbe un disavanzo di bilancio, dato che le passività sarebbero superiori alle attività, essendo (teoricamente…) le Banche Centrali non soggette a quei test di solvibilità previsti per le banche del settore privato e non dovendo avere gli stessi requisiti patrimoniali in quanto titolate della esclusiva potestà di creare denaro, non potranno mai trovarsi prive di solvibilità. Sempre secondo lo stesso studio, quella di banche centrali con un patrimonio negativo non è certo una novità: secondo quanto riferito dalla Banca dei Regolamenti Internazionali (BIS), quelle di Cile, Repubblica Ceca e Israele hanno operato per anni con capitale negativo.

Venendo alle cause all’origine del debito pubblico; a detta degli studi compiuti da autori come Ferrero e Bersani, in Italia, il problema del debito, causato da una sua ipertrofica e sproporzionata crescita, comincia a prender forma nel 1981 attraverso la scissione Tesoro-Banca d’Italia.L’indipendenza della Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro ha avuto implicazioni più che evidenti sulle casse statali. Sino a quel momento, difatti, i titoli pubblici invenduti erano comunque soggetti ad una garanzia da parte della Banca d’Italia che, in tal modo, limitava le speculazioni. A seguito di questa scissione si sarebbe delineata la truffa del debito pubblico: lo Stato tramite il rialzo dei tassi di rendimento degli stessi, avrebbe pagato così interessi superiori rispetto al tasso d’inflazione, al fine di vendere tutti i titoli non più coperti dalla Banca d’Italia.

È da questo momento che il debito pubblico avrebbe iniziato una crescita spropositata, lasciando il campo libero alla speculazione finanziaria italiana. Secondo quanto riportato dall’analisi del Bersani, dal 1990 al 2015, gli italiani avrebbero versato 700 miliardi in più allo Stato rispetto ai servizi effettivamente ricevuti, contestualmente ad un aumento del debito causato dagli interessi, praticati da quei mercati da cui lo Stato ha cominciato a farsi finanziare. Così il nostro debito è passato dal 60% al 120% in pochi anni, dando così il “la” all’introduzione delle prime misure di rigore e dei famigerati ed indiscriminati tagli alla spesa pubblica.

Quanto sin qui detto, però, è frutto di una visione molto parziale e “tecnicistica” di un problema che, a nostro parere, ha bisogno di esser inquadrato in una più ampia prospettiva. L’emissione di bond a tasso zero, al pari della scissione di Bankitalia dal Tesoro, rappresentano solo degli interessanti spunti di riflessione di cui bisogna, però, ricercare la causa prima ab origine, cioè analizzando il fenomeno Globalizzazione nel suo complesso.

Le ragioni che presiedevano allo sganciamento del 1971 da parte del Dollaro Usa dal riferimento al valore dell’oro e, quindi, dal dettato- principe degli accordi di Bretton Woods, troverà un suo decisivo ed ulteriore sviluppo nella clintoniana abrogazione della Legge Steagall che separava l’attivita delle banche di Investimento da quelle di Risparmio, nella completa deregulation per quanto attiene l’emissione e la gestione dei cosiddetti “junk bonds”/titoli-spazzatura, nei vari accordi sul commercio internazionale WTO successivamente siglati e nella progressiva perdita di sovranità monetaria da parte delle varie banche nazionali dell’Eurozona in favore della BCE.

Tutti fatti questi, che amplificheranno e daranno maggior incisività alla pratica del signoraggio bancario, ovverosia ad un aumento del costo di emissione del circolante che, oramai emesso da istituti di credito privati sotto la copertura di banche nazionali (o direttamente di una sola, come nel caso della BCE, sic!), determinerà l’aggravamento e lo spostamento del nostro famoso debito pubblico dalle casse dello Stato, direttamente alle tasche dei cittadini che, nel ruolo di primi fruitori e portatori della valuta circolante, si troveranno, pertanto, a dover pagare senza poter batter ciglio, oltre agli interessi del debito pubblico, anche il costo del denaro posseduto.

Un problema non nuovo questo, ma ora amplificato ed esasperato da uno scenario economico di tipo neoliberista, per il quale le soluzioni non possono essere identificate se non in un decisivo cambio di rotta delle attuali politiche nazionali e comunitarie, sia in ambito strettamente europeo, che in ambito mondiale. La riconquista di una sovranità economica e politica completa, deve avvenire per gradi, smantellando pezzo per pezzo tutti gli elementi che, ad oggi, costituiscono il grande edificio istituzionale globale.

E questo proprio iniziando dalla dismissione del circo equestre di Bruxelles, a favore di una Comunità di Stati Indipendenti, che lasci ai vari soggetti nazionali, le mani libere nel gestire le proprie economie, a cominciare dalla nazionalizzazione delle Banche Centrali a cui verrebbe restituita la possibilità di creare moneta senza finanziamenti da parte di istituzioni privati (e quindi la fine “de facto” del cappio del signoraggio, sic!), o quella di svolgere politiche di bilancio libere da vincoli e catene comunitari, per favorire lo sviluppo economico di un paese.

Premesso l’irrinunciabile abbandono della moneta unica (Euro…) in modo graduale, attraverso un periodo caratterizzati da un regime di doppia circolazione monetaria, per quanto riguarda il nostro paese, proprio a detta di certi studi “fuori dalle righe”, vi sarebbero alcune mosse fondamentali da realizzare per iniziare a smontare l’edificio globale. Anzitutto, andrebbe nazionalizzata Bankitalia che, in tal modo, potrebbe fornire liquidità al sistema bancario se necessario, (non senza rinunciare, da parte del Tesoro, alla possibilità di nazionalizzare quegli istituti in “default”, sic!) assumendo, inoltre, la funzione di prestatore di ultima istanza a supporto del fabbisogno pubblico e agendo sul cambio,con l’obbligo di intervento in asta. Per ultimo, la rimessa in campo dell’Iri, nel pieno delle sue funzioni di controllo e supporto.

Il secondo gruppo di iniziative necessarie, dovrebbe consistere in una totale cancellazione e rinegoziazione degli accordi economici internazionali Gatt (Uruguay Round e Doha…) , al fine di ritornare ad una sana forma di protezionismo a favore delle singole economie nazionali, anche per evitare la scandalosa svendita e cessione delle nostre migliori firme commerciali in mani straniere. Il tutto, accompagnato da una radicale rivisitazione di tutti quegli accordi di matrice politica, alle varie istituzioni sovranazionali.

A conclusione di quanto abbiamo detto, appare chiaro che quello del debito pubblico è, in verità, un vero e proprio “non problema”, perché alle sue origini sta un concetto distorto della gestione dell’economia pubblica, causato da una codina subordinazione ai “desiderata” dei centri del potere finanziario globale. Eppure, proprio in virtù del suo essere un “non problema”, quello del debito pubblico è il primo, fondamentale tassello, per poter iniziare un autentico percorso di ricerca e riconquista di quella tanto agognata “sovranità perduta”, di cui, oggidì, tutti noi sempre più, sentiamo l’impellente necessità. UMBERTO BIANCHI

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Giacomo Balla (1^ parte) – Emanuele Casalena

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[caption id="attachment_31048" align="alignright" width="190"] Giacomo Balla (Torino 1871-Roma 1958)[/caption]

Via Oslavia 39-b, un raggio di Piazza Mazzini nel rione Prati a Roma, dal 1929 al quarto piano del palazzo ci abitavano Luce (Lucia) ed Elica con papà Giacomo Balla e mamma Elisa Marcucci. Una famiglia colorata, tutta di artisti, in un quartiere invece grigio verde col tocco nero delle toghe, cioè impiegati, militari, amministratori di giustizia, incolonnati su palazzoni in stile umbertino o nei cortili delle caserme di sapore rinascimentale, seguendo l’eclettismo fine Ottocento. Prati nomen omen, tutta quella terra un tempo era campagna fin dalle vigne degli Horti Domiziani, tale rimase fino al 1883 quando il secondo Piano Regolatore di Roma (dell’ing. A. Viviani) creò la destinazione a calce, mattoni e anfibi del quartiere più anticlericale della caput Italiae. Edifici imponenti, severi, quinte affacciate su strade ampie e piazze studiate però a che non si vedesse il cupolone di S. Pietro, compasso della Massoneria liberal per isolare ciò che restava dello Stato pontificio. La toponomastica recitava di eroi del Risorgimento o di illustri personaggi dell’Urbe imperial-pagana, poche le chiese messe a latere, quasi nascoste con quel viale intitolato a Cola di Rienzo, autentico schiaffo al monarca pontificio. Prati fu un esempio dell’ urbanistica piemontese mutuata dalla Parigi di Haussmann per dare forma alle esigenze d’una popolazione in crescita tumultuosa, in una città che, eletta suo malgrado capitale del Regno, doveva accoglierne le strutture amministrative copiando le altre capitali d’Europa, doveva brulicare di progresso, dal trasporto alla salubrità delle case, alla difesa militare fino alle colonne vertebrali di scuole, commercio, svago. Prati non era un quartiere bohémien, non ci si respirava l‘incenso sacro dell’arte di villa Strohl Fern o di via Margutta, era un razionale rione borghese, ancor’ oggi paludato in giacca, cravatta e l’immancabile borsa di pelle degli avvocati.

Forse Giacomo Balla ci ritrovava la sua Torino dove era nato il 18 luglio 1871, pronipote di una famiglia di decoratori-tintori di tessuti, ma para faceva il cameriere, mara la sartina in casa per conto terzi, lui era l’unico fiorellino di un matrimonio entrato presto in crisi. El fieul c’aveva l’arte nei cromosomi, studiava musica fin da picinin, archetto da sfregare sul violino, mentre mamma Lucia, messasi in proprio, disegnava realizzando decorazioni per abiti, tingeva stoffe, rispolverava la tradizione di famiglia, lui osservava attento avvertendo il semino della pittura germogliare facendosi albero della sua vocazione. Riposta l’arte di Paganini mammà decise di scommettere su quell’unico figliolo, donna autoritaria o meglio autorevole, seguì il suo Giacomo negli studi, tre anni preparatori alla Reale Accademia Albertina poi due nel corso di pittura dell’accademico G. Grosso che gli inculcò ben bene la tecnica dell’ars pingendi, mentre l’allievo sperimentava anche l’incisione. Ma la sua pianta s’arricchì di un nuovo ramo, la fotografia, passione trasmessagli dal padre, un’arte nuova antitetica alla pittura dal vero, per oggettività, tempo, fedeltà d’immagine. Ebbe la fortuna di entrare nello studio fotografico più in d’Italia, in quel momento, quello del pittore-fotografo Paolo Bertieri,  immortalatore della società perbene di Torino. Bivio artistico per il giovanotto: seguire le tecniche tradizionali o tuffarsi nel fiume delle sperimentazioni meccaniche già al galoppo, un dilemma anche di mercato vissuto dalle correnti parigine, dall’impressionismo al pointillisme di Seurat. L’operatore autentico della foto, si sa, è la luce, l’uomo ha il compito di regolarne la quantità col tempo d’esposizione, ma c’è di più si possono cogliere, con gli scatti, le varie fasi del movimento prologo agli studi sul fotodinamismo futurista del frusinate Anton Giulio Bragaglia.

Mamma e figlio si trasferiscono a Roma nel 1895, perché? Beh come direbbe Ceronetti, Torino è una città paludata e noiosa chissà perché Nietzsche la prediligesse, Roma era la Capitale, con un patrimonio d’arte unico al mondo ed era un gran cantiere ma non solo, proprio nell’Urbe disincantata l’arte friggeva. Il gancio umano per stabilirsi nella città eterna fu zio Gaspare Melchiorre, guardiacaccia dei Savoia, che viveva addirittura al Quirinale, un bell’appoggio per Lucia Giannotti e il feuil Giacomino.

Balla, in quel periodo, calzava, insoddisfatto, il suo primo abito di artista pittore fatto di pennellate filamentose seguendo la tecnica del divisionismo di Previati e Pellizza da Volpedo, stessa strada del primo Boccioni o di Mario Sironi, testimone di stile ne è “Luci di marzo” del 1897.

[caption id="attachment_31047" align="alignright" width="300"] Giacomo Balla. Luci di marzo, 1897[/caption]

I soggetti delle sue opere sono sociali in linea col realismo di Pellizza da Volpedo, Segantini, il novarese Sartorio e quel Duilio Cambellotti impegnato con un altro torinese Giovanni Cena e la scrittrice Sibilla Aleramo alla qualificazione dei villaggi rurali dell’Agro romano come delle paludi pontine in stato di completo abbandono.

Dopo la sua “prima” alla rassegna della Società Amatori e Cultori di Belle arti del 1899, parte per Parigi a visitare l’Expo del 1900, un incontro vitale con ciò che bolle in pentola, dal post impressionismo di Seurat e Signac, all’Art Nouveau delle Secession, allo sviluppo dell’arte magra della fotografia; ritorna con molti spunti da trasferire nella composizione delle sue opere con una tavolozza intrisa di luce (sua idea fissa). Il suo studio-casa è ai Parioli, esattamente in via Paisiello, prima che le ruspe creassero il quartiere più borghese di Roma, ed è frequentato da menti notevoli nell’arte da Gino Severini ad Umberto Boccioni fino al giovanissimo Mario Sironi, l’obiettivo è superare la stagnazione romantica dell’arte italiana, cogliendo i segnali del cambiamento socio-politico, ma la strada è lunga. La sua stagione è nel verismo sia nei ritratti con taglio fotografico che nei paesaggi della vicina Villa Borghese, un soggetto dipinto più e più volte, quasi un’ossessione, sembra mutuata dalla montagna di Sainte-Victoire di Paul Cézanne. Neppure la fotografia avrebbe reso con tanta intensità e introspezione il ritratto dell’anziana madre ripresa in primo piano, mentre gli scorci della villa testimoniano una tecnica puntinista.

 

[caption id="attachment_31045" align="alignright" width="298"] Giacomo Balla, Ritratto della madre, 1901 e scorci di Villa Borghese a Roma[/caption]

 

 

 

 

 

 

 

Dopo la partecipazione alla sua prima biennale di Venezia nel 1903, l’anno che verrà decide di impalmare la bellissima Elisa Marcucci sorella dell’artista educatore Alessamdro, lei gli darà due figlie Lucia (Luce) ed Elica vestali del lavoro e della casa paterni. La ricerca di Balla sembra attendere il ma la sua prima stagione si sta esaurendo, decisivo l’incontro col sulfureo F. T. Marinetti, la miccia è accesa, la bomba esplode sulle pagine de Le Figaro il 20 febbraio 1909 col Manifesto del Futurismo che al punto 4 afferma: “Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo... un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Nike di Samotracia .  Dal 1912 Balla ne dipingerà più di venti di auto lanciate nella corsa fissando il progredire degli attimi successivi sempre più brevi legati all’accelerazione della velocità deformatrice d’oggetto e spazio circostante. Era invece del 1909 il famoso dipinto “Lampada ad arco” un’anteprima dei suoi studi sulla scomposizione dei colori di una fonte di luce come percepita dai nostri occhi, idem per i corpi dinamici, perché oggetto e spazio sappiamo che interagiscono, si muovono (pensiamo ad un’auto o un treno ed al paesaggio che scorre) sia per l’esperienza del soggetto al centro del fatto, sia per il persistere retinico delle immagini osservate in base alla teoria della “percezione simultanea”. Tutto è dinamica, masse in movimento, persino una statua vista da inquadrature diverse, il lavoro dell’artista sarà di comporre le varie percezioni in una summa sintetica. Nel 1910 firma il “Manifesto della pittura futurista” e il “Manifesto tecnico della pittura futurista” ma ancora non espone le sue ricerche, bisognerà aspettare il 1912 all’Expo di Buenos Aires, nel frattempo vende tutte le opere del periodo precedente che lui apostrofò come “Fu Balla”. Compone le suoi ultimi soggetti figurativi di questa seconda stagione: “Ragazza che corre sul balcone”, “Le mani del violinista”, “Dinamismo di un cane al guinzaglio”, poi il salto nelle atmosfere dell’Astratto, sarà il suo terzo, lungo periodo fino agli anni ’30.

[caption id="attachment_31044" align="alignleft" width="195"] Giacomo Balla, Lampada a arco, 1909[/caption]

[caption id="attachment_31043" align="alignright" width="228"] Giacomo Balla, Ragazza che corre sul balcone, 1912[/caption]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[caption id="attachment_31041" align="alignright" width="231"] G. Balla, Dinamismo di un cane al guinzaglio, 1912[/caption]

 

 

[caption id="attachment_31042" align="alignleft" width="225"] Giacomo Balla, Le mani del violinista, 1912[/caption]

A partire dal 1912 il futurismo di Balla oltrepassa la soglia della figura, esplora l’astrattatismo geometrico con le “compenetrazioni iridescenti” quelle che Maurizio Calvesi interpretò come esplorazione dei principi teosofici. Sono forme curve o triangolari analizzate attraverso la luce vanno al di là dell’oggetto reale, ne analizzano l’essenza invisibile all’occhio, osservate attentamente ci conducono oltre la soglia dei sensi, in un mondo astratto non meno vero dell’apparenza. Siamo nella sfera dell’esoterismo che tanto ha influenzato gli artisti moderni da Kupka, a Kandinsky, a Mondrian al dadaista Evola, ai futuristi Balla e Arnaldo Ginna. Di questa iniziazione v’è certezza, la figlia di Giacomo, Elica, ricordava nel suo libro di memorie che il papà a Roma “frequentava le riunioni di una società di teosofici”. D’altronde nel 1915 Balla e Depero scrivono il Manifesto della ricostruzione futurista dell’universo dicendo:Daremo scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile. Troveremo gli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell’universo, poi li combineremo insieme, secondo i capricci della nostra ispirazione […]”. Oggettivare ”dinamismo plastico e plasmazione dell’atmosfera, compenetrazione di piani e stati d’animo … Noi futuristi, Balla e Depero, vogliamo realizzare questa fusione totale per ricostruire l’universo rallegrandolo, cioè ricreandolo integralmente.” Firmato Astrattisti futuristi. Con loro il Futurismo conosce la sua seconda stagione, non più analisi di soggetti in movimento ma indagine sull’ignoto, attraverso la penetrazione del visibile e “Trasformazione Forme e Spirito”, processo che Balla sperimenterà nel ’17 seguendo appunto gli insegnamenti teosofici. Non più solo tele o muri da affrescare ma produzione di oggetti d’arredo, suppellettili, abiti, scenografie, tutto ma proprio tutto deve essere reinventato. Il dinamismo turbofuturista delle sue automobili, dei suoi ciclomotori del ’13-’14 si trasferisce nell’attenta composizione e scomposizione delle forme geometriche, nella ricerca della verità con studio, riflessione, ideali, trasmessi dalla purezza di linee e di colori testimoni d’un percorso iniziatico, forme degli stadi di una conoscenza superiore.

[caption id="attachment_31040" align="alignleft" width="213"] Giacomo Balla, Velocità d’automobile, 1923[/caption]

[caption id="attachment_31039" align="alignright" width="174"] Giacomo Balla, Fuochie d’artificio, 1916[/caption]

Da quel 1915 l’artista prende a firmarsi Futur Balla quasi incarnando lo spirito di quella parte  della giovane Nazione proiettata nel costruendo futuro fatto di lotta, guerra “unica igiene del mondo”; Italia all’assalto  contro le mammolette socialiste, in questo clima nascono le “pitture interventiste”, qui  riportiamo “Sventolio di bandiere” era sul retro di un altro quadro dell’artista la “Verginità”, coperto di nero è stato riportato alla luce ed esposto, per la prima volta, a Gorizia nel Museo della grande Guerra, è un omaggio al  centenario di una Vittoria di umili eroi contro una mandria di asini vili. (continua)

Emanuele Casalena

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La vocazione culturale di Firenze – Luigi Angelino

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Firenze ha rappresentato un mito glorioso ed inestimabile di cultura che, a partire dal Quindicesimo secolo, ha aiutato l'intera società europea a compiere un salto incredibile verso il rinnovamento della conoscenza, creando così le basi dello sviluppo antropocentrico e scientifico dei secoli successivi. Ciò che colpisce maggiormente l'occhio, quando si visita Firenze, è certamente lo splendore delle opere artistiche, molto spesso dimenticando la dimensione del “sogno umanista”, riscopritore della cultura classica e capace di mettere l'uomo finalmente al centro della riflessione metafisica, sviluppandone le doti di creatività e di libertà di pensiero. Si può dire che Firenze ebbe una vocazione quasi “missionaria”, mediando tra passato e presente, in un coacervo di diverse dottrine e correnti culturali, sapientemente interpretate e sublimate in una dimensione rivolta al futuro.

La storia di Firenze affonda radici molto antiche, in quanto le colline circostanti risultano abitate fin dall'epoca preistorica. Il primo insediamento stabile, come si evince dai ritrovamenti archeologici, fu un villaggio in palafitte realizzato intorno all'XI sec. a.C., da alcune tribù della civiltà villanoviana, nei pressi di un guado del fiume Arno (1). Qualche secolo dopo, gli Etruschi della vicina Visul (2), l'attuale Fiesole, che sorgeva sulla collina in alto, fondarono il primo nucleo di “Florentia” nei pressi del fiume Arno, per sfruttare i vantaggi della comunicazione fluviale, costruendovi anche un ponte di legno. Sembra che, in epoca etrusca, fosse già chiamata con il nome latino di “Florentia”, anche per la diffusione di tale idioma tra i viandanti dell'Italia centrale. E' probabile che il nome si riferisca alla pianura fertile, in cui era situato il centro abitato (fertile, in latino florens). Non appare molto verosimile, come hanno sostenuto alcuni, che il nome sia ricollegabile al “giglio”, che diventerà emblema della città soltanto alcuni secoli dopo e di cui parleremo in seguito. Di scarsa credibilità è anche la tesi che attribuisce l'origine del nome della città al mitico re etrusco, Fiorino, che avrebbe a lungo regnato sulla area di Fiesole. Mentre si segnala un'altra affascinante ipotesi, che fa riferimento al termine etrusco “Birens” (3), latinizzato in seguito come “Florens/Florentia”, che avebbe il significato di “tra le acque”, essendo il primo nucleo abitato, situato alla confluenza del fiume Arno con i torrenti Mugnone ed Affrico. Dopo la guerra di Silla e Mario, l'etrusca Visul divenne romana, toccando la stessa sorte anche a Florentia, che divenne un castrum per veterani romani, con mura dalla tipica pianta rettangolare e dotata di piazza centrale (foro), dove si incrociavano le vie principali ( cardo et decumanus). Successivamente, in età imperiale, al tempo di Adriano, Firenze fu collegata a Roma tramite la Via Cassia (4), e sotto Diocleziano diventò sede del “Corrector Italiae”(5), con la funzione di capitale dell'Etruria e dell'Umbria.

Il vero e proprio sviluppo di Firenze, nella forma in cui più o meno la conosciamo, comincia nel X secolo e soprattutto nel 1115, quando assunse la dignità di “Comune autonomo”. Nel XIII secolo visse le guerre intestine tra Ghibellini, sostenitori del Sacro Romano Impero e i Guelfi, che erano schierati dalla parte del papato. Questi ultimi ebbero la meglio, ma poi si divisero in Bianchi e Neri (lo stesso Dante Alighieri era schierato dalla parte dei Bianchi) (6). Nonostante la difficile politica interna, l'ascesa di Firenze continuò inarrestabile, fino a diventare una delle città più importanti d'Europa, introducendo nel 1252, una moneta propria, il fiorino (7). La definitiva sconfitta della sua acerrima nemica, la gloriosa Pisa, segnò il suo primato nell'Italia centrale, raggiungendo nel 1348, prima della terribile epidemia di peste nera, una popolazione di crca 80.000 unità, seconda soltanto a Venezia nel territorio della penisola italiana. Dopo un periodo di dominio della famiglia degli Albizi (8), a partire dal 1437 Firenze diventò la Signoria della famiglia dei Medici (9), che ne fecero la culla dell'Umanesimo e del Rinascimento. Dopo la conquista del territorio della Repubblica di Siena nel 1555 e l'elevazione di Cosimo a Granduca da parte di papa Pio V, Firenze si impose sull'intera Toscana, ad eccezione della repubblica di Lucca che rimase indipendente fino al diciottesimo secolo e del Ducato di Massa, indipendente fino al 1829, quando fu assorbito dal Ducato di Modena. La breve panoramica, che ci ha condotti dal periodo antico al Rinascimento, è servita solo per distinguere quali fossero le premesse storiche e culturali della società fiorentina, allo scopo di comprenderne meglio il periodo di massimo splendore.

La città di Firenze è un monumento a cielo aperto, con i suoi capolavori d'arte e le strade dove si respirano narrazioni misteriose, che ne accrescono il fascino.  Lo splendore dell'epoca umanista e rinascimentale non fu casuale, ma derivò da un'intensa attività culturale della città toscana e da una serie di eventi convergenti favorevoli. Di straordinaria importanza fu la fondazione dell'Accademia neoplatonica ad opera del filosofo Marsilio Ficino (10) nel 1462. In realtà, la denominazione “Accademia neoplatonica” (11) fu attribuita dagli studiosi dei secoli successivi, non essendo ancora chara, per i contemporanei, quale fosse la precisa forma del sodalizio. Il contesto culturale che favorì la nascita dell'Accademia, fu contraddistinto dal riemergere del platonismo in Italia, grazie anche all'istituzione di cattedre di lingua greca presso le principali Università e alla diaspora di numerosi intellettuali bizantini, dopo la caduta di Costantinopoli del 1453, che, per alcuni storici, costituisce la data da cui dovrebbe partire l'inizio dell'età moderna, per il grande clamore che suscitò all'epoca, a differenza della scoperta dell'America del 1492, le cui straordinarie conseguenze furono percepite soltanto in seguito e non dai contemporanei. Gli intellettuali bizantini furono arruolati come insegnanti in Italia, permettendo l'uso diretto dei testi di Platone. Durante il Medioevo questi scritti erano sconosciuti in Occidente e lo stesso Aristotele era stato tradotto in latino dalla versione araba di Averroè (12), proprio perchè non si aveva alcuna dimestichezza con la lingua greca. E' accertato che Marsilio Ficino fosse una delle personalità più eminenti della Firenze medicea, attirando un cospicuo numero di artisti, affascinati dalla sua missione filosofica, come il Poliziano, Landino e Pico della Mirandola, sebbene questi ultimi avessero dei punti di vista alquanto diversi. Ficino perseguiva tre compiti principali, o almeno così interpretati dalla tradizione: rendere accessibili gli scritti di Platone e dei suoi seguaci, rielaborare un sistema filosofico in grado di rendere attuale il pensiero platonico, rendere il platonismo compatibile con la religione cristiana (quest'ultimo punto è controverso, o forse soltanto di facciata, per non incorrere nella temibile Inquisizione).

Per quanto riguarda i simboli della città, sicuramente il giglio è quello più emblematico di Firenze, fin dall'XI secolo (13). Come si è detto in precedenza, non può essere stato il fiore ad influenzare il nome della città, ma può essere avvenuto l'esatto contrario. Inoltre una versione popolare e, “politicamente corretta”, perchè cristiana, vuole che il giglio sia diventato simbolo della città, perchè molto diffuso nell'area fiorentina ed utilizzato originariamente nelle celebrazioni del culto mariano. In realtà, il giglio nasconde una simbologia molto più profonda e cosmica. Esso è da sempre un simbolo di fecondità, simile alla rosa ed associato a moltissime divinità femminili. La mitologia greca racconta che il giglio nacque da una goccia di latte caduta dal seno di Giunone. Così in alcuni libri dell'Antico Testamento, come il Cantico dei Cantici ed il Siracide, il giglio è associato alla fertilità e alla saggezza. In molte raffigurazioni dell'antica Mesopotamia e dell'antico Egitto, ritroviamo l'immagine del giglio stilizzato, come simbolo di sapienza, di purezza e di regalità. La stessa dea Iside era associata al fiore di loto, non tanto diverso dal giglio, sacro per gli antichi Egizi. Il giglio stilizzato, inoltre, è uno dei più antichi stemmi araldici, adottato, secondo la tradizione già dai Merovingi nel V secolo, il famoso “fleur de lys”. (14) Nei secoli successivi è diventato un importante emblema templare e massonico, la cui vasta letteratura richiederebbe una trattazione a parte. Un singolare mistero è costituito dal simbolo araldico della famiglia dei Medici, cioè il famoso scudo con le palle rosse, denominate “bisanti”, di cui la città di Firenze è disseminata, ma le cui rappresentazioni contengono sempre un numero variabile di palle. All'inizio, il numero di esse nello stemma era di undici, Giovanni di Bicci lo portò a nove; il figlio Cosimo, detto il vecchio e onorato come Pater Patriae, lo ridusse ad otto, e suo figlio Piero il Gottoso le portò a sette. Lo stemma di Piero prevedeva che quella centrale fosse di colore azzurro con dentro disegnati i tre gigli dorati dei reali di Francia, a seguito del privilegio concesso da Luigi XI nel 1465. La versione finale si ebbe con Lorenzo il Magnifico, il cui emblema raffigurava soltanto sei sfere, con alla sommità quella con le insegne dei re di Francia (15). Le teorie sui motivi della presenza delle sfere nello stemma dei Medici sono varie, di origine incerta e legate soprattutto a tradizioni popolari. La prima lega il simbolo all'originario mestiere della famiglia, quella appunto di “medici”, per cui la piccola sfera rappresenterebbe una pillola, in memoria della professione esercitata anticamente. Un'altra suggestiva leggenda, diffusa per nobilitare le origini della famiglia, collega le piccole sfere al mitologico semi-dio Perseo: le palle sarebbero i pomi raccolti da Perseo negli orti delle Esperidi. E' molto più verosimile la teoria, secondo la quale le sfere sarebbero il simbolo delle monete, per sottolineare la fortunata attività di banchieri della famiglia dei Medici. Non si conoscono, tuttavia, i motivi che portarono ad una progressiva riduzione delle sfere da 11 a 6. Quasi burlesca era la denominzaione che veniva data ai sostenitori dei Medici, chiamati “Palleschi”, in contrapposizione ai seguaci della teocrazia professata da Girolamo Savonarola, chiamati “Piagnoni” (16).

Firenze accoglie una numerosa quantità di misteri e di luoghi, dove l'alchimia e l'ermetismo si mescolano in un originalissimo intreccio. Mi piace cominciare questa breve rassegna dallo studiolo alchemico di Francesco I dè Medici (17), situato al primo piano lato nord di Palazzo Vecchio, tuttora aperto al pubblico. Lo studio alchemico è decorato da pitture e statue allegoriche che rappresentano alcuni concetti filosofali alchemici. Si tratta di un piccolo ambiente, comunicante con il Salone dei Cinquecento e con gli appartamenti privati, concepito per conservare la collezione di Francesco I e per consentire al Granduca di uscire di nascosto dal palazzo mediante la “scala delle chiocciole”. Dalla corrispondenza tra il Vasari e il Borghini, apprendiamo che lo studiolo era stato concepito come tentativo di connubio tra arte e natura, come un forziere chiuso, illuminato artificialmente. La volta, suddivisa in nove parti grandi e sei piccole di forma rettangolare, raffigura la Madre Natura che offre un cristallo a Prometeo. Ai lati, una per parete, sono raffigurate le allegorie dei quattro elementi: terra, acqua, fuoco e aria. L'elemento temporale è descritto con la raffigurazione delle quattro stagioni che, nelle lunette, accompagnano i tondi con i ritratti dei genitori di Francesco, Eleonora e Cosimo, incorniciati dai dodici segni zodiacali. Tralasciando gli innumerevoli riferimenti artistici, mi preme sottolineare soprattutto l'alta valenza alchemica degli elementi esposti. Gran parte del materiale presente nello studiolo fu trasferito nella cosiddetta “Tribuna”, che costituisce un meraviglioso forziere luminoso che si apre sul corridoio orientale degli Uffizi. La forma è a pianta ottagonale ed è coperta da una cupola incrostata di gusci d'ostriche lucenti, di madreperle e costoloni dorati, ispirata al racconto che Vitruvio lascia nel “De Architectura” a proposito della Torre dei Venti ad Atene (18).

Spostiamoci ora ai Giardini di Boboli, nati come parco granducale del Palazzo Pitti, un altro luogo ricco di misteriosi simboli. I Giardini rappresentano un vero e proprio sogno alchemico, con i suoi significati dal linguaggio eloquente e silenzioso nel contempo. E' molto ricco di statue, grotte, scenografie ed arcani davvero inimitabili. Di straordinaria importanza è l'obelisco egizio attribuito al regno di Ramses II del XIII sec. a.C. (19), l'unico obelisco presente in tutta la Toscana, un simbolo solare e fallico, correlato all'elemento maschile e massonico. L'obelisco fu portato da Eliopoli a Roma, all'epoca di Domiziano, ed eretto nel tempio di Iside al Campo Marzio. Alla fine del sedicesimo secolo fu dissotterrato e per alcuni anni fu collocato nel giardino di Villa Medici a Roma. Venne poi trasportato a Firenze nel 1788, per volontà del Granduca Pietro Leopoldo. Non è casuale, poi, la presenza di tante fontane, vasche e laghetti artificiali, un accorato inno all'importanza dell'acqua che per Talete era il principio di tutte le cose e che nella simbologia ermetica riveste un ruolo fondamentale. L'acqua, infatti, è capace di racchiudere le emozioni più profonde, che sono capaci di emergere in superficie o di perdersi negli abissi.

E passiamo alla meravigliosa Piazza Duomo, dove è possibile ammirare uno dei monumenti simboli di Firenze, il campanile di Giotto, alto 85 metri che separano la terra dal cielo. Esso fu concepito come un percorso simbolico, mediante cui l'uomo può salire verso Dio. Il campanile fu progettato da Giotto tra il 1334 e il 1337 e meditato come una vera e propria scala sapienziale, i cui gradini sono costituiti dalle formelle realizzate da Andrea Pisano (20). E' un percorso che indica come l'uomo possa risalire la scala della sapienza mediante il lavoro, le arti manuali, la pratica delle virtù e delle attvità intellettuali, per poter giungere alla Dimora di Dio e godere della sua visione. L'ultimo gradino, rappresentato dalle statue delle Sibille e dei profeti, indica l'Eternità, dove il tempo cessa di esistere, consentendo ai mistici di avere visioni sia del passato che del futuro. Emblematiche sono le losanghe con i sette pianeti poste sul lato ovest, che sono veri e propri simboli alchemici. Le sfere planetarie, infatti, stanno ad indicare i diversi gradi con cui l'anima può liberarsi dalla prigione materiale delle passioni, per poter elevarsi verso la conoscenza e la natura divina.

Il Duomo, ovvero la cattedrale metropolitana di Santa Maria del Fiore, è il simbolo della città ed una delle chiese più famose del mondo. Quando fu completata nel quindicesimo secolo, essa era la cattedrale più grande del globo, mentre oggi è la terza di Europa dopo San Pietro a Roma e San Paolo a Londra. Il Duomo sorge sulla misteriosa chiesa di Santa Reparata, in un punto esoterico della città, che aveva ospitato luoghi di culto fin dall'epoca romana. La sua costruzione iniziò nel 1296 e, dal punto di vista strutturale, terminò soltanto nel 1436. I lavori furono affidati ad architetti geniali del tempo: dapprima ad Arnolfo di Cambio, poi nell'ordine a Giotto, Francesco Talenti e Giovanni di Lapo Ghini, mentre al completamento ci pensò il Brunelleschi, progettando la stupenda ed avveniristica cupola. All'interno spicca la più grande superficie mai decorata ad affresco, opera di Giorgio Vasari e di Federico Zuccari. La facciata, invece, in marmi policromi, è abbastanza recente, in quanto elaborata nel 1887 da Emilio de Fabris, rappresentando un ottimo esempio di stile neogotico. Ciò che colpisce maggiormente, sotto il profilo ermetico e simbolico, è la presenza di uno strumento astronomico per lo studio del sole, presso la cupola del Brunelleschi (21). Si tratta di un foro gnonomico posto ad un'altezza di 90 metri, che proietta i raggi del sole su una superficie in ombra, cioè il pavimento della cattedrale. L'aspetto più interessante è che, studiando il rapporto tra altezza e diametro del foro, si ottiene una vera e propria immagine solare stenopeica, capace di mostrare anche le macchie solari e l'avanzare di eclissi in corso, o addirittura il raro passaggio di Venere tra il sole e la terra. E ancora più nel dettaglio, lo gnomone permetteva già di stabilire il momento esatto del solstizio. Attualmente tali osservazioni hanno solo carattere storico e celebrativo: ogni anno il 21 giugno alle 12.00 ora solare (13.00 con l'ora legale) si procede ad un'osservazione rievocativa del fenomeno (22). Un'altra importante particolarità esoterica del duomo di Firenze, è la presenza del Ba Gua (23), figura ottagonale utilizzata in origine dai Cinesi per studiare il terreno, alla ricerca di onde nocive, chiamate “onde del drago”, nonché per diagnosticare malattie. Secondo credenze antiche, si tratterebbe di un emettitore-ricettore molto potente, in grado di irradiare tutte le proprietà dell'universo, dall'infra nero al verde negativo. La decorazione del Ba Gua, all'interno del Duomo di Firenze, è attribuita a Baccio d'Agnolo e completata da suo figlio Giuliano, all'inizio del Cinquecento. Se si fotografa dall'alto questa singolare figura ottagonale, si nota l'evidente potere di antenna ricevente della stessa, come se convogliasse al centro del Pa Gua, l'energia cosmica proveniente dall'alto, utilizzando una tecnica comune a molte cattedrali gotiche, soprattutto francesi, con l'intento di collegare l'uomo all'universo.

Quando si visitano gli Uffizi (24), uno dei Musei più famosi del mondo, nelle sale che conducono da Michelangelo a Tiziano, spesso non si pensa che in queste sale si praticavano le arti alchemiche, attraverso lo studio dei fenomeni naturali con l'invenzione di prodigiosi ed avveniristici farmaci. Nel Seicento l'officina degli Uffizi era molto famosa per la sua produzione farmaceutica, che si protrasse fino alla metà del diciottesimo secolo. A quel tempo veniva adoperata, oltre ai grandi strumenti per la distillazione, un'importante collezione di rarità di origine animale e vegetale, che faceva sembrare gli spazi dell'officina come luoghi incantati. Vi si trovava, ad esempio, anche uno spazio dedicato ai pesci, ai fossili e alle conchiglie e qui, secondo la leggenda, si eseguivano esperimenti anche su mummie egiziane (25). Fino alla metà del Settecento, la Galleria degli Uffizi non aveva l'aspetto odierno di “museo del passato”, ma si presentava come un “museo dei musei”, un vero e proprio teatro vivente, in cui si esaltavano le discipline artistiche, tecniche e scientifiche, che non apparivano mai slegate fra loro, bensì unite da un comune senso filosofico e logico. Al di là dei procedimenti prettamente tecnici, l'alchimista doveva indagare sui recessi più segreti della natura, cercando la purificazione della materia, per compiere un itinerario di ascesa ed affinamento spirituale.

E' impossibile citare tutti i luoghi simbolici di Firenze, lo scrivente è consapevole di aver operato una scelta sicuramente molto parziale. Non si può, tuttavia, non menzionare Ponte Vecchio, diventato famoso come sede di tanti maestri orafi dalla straordinaria bravura, dove un tempo sorgevano banchi dedicati alla selezione della carne, del pesce e della verdura. A fine giornata, gli scarti finivano nell'Arno, che non emanava sempre un buon odore. Ancora oggi sono visibili i fori costruiti per gettare in mare i rifiuti con maggiore facilità, fino a quando, nel 1565, Cosimo dè Medici, non ordinò lo sgombero del mercato per dare spazio ai gioiellieri. Ed un articolo a parte meriterebbe l'affascinante basilica di Santa Croce (26), famosa per la presenza delle tombe di personaggi illustri, tra cui il cenotafio dedicato a Dante, ma che colpisce soprattutto per la presenza della stella di David, inserita nel timpano della facciata. In particolare, si tratta di un esagramma stellato, formato dall'intreccio di due triangoli equilateri, detta anche “sigillo di Salomone”, che, oltre a rappresentare la civiltà e la religiosità ebraica, è divenuto un simbolo ricco di significati nell'ambito della cabala e dell'occultismo. Non si tratta, tuttavia, dell'unica stella ebraica celebre presente a Firenze, si ricordi, a tale proposito, quella posta sopra il magnifico tabernacolo della chiesa di Orsanmichele. Cercando di placare la ricerca di significati reconditi, l'opera di Santa Croce ha specificato che, all'interno della stella di David, si può notare il monogramma di Cristo, cioè una combinazione di lettere greche che formano l'abbreviazione del nome di Gesù.

Quando dalla splendida basilica di Santa Maria Novella, ti dirigi verso il centro, per compiere il percorso più famoso che comprende Piazza del Duomo, Via dei Calzaiuoli, Piazza della Signoria, Uffizi, Ponte Vecchio e, attraversando l'Arno, raggiungi Palazzo Pitti con i giardini di Boboli, Firenze ti dà l'illusione di concedersi completamente. In realtà sei distratto dalla fiumana disordinata di turisti e non ti accorgi di angoli di incomparabile bellezza, oppure non valuti di visitare altri luoghi. Sono stato tante volte a Firenze, già dall'infanzia con i miei genitori, appassionati d'arte, ma non ero mai stato nel parco del Museo Stibbert (27). Di recente, su segnalazione di un amico, ho avuto il piacere di visitare questo luogo incantato che meriterebbe di essere conosciuto di più. Il giardino ottocentesco che completa la villa Stibbert, sede di uno dei musei fiorentini più straordinari per la ricchezza e la quantità degli oggetti collezionati, rappresenta la Firenze più allegorica e misteriosa. Il parco fu commissionato da Frederick Stibbert a Giuseppe Poggi, entrambi massoni, che creò una serie di percorsi allegorici, arricchiti da elementi decorativi, che portano, come in un vero e proprio tragitto iniziatico, ad un “tempietto egiziano”. Esso è collocato sul laghetto più grande, mentre gli accessi, sia via terra che via acqua, sono protetti da piccole statue di sfingi o di divinità zoomorfe. Davanti ai miei occhi si compose, in quel momento, un eccezionale intreccio di simbologie: la sacralità del tempio egizio ed il misticismo dell'isola in mezzo al lago, che mi fece venire in mente Avalon (28). Il percorso verso il tempio e verso l'isola richiamava in me l'idea della necessità di raggiungere se stessi, nella propria integrità fisica ed intellettiva, in una completa armonia interiore. In quel momento l'immagine di Firenze oltrepassò lo splendore artistico dell'Umanesimo e del Rinascimento, svelando la propria missione universale e senza tempo di faro culturale ed iniziatico rivolto a tutte le generazioni.

Note:

1 - Cfr., Robert Davidsohn, Storia di Firenze, Vol. 1, SBS Sansoni Editore, Firenze 1978.
2 - Fiesole è attualmente un Comune, inserito nell'area amministrativa metropolitana di Firenze. Nel V e enl IV sec., risulta come una delle principali città etrusche con il nome di Vipsul o Visul.
3 - Cfr., Luca Tognaccini, La grande storia di Firenze dalle origini ad oggi, Self publishing, 2017.
4 - La via Cassia fu un'importante via di collegamento romana tra Roma e Firenze, poi estesa fino all'Aurelia, passando per Pistoia e Lucca. 5 5 - Le origini risalgono al periodo etrusco.
6 - Nel III sec. d.C. risultò necessario preporre all'amministrazione delle regiones italiche un funzionario imperiale con il nome di Corrector. Dapprima le sue competenze erano solo di competenza finanziaria, poi furono estese a tutti gli altri campi gestionali.
7 - Cfr., John M. Najemy, Storia di Firenze, ed. Einaudi, Torino 2014.
8 - Il fiorino fiorentino era una moneta d'oro di circa 3,5 grammi a 24 carati coniata per la prima volta a Firenze nel 1252. Il nome deriva dal giglio, simbolo di Firenze e rappresentato sulla moneta. Nel XIII secolo e fino a tutto il Rinascimento, il fiorino fiorentino rappresentò la moneta di scambio preferita in Europa, per la grande importanza bancaria della città toscana.
9 - Gli Albizi o Albizzi, come antico casato fiorentino, deriverebbero in realtà da un capostipite tedesco, un tale Raimondino, venuto in Toscana alla fine del XII secolo.
10 - E' inutile sottolineare come la famiglia dei Medici sia stata importante nello scenario politico e sociale dell'Italia dell'Umanesimo e del Rinascimento. Le origini sembra che risalgano ad un certo Medico di Potrone, nato intorno al 1046, nel contado del Mugello. I suoi discendenti iniziarono a guadagnare con le manifatture laniere.
11 - Marsilio Ficino (1433-1499), grande filosofo neoplatonico, umanista ed astrologo.
12 - Per tradizione, comunque, si ritiene che l'Accademia neoplatonica sia stata istituita da Marsilio Ficino, per incarico di Cosimo dè Medici, nella villa Le Fontanelle e poi collocata nella più nota Villa di Careggi.
13 - Averroè (1126-1198), filosofo arabo. Dal punto di vista storico fu molto importante, per i suoi commenti alle opere di Arostotele, che in Occidente erano state quasi del tutto dimenticate. Infatti il recupero della tradizione aristotelica in Europa deriva dalla traduzione in latino delle opere del grande Stagirita.
14 - Cfr., M.M. Donato, D. Parenti, Dal giglio al David, Giunti Editore, Firenze 2013
15 - Cfr., Michel Pastoureau, Une Fleur pou la Roi, in Une histoire symbolique du Moyen Age, Paris 2004.
16 - Cfr., Giovanni Cherubini e Giovanni Fanelli, Il Palazzo Medici Riccardi di Firenze, Giunti Editore, Firenze 1990.
17 - Cfr., Michele Basile Crispo, L'Ordine costantiniano di San Giorgio. Storia, stemmi e cavalieri, Ed. Ordine Costantiniano, Parma 2002.
Francesco I dè Medici (1541-1587) fu il secondo Granduca di Toscana dal 1574 fino alla morte, avvenuta in circostanze misteriose. Era un grande appassionato di scienza e di alchimia, sensibile alle opere dei più grandi esponenti dell'epoca.
18 - La Torre dei venti di Atene, chimata anche horologion, è una torre ottagonale in marmo, collocata nell'agorà romana di Atene. La struttura è alta 12 metri e ha un diametro di circa 8.
19 - Ramesse o Ramses II è stato un faraone egizio della XIX dinastia, che regnò dal 1279 al 1213 a.C.
20 - Cfr., Renzo Manetti, Le sette colonne della sapienza, ediz. Mauro Pagliai, Firenze 2014
21 - Cfr., Andreas Grote, L'Opera del Duomo di Firenze, ed. Olschki, Verona 2009.
22- Cfr., Fausto Barbagli, Astronomia e Fisica a Firenze,ed. Firenze University press, 2017.
23 - Si può dire che il simbolismo del Ba Gua si riscontra in vari campi della cultura millenaria cinese: dal Taoismo, alle tecniche Feng shui, alle arti marziali. “Ba” significa otto, mentre “Gua” signifca numero, quindi ha il significato di “otto numeri”. La rappresentazione grafica è un ottagono.
24 - Le Gallerie degli Uffizi non avrebbero bisogno di alcuna presentazione. In ogni caso, ricordo che si tratta di un vero e proprio complesso museale comprendente la Galleria delle Statue e delle pitture, il Corridoio Vasariano e le collezioni di Palazzo Pitti. Le tre gallerie unficate rappresentano uno dei più importanti musei del mondo.
25 - Cfr., Francesco M. Cataluccio, La memoria degli Uffizi, Ed. Sellerio, Palermo 2013.
26 - Cfr., Luca Giorgi, Santa Croce oltre le apparenze, Ed. Gli Ori, Firenze 2011
27 - Il Museo Stibbert si trova nell'omonima via collinare. La villa stessa è un importante esempio del complesso stile ottocentesco, in un tripudio di sale neogotiche e rinascimentali. La collezione degli oggetti esposti ammonta a circa 50.000 pezzi.
28 - Avalon, come da tradizione, è l'isola leggendaria legata al mitico personaggio di Re Artù, situata nella parte occidentale delle isole britanniche. Il nome avrebbe il significato originario di “isola delle mele”, con particolare riferimento alla fertilità di quella terra.

Luigi Angelino

L'articolo La vocazione culturale di Firenze – Luigi Angelino proviene da EreticaMente.

Vuotare la mente, riempire il ventre – Paolo Lucarelli

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Schwaller de Lubicz nel suo minuzioso studio sul tempio di Luxor e sulla simbolica egizia si ferma a lungo a riflettere sull’immagine dell’uomo privo di calotta cranica. Ne ritrova il segno a Bisanzio dove i santi sono rappresentati con la testa piatta, e in occidente nella figura di Nicodemo, l’uomo della seconda nascita, che tiene in mano la propria volta cranica. Vede lo stesso significato nelle corone regali che separano l’alto dal resto della testa. Conclude che tutto ciò esprime l’uomo realizzato, illuminato, che si è liberato dal giudizio personale, discorsivo, costruito per opposizione, e che ormai si muove per impulso universale, o divino, intermediario perfetto tra Cielo e Terra, ubbidiente al pensiero cosmico senza esserne distolto dal proprio pensare.

Si pone, Lubicz, all’interno di un’ampia e antichissima tradizione che vede nella mente conscia, involucro e sostegno dell’io discriminante, non uno strumento utile di conoscenza e di guida all’azione, ma un vincolo da cui liberarsi, un’illusione drammatica e pericolosa, un impedimento all’accesso a stati ontologicamente più elevati, un nemico ambiguo e mortale. Patanjali, nel primo dei sûtra in cui raccolse remoti insegnamenti, aveva già espresso nel modo più semplice il tema e l’obiettivo: lo yoga è l’arresto delle funzioni mentali. Nel IV sûtra spiega il problema e la sua origine: altrimenti (l’anima) assume la stessa forma delle funzioni mentali. La mente (citta, buddhi) è fonte e causa di nescienza, cioè dell’universale ignoranza innata che identificando l’attività della mente con quella dell’anima genera sempre nuova illusione, che a sua volta produce maculazione karmica, fonte della sofferenza che caratterizza la vita umana. Solo impedendone l’attività (cittavrtti) possiamo uscire da questo circolo perverso e salvarci dal dolore esistenziale. Molti secoli dopo, in tutt’altro contesto psicologico e culturale, san Giovanni della Croce diceva:

"in breve tutti i più grandi inganni del diavolo ed i maggiori mali che fa all’anima, penetrano attraverso le notizie e i discorsi della mente.

Un nemico forte e temibile o lo si imprigiona in ceppi indistruttibili o lo si uccide".

Molti hanno preferito la prima via, come più sicura e meno rischiosa, anche se più lunga e graduale. Si vuole allora trasformare la consueta, inevitabile, ridda diabolica e stancante di pensieri involontari in una struttura limpida e ordinata, controllata da una volontà impeccabile. L’esempio più facile è il mandala, dove il cosmo, o meglio il fantasma chimerico che noi ci immaginiamo, pauroso caos psichico, informe e magmatico, si struttura secondo direzioni privilegiate, assume forme geometriche semplici e organizzate, e nei quadrati, nei cerchi, nei colori che si succedono secondo regole inflessibili, la mente è costretta a placarsi, congelata in una visione dominata dai legami che la figura le impone. Ricorda Tucci che

"disegnare un mandala non è cosa semplice; è un rito che mira a una palingenesi dell’individuo e ai cui particolari questo deve partecipare con tutta l’attenzione che l’importanza del risultato richiede: un errore, una svista o una dimenticanza rendono l’opera inefficace… perché ogni manchevolezza è il segno della disattenzione del sacrificante, indica che egli non vi prende parte con tutta la concentrazione e il raccoglimento dovuti".

Ma per chi abbia compiuto rettamente il rito si apre la possibilità dell’esperienza folgorante di una luce interiore, gnosi liberatrice che la mente offuscava. Non diversamente operava il monaco ortodosso dipingendo l’icona che, insegna Florenskij:

"ha lo scopo di sollevare la coscienza al mondo spirituale, di mostrare “spettacoli misteriosi e soprannaturali”.

Ben poco o nulla è lasciato alla libera creatività dell’artista. Diceva il Settimo Concilio Ecumenico:

"al pittore spetta soltanto l’aspetto tecnico dell’opera, ma tutto il suo ordinamento (diátaxis) chiaramente dipese dai santi Padri".

Gli insegnamenti cinesi sono meno rigidi, più dolci, soffusi di immagini poetiche. Spiega Schipper che l’adepto dovrà costruire mentalmente il proprio corpo come fosse un paese, fondato sulla geografia sacra taoista, e abitato da tutti i suoi dei: la testa sarà una catena di montagne che racchiude un lago, in mezzo al lago un palazzo, e così via, giù giù, sino a sotto l’ombelico dove vedrà un paesaggio meraviglioso, il Campo di Cinabro, la dimora dell’embrione che darà origine al nuovo corpo immortale. I maestri del neidan, la cosiddetta “alchimia interiore”, seguono secondo la Robinet simili metodi, ma qui la mente deve riprodurre immagini di operazioni che l’alchimista compie in pratica al forno, sempre come avvenissero nel proprio corpo. Nel Libro dell’Armonia Centrale, Li Daochun spiega:

"Non c’è altro principio: basta dominare il corpo e la mente [lett. il cuore], è cuocere il Piombo e purificare il Mercurio. Gli appellativi diversi si riducono [a significare] che si dominano le pulsioni con la natura profonda ed è tutto. Quando la natura è quieta e le pulsioni sono seppellite, si vede luminosamente il fondamento, si abbraccia la Radice e si ritorna al Vuoto… È ciò che si chiama il compimento del Cinabro e, per metafora, l’embrione della liberazione".

Più suggestivi i Versetti del Risveglio della Verità di Zhang Boduan, che iniziano da una famosa citazione del Daodejing:

Vuotare la mente e riempire il ventre” ha un senso molto profondo
ma per vuotare la mente, occorre una mente che discerne,
e niente vale più, per sublimare il Piombo, che riempire prima il ventre,
e apprendere a conservare la Sala piena d’oro".

Figure di illuminati dalla pancia obesa, seduti in stato di calma fissità, rappresenteranno all’iniziato chi abbia realizzato il precetto. Anche Sant’Ignazio di Loyola insegnava a costruire mondi e luoghi per i suoi Esercizi Spirituali, che dovevano servire a conseguire il fine per cui l’uomo è stato creato, lodare, riverire e servire Dio nostro Signore e salvare, in questo mondo, la propria anima. Nella premessa al primo esercizio prescrive:

"Il primo preambolo consiste nella composizione visiva del luogo. Qui è da notare che nella contemplazione o meditazione visiva… la composizione consisterà nel vedere con la vista dell’immaginazione il luogo materiale dove sta la cosa che voglio contemplare…".

Il suggerimento è piuttosto libero, si precisa meglio nel quinto esercizio dove la composizione consiste nel vedere con la vista dell’immaginazione la lunghezza, l’ampiezza e la profondità dell’inferno. Fondamento resta comunque la preghiera e il santo, che non ignorava i benefici e utili effetti del respiro guidato, ben noti agli orientali che li codificarono minuziosamente, insegnava:

"il terzo modo di pregare consiste nel fatto che ad ogni respirazione o movimento respiratorio si deve pregare mentalmente pronunciando una parola del Padre Nostro o di qualche altra preghiera che si recita in modo tale che una singola parola venga detta tra un respiro e l’altro. Mentre poi dura il tempo tra un respiro e l’altro, si badi principalmente al significato di tale parola, o alla persona cui si rivolge la preghiera".

Sant’Ignazio conosceva bene i rischi del controllo mentale che sfugge facilmente all’obiettivo di pura illuminazione, o di spiritualità devota, gonfiando l’uomo di presuntuoso e illusorio senso di potenza, per cui invece di allontanarne gli inganni del mondo lo seduce con i fantasmi della maya allucinante. Nel “Direttorio autografo” scrive:

"È da avvertire che se uno non obbedisce a colui che propone gli esercizi e volesse procedere a suo criterio, non conviene proseguire nel dargli gli esercizi".

Proseguì a suo criterio Giordano Bruno, per troppa superbia o sciagurata sfortuna. Fingendo di praticare una tecnica mnemonica voleva fissare la mente ad accogliere immagini di demoni e altri segni celesti, convinto di ottenerne influenza sul mondo e sui fenomeni naturali. Il domenicano più che nell’eresia era immerso in un’allucinazione perversa, incubo di assurde quanto insensate fantasie. Pensava che il Cielo con tutti i suoi influssi si ripetesse nella mente umana, e che riordinandola e fissandola secondo nuove aspirazioni si potesse attrarre l’influsso astrale da utilizzare magicamente. Scrisse nello “Spaccio della Bestia Trionfante”:

"Disponiamoci prima nel cielo che intellettualmente è dentro di noi: e poi in questo sensibile che corporalmente si presenta agli occhi… se cossi renderemo nouo il nostro cielo, noue saranno le costellationi, et influssi, noue l’impressioni, noue fortune, perche da questo mondo superiore pende il tutto…".

Nel “De Umbrisidearum” aggiunge:

"C’è nella tua primordiale natura un caos di elementi e numeri, che non esclude peraltro l’ordine e la serie… Io ti dico che se tu contempli tutto questo con attenzione, tu potrai conseguire un’arte figurativa tale che rafforzerà non solo la memoria, ma anche i poteri dell’anima, in modo mirabile".

Per analoga superstizione il tantrico costruirà accuratamente lo yantra della divinità prescelta, perché questa scenda e si manifesti disposta ai suoi ordini. La presenza divina sarà assicurata grazie a formule appropriate – che anche Bruno approvava – mantra accompagnati da gesti opportuni (mudra, sigilli). A un livello superiore ci si servirà solo di lettere o sillabe. Spiega Tucci:

"la sillaba, il fonema è la segreta essenza o il “seme” della divinità. Essa è così intimamente legata a questa che basta su di lei concentrarsi perché l’immagine sia evocata".

Si apre qui una visione in cui uno schema alfabetico riproduce quello cosmico, che da tre lettere dipana tutto il suo divenire. Insegna Abhinavagupta nel “Tantrasâra” che

"tre sono le potenze principali del Signore, ossia l’Altissima, la Volontà e l’Espansione. E queste sono le tre cogitazioni a, i, u. Tutto il successivo spiegarsi delle potenze deriva da questa triade soltanto".

Schemi analoghi ritroviamo nella Kabbalah, dove le strutture geometriche delle sefiroth inducono a riflettere sumodelli simili a certi yantra. Qui alef,mem, šin saranno le tre lettere madri che presiedono alla formazione del mondo, e nel gioco dei pentacoli magici i signori del Nome (ba‘aleŠem)si convinceranno di essere operatori di incredibili prodigi. Ne resteranno tracce sbrindellate negli occultisti ottocenteschi, specialmente di scuola francese. Non cercava prodigi né potere Abraham Abulafia nella “Hokmath ha Tseruf”, la scienza della combinazione delle lettere. Il suo scopo, come spiega Scholem, era quello di liberare l’anima dai nodi che la legano per raggiungere la devekuth, la perfetta unione col divino. A trentun’anni aveva vissuto un momento spontaneo di estasi, da cui aveva tratto conoscenze e visioni e la convinzione che l’oggetto perfetto su cui meditare per riconquistare quello stato beato fosse l’alfabeto ebraico. Ci ha lasciato delle istruzioni per le preparazioni necessarie alla meditazione e all’estasi: Renditi pronto a dirigere il tuo cuore su Dio solo: Purifica il tuo corpo e scegli una casa solitaria dove nessuno senta la tua voce. Siediti nella tua celletta e non rivelare il tuo segreto a nessuno. Se puoi fai questo di giorno nella tua casa, ma è meglio se lo compi di notte. Nel momento in cui ti prepari a parlare al Creatore e se desideri che egli ti riveli la sua potenza, abbi cura di astrarre tutta la tua mente dalle vanità del mondo… Ora comincia a combinare qualche lettera o molte, a spostarle e a combinarle sino a che il tuo cuore sia caldo… E quando senti che il tuo cuore è già caldo… quando sei così preparato a ricevere l’influenza della potenza divina che penetra in te, usa tutta la profondità del tuo pensiero a immaginare nel tuo cuore il Nome e i suoi Angeli superiori, come se fossero degli esseri umani seduti o che stanno vicino a te… [E infine] tutto il tuo cuore sarà preso da un tremore estremamente violento, al punto che penserai che stai per morire, perché la tua anima, rapita per la conoscenza che ha, abbandona il tuo corpo…Ricorda un brano famoso di Zosimo di Panopoli, che nel primo libro del “Conto finale” insegna a un’allieva:

"Tu dunque non lasciarti sedurre, donna,… Non ti mettere a divagare cercando Dio, ma resta seduta presso il tuo focolare [oíkade] e Dio verrà da te, lui che è dovunque… Riposa il tuo corpo, calma le tue passioni, resisti al desiderio, al piacere, alla collera, all’afflizione e alle dodici fatalità della morte. E conducendoti così, chiamerai a te l’essere divino, o l’essere divino verrà a te, lui che è dovunque e da nessun parte".

È la seconda via, che Scholem chiama profetica in alternativa all’altra che definisce teosofica. Questa non mira alla costruzione di una mente controllata ma vuole, rotto o eliminato il meccanismo psichico, raggiungere l’illuminazione estatica il più direttamente possibile. L’esempio più noto in Occidente risale a Plotino che nella sesta Enneade ci dice che

"... dobbiamo con uno slancio balzare su verso i primi valori, dopo aver svincolato il nostro io dalle cose sensibili… L’anima deve restarsene nuda di forme, se intende davvero che nulla si insedi lì a far da impaccio alla piena inondante ed alla folgorazione che si riversa su di lei da parte della Natura primordiale… essa deve staccarsi da tutte le cose esteriori, volgersi verso la sua intimità, completamente, non inclinarsi verso qualcosa di esterno, ma estinguendo ogni conoscenza… spegnendo altresì la conoscenza del proprio essere, l’uomo deve immergersi nella contemplazione di Lui… Lassù è il verace oggetto d’amore, cui è dato congiungersi davvero".

Racconta Porfirio che quattro volte riuscì il suo maestro a raggiungere questa beata unione, lui una sola, in sessantotto anni. Un evento raro, che si mantiene a lungo con difficoltà. Anche San Bernardo se ne lagna con discrezione descrivendo l’unione soavissima, quando fa dire alla sua anima: introduxit me Rex in cubiculumsuum. E spiega:

"Là, per poco tempo, cioè circa una mezz’ora, fattosi silenzio in cielo, essa [l’anima] riposa dolcemente negli abbracci desiderati: senza dubbio dorme, ma il suo cuore veglia".

Il santo definì questa esperienza excessus mentis, che fa superare il pensiero, abductiointeriorissensus. Tertulliano per primo la chiamò “estasi” (extasis) e la interpretò correttamente come amentia, cioèassenza di mente. Qui gli esempi si possono moltiplicare e dei mistici d’Occidente Zolla ha raccolto una ricca collezione in molti volumi. Serve, come tutti dicono, una forte partecipazione emotiva a chi cerchi l’interruzione mentale improvvisa. Oltre a ciò si sono provate infinite tecniche, dalla danza frenetica degli sciamani, all’assunzione di droghe e bevande inebrianti, che ancora Zolla descrive nel “Dio dell’ebbrezza”. Per il cristianesimo orientale il monaco Niceforo, maestro di Gregorio Palamas, inventò, o più probabilmente codificò, l’orazione pura, katharáproseuché, e la definì apóthesisnoemáton, eliminazione dei pensieri. Si riferisce nei “Racconti di un pellegrino al suo confessore” che un contadino russo incontrò uno starets che gli insegnò l’esicasmo. Doveva ripetere nella sua mente Signore Gesù Cristo, abbiate pietà di me, prima 3000, poi 6000, poi 12000 volte al giorno, infine a volontà. Ne sarebbero venuti meravigliosi effetti.

Nella mente: si sente la dolcezza dell’amore di Dio, la pace interiore, l’estasi dello spirito, la purezza dei pensieri, una beatificante attenzione a Dio; nella sensibilità: un gradevole calore del cuore, tutte le membra colme di dolcezza, gioiose palpitazioni del cuore, leggerezza e frescura; la vita si fa sentire gradevole, si diventa insensibili alle malattie e all’afflizione; rivelazioni infine: illuminazione dell’intelligenza, penetrazione delle Scritture: si comprende lo Spirito della creazione, si è distaccati dal tumulto terrestre, si riconosce la dolcezza della vita interiore, si è sicuri della prossimità di Dio e anche del suo amore per noi. Fa eccezione la scuola Mâdhyamika. Con Nâgârjuna dimostrò che manca qualunque sensatezza al pensiero umano, spezzando così d’improvviso il meccanismo mentale non appena se ne percepisca appieno la totale vacuità. Unita al taoismo generò il ch’an cinese, da cui lo zen giapponese, e infiniti tesori d’arte e cultura, come questo piccolo gioiello del poeta Tung-shang:

"Neve copiosa in tazze d’argento,aironi celati dalla luna splendente,cose dissimili nell’affine,la confusione è il luogo della conoscenza".

So bene, in questo breve excursus, di avere trascurato innumerevoli documenti. Cito, ad esempio notevole, la tradizione sufi e la pratica del dhikr, o le riflessioni alfabetiche di Jâbir e degli isma’iliti. Altre considerazioni si potrebbero fare, per esempio su certe tradizioni iniziatiche, non ultima quella del R.S.A.A. che sembra una felice unione delle due vie descritte. Da un lato, con cerimonie appropriate nel Tempio massonico, induce la mente a ordinarsi secondo simbologie precise, a mettersi all’ordine, in accordo col suo motto Ordo ab Chao. Dall’altra, con rituali di passaggio, provoca le forti emozioni che possono permettere illuminazioni improvvise, riecheggiando l’antica richiesta del vate upanishadico: tamasomâjyotirgamaya, fammi passare dalla tenebra alla luce.

Resta, a conclusione, il fatto che nei millenni alcuni uomini abbiano vissuto esperienze psichiche estremamente simili e gratificanti, riconducibili a una modifica o a un arresto delle funzioni mentali, alla loro fissazione. In alcuni si sono manifestate in modo spontaneo, mentre altri le hanno deliberatamente cercate, e talvolta ottenute, grazie a tecniche e pratiche peculiari e insolite. Si è sempre trattato di un evento eccezionale, riservato a un numero piuttosto limitato di esseri umani. Chi ha vissuto questa esperienza la definisce quasi sempre in termini religiosi, come incontro col divino, col sacro, con un dio particolare, con l’assoluto, a seconda della sua cultura e delle sue convinzioni, e descrive sensazioni di luce, calore, senso di piacere estremamente intenso, percezioni cardiache, comprensione ampliata, visione splendida. Ne è sempre uscito trasformato nell’esistenza, talvolta in senso negativo, con oscuro senso di potere o egocentrismo esasperato, a volte invece in modo che potremmo definire positivo, colmo di sentimenti sereni, compassionevoli, moralmente forti, anche se non sempre integrabili nella società in cui viveva. Quest’uomo è stato spesso fonte di profondi sconvolgimenti sociali, politici e culturali, dato che per lo più ha sentito l’urgenza immediata di predicare il messaggio raccolto nel nuovo mondo appena penetrato. Dunque un fenomeno importante della nostra struttura mentale, e quindi del nostro sistema cerebrale, che andrebbe studiato in tutte le sue forme, peraltro piuttosto costanti come si è potuto verificare già da questi pochi esempi.

Credo che più che agli storici delle religioni, o agli psicologi o peggio ancora ai cosiddetti esoteristi, spetti alle moderne neuroscienze indagarlo, con scrupolo e attenzione data la sua manifesta potenza e il fascino che ha sempre esercitato. Qualcosa si è già fatto, molto negli ultimi due decenni, da quando sono possibili indagini non invasive del cervello umano e si è cominciata l’esplorazione delle reazioni elettrochimiche coinvolte nelle sue funzioni. Al momento, ma siamo, mi pare, in una fase estremamente preliminare, secondo alcuni scienziati, cito qui Casale e Ramachandran, parrebbe che questo evento sia legato a certi comportamenti del sistema limbico, più correttamente del circuito di Papez, e ai suoi rapporti con i lobi temporali e col sistema neurovegetativo, quindi a una delle parti più arcaiche dell’encefalo. Dunque qualcosa che risale agli albori stessi dell’essere umano.

Una prima domanda, ovvia, che ci si è posti, è quale sia, o sia stata, la sua utilità nel contesto dell’evoluzione. Alcuni (Matthew Alper, Scott Atran) suggeriscono che questo meccanismo sia servito a sopportare la consapevolezza umana della mortalità, l’ansia esistenziale. È una risposta, un po’ stravagante. Personalmente preferisco quella di Rhawn Joseph, che sostiene che potremmo trovarci di fronte al segnale di un futuro ulteriore salto evolutivo dell’uomo verso più ampie capacità neurologiche e funzionali, capacità il cui potenziale genetico è al momento ancora silente. Comunque questi primi studi di cosiddetta neuroteologia ci indicano la strada da percorrere, una strada senza pregiudizi, ma anche, e specialmente, senza timore di affrontare un’area dell’avventura umana che è sempre stata circonfusa da un alone di rispetto reverenziale. Forse è finalmente giunto il momento di applicare seriamente, in modo severo e inflessibile, il precetto dato più di due millenni fa all’uomo: conosci te stesso.Il risultato potrebbe liberarci da molti problemi che al momento paiono insolubili.

Bibliografia essenziale dei testi citati:

• R.A.Schwaller de Lubicz, Il Tempio dell’uomo. Roma, 2000.
• Patanjali, Gli aforismi sullo Yoga (Yogasûtra). Torino, 1968
• AA.VV.,Satana. Etudes carmélitaines.Milano, 1954.
• Giuseppe Tucci, Teoria e pratica del mandala. Roma, 1969.
• Pavel Fliorenskij, Le porte regali. Milano 1999.
• Stefano Piano, Enciclopedia dello Yoga. Torino, 1996.
• Kristopher Schipper, The taoist body.Berkeley, 1993.
• Isabelle Robinet. Les commentaires du Tao To King jusqu’auVIIe siècle.Mayenne, 1981.
• Isabelle Robinet, Introduction à l’alchimieintérieuretaoïste. De l’unité à la multiplicité. Paris, 1995.
• A taoist classic. The book of Laozi.Beijing, 1993.
• Ignazio di Loyola, Gli scritti. Torino, 1977.
• Giordano Bruno, Spaccio de la bestia trionfante. Napoli, 1994.
• Frances A. Yates, L’arte della memoria. Torino, 1966.
• MadhuKhanna, Yantra. Il simbolo tantrico dell’unità cosmica. Roma, 2002.
• Abhinavagupta, Essenza dei tantra (Tantrasâra). Torino, 1960.
• G. Busi ed E. Loewenthal (a cura di), Mistica Ebraica. Testi della tradizione segreta del giudaismo dal III al XVIII secolo. Torino 1995.
• Gershom G. Scholem, Les grands courants de la mystique juive.Paris, 1977.
• Berthelot - Ruelle, Collection des AnciensAlchimistesGrecs. Paris, 1887.
• Elémire Zolla, I mistici d’Occidente. Milano, 1980.
• Plotino, Enneadi. Bari, 1973.
• Etienne Gilson, La théologiemystique de Saint Bernard. Paris, 1976.
• Elémire Zolla, Il Dio dell’ebbrezza. Torino, 1998.
• IrénéeHauscherr S.I., Hésychasme et prière. Roma, 1966.
• Fung Yu-lan, A history of chinese philosophy. Princeton, 1983.
• Nâgârjuna, Le stanze del cammino di mezzo (Madhyamikakârikâ). Torino, 1979.
• Leonardo Arena, Storia del Buddhismo Ch’an. Milano, 1999.
• Roberto Casale, Studio della interazione tra neurovegetativo e sistema limbico: un approccio neurofisiologico all’anima?. Pavia, 1998.
• Ramachandran V.S., The emerging brain. London, 2003.
• Matthew Alper, The “God” part of the brain. New York, 2001
• Scott Atran, The Neuropsychology of Religion, in NeuroTheology, University Press, San Jose California, 2003
• Rhawn Joseph, Mythologies of Modern Science, in NeuroTheology, op. cit.

Paolo Lucarelli

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Il “Ribelle” nella società dell’anestetizzazione di massa: i messaggi della cinematografia – Stefano Sogari

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Tempi addietro, mi addentrai in una lettura definita come “classica” ma che funzionò come un ordigno a scoppio ritardato: “Il Trattato del ribelle” di E. Jungher. L'autore non ha bisogno di presentazioni: figura vasta e poliedrica di filosofo, ricercatore sulle Vie dello Spirito ma anche aristocratico soldato dell'antica Germania post-romantica, scrisse quel testo nel Dopoguerra quando ancora non erano evidenti alcune storture della società odierna nella sua illusione totalitaria basata sulla Tecnica ed il suo dominio. La lettura fu difficile non tanto per ciò che vi era scritto ma per capirne la “ratio” dato che sembrava un testo elaborato in tempi assolutamente non corrispondenti a quelli della sua effettiva redazione. Ne “L'Operaio” , scritto decadi prima, era ben diversa la visione dell'Uomo circa la possibilità di adire ai segreti delle macchine per superare i propri limiti e costruire una nuova civiltà preterumana. Decenni dopo è evidente la disillusione, forse dovuta ad un pessimismo storico dell'autore viste le tremende vicissitudini della sua Germania e dell'Europa in generale. L'uomo si ritrova in pieno boom economico: una espansione di beni e servizi portata avanti proprio dalla Scienza, ma qualcosa non quadra, inizia un sentore di oscurità che sarà poi definito meglio e nitidamente in anni successivi e che, adesso a vedersi, diventa palpabile. L'Uomo si ritrova schiavo di un Sistema molto più complesso di un semplice Regime di occupazione:

essendo il Ribelle uomo d'azione, azione libera ed indipendente. Abbiamo constatato che questa tipologia può comprendere solo una frazione delle masse, e tuttavia è qui che si forma la piccola èlite capace di resistere all'automatismo e di far fallire l'esercizio della forza bruta. È l'antica libertà in veste moderna: la libertà sostanziale, elementare, che si ridesta nei popoli sani ogniqualvolta la tirannide dei partiti o dei conquistatori stranieri opprime il paese. Non è una libertà che si limita a protestare o emigrare: è una libertà decisa alla lotta" .

Jungher non fu l'unico a delineare una nuova trincea di conflitto ma definisce un'antinomia irriducibile nell'evo contemporaneo: Libertà contro Totalitarismo moderno, Uomo Organico contro Uomo automatizzato. Ma l'automa non è solo ed eminentemente una macchina, anzi: l'automa è il dominatore delle macchine, la mente diabolica che teorizza e costruisce in serie procedimenti automatizzati per inserire la vita dell'uomo in uno schema prefissato che, via via, diventa scadenzario per poi assumere le funzioni di un pezzo, di un bullone di un meccanismo. E' la cosìdetta alienazione incosciente, quella che portò il poco studiato Ned Ludd a esplodere, quel dì in Inghilterra, in una fabbrica tessile dove gli operai oramai dovevano seguire i ritmi delle macchine, sfasciando le macchine industriali in un'assalto disperato contro il Nulla; un Nulla più oscuro e malvagio di ogni tirannide. Ma è la Macchina che domina l'Uomo o è l'Uomo che si fa interprete del male oscuro in sè presente diventando fautore di un sistema disumano? La domanda è legittima ma in questa la sede non ci sarebbe spazio per rispondere.

Giova ricordare che di Ned Ludd abbiamo perso le tracce: dopo tutta la teoria social-marxista dello sfruttamento che ha sfornato testi da riempire biblioteche e che ha creato carriere su carriere e dinastie politiche, di questo oscuro operaio disperato non si parlò più. Ma cambiamo epoca, proviamo a saltare di almeno cent'anni e più tutto ciò che va dal Luddismo al pensiero antimoderno di autori come Jungher, Evola o Pasolini e Ungaretti e finiamo nella contemporaneità. Lo scenario è, oramai, aberrante. La “Macchina” ha preso il sopravvento sul genere umano creando un sistema simile ad una ragnatela raffinata e inestricabile dove tutto rimane avvolto, anche invisibilmente. L'alienazione è giunta a livelli sovrumani in tutti i campi incluso la sfera più intima della persona ed i suoi recessi fatti di amore, sesso, sentimenti, legami. I sogni rivoluzionari sono falliti, le guerre proseguono nel migliore dei mondi possibili o nell'unico mondo rimasto (vedasi Fukuyama quando teorizzava la Fine della Storia) e non sono solo guerre nel senso “bellico” con invasioni, azioni militari su territori stranieri, mobilitazione di uomini e mezzi sempre più sofisticati. Si tratta di un concetto di guerra che travalica i confini e che invade le nostre società e che rimbalza tramite il sogno-incubo della Globalizzazione. Proprio per questo l'argomento dei reduci di guerra negli USA, specificatamente, è un imbarazzante problema: è noto che divennero una categoria a rischio perché alcuni di essi manifestano il loro essere schegge impazzite in una società che ha relegato il dominio di Marte nella distruzione automatizzata per finalità di sfruttamento economico.

Il Guerriero diventato Soldato e poi “operaio bellico” di una sempre più complessa e acefala macchina, mostra la sua alienazione al pari di disagiati operai di fabbriche o di impiegati di società. Lungi dallo scrivente l'attribuire ad alcune categorie dei sentimenti coscienti di tipo filosofico e politico circa la giustezza o meno di un assetto di potere; semplicemente è accaduto che gli uomini non essendo macchine ed in quanto ancora umani si accorgono di essere “estranei” al ritorno in Patria; lungi dall'essere cani da guardia il cui destino è una polpetta ed il rientro nel recinto di una specie di Luna Park sempre più finto, essi diventano “imbarazzanti”. Non tutti hanno chi li attende, non tutti riescono a mettersi a riposo: in alcuni di essi degenera lo stress post-traumatico e, torniamo sempre lì, l'alienazione ed il disagio, l'orror vacui della società consumistica e capitalistica che, ai loro occhi, ha perso di senso.

Nella filmografia, vero specchio della nostra società come una volta lo furono altre Arti di tenore diverso, si colgono dei segnali di tutto questo in quanto essa legge e traduce in spettacolo e, forse, in psicodramma collettivo, gli accadimenti ed i movimenti delle correnti psichiche nelle masse. Ritengo che sia interessante analizzarne le pulsioni ed i messaggi, al di là del messaggio effettivo che alcuni registi abbiano voluto lanciare: sovente un messaggio si forma come si può formare una prova processuale nell'ambito di un procedimento: gli effetti possono essere sorprendenti. Ma bisogna uscire dagli schemi ed andare sotto la superficie, tra le righe della sceneggiatura. Il simpatico “Gunny” di Clint Eastwood, ad esempio, ne è la versione in positivo, seppur border-line ed ancora ben irreggimentato, di questo dissidio tra “normale” sul piano dell'Uomo fedele alla sua natura intima e arcaica, ed il “legale” sul piano delle regole e delle consuetudini di una società in evoluzione. Quando una società è espressione di un sistema di valori essa procede lungo una tratta armonica, rimanendo ancorata al suo Ethos e producendo un certo tipo umano. Quando la medesima diventa fondata su astrazioni si crea il dissidio, l'antinomia, lo scontro ed il rifiuto di una parte dei suoi presunti difensori, perché non c'è identificazione e manca il riconoscimento. Gunny è un duro, un eroe per molti, una scocciature per i suoi superiori, una mina vagante per il sistema che, progressivamente, trasforma i soldati in tecnici della Guerra, dove il valore individuale ed il carattere diventano “ingombranti”, quasi. Ma Gunny trova la sua dimensione, alla fine la spunta lui perché riesce ancora a maneggiare ed a gestire un reparto “immondizia” dove viene scaricato onde farlo morire come persona. Trasforma quei ragazzi, indisciplinati e figli di un'America oramai totalmente diversa da quella di generazioni precedenti, in veri soldati che lo amano e lo rispettano. La favola finisce a lieto fine. Ma Gunny è un uomo solo, non parla con molti, in pochi lo capiscono, ai più sembra un bizzarro relitto di un passato glorioso ma inutile. Un superiore glielo dice senza mezzi termini: “sei come quegli arnesi messi dietro una vetrata con su scritto <rompere in caso di guerra>, qui stiamo creando un nuovo tipo di Marine, tu sei fuori tempo”. Ma Gunny, come abbiamo detto, la spunta perché forse non è vero che non c'è spazio per uomini come lui; alla bisogna dell'azione in pochi si porrebbero sotto i comandi del burocrate, a differenza del nostro spaccone sergente obbiettivamente un po' svitato.

Ma lo scenario non è sempre così positivo, spesso invece viene registrata una inquietitudine diversa ed a più livelli, non solo quello militare.
Eppure l'elemento che prende forma è sempre lo stesso: la ribellione di uomini ormai soli, senza meta, senza più possibilità di riscatto; non è un'epopea da rivoluzionari, è un Don Chisciotte moderno anzi, a volte, è un Sancho Panza senza Don Chisciotte vicino. Eppure tutti questi personaggi sembrano tornare a Jungher quando dice: “In un'orgia furiosa l'uomo vero si ricompensa della sua continenza. I suoi istinti troppo a lungo repressi dalla società e dalle sue leggi ridiventano l'essenziale, la cosa santa e la ragione suprema.

Chi sono questi personaggi e come mai hanno colpito la fantasia di scrittori, registi, giornalisti e documentaristi?

La Cronaca nera ne è una risposta spontanea: negli USA è sempre più piena di storie di reduci in disgrazia, per molti l'emarginazione e l'abisso psichico che colpisce, ondata dopo ondata, tutti i rientrati delle varie guerre coloniali del sistema America, diventano una costante tra vecchie e nuove forme devianti. Ma non sono gli unici a diventare mine vaganti: è tutta una società che periodicamente viene percossa da fenomeni di pazzia collettiva o individuale o, semplicemente, da gruppi umani che non si riconoscono nel sistema ma che non hanno altro da dire o fare, nei confronti del medesimo che federarsi tra di loro in gruppi criminali di stampo tribale. Si formano delle società di fatto, del tutto immerse nella società ordinaria ma non obbedienti alla stessa. Sono le Comunità fuorilegge che variano tra gangs etniche o tribali, motociclisti, abitanti liminali di aree ai margini o del tutto fuori i centri urbani come descritto dal film “Non è un paese per vecchi”, del 2007. In Europa il fenomeno prende corpo più tardi, in quelle forme, ma è già evidente in alcuni prodromi. In più riscopriamo l'odore della paura ad opera di chi viene da terre lontane, agito da correnti psichiche a noi incomprensibili, proveniente da sistemi che pensavamo esauriti in epoche preistoriche. O, differentemente, per via della temperie delle guerre mediorientali, ad opera di assassini veri e propri e tagliagole misti a guerriglieri di varia natura: veri e propri predatori che si ritrovano in giro per l'Europa Occidentale dove si discute, con comiche elucubrazioni costituzionali, se si possa espellere o meno un richiedente asilo che spacci droga per le strade o che aggredisca un uomo in uniforme.

Lo scenario è quindi scisso tra una ebollizione di veleni da una parte ed una quota maggioritaria di persone che vivono nel solco dell'ormai ben noto “produci, consuma, crepa”, senza porsi altre domande che cosa mettere in foto su Instagram o cosa scrivere su Facebook per commentare le proprie vacanze rispetto a quelle dell'amica del cuore. Un ritorno all'animale che si divide tra predatori e sciacalli da una parte e greggi di ovini e banchi di pesci. Uno scenario del tutto imprevedibile eppure molto ben descritto dalla parte più tormentata della filmografia d'Oltreoceano, anche quella d'autore. In tempi non sospetti iniziò il mitico Taxi Driver di Robert De Niro, immortalato come capolavoro ma di cui pochi hanno colto alcuni aspetti sociali assolutamente anticipatori dei tempi che viviamo.  Anche qui un reduce del Vietnam, solo e stordito, totalmente decontestualizzato circa la società di una megalopoli come NYC dove lui vagabonda in notturna alla guida di un Taxi, ancora di salvezza nel mare magnum della solitudine subita più che cercata. In lui si nasconde un eroe, latente e stravagante, ma un tipo di eroe che lo rende estraneo alla società a prescindere di ogni sua qualità di coraggio e abnegazione. La sua ribellione è altruistica ma quasi ingenua, non servirà a tirarlo fuori dal buio della sua prigione mentale e sociale. Un aspetto che rimane stabile in queste inquietanti descrizioni di “uomini contro” è che essi, senza una vera prospettiva realizzativa che sia di stampo politico che metapolitico o spirituale, rimangono fermi nella loro palude.

Nel caso di Taxi Driver il protagonista, alla fine dell'avventura, rimane esattamente dove stava: a guidare un Taxi di notte al cospetto del brulicare delle vite degli altri. Si aggiunga che il film, molto significativo, è permeato di dimensione esistenzialista e crepuscolare e quindi non lascia intendere ai più un ragionamento che focalizzi dimensioni più critiche circa i problemi sociali per come si stanno inverando nella società delle Metropoli americane. Eppure tutta la storia di questo personaggio è un affresco di una società parcellizzata e densa di malesseri. Un messaggio più forte, più specifico, invece, già prende forma nel famosissimo “Rambo” di un po' di anni dopo: “Non sarebbe successo niente senza quello stronzo di poliziotto, io volevo soltanto qualcosa da mangiare” - “lasciami stare, in città sei tu la legge qui la legge sono io” - “In Vietnam ero responsabile per apparecchiature da milioni di dollari, qui non riesco nemmeno a trovare un lavoro come posteggiatore”.

Rambo non è un film qualsiasi, Rambo è una pietra miliare che avrà sempre qualcosa da dire per via dell'indovinata narrazione del regista Ted Kotcheff, la quale andrà a toccare dei punti molto dolorosi in una società ancora inebriata dal boom reaganiano dei fantastici anni dorati dell'economia in crescita perenne e dell'ottimismo da pubblicità dei dentifrici. Rambo sfuggì ai più proprio nei suoi dettagli più scabrosi, forse per via del grande successo tra gli amanti del genere bellico più focalizzati sulle tecniche militari e sulla precisione della descrizione dei modus operandi di questo personaggio, destinato a divenitare un'icona Pop. Ma c'era molto di più in lui: un anticipazione di tempi oscuri che iniziavano a prendere forma nelle menti più avvedute. Rambo è vittima del suo passato ma più ancora del suo passato è vittima del suo presente e di una società che lo rifiuta, che lo teme, che non lo vuole manco vedere in quanto Rambo è lo specchio di una generazione che si divide tra Baby Boomer arricchiti ed ex Hippies benestanti, entrambi dediti a quella cavalcata verso le radiose sorti del Capitalismo come unico dei mondi possibili. Chi disturba il manovratore è visto come un poco di buono, come un pazzo o un eversore, nella migliore delle ipotesi come uno svitato. Ovviamente la storia è romanzata ed è esasperata ma il marchio dell'azione non mancherà a tanti “squilibrati” vittime di stress post-traumatico, destinati a esplodere per suicidarsi o per disseminare morte e distruzione nelle file di un nemico immaginario che è la società intera. Non si può non pensare ad una critica a tutto tondo della società americana che si presenta vittima di pulsioni “law and order” quanto impegnata a spazzare sotto il tappeto i rifiuti sociali che il proprio sistema crea, incluso le guerre. Le quali guerre però, in qualche maniera, sono parte ineludibile di un sistema di benessere diffuso che permettono alla popolazione americana di vivere in una specie di sogno borghese consumistico e spensierato. Ma Rambo è la loro cattiva coscienza, per questo il sistema lo vuole fermare, non riuscendo a zittirlo. Quel film diventerà epocale, molto più dei suoi spettacolari sequel, probabilmente manovrati e opportunamente rielaborati da consulenti governativi che hanno redirezionato la saga del ribelle solitario in più utili direzioni.

In altri casi la ribellione è più insidiosa, perché nasce dal vicino di casa ordinato e tranquillo, all'apparenza cittadino modello, il tipico uomo di cui ci si fida a prima vista. E qui nasce un altro filone che è quello delle “mine vaganti” ignote che il sistema coltiva e costruisce all'interno di una società disomogenea e disarticolata, dove il cittadino non è parte di una Polis ma è solo un individuo che si trova sgangiato dai suoi simili per finire in una tenaglia tra collasso psichico causato da una insopportabile pressione famigliare e da una spirale di incontri sfortunati ai margini della Jungla urbana che è la società reale che il buon padre di famiglia borghese e benestante non riconosce. E' William Foster de “Un giorno di ordinaria follia”: un ordinario e benestante cittadino modello americano bianco e anglosassone che, un giorno, scopre che la società non è fatta per lui né lui per la società. Il corto circuito è inevitabile e inizia da una sorta di luddismo spontaneo fino a giungere alla dimensione del Lupo Solitario che ha deciso di combattere il prossimo, il nemico vero o presunto o casualmente identificato come tale. Nella discesa agli inferi del protagonista non se ne salva uno: il ricco e grasso borghese del Golf Club, avvinghiato ad una vita da vecchio tirchio, il gruppo di banditi di strada, dei Latinos convinti di esistere grazie alla loro delinquenza per bande, persino una ditta per lavori stradali, che non è abituata a scusarsi per il pubblico disservizio, ma non manca il fast food con i dipendenti maleducati.

“ dovrà lasciare per sempre il suo campo da golf, eh si, morire con quello stupido cappello in testa che effetto fa?”.

“Questa è una contesa territoriale, io ho invaso la vostra terra di merda e voi vi siete offesi ed io lo rispetto”.

“Ora ci sono io, sull'altra faccia della luna, ho perduto i contatti con il mondo e tutti dovranno stare col fiato sospeso aspettando che sbuchi”.

Foster non sente ragioni, lui vuole solo tornare a casa dalla sua famiglia ma una sorta di congiura degli elementi lo pone di fronte alla scelta di restare “umano” o di “diventare un guerriero” e dichiarare guerra al mondo che non lo h compreso ed adesso lo teme. Anche qui tutto l'apparato sistemico si mobilita automaticamente contro di lui, contro il pazzo, contro l'Io puro seppur malato che non riequilibra il suo solipsismo nel panteismo di una realtà con cui entrare in dialettica feconda. Non c'è spazio per Fichte ma solo per il Nichilismo nella Jungla urbana a Los Angeles. Foster è un sacco da pugile dove tutto ciò che agita in negativo la società scarica i suoi pugni: la moglie che gli fa vedere la figlia con il contagocce, un lavoro che lo emargina fino al licenziamento, un tessuto urbano dove si è costretti e convivere con persone sgradevoli se non pericolose di cui non si colgono i linguaggi specifici, con le “pandillas” criminali, con alienati vari. Ed anche il suo “cacciatore”, il Sergente Prendergast, non è un gagliardo combattente in uniforme ma una persona che ha dovuto discendere in una specie di purgatorio immeritato per via di un rapporto matrimoniale totalmente squilibrato, gestito da una moglie castrante e infantile. Una vita che avrebbe dovuto essere “eroica” con tutti i crismi e che, invece, diventa caricaturale e che, alla fine richiederà una rimescolata di carte in nome del servizio, per fermare il Lupo Solitario, al di là della Grande Madre coniugale, per finire la carriera ma da Uomini.

E' evidente che la Cinematografia ha percorso un cammino parallelo all'evoluzione sociale della società americana, paradigma della post-reaganiana modernità. Si sta delineando un concetto ben descritto: nella società dell'alienazione consumistica e dell'”uomo massa” numerizzato chi si ribella o, semplicemente, chi scoppia unisce alla solitudine naturale della sua condizione una successiva qualità di “schegga impazzita” senza più coordinate spazio-temporali. Il film è ricco di spunti, questa volta abbastanza chiari, nel descrivere una fase sociale già critica e avviata nel periodo post-reaganiano di cui si coglieranno gli aspetti sempre più deteriori molto rapidamente. A questo punto, il quadro è chiaro e non è più nascosto o frammisto con altri richiami di bontà tipici della filmografia Hollywoodiana; oramai non si può nascondere il lato oscuro del mondo in cui viviamo ed i film ne colgono perfettamente dei dettagli forse precedentemente nascosti per ragioni politiche. E' il caso della brutale storia raccontata nel film “La Fratellanza” del regista Rick Roman Vaugh, siamo nella contemporaneità più coeva, è un film del 2017: un vero pugno nello stomaco per non dire un incubo ad occhi aperti in cui una tranquilla e ben assortita famiglia americana, bianca e benestante, si ritrova catapultata in un Inferno legale e sociale senza mezzi termini.

E' il classico ascensore sociale che, ad un certo punto, si rompe e precipita portando tutti i suoi membri in un sotterraneo da cui non si uscirà mai più. Ed il “bello” è che il film colpisce per la sua veridicità perché se abbiamo memoria del caso Parlanti che riguardò un cittadino italiano, fortunosamente uscito dal supercarcere di Fresno in Arizona ma non prima di molti anni di sofferenze, ci rendiamo conto che veramente la storia illustrata è una possibilissima storia di cronaca. Basta poco, nel film come nella realtà, per chi conosca quel sistema: una serata tra amici, una bella moglie e tanta spensieratezza, una disattenzione derivante dal bere. Basta poco, una disattenzione: un incidente mortale, tutto finito, tutto distrutto. Jacob Harlon, un promettente e giovane uomo d'affari ha davanti a sé la prospettiva di una rovina economica totale, spese legali che non si riescono a sostenere, il carcere dove termina ogni possibile mediazione e dove inizia l'Inferno dantesco moderno; un luogo dove puoi durare pochi giorni, intero, o anni ed anni, ma solo a patto qualora si comprenda che esiste una parte di sé che la società moderna ha omesso di farti scoprire ma che sarà l'unica ancora di salvezza possibile nel contesto di un vero e proprio campo di battaglia. Il lato oscuro dell'uomo, il ricordo di epoche primitive, diventare ciò che non vorresti mai essere, oppure soccombere e fare una fine da schiavo doppiamente prigioniero: del sistema penitenziario e dei suoi gruppi dominanti ufficiosamente al comando dei detenuti in un gioco di “vedo e non vedo” con le Autorità Penitenziarie che hanno tutto l'interesse al Divide et Impera. Jacob Harlon ha poco tempo per decidere ma nel suo cuore ha già deciso: si unisce alla Fratellanza Ariana, una sotterranea struttura criminale caratterizzata da regole precise e spietate e dall'appartenenza razziale esibita con simboli e tatuaggi per far capire ai branchi degli altri detenuti di altre razze che c'è una parte del carcere che non è più cosa loro.

“Nessuno tocca la mia famiglia”.

“progettano posti come questo per distruggere uomini come noi, glielo permetterai?”.

“Voi avete le vostre regole noi quelle della Fratellanza, per noi contano di più”.

Nella realtà penitenziaria USA quel tipo di organizzazioni esistono veramente e possiamo immaginare che una persona qualsiasi, estranea al mondo criminale ma, per pura sfortuna e disattenzione, ci possa finire a contatto senza alcuna mediazione. Negli USA si passa dall'oro al piombo senza fasi intermedie, e lì una società totalmente selvaggia come fu l'origine di quella società, torna a rimanifestarsi in modo palese ma ovviamente in un modo distorto, perché stiamo cmq parlando di un sistema alienato, dominato da forze brutali sia sul piano economico che sul piano della realtà ai piani bassi. Il protagonista del film diventa parte del branco, poi diventa capo-branco, ed entra nel mondo non riconosciuto dei “guerrieri senza ideali” che vivono nella pura sopravvivenza, che si ribellano alla “non scelta”. Da questi film emergono delle verità, se vogliamo già ampiamente descritte in altri scenari molto più elaborati culturalmente e spiritualmente, da soggetti differenziati verso l'alto. Eppure il tema della ribellione è quanto di più variegato ed al contempo adattabile possa esistere perché come esiste una scintilla interiore in ognuno di noi, è anche vero che la società moderna offre occasioni di manifestare la propria natura ribelle in modo totalmente diverso a seconda dei contesti. Il momento della ribellione è liberatorio per tutti gli uomini che si rendano conto di essere sottoposti ad una tirannia da parte di un sistema, qualsiasi esso sia. Nell'ambito immaginativo di questa filmografia non ci sono dubbi che ognuno di noi possa ritrovare accenni ad autori nominalmente molto distanti dai mondi descritti: si va dallo Jungher a Pasolini nel famoso e verista “Una vita violenta”. L'alienazione è il tratto comune dei personaggi raccontati ed è una condizione oramai ale che i soggetti coinvolti non hanno più gli strumenti per sviluppare altra strategia che non un nichilistico “assalto alle mura” di una Gerusalemme che non sarà mai “celeste” ma forse neppure terrena su piani realistici.

E' il risultato di un percorso di demolizione di ogni possibile percorso sociopolitico complesso il quale viene precluso lasciando il ribelle solo e, spesso senza causa, prigioniero di una palude, di una selva comuni ai suoi nemici. La selva è, però, soprattutto interiore ed è la tangibile prova che il nichilismo è l'unica dimensione rimasta per i nostri “antieroi”, un nichilismo post-Nitzscheano e sicuramente non rivoluzionario seppur si prenda questo termine nell'accezione che ne diede la letteratura russa che affibiò questo termine spregiativo ad una categoria molto problematica di rivoluzionari. Nulla di tutto ciò: la selva oscura in cui l'animo umano è stato smarrito dalla Tecnica e dalla Società di massa non ha spazi di luce e non concede messaggeri simbolici come fu in Dante; solo un mercuriale istinto di sopravvivenza porta i ribelli a iniziare la loro caccia selvaggia negli scenari che essi si ritrovano a vivere, che siano di loro scelta o meno. La prospettiva è divisa tra una solitaria lotta fino all'ultimo secondo di energia, oppure un pactum sceleris con delle belve più consimili per costruire un progetto di sopravvivenza predatoria: il tutto in una discesa nel Purgatorio che potrebbe diventare un semplice Inferno.

Forse il compito dell'uomo odierno è proprio questo: riscoprire la propria Wildnis da una parte e sposarla con una Sophia che ricrei un percorso di reintegrazione nella vera libertà, in un atto di rifondazione dell'umano che non termini il proprio percorso in una sorta di Risiko esistenziale su un tavolo da gioco deciso dal Sistema, un sottobanco per i disgraziati. Ma un Nuovo Ordine Cavalleresco o Legionario di uomini e donne differenziati ma reintegrati in Principii superiori sia sul piano etico che, di concerto, sul piano di una Metafisica dell'Umano/Oltreumano che proietti il ribelle nell'Empireo, al di là delle trappole del sistema e dei suoi schemi alienanti. La sfida sarà imprescindibile per essere uomini e donne liberi e per rifondare una società dove ai ribelli sia dato vivere con prospettive superiori e, forse, rivoluzionarie.

Stefano Sogari

L'articolo Il “Ribelle” nella società dell’anestetizzazione di massa: i messaggi della cinematografia – Stefano Sogari proviene da EreticaMente.

Tantra quale via della trasformazione – 8^ parte – Luca Violini

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Isolamento Verbale

Consiste nell’unire venti sottili e mantra allo scopo di dissociarsi dal flusso ordinario della parola e sciogliere i nodi al Chakra del cuore. La pratica utilizza la recitazione vajra unendo i venti sottili e il respiro alla vibrazione delletre sillabe “Om A Hum” le sillabe seme dei tre vajra che includono il potere di tutti i Mantra. In questa pratica si utilizza la respirazione detta del vaso. In questa fase il meditante sperimenta le otto dissoluzioni e poi le quattro gioie di beatitudine – vacuità, quando le energie e i venti sottili penetrano nella cavità del cuore. Quando avviene la dissoluzione delle gocce bianca e rossa nella goccia indistruttibile si ottiene l’isolamento della mente con l’esperienza successiva delle quattro vacuità ( 5-6-7-8 menti della fase di dissoluzione):

• Vacuità (discesa della goccia Bianca, luminosità Bianca);
• Vacuità estrema (risalita della goccia rossa luminosità rossa);
• Grande Vacuità (unione delle gocce nel cuore luminosità nera );
• Vacuità Totale(chiara luce analogia con l’alba pura luminosissima).

A questo livello la chiara luce è ancora analogica: il Corpo illusorio sottile fatto di venti sottili impregnati di chiara Luce comincia allora a manifestarsi. I Quattro vuoti sono delle coscienze sottili coscienze che appiano quando i venti si dissolvono nel canale centrale. In genere questo avviene in prossimità delle morte oppure durante le pratiche dei Tantra avanzati. Sono le ultime quattro menti descritte nelle otto dissoluzioni:

1) la fase della mente detta dell’apparenza bianca;
2) la fase della mente detta di accrescimento rosso;
3) la fase della mente detta prossima al conseguimento al nero;
4) la Luce chiara sorge quando riappare una presenza sottile non duale.

L’isolamento verbale non si riferisce alla comunicazione verbale ma all’isolamento del vento più sottile dal suo normale fluire costituito dalle tre fasi del respiro:

• Inalazione
• Pausa
• Esalazione

In questo stadio compaiano tre pratiche:

• La meditazione sulla Bindu del Mantra
• La meditazione sulla goccia luminosa
• La meditazione sulla goccia della sostanza

La meditazione del Bindu del Mantra

In questa meditazione immaginiamo al centro del cuore una sillaba Hum. Attraverso la pratica del Kumbakha i venti vengono portati nel canale centrale e assorbiti nella Hum. In questo modosi inzia a sperimentare i quattro vuoti. In questa fase i venti non sono ancora entrati.

La meditazione del Bindu di Luce

In questa pratica pratichiamo la recitazione Vajra. Nel Guhyasamaja Tantra si immagina una sottile sfera di luce sulla cima del naso. Ci concentriamo su questa sfera luminosa. Quando inspiriamo ci concentriamo il riverbero del suono Om. Quando tratteniamo ci concentriamo sul riverbero del suono della A. Quando esaliamo ci concentriamo sul riverbero del suono della Hum. La pratica consiste nella osservazione del naturale riverbero naturale delle tre sillabe nelle tre fasi del respiro. Il riverbero delle lettere non va confuso con la vocalizzazione né con le lettere scritte. Con questa pratica i venti entrano all’interno della goccia indistruttibile e l’esperienza dei quattro vuoti si fa sempre più forte

La meditazione del Bindu della sostanza

Questa pratica attiene alla fase dell’isolamento mentale. Immaginiamo che nella punta degli organi maschile e femminile rispettivamente un Bindu bianco e uno rosso e di unirci ad un consorte.

L’Isolamento Mentale

Una volta che i venti penetrano nel canale centrale si sperimentano i quattro vuoti. I quattro vuoti corrispondono alle menti più sottili e ai loro corrispondenti venti sottili. Una volta cessati rimane la mente più sottile la chiara luce. In questo modo abbiamo isolato questa mente sottile da tutte le apparenze esterne. L’isolamento mentale consiste di due pratiche: l’isolamento mentale interno e l’isolamento mentale esterno. Nell’isolamento Mentale esterno abbiamo un ulteriore sotto divisione in tre pratiche distinte:

• La Pratica della ripetizione del vajra Om A Hum;
• Il primo stadio del ritiro mentale;
• Il secondo Stadio del ritiro mentale.

La Pratica della ripetizione Vajra

Durante la pratica del riverbero dei tre suoni Om A Hum si visualizza una sfera luminosa nello spazio tra le due sopracciglia.

Il primo stadio del ritiro mentale

Si immagini di rinascere nella terra pura di un Buddha colmo di Beatitudine e di luce. Si visualizzi una Hum al proprio cuore. Si immagini che tutta la terra pura del Buddha e i sui abitanti si trasformino in luce e siano assorbiti nella nostra Hum.

Il secondo Stadio del ritiro mentale

La Hum emana raggi di cinque colori mentre si trattiene il respiro a Vaso: la hum si dissolve nella grande luce . Ci si immerga nel Samadhi della luce il più a lungo possibile.

L’Isolamento mentale esterno

In questa fase si pratica con una consorte. Abbiamo due divisioni la pratica della consorte immaginaria e la pratica della consorte reale.

La pratica della consorte Immaginaria

Mentre si pratica il tummo si visualizzi di compiere un atto sessuale con una Dakini di saggezza. Nella pratica ordinari si usano quattro Chakra ma in questa pratica si deve aggiungere il Chakra della Grande Beatitudine (Il Chakra segreto) e applicare la la mudra della Saggezza Madre. Quando Lo Yogi non riesce più a trattenere il Tigle si dovrebbe tirare energicamente verso l’alto i prana più bassi contraendo lo sfintere anale e visualizzando il tigle che sale al centro della testa.

Della pratica della consorte reale ed avanzata ci occuperemo nella prossima ed ultima parte di questo speciale.

Luca Violini

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Una Vittoria mutilata: le ragioni della Grande Guerra – Umberto Bianchi

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Quella della grande Guerra, è sempre stata una rievocazione “totalizzante” che ha, cioè, sempre coinvolto emotivamente tutti gli strati e le componenti ideologiche, politiche e sociali della società italiana ed europea, senza ambiguità di sorta, se non quelle a malapena sussurrate da un timido e malconcio pacifismo. Cosa questa, assolutamente non riscontrabile per quanto attiene, invece, l’ultimo conflitto mondiale, ove qualunque episodio celebrativo ha subito l’immancabile investitura ideologica, data dalla logica della guerra civile e della manichea contrapposizione Fascismo-Antifascismo, la cui spirale è durata sino ai giorni nostri.

Da quella Grande e terribile Guerra, da quel micidiale scontro tra masse d’acciaio in movimento, da quell’inedito cozzare di moltitudini, nel nome di una mai vista mobilitazione totale, uscì rafforzata la generazione dei Totalitarismi Occidentali, Fascista e Bolscevico. Ma uscì anche rafforzata e plasmata come non mai, quella coscienza di italianità che il Risorgimento, nella sua natura di rivoluzione liberale e borghese e perciò stesso, elitaria, non era assolutamente riuscito a conferire al nostro Paese. E qui, ci basti ricordare come andarono a finire i tentativi rivoluzionari di Carlo Pisacane e di Bakunin, per non parlare della pluridecennale guerriglia, (che ad oggi, si insiste prosaicamente, a chiamare “brigantaggio”) che la Calabria borbonica oppose al governo torinese del neonato Regno d’Italia.

Dalla Prima, Grande Guerra, uscirono i Mussolini, i D’Annunzio ed i Fasci di Combattimento, ma anche personaggi come Sandro Pertini e gli Arditi del Popolo (destinati a breve vita sul proscenio della politica italiana, sic!). Quella volta l’Italia si fece Nazione e, a conferma di questo rinnovato e radicato senso di appartenenza, all’indomani degli accordi di Parigi e di Berlino, di fronte alla tracotanza ed all’arroganza dell’americano Wilson, ma anche del francese Clemenceau e dell’insipienza del britannico Lloyd George, sulla questione delle promesse di concessioni territoriali all’Italia, tra cui quella irrinunciabile di Fiume, con uno spontaneo atto di forza guidato da D’Annunzio e da alcuni esponenti del Regio Esercito, ma anche da altri settori del nazionalismo italiano, Fiume venne occupata.

In barba a tutti quegli equilibri diplomatici, a quelle prudenze mediatorie, a quei distinguo ed a quegli atteggiamenti di irrisoria sufficienza che, sino a quel momento, avevano caratterizzato l’atteggiamento delle varie Potenze in campo con l’Italia. Quello di Fiume, fu l’episodio apicale, il punto di massimo consenso e di incontro del consenso nazionale attorno ad un tema comune, probabilmente mai registrato nella storia italiana. D’Annunzio, De Ambris, ma anche Marinetti, Mussolini, Gramsci e gli ambienti legati al nascente socialismo marxista, al pari di quelli espressione dell’insurrezionalismo anarchico, appoggiarono e condivisero senza riserve l’impresa fiumana, la Carta del Carnaro e le istanze che ne stavano alla base. Una Rivoluzione mancata, conclusa nel famoso “Natale di sangue” del 1920, sostituita da un’altra Rivoluzione, quella Fascista, anch’essa sostenuta da un forte consenso popolare, che non sarebbe però mai arrivato ai livelli di quello per l’impresa fiumana.

La Grande Guerra, quale fucina di un rinnovato senso di appartenenza nazionale, ma anche quale evento ben interpretabile sotto due ottiche opposte ma, in qualche modo, collimanti. Partendo dall’assunto base che la Prima Guerra Mondiale fu il punto d’arrivo di un processo storico iniziato con la Rivoluzione Francese ed i Risorgimenti Europei, essa può esser vista come il tragico atto finale della metastorica e geopolitica ambizione delle Potenze marinare e mercantili (Gran Bretagna ed Usa in primis, seguite dalla Francia…) di eliminare dallo scenario geopolitico quegli Imperi che, ad Est come ad Ovest avevano, per troppo tempo, mantenuto una funzione stabilizzatrice sul “kontinentalblock” euro- asiatico, frenando l’impetuosa espansione dell’economia capitalista globale, sorretta da un vertiginoso sviluppo tecnologico.

Due visioni del mondo opposte, l’ecumene imperiale della vecchia Cacania e dell’Impero Ottomano, poste lì a frenare i sussulti di una Modernità sovversiva, fatta di idee liberali e materialiste centripete volte a distruggere un equilibrio che gli accordi di Vienna, sembravano voler sancire per i secoli a venire. Il Primo Conflitto Mondiale rappresenta, pertanto, il crollo finale dell’ultimo residuo di un mondo impostato sull’autorità degli ordinamenti tradizionali, Impero e Monarchia. Al suo posto una congerie di contesti nazionali o multinazionali, sempre più soggetti alle capricciose e volubili volontà dei mercati e dei loro burattinai. Ma, a ben vedere, quella stessa narrazione ideologica di cui abbiamo poc’anzi illustrato i tratti salienti, potrebbe esser tranquillamente capovolta e portare, di presso, alle stesse conclusioni poc’anzi illustrate. La Rivoluzione Francese ed i vari Risorgimenti sorsero non tanto, in qualità di sovversive agitazioni, volte a cancellare l’autorità della Tradizione, quali portabandiera di un marcio modernismo ma, al contrario, esse furono la risposta ad un plurisecolare processo di decadenza che, proprio quei tanto blasonati ordinamenti tradizionali, esprimevano e cioè Chiesa, Impero e Monarchia.

A seguito di una plurisecolare contesa tra Ecclesia ed Imperium, che aveva notevolmente indebolito e fiaccato la costruzione geopolitica del Sacro Romano Impero, l’Europa tutta si era stabilizzata attorno ad una realtà fatta di Monarchie nazionali ed Imperi, che vedeva contrapposte le prime (Inghilterra, Francia, Spagna ed altre) in quanto costruzioni nazionali dotate di maggior omogeneità etnica, ai secondi, incarnati dalla monarchia Asburgica ed in seguito Austro-Ungarica, l’Impero Russo e lo Stato Ottomano, prevalentemente multietnici. Abitati da popoli che, sotto la spinta delle istanze identitarie espresse dal Romanticismo, tutte coniugate all’insegna della riscoperta delle radici, cominciarono a spingere per vedere riconosciuti i propri diritti di nazioni, gli Imperi si dimostrarono presto inattuali e non adatti a stare al passo con le nuove istanze espresse da una Modernità che, non sempre nascevano all’insegna del percorso ideologico tracciato dall’Illuminismo, anzi.

Se le tre Rivoluzioni di inizio Modernità, inglese, americana e francese, avevano scosso gli equilibri di un mondo sclerotizzato attorno ad ordinamenti incapaci a stare al passo con i tempi, il percorso ideologico tra il 18° ed il 19° secolo, rappresentò una deviazione dalle iniziali coordinate ideologiche illuministe. Il Positivismo, il Liberalismo, lo stesso Utopismo, furono ben presto affiancati da fenomeni di più radicale ed intensa portata ideologica. Il nostrano insurrezionalismo liberale, che accompagnò l’inizio del nostro Risorgimento dovette, ben presto, fare i conti con l’insurrezionalismo repubblicano mazziniano, in Germania con il nascente marxismo, mentre in Francia Proudhon e Blanqui, durante l’esperienza della comune del ‘ 48 si fecero portatori di un ideale di socialismo che debordava notevolmente da quello espresso in quegli stessi anni da Marx ed Engels, finendo con l’innestare con costoro una polemica, ad oggi, rimasta insoluta.

Ma, a dare la stura ad un qualcosa di nuovo ed inaspettato, furono le istanze vitaliste di Schopenauer, Nietzsche e Stirner che andarono a confluire in una visione di sintesi che trovò in George Sorel, e nel suo anarco-sindacalismo, una sintesi perfetta. Uno scenario questo, che fece da contorno e propellente ad un repubblicanesimo e ad un senso dell’appartenenza che, sempre più lontani andavano facendosi dalle istanze di un Rosmini, di un Gioberti o di un Cavour e sempre più andavano in direzione di quel futuristico Interventismo, che, inteso nella sua più completa accezione di paradigma esistenziale, ebbe nelle istanze dei Corradini, dei Federzoni, dei Salvemini, ma anche dei D’Annunzio, dei Marinetti dei Mussolini e dei Michele Bianchi (e dei suoi Fasci di Azione Internazionale, sic!) gli esponenti più in vista.
La Grande Guerra fu allora vista come Guerra di Liberazione, in primis da quello stato di minorità in cui la giovane nazione italiana era, in quegli anni, relegata. La stessa vicenda risorgimentale, nel massiccio e provvido aiuto britannico ai garibaldini, rientrava in uno scenario geopolitico animato dalla necessità della Gran Bretagna di fare della neonata Italia la sentinella ai propri interessi nel Mediterraneo, proprio in concomitanza con la costruzione del canale di Suez, che avrebbe fatto del Regno Unito, il controllore della maggior parte delle rotte del commercio mondiale.

Voglia di rivalsa, senso di identità, istanze di annessione territoriale, in un’epoca di potente sviluppo industriale e di domini coloniali europei, spinsero l’Italia ad abbandonare la bismarckiana Intesa con Austria e Reich germanico, in favore dell’alleanza con quelle talassocratiche Potenze che, nell’intenzione dei governi d’allora, avrebbero dovuto concederci chissà quali domini. Ma le cose non andarono proprio così. Il Globalismo mostrò il suo vero volto, infido e traditore e fu Fiume e tutto quel che venne dopo. Ovverosia la fine dell’Italia e dell’Europa ed il progressivo estendersi del dominio del Liberal-Capitalismo, a livello globale, anche sulla pelle di quelle stesse potenze che ne avevano così tanto, caldeggiato l’ascesa.

Ed allora, visto come sono poi andate le cose, chi aveva ragione? I Metternich ed i De Maistre o Mazzini, Garibaldi e Proudhon? Domanda provocatoria ma che, non può esimerci da una considerazione sulla direzione e sulla costitutiva doppiezza ed ambiguità del destino dell’Occidente, oggi come non mai, in bilico tra un suicida asservimento al dominio dell’elemento Tecno-Economico sull’umano e tra il suo rovesciamento a favore di un nuovo tipo di oltre-uomo, grazie a quella Techne a lui resa nella sua primigenia veste di sacro strumento di perfezionamento individuale. Ed allora, nel nome della ontologica doppiezza che caratterizza la vicenda d’Occidente tutto, a proposito della nostra domanda poc’anzi formulata, non possiamo non affermare la fondamentale giustezza di ambedue le posizioni, conservatrice e rivoluzionaria, in attesa di quella sintesi tra polarità opposte, che sola può farci sperare nel ritorno e nel riscatto dell’Europa e dell’Occidente.

Umberto Bianchi

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Dugin: «L’Italia è l’avanguardia populista in Europa». Intervista a cura di Paolo Becchi e Donato Mancuso

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Aleksandr Gel'evič Dugin (nato a Mosca il 7 gennaio 1962), filosofo e geopolitico russo con una lunga attività ideologica e politica alle spalle. Dissidente nell’era sovietica, quindi duro oppositore di Eltsin, oggi sostiene Putin, al quale tuttavia non risparmia critiche. Con le sue idee politiche è diventato un punto di riferimento per i populisti e gli antiglobalisti di ogni latitudine. Le sue opere sono state tradotte in diverse lingue.

Recentemente è stato in Italia per presentare il suo libro “Putin contro Putin” pubblicato da AGA Editrice, in cui traccia un ritratto inedito del presidente russo. Sempre per AGA Editrice è uscito da poco “L’ultima guerra dell’Isola-Mondo”, in cui il filosofo russo analizza l’evoluzione geopolitica della Russia come potenza “tellurocratica” globale, dalle origini fino all’attuale presidenza di Vladimir Putin.

La seguente intervista è stata realizzata da Paolo Becchi e Donato Mancuso.

Professor Dugin, nel suo ultimo libro lei identifica la civiltà russa con la “civiltà della Terra”. Ci vuole spiegare brevemente il significato di questa definizione?

Come ho cercato di spiegare nel mio libro, la geopolitica ammette due posizioni globali. Mackinder le chiama “il punto di vista dell’uomo del Mare” e “il punto di vista dell’uomo di Terra”. Si tratta di due tipi di civiltà: la civiltà dinamica del Mare (progressista, mercantile) e la civiltà statica della Terra (conservatrice, eroica). Esempi storici? Cartagine contro Roma, Atene contro Sparta. La geopolitica classica si basa anche sul fatto che il territorio della Russia contemporanea, prima dell'Unione Sovietica (URSS) e prima ancora dell'Impero russo, costituisce l’Heartland, cioè il nucleo dell’intero continente eurasiatico. Mackinder chiama questa zona “il perno geografico della storia”. Pertanto, dal punto di vista geopolitico, la Russia è qualcosa di più della Federazione Russa nei suoi attuali confini amministrativi. La geopolitica russa è per definizione la geopolitica dell’Heartland, cioè la geopolitica della Terra. Dallo Zarato Moscovita passando per la Russia dei Romanov e l’Unione Sovietica fino all’odierna Federazione Russa, dal XV secolo al XXI secolo, la Russia è stata – e continua ad essere – un polo globale della “civiltà della Terra”, una Roma continentale.

E Putin che ruolo svolge? In “Putin contro Putin”, lei parla di un Putin solare e di un Putin lunare. Sul presidente della Federazione Russa si è detto di tutto, sia in positivo che in negativo. Ma chi è davvero Vladimir Putin?

Vladimir Putin ha cambiato la storia della Russia e dell’umanità, perché con le sue azioni, con la sua decisiva difesa della sovranità russa, ha messo in crisi in ambito geopolitico il modello unipolare favorendo il passaggio ad un modello multipolare, che tuttavia non si è ancora definitivamente affermato.

Si tratta di una figura storica complessa. Da un lato Putin è la proiezione del popolo russo come entità storica, rappresenta cioè la Russia stessa, e vuole affermare la sua identità e sovranità. Questo Putin lo chiamo il “Putin solare”. È il Putin più conosciuto, una figura che in Occidente è ammirata dai populisti, per i quali rappresenta la possibilità di trasformare geopoliticamente il modello unipolare in multipolare aprendo nuove possibilità per tutti i popoli, e odiata dai globalisti, per i quali invece costituisce il problema, la sfida all’egemonia unipolare.

Ma c’è un altro lato di Putin che è molto meno conosciuto. È il Putin che la società russa vede nella politica interna, dove ha conseguito meno successi. La mia critica più importante consiste nel fatto che Putin non ha dato una dimensione istituzionale alle sue riforme. Per questo tutto è purtroppo rimasto reversibile. Putin non è arrivato al punto da rendere irreversibili le sue riforme. Questo aspetto rappresenta il “Putin lunare” che non vuole o forse non può istituzionalizzare il suo modello sovranista. Per questa ragione il suo potere – che attualmente è stabile e forte – sottende al tempo stesso una debolezza e cioè lascia la porta aperta alla possibilità di distruggere tutto quello che Putin è riuscito a fare una volta che lui uscirà di scena.

Che impressione ha avuto di un Paese come l’Italia retto da due forze politiche antisistema?

Sono molto entusiasta. Due forme di populismo, il populismo di “destra” della Lega e il populismo di “sinistra” dei Cinque Stelle, hanno superato le vecchie divisioni e hanno formato insieme il governo. È il momento storico in cui il populismo ha vinto sul globalismo liberale del “centro” politico.

Questo governo è la realizzazione delle speranze che nutro da molti anni, cioè che il popolo deve rappresentarsi oltre la divisione tra la sinistra e la destra e in opposizione al centro politico, che oggi non è più anch’esso né di destra né di sinistra.

Il centro liberale globalista, il cui emblema è George Soros, rappresenta in sé la destra economica e la sinistra culturale. Il populismo rappresenta l’ideologia potenzialmente opposta, in cui la giustizia sociale si unisce al tradizionalismo politico, alla difesa della famiglia, dei valori tradizionali europei, della sovranità e dell’identità.  Questo populismo che noi vediamo emergere in Italia ma anche in Austria, Ungheria, negli Stati Uniti, questo populismo che cresce sempre più, rappresenta una nuova forma politica e un nuovo soggetto politico: il popolo, che non è solo un insieme di individui né la classe in senso comunista né tantomeno la nazione in senso borghese, ma è organicità, identità, un soggetto storico-culturale, attore della storia ignorato dalla modernità politica. Con l’avvento del populismo, superiamo la modernità, da un lato entrando nella postmodernità e dall’altro ritornando alla premodernità.

Tutto questo sta alla base di un nuovo modello ideologico-politico corrispondente alla Quarta Teoria Politica, che ho sviluppato nei miei lavori. Credo che precisamente questo si stia realizzando oggi in Italia. L’Italia sta aprendo una nuova pagina nella storia europea e sta mostrando il cammino a tutti i popoli europei. Questo è un momento storico per l’Europa.

Ha parlato della “Quarta Teoria Politica”. Ci vuole spiegare brevemente cos’è e il modo in cui è giunto ad elaborarla?

La “Quarta Teoria Politica” è anti liberale ma senza cadere nella trappola del fascismo e del comunismo storici. Per noi oggi è necessario archiviare i soggetti classici delle ideologie politiche moderne - liberalismo, comunismo e nazionalismo. Nel contesto del liberalismo, il soggetto centrale è l’individuo, nel caso del comunismo sono le classi, nel caso del nazionalismo è lo stato nazionale. Ma l’uomo è più profondo dell’individuo, dell’identità di classe o dell’identità nazionale intesa come cittadinanza formale. Più importante di individuo, classe o nazione è il concetto di Dasein, l’esser-ci di Heidegger, la forma del ritorno alle radici dell’essere umano.

La dimensione esistenziale rappresentata dal Dasein di Heidegger è proprio l’aspetto dimenticato dalla politica attuale. Questa è anche la ragione dell’alienazione radicale e dei totalitarismi fascisti, comunisti o liberali – perché oggi viviamo nel contesto del terzo totalitarismo, il totalitarismo liberale. La causa di questi totalitarismi è precisamente l’alienazione, il concetto dell’uomo alienato da sé stesso. In questo senso l’esistenzialismo di Heidegger ci riporta alle radici dell’essere uomo. Va dunque sviluppato questo concetto esistenziale, con il quale possiamo restaurare la dimensione organica, culturale e umanistica della politica. Sviluppando questa idea possiamo arrivare ad unire il concetto metafisico ontologico di Dasein con il concetto di popolo, concepito come entità esistenziale. Heidegger diceva “Dasein existiert völkisch”, il Dasein esiste attraverso il popolo, perché il popolo dà la cultura, la lingua, l’identità. Senza queste, non è possibile essere uomo e questa comprensione positiva dell’identità organica del popolo è precisamente la base, il fondamento del Dasein.

Questo è il livello di comprensione più difficile della Quarta Teoria Politica, ma allo stesso tempo il più importante perché senza questa revisione della qualità e della struttura del soggetto centrale della politica, non possiamo creare la visione ideologica alternativa all’alienazione della politica moderna europea. Senza Heidegger non possiamo costruire un mondo veramente multipolare.

Nella sua concezione del mondo multipolare, lei dà molta importanza all’Unione europea. Tuttavia, l’Ue è un complesso di istituzioni sempre più in crisi, non le pare?

In realtà io non parlo tanto di Unione europea quanto di Europa sovrana. L’Unione europea è diventata l’opposto dell’Europa come entità geopolitica sovrana, indipendente e con la sua propria identità. L’Ue è il frutto di un’unificazione dal basso, guidata dall’economia e dagli interessi materiali. Credo che per arrivare al mondo multipolare sia necessario avere un’Europa completamente diversa, un’Europa costruita dall’alto, a partire dalla tradizione comune classica greco-romana e anche rinascimentale.

Il polo del mondo multipolare per me è l’Europa sovrana, con la sua identità europea, con il suo destino storico intellettuale, con il suo spirito, con il suo asse valoriale e le sue strutture intellettuali filosofiche metafisiche. Oggi la lotta dei sovranisti è contro questa Unione europea globalista, liberale ed elitaria. Questo è lo status quo. Tuttavia, credo che ad un certo punto questa lotta si trasformerà nella lotta per l’Europa come polo indipendente, libero e sovrano in un contesto geopolitico mondiale multipolare.

In cosa consiste la teoria eurasiatista e in che rapporti sta con l’Europa sovrana che lei ha appena descritto?

L’eurasismo, dall’inizio degli anni ‘20 del secolo scorso, propugna l’idea che la Russia rappresenti una civiltà peculiare, eurasiatica, che unisce alcuni aspetti europei tradizionali con alcuni aspetti propriamente asiatici o orientali. La differenza tra l’Europa occidentale e l’Eurasia era essenziale nella visione degli eurasisti originali ed è anche alla base del progetto eurasiatico, in quanto nel contesto del mondo multipolare l’Eurasia dovrebbe essere riconosciuta come un polo a sé, con un’identità particolare, indipendente dalla civiltà europea, americana, cinese o islamica. L’eurasismo ha i suoi omologhi nell’europeismo o anche nell’americanismo, nell’idea ad esempio dell’unificazione dell’America del Nord voluta da alcuni circoli americani. Questa era l’idea di Carl Schmitt sui grandi spazi. L’Eurasia rappresenta il grande spazio situato ad est dell’Europa occidentale ma che non corrisponde alla civiltà cinese o iraniana.

Credo che in questo contesto l’eurasismo rappresenti anche la difesa della tradizione. L’Eurasia ha conservato certi aspetti della tradizione premoderna spirituale, religiosa, culturale, ecc. Nel contesto del cristianesimo rappresenta la tradizione del cristianesimo ortodosso, orientale, molto diverso dal cristianesimo cattolico o protestante. Tuttavia, non è solo questa eredità cristiana a definire la civiltà eurasiatica, ma anche Gengis Khan, gli imperi dei sciti, dei turchi, dei mongoli. Tutte le influenze orientali sono state importanti per la creazione dell’identità eurasiatica della Russia.

Credo che in futuro l’eurasismo possa rappresentare l’ideologia del ritorno dei russi alle origini, alla propria tradizione, alla propria identità spirituale, culturale. Ma questo non esclude la possibilità di un ritorno alle radici per le altre civiltà – islamica, cinese, europea, ecc. Per questo il concetto eurasiatico è un concetto del multipolarismo inclusivo ma non universalista, perché dà la possibilità a tutte le culture e civiltà di conservare la propria identità senza imporre alcun universalismo, sia esso europeo, occidentale o russo. L’eurasismo non è imperialista. La tradizione eurasista è una forma di civiltà pluriversale. In essa c’è l’idea che possiamo accettare le diversità senza distruggerle, come ad esempio nel caso della Cecenia, in passato ostile alla Russia ma che oggi è la Repubblica più fedele a Mosca e a Putin perché i ceceni hanno capito che nel contesto di quest’unità pluralista e pluriversale dell’Eurasia è possibile conservare la propria identità meglio che nel contesto dello stato nazionale.

Donald Trump minaccia nuovi dazi contro l’Europa e la Cina e ha adottato la linea dura contro l’Iran di John Bolton. L’America di Trump è un’opportunità o una minaccia?

Non sono entusiasta dell’America di Trump, ma è sicuramente meglio di quella che sarebbe stata l’America di Clinton. Quella di Trump è l’America egoista che lotta per i propri interessi contro tutti, in un certo senso rappresenta una rivolta contro il globalismo a favore dell’imperialismo americano più brutale. È comunque meglio questo del globalismo radicale della Clinton e credo che si possa utilizzare il momento Trump per i nostri scopi perché Trump costituisce comunque un fattore di instabilità per i mondialisti.

Un ultimo consiglio per il governo italiano?

Seguire il proprio cammino. Sarà un cammino arduo. Eroico. Oggi il governo italiano è all’avanguardia dell’Europa. La storia è aperta e ci sono molte sfide davanti. Bisogna avere uno spirito forte per resistere ai duri colpi che arriveranno in tutte le forme e da tutte le parti. Questa è una grande prova per questi uomini e per questi partiti politici. L’unica possibilità di riuscita è avere profonda fiducia nella propria cultura e nel popolo italiano. Noi russi vogliamo tutti la vittoria di questo governo e siamo disposti in tutti i modi ad aiutarlo.

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La Religione Romana negli studi di Raffaele Pettazzoni – Claudia Santi

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La storia della religione romana costituisce un tema al centro dell’interesse della Scuola di Roma, a partire dal suo fondatore, Raffaele Pettazzoni. R. Pettazzoni possedeva una solida formazione classicista (1) e già dai suoi primi studi manifestò un’attenzione nei confronti del mondo romano: nella relazione Le superstizioni, presentata nel 1911 al I° Congresso di Etnografia Italiana (2), lo studioso attraverso il rimando al mondo antico, greco e romano, respinse l’ipotesi allora prevalente che vedeva nella superstizione niente altro che un survival, per avvalorare al contrario l’idea che essa costituisse a pieno titolo in origine «un fatto della religione» (3). A tale scopo, Pettazzoni riprese l’etimologia formulata in quegli anni da Walter F. Otto, il quale associava il latino superstitio al greco ekstasis, come termini indicanti un tipo di esperienze caratterizzato dal distacco dal corpo (4) e dal contatto non-mediato con una dimensione estranea e superiore a quella dell’esistenza normale. In tale prospettiva, il valore di survival, lungi dall’essere intrinseco, sarebbe stato piuttosto, per Pettazzoni, il risultato del rifiuto di tali esperienze, rifiuto formulato dai Romani e dai Greci, prima ancora che dal Cristianesimo, nei confronti di quanto si contrapponeva ai culti civici riconosciuti dallo Stato (5). Al di là dei pregiudizi scientifici che emergono nella successiva classificazione morfologica delle superstizioni, pienamente giustificati in uno studioso ancora in formazione e che peraltro non poteva avvalersi dell’intervento orientativo di alcun maestro (6), il contributo del 1911 ha un suo interesse per la storia degli studi, in quanto testimonia la lucida contrapposizione che Pettazzoni opera tra una dimensione individuale ed una dimensione collettiva del fenomeno religioso, distinguendone gli esiti sulla base del referente (7). Se in questo primo lavoro l’interesse per la religione romana si concentra in pochi rapidi accenni, esso inizia a manifestarsi in maniera compiuta a partire dalla relazione che Pettazzoni propose alla discussione nel I° Congresso Nazionale di Studi Romani (1929): Per lo studio della religione dei Romani (8).

Alla presunta «povertà di esperienze emozionali», alla palese assenza di un apparato mitologico originale, alla rigida fissità del formulario rituale, alla minuziosità procedurale degli atti cultuali, indicate dagli studiosi come segnali di un non completo assetto politeistico e quindi come un limite intrinseco della religione di Roma, Pettazzoni contrappone «le vibrazioni dell’anima religiosa romana» che si manifestarono, ad es., negli anni drammatici e gloriosi della Seconda Guerra Punica: «allora l’anima romana cercò, implorò, scongiurò disperatamente l’aiuto divino, escogitò nuove forme di adorazione per ottenerlo» (9). Per quanto riguarda l’aspetto metodologico, Pettazzoni, in quella sede, pur consapevole delle distorsioni insite nel ricorso indiscriminato alla comparazione, esprime il suo vivo apprezzamento nei confronti di quella che era apparsa come la più notevole conquista scientifica dell’epoca, ossia l’applicabilità ai popoli dell’antichità classica di paradigmi ermeneutici desunti dalle culture cd. primitive e riconosce alla scuola antropologica il merito di aver allargato l’approccio comparativo anche a settori fino ad allora impermiabilmente chiusi nel loro tecnicismo antiquario-filologico (10). In particolare, lo studioso appare interessato alla valorizzazione dell’elemento magico - presente soprattutto nella fase arcaica della religione romana- operata dalla scuola antropologica (11). Il limite di tale approccio, piuttosto che nel possibile arbitrio ermeneutico, veniva da Pettazzoni individuato nel carattere astorico della ricerca antropologica, poco o niente interessata a tracciare e rintracciare le linee delle dinamiche culturali e tutta volta al rilevamento delle eventuali sopravvivenze. Ciò che al contrario Pettazzoni intendeva sottolineare era la necessità di introdurre anche nella religione romana, attraverso l’antropologia comparativa, il «concetto di svolgimento» (12), criterio individuante e tratto distintivo del metodo storicista, che non mira a formulare astratte generalizzazioni, ma tende a ricostruire dietro ogni evento il processo dinamico che lo ha determinato (13). Se ogni phainómenon, secondo la nota formula pettazzoniana, è un genómenon (14), si può affermare allora che la storia della religione romana coincide, per Pettazzoni, con la storia delle successive trasformazioni dettate dall’esigenza di adattare le espressioni del culto di volta in volta alle mutate condizioni della cosa pubblica (15); soprattutto nel periodo post-repubblicano, essa è, per Pettazzoni, la storia delle riforme attuate «sul vecchio tronco della religione romana tradizionale e nazionale per adeguarla alle nuove esigenze del nuovo stato super-nazionale che è l’impero» (16). L’adozione del Cristianesimo come religione di stato appare dunque allo studioso solo come l’ultimo a livello cronologico di questi interventi di riforma: esso fu bensì quello definitivo, ma non comportò a suo giudizio una frattura sul piano storico. Dalla religione antica di Roma alla storia religiosa moderna, Pettazzoni vedeva i segni di una continuità che suggeriva (ma Pettazzoni scrive: «impone») lo studio della religione romana non solo come momento di un processo unitario, ma anche come strumento di allargamento della coscienza storica e come «speciale interesse nazionale» (17).

Sebbene il Congresso sia stato organizzato durante il regime Fascista, ed anzi l’Istituto per gli Studi Romani che ne fu il promotore sia stato creato proprio quegli anni per esaltare, anche in chiave propagandistico-politica, l’ideale della romanità, non vi è nelle parole di Pettazzoni da leggere un intento celebrativo (18). L’idea della storia delle religioni come strumento di allargamento della coscienza storica (19) sembra aver accompagnato Pettazzoni fin dai suoi esordi e, essendo la storia di Roma antica parte integrante della storia nazionale d’Italia, il suo studio assumeva immediatamente ai suoi occhi la funzione di promuovere l’autocoscienza del popolo italiano. A riprova del carattere non episodico dell’interesse di Pettazzoni per la storia religiosa d'Italia si può addurre anche il fatto che, a conclusione del Congresso, R. Pettazzoni propose e fece sottoscrivere, con l’appoggio anche di Gaetano De Sanctis, un ordine del giorno che impegnava a riservare una speciale attenzione all’incremento dello studio della storia della religione di Roma (20). Coerentemente con questa presa di posizione, lo studioso si dedicò, negli anni che seguirono, ad un intenso lavoro di ricerca (21), che costituì, tra l’altro, la base documentaria per un ciclo di tre lezioni sulla politica religiosa di Roma antica, tenuto presso l’Università di Padova nel marzo 1936, su invito del rettore Carlo Anti. Nella prima lezione, Roma e le religioni di mistero, Pettazzoni analizzò la politica repressiva adottata dalle istituzioni romane nei confronti dei culti di Bacco (186 a.C.), di Giove Sabazio (139 a.C.) e dei misteri egizi, fino ad arrivare alle persecuzioni contro i Cristiani (22). Attraverso lo studio dell’affaire dei Bacchanalia del 186 a. C., R. Pettazzoni ebbe modo di osservare la reazione della res publica nei confronti di un culto misterico-iniziatico (23), caratterizzato da riti orgiastici e promiscuità sessuale, che prometteva ai suoi fedeli una salvazione individuale. Tale reazione si manifestò principalmente sul piano politico: agli adepti dei culti bacchici venne mossa l’accusa di coniuratio, una forzatura certo che trasformava in crimen contro lo Stato il giuramento che imponeva agli iniziati di mantenere il segreto sulla materia sacra specifica del culto, ma una forzatura che rivela come Roma individuasse nel popolo dei Bacchanalia un pericolo per la sua sopravvivenza piuttosto che per la purezza della sua religione. Osserva a proposito Pettazzoni che la politica religiosa verso le religioni di misteriche sembra passare attraverso tre fasi: «da prima, fin che sono senza importanza, le ignora; poi, quando prendono piede, le perseguita per sradicarle; poi, quando la violenza risulta vana, le riconosce per dominarle. Sono tre fasi, tre aspetti successivi di una stessa politica, costantemente ispirata alla avversione. In fondo a questa politica sta il fondamentale irriducibile contrasto fra la religione dello stato e le religioni di miste ro» (24). Già nel saggio I misteri del 1924 Pettazzoni aveva ritenuto di poter individuare due diverse forme ed espressioni di religiosità, in costante contrasto tra loro: «Di fronte ad una religiosità dello stato, della nazione, della patria, naturalmente orientata verso l’al di qua, cioè verso la conservazione di quell’organismo sociale e politico cui l’individuo appartiene nascendo e che per l’individuo è tutto – e fuori di essa l’individuo è nulla – la religiosità dei misteri ha piuttosto carattere privato e individuale, orientata com’è prevalentemente verso le cose ultime, verso il destino di ogni singolo uomo nell’aldilà» (25).

Nell’elaborazione di questa dialettica religiosa, ripresa, ridiscussa e sempre meglio precisata in tutti gli studi di Pettazzoni dedicati a Roma antica, la religione romana forniva all’autore uno dei paradigmi della «religione dello Stato» (26), e le sue vicende storiche offrivano l’opportunità di verificare le reazioni di una religione nazionale nei confronti delle invasioni di campo (27) da parte di una forma di religione pre-nazionale (28). Pettazzoni considerava infatti i misteri una religiosità che aveva le sue origini in una fase antichissima che precedeva la creazione di forme politiche nazionali, e che dunque per ciò stesso aveva al suo interno un carattere anti-nazionale. Sotto questo profilo, anche il Cristianesimo poteva considerarsi una religione di mistero: è questo il tema della seconda lezione nella quale Pettazzoni si sofferma ad esaminare in particolare i rapporti tra il Cristianesimo e le religioni di mistero e tra il Cristianesimo e l’impero romano. Anche questo tema era stato già trattato da Pettazzoni nel saggio I misteri (29), ma nella sede accademica, alla luce anche di una maggiore attenzione nei confronti della storia della religione romana, il contrasto epocale si delinea con maggiore chiarezza (30). Invece di soffermarsi sui caratteri del Cristianesimo comuni anche alle religioni misteriche, Pettazzoni appare interessato piuttosto a definirne gli elementi differenziali; dopo un'attenta valutazione, lo studioso coglie nel passaggio da una dimensione nazionale ad una prospettiva compiutamente sopranazionale e nel suo spirito di esclusivismo gli autentici tratti di originalità del Cristianesimo rispetto agli altri misteri: «il Cr[istianesim]o è un mistero, ma un mistero sui generis». Al pari delle religioni di mistero, esso, dapprima ignorato dall'autorità imperiale romana, fu in seguito perseguitato ed infine accettato; nel contatto tra il Cristianesimo e l'impero romano, tuttavia, fu quest'ultimo ad essere assimilato. «Il C[ristianesim]o trionfatore nello St[ato] romano si fa persecutore del pagan[esimo], e nella sua persecuzione accomuna la relig[ione] pagana di stato e le relig[ioni] di mistero. Ecco un’altra differ[enza] capitale fra crist[ianesimo] e misteri; essa si rivela in questa persecuzione» (31). Nella terza ed ultima lezione, Pettazzoni affronta il tema del confronto tra la storia religiosa dell'Occidente e quella Oriente, individuando nella conversione e nel sincretismo, rispettivamente i caratteri dominanti del loro svolgimento storico (32). I temi individuati nelle lezioni patavine costituiranno per molti anni il fulcro della riflessione di Pettazzoni sulla storia della religione di Roma Antica (33). Nell'Anno Accademico 1937-1938, dedicò il suo corso istituzionale per gli studenti dell'Università La Sapienza di Roma a La religione di Augusto (34), sviluppando lo stesso argomento anche nel contributo pubblicato nel volume commemorativo del bimillenario della nascita di Augusto (63 a.C.) (35).

La trattazione dell’argomento condotta da Pettazzoni trascende in realtà i limiti cronologici imposti dalla circostanza per allargarsi ed estendersi all’intera storia della religione romana. L’attenzione dello studioso si concentra soprattutto sull’esame delle riforme di Augusto, ed in particolare sull’istituzione dei culti del Divus Iulius e del Genius Augusti (36): Pettazzoni vede in questi due interventi gli «elementi prototipici e complementari» che posero le basi per una nuova religione, la religione dell’Impero (37). Come la formula costituzionale realizzata con il principato proponeva una soluzione al problema dell’adattamento del modello di regalità ellenistico-orientale alla tradizione repubblicana romana, rimuovendo gli elementi incompatibili (forma monarchica e divinizzazione del sovrano), così le riforme religiose operate da Augusto realizzarono quell’unità religiosa necessaria a garantire la stabilità del nuovo assetto costituzionale (38). Il senso della riforma promossa da Augusto nel corpo del politeismo romano era, secondo Pettazzoni, un senso politico: «Una nuova forma di stato era necessaria e con essa una nuova religione» (39). Anche a livello religioso, l’opera di riforma–consolidamento comportò l’ablazione di quelle manifestazioni giudicate incompatibili, in primo luogo il culto druidico, dapprima consentito ai Germani ma vietato ai Romani, in seguito proibito in ogni sua forma per tutti i cittadini dell’Impero (40). Nella vittoria di Ottaviano-Apollo su Antonio-Dioniso, Pettazzoni vedeva, infine, la soluzione temporanea anche del conflitto tra «religione dello Stato» e «religione dei misteri». In tale prospettiva, la politica repressiva portata avanti da Augusto nei confronti dei culti dionisiaci, egiziani, druidici trovava la sua giustificazione nella carica eversiva dei culti stessi, in grado di minare l’unità religiosa dell’Impero tanto faticosamente raggiunta. L’indirizzo intrapreso da Augusto e continuato da Tiberio, da Claudio, dai Flavii, da Adriano sarà significativamente sconfessato da Caligola, Nerone, Commodo e Aureliano, tutti sostenitori di una monarchia a carattere divino. L’ultimo atto di questo millenario confitto si compì con l’affermazione del Cristianesimo come la religione dello stato romano: «Così –annota Pettazzoni- l’opera religiosa di Augusto finiva. L’impero non sopravvisse ai suoi iddii» (41). Ci siamo soffermati a lungo su questo contributo pettazzoniano, in quanto riteniamo che esso costituisca la più compiuta ricostruzione della religione romana realizzata dallo studioso: in esso prendono forma quelle istanze di merito e di metodo espresse da Pettazzoni al Congresso di Studi Romani, ma depurate delle componenti improduttive e arricchite di elementi innovativi. Come è apparso evidente anche da queste brevi note, l’analisi della religione romana condotta dallo studioso prescinde dall’esame del mito per concentrarsi su materiali desunti esclusivamente dall’apparato rituale e cultuale. Questa attenzione al dato rituale non ci sembra casuale, dal momento che proprio in quegli anni uscirono, quasi contemporaneamente, tre studi fondamentali per una nuova ermeneusi della storia della religione romana: Der römische Iuppiter (42); La prehistoire du flamines maiores (43); Il mito nella storia di Cecilio Metello (44). Pur nelle diversità di metodo e di approccio, ciascuna di queste opere, una delle quali concepita e realizzata nell’ambito della scuola dall’allievo di R. Pettazzoni Angelo Brelich, poneva l’accento sulla necessità di partire dal rito per recuperare l’originalità e lo specifico culturale della religione romana. Prendeva così corpo una nuova corrente di studi che distaccandosi definitivamente dalla Altertumswissenschaft proponeva attraverso l’elaborazione della teoria della demitizzazione una nuova interpretazione della religione romana (45).

Da segnalare inoltre come nell’analisi di Pettazzoni non vi sia più alcun ricorso all’elemento magico, che appariva ancora nell’articolo 1929 (v. supra p. ). Accanto a questa significativa assenza, va segnalata l’introduzione del criterio di compatibilità/incompatibilità, utilizzato da Pettazzoni nella sua ricostruzione come criterio analitico individuante, sia a livello storico-religioso che storico-politico (46): si trattava di un criterio innovativo che consentiva di riportare alla dimensione culturale scelte operate da Augusto comunemente negli studi specialistici ricondotte a presunte caratteristiche naturalistico-psicologiche del princeps, quali la mentalità pragmatica, la lungimiranza, lo spirito pratico, la tolleranza. Questo orientamento, che si rivelerà particolarmente fecondo negli studi degli allievi ed eredi di Pettazzoni, soprattutto in Sabbatucci, ma anche in Brelich, riconduceva e risolveva in dialettiche culturali interventi in campo religioso che altrove e altrimenti sarebbero apparsi inspiegabili, immotivati e forse anche illogici. Nel quadro dell’organica connessione e interdipendenza tra piano religioso e piano politico, nel segno dell’accoglimento del compatibile e dell’abbandono dell’incompatibile, si comprendevano le ragioni che avevano condotto Augusto, che pure era stato iniziato ai misteri di Eleusi, a vietare il culto druidico ai Romani e a rifiutare il culto della sua persona in vita, promuovendo tuttavia il culto del suo Genio, ossia dell’elemento divino presente in essa, secondo una concezione tradizionale della religione romana. Sappiamo che Pettazzoni concepì in quegli anni un progetto molto più ampio relativo allo studio della religione di Roma antica, progetto destinato per molti aspetti a rimanere incompiuto. Aveva, infatti, in programma di organizzare una grande conferenza su La religione di Roma, mai realizzata, nella quale concentrare l'attenzione sul culto capitolino inteso come spirito della religione dello stato; intendeva inoltre analizzare le divinità protettrici dei personaggi carismatici del I sec. a.C. , Mario, Silla e Pompeo e dedicarsi allo studio dell'intervento di Cesare in campo religioso (47). Solo quest'ultimo progetto fu portato a termine, anche se in forma ridotta rispetto alle intenzioni dello studioso: Pettazzoni, infatti, ebbe modo di trattare La religione di Cesare in un articolo-recensione al volume omonimo di Eugenio Giovannetti apparso sulle pagine de Il Giornale d’Italia nel settembre del 1937 (48). Il contributo pettazzoniano allo studio della religione romana si completa con i lavori dedicati a singole figure divine, Ianus (49), Carna (50) e Carmenta (51), ma soprattutto con i saggi elaborati negli anni '40 (52) e riediti dall'autore in Italia religiosa (53). In quest'opera Pettazzoni si sofferma ad analizzare in particolare i momenti storici nei quali, a Roma, si manifestò la «perenne antitesi fra due forme religiose eterogenee (...), la religione dello Stato e la religione dell’Uomo» (54).

Raggiunge così la sua formulazione definitiva la dialettica religiosa individuata da Pettazzoni già negli anni Venti. Alcune interessanti correzioni sono apportate dallo studioso al paradigma precedente: innanzi tutto la definizione «religione di mistero» lascia il posto a «religione dell'Uomo» (55), una formulazione più ampia, che consente di inserire al suo interno anche il Cristianesimo, sul cui carattere misterico Pettazzoni aveva espresso delle riserve sin dalle lezioni patavine. In questa nuova formulazione, inoltre, sembra che Pettazzoni renda l’antitesi più radicale, rispetto a quanto espresso nei suoi lavori precedenti, dove lo scarto differenziale tra religione nazionale/religione misterica era presentato come di carattere storico, e non strutturale (56): lo studioso considerava infatti i misteri unareligione pre-nazionale e quindi certamente in contrasto con la «religione dello Stato», ma in qualche misura integrabile al suo interno, anche se in posizione marginale o marginalissima (57). Questa posizione poteva trovare conferma, dal punto di vista storico, per Roma proprio nel caso dei Bacchanalia, in cui, nonostante la vasta repressione attuata nei confronti degli adepti, la res publica romana con l’editto del 186 a.C. non giunse ad estirpare ogni forma di culto reso a Bacchus, ma intervenne per disciplinarne le modalità di esecuzione in modo da eliminarne le manifestazioni più aberranti ed incompatibili. Nelle pagine di Italia religiosa dedicate alla repressione dei Bacchanalia e dei vari culti misterici fino a giungere al Cristianesimo, al contrario, si delineano i tratti di un conflitto assoluto, strutturale e inevitabile tra «religione dello Stato» e «religione dell’Uomo», che si riproporrebbe, a giudizio di Pettazzoni, nella storia come nell’attualità (58) ogni volta che si trovano di fronte due prospettive di salvazione, una rivolta e indirizzata all’individuo, che trascende i limiti dell’esistenza proiettandosi nell’infinito temporale, e l’altra che tende a una salvezza collettiva e terrena, da realizzarsi qui e adesso, senza nulla rinviare ad una dimensione ultramondana. Sembra quindi che la genesi di tale antitesi possa essere ricondotta all’esistenza di due istanze di tipo diverso, corrispondenti alla doppia natura del soggetto come individuo e come parte della collettività. Nei successivi capitoli, Pettazzoni, attraverso il richiamo alle vicende religiose e politiche dell’Europa nel Medioevo e nell’Età moderna, e del Giappone nell’Età contemporanea, giunge inoltre a convalidare l’idea che un carattere religioso dello Stato sia connaturato all’idea stessa di Stato e che la soppressione o (auto)soppressione di uno dei due termini del dualismo religioso assuma perciò un valore puramente formale, e non sostanziale (59). Anche in questa nuova e definitiva formulazione, tuttavia, l’apporto di Roma rimane paradigmatico fornendo essa il modello su cui lo studioso elabora il primo polo, quello dello Stato, come appare anche negli altri due saggi ospitati nel volume, Roma arcaica e Paganesimo e Cristianesimo. Nel primo, Pettazzoni analizza l’arcaica pratica della devotio, un antichissimo rito per cui il generale prima di una battaglia si offriva agli dei come votum per assicurare la vittoria al proprio esercito; la morte sul campo del generale così votatosi, scioglieva la promessa rivolta agli dei e garantiva il successo delle armi romane.

Nella storia di Roma tre esponenti della famiglia dei Decii Mures si resero protagonisti della devotio ed ottennero la vittoria con il sacrificio della loro vita in tre battaglie decisive: nel 340 a.C. sul Veseri contro i Latini; nel 295 a.C. a Sentino contro la coalizione di popoli guidati dai Sanniti; nel 279 a.C. ad Ascoli Satriano contro l’esercito di Pirro. Attraverso l’analisi della figura del consul artefice del «rito tremendo e glorioso» (60) della devotio, Pettazzoni costruisce un esempio di «martire», che sembra voler dimostrare come anche all’interno della religione dello Stato vi sia spazio per esperienze per così dire di misticismo estremo. Il consul devotus che con la sua grande ombra chiama e trascina con sé nella morte i nemici assume la statura spirituale del cristiano delle origini che attraverso il martirio rendeva testimonianza della profondità della sua fede. Così, in conclusione del saggio Paganesimo e Cristianesimo, dopo aver ripercorso le tappe del conflitto tra «religione dello Stato» e «religione dell’Uomo», a partire dal 186 a.C., Pettazzoni affianca e di fatto assimila il console romano Decio Mure al vescovo di Roma Fabiano, entrambi immolatisi, uno per la salvezza dello Stato, l’altro per la salvezza della sua anima (61). Nei lavori di Pettazzoni dedicati allo studio della religione romana sembra assente quello che a partire dagli anni Quaranta del XX secolo divenne il tema centrale, ossia la teoria della demitizzazione. Lo studioso in realtà non prese mai apertamente posizione a favore o contro questa teoria né partecipò in alcun modo alla sua definizione, nonostante proprio nella stessa scuola da lui fondata due studiosi, Brelich e Sabbatucci stessero proprio in quegli anni fornendo un contributo determinante per la comprensione del processo di storificazione come modalità della demitizzazione romana.

Questo silenzio si spiega solo in parte con il richiamo alla motivazione più ovvia, ossia al fatto che tutti i contributi anche quelli pubblicati in Italia religiosa furono da Pettazzoni concepiti prima che la demitizzazione si imponesse come tema centrale nell’ermeneusi della religione romana. In realtà, a nostro avviso, la ragione reale risiede piuttosto nel fatto che Pettazzoni si impegnò, per quanto riguarda Roma, principalmente in lavori di sintesi che abbracciavano l’intero svolgimento della sua religione tratteggiando un quadro d’insieme nel segno della diacronia, rispetto alla quale la demitizzazione poteva rivelarsi un criterio scarsamente individuante, limitandosi la sua applicabilità alla sola fase repubblicana della storia di Roma. L’antitesi tra «religione dello Stato» e «religione dell’Uomo» poteva rivelarsi allora un criterio maggiormente orientativo offrendo uno schema per interpretare l’intero svolgimento della religione di Roma, dall’epoca della sua formazione fino al momento della sua definitiva scomparsa ad opera del Cristianesimo. Ma il contributo di Pettazzoni allo studio della religione romana non si esaurisce con i suoi lavori. Attraverso il rilevamento del polo dialettico «religione dello Stato» questo studioso ha offerto argomenti a favore del superamento e del definitivo abbandono della dicotomia religione/diritto che caratterizzava l'approccio alla religione romana fino alla metà del secolo scorso; in tale prospettiva, in tanti successivi studi di romanistica concepiti all’interno della Scuola storico-religiosa di Roma, si può riconoscere lo sviluppo di temi già presenti nell’opera scientifica, negli studi e nel magistero di Raffaele Pettazzoni.

Note:
1 Cfr. R. Pettazzoni, Esposizione della operosità scientifica e didattica del concorrente prof. Raffaele Pettazzoni, 1923: «Durante l'università coltivai specialmente gli studi di filologia classica e indo-europea» in M. Gandini, Raffaele Pettazzoni autodidatta nello studio della Storia delle religioni e alunno della Scuola Italiana di Archeologia (1905-1907). Materiali per una biografia, «Strada maestra. Quaderni della Biblioteca comunale «G.C. Croce» di San Giovanni in Persiceto» 32 (1992), p. 125; grazie alla sua solida preparazione filologica, R. Pettazzoni fu per un periodo docente di lettere latine e greche nel R. Liceo-Ginnasio Marco Minghetti di Bologna (A. S. 1908-09), cfr. M. Gandini, Raffaele Pettazzoni da alunno della Scuola Archeologica a professore supplente nel «Minghetti» di Bologna (19071909), «Strada Maestra» 33 (1992), pp. 198-199.
2 R. Pettazzoni, Le Superstizioni, in S. Giusti, Storia e mitologia con antologia di testi di Raffaele Pettazzoni, Roma 1988, pp. 155-165 (ed. or. Le Superstizioni, in Atti del I Congresso di Etnografia Italiana, Perugia 1912).
3 R. Pettazzoni, Le Superstizioni, cit., p. 156.
4 W. F. Otto, Religio und Superstitio, «Archiv für Religionswissenschaft» 12 (1909), pp. 518 ss.; tale etimologia appare oggi poco accreditata, cfr. W. Belardi, Superstitio, Roma 1976.
5 R. Pettazzoni, Le Superstizioni, cit., p. 159; per un inquadramento di questo contributo all’interno dell’opera di Pettazzoni, cfr. S. Giusti, Lo studio delle religioni: problemi di metodo, in S. Giusti, Storia e mitologia con antologia di testi di Raffaele Pettazzoni, cit., pp. 23 ss..
6 Cfr. M. Gandini, , Raffaele Pettazzoni autodidatta nello studio della Storia delle religioni e alunno della Scuola Italiana di Archeologia (19051907), «Strada Maestra» 32 (1992), pp. 125-142.
7 Cfr. N. Gasbarro, La terza via tracciata da Raffaele Pettazzoni, «SMSR» 56 (1990), pp. 148-153.
8 R. Pettazzoni, Per lo studio della religione dei Romani, in Atti del I° Congresso Nazionale di Studi Romani, Roma 1929, pp. 243-247.
9 R. Pettazzoni, Per lo studio della religione dei Romani, cit., p. 246.
10 Cfr. R. Pettazzoni, Per lo studio della religione dei Romani, cit., p. 244.
11 R. Pettazzoni, ibid.: «Il merito principale della scuola antropologica è stato la scoperta e la illustrazione dell’elemento magico che abbondantissimo nella religione romana, sta a rappresentare un nucleo antichissimo tramandato da epoche immemorabili».
12 R. Pettazzoni, Per lo studio della religione dei Romani, cit., p. 245; R. Pettazzoni nota come il concetto di svolgimento sia estraneo tanto all’indirizzo antiquario, quanto a quello antropologico, volto al rilevamento delle sopravvivenze; per la posizione di Pettazzoni, cfr C.T. Altan-M. Massenzio, Religioni, simboli, società: sul fondamento umano dell'esperienza religiosa, Milano 1998, pp. 51-54.
13 Cfr. R. Pettazzoni, Il metodo comparativo, «Numen» 6 (1959), pp. 1-14; su questo tema cfr. . S. Giusti, Lo studio delle religioni: problemi di metodo, cit., pp. 82 ss.; G. Mazzoleni, Il mito il rito e la storia secondo la Scuola Storico-religiosa di Roma, in Le religioni e la storia. A proposito di un metodo, a cura di G. Mazzoleni e A. Santiemma, Roma 2005, pp. 22-25.
14 R. Pettazzoni, La religione nella Grecia antica fino ad Alessandro, Bologna 19532, p. ; per le sue implicazioni, cfr. A. Santiemma, Storia, religione ed altre categorie, Le religioni e la storia. A proposito di un metodo, cit., pp. 6672.
15 R. Pettazzoni, Per lo studio della religione dei Romani, cit., p. 246.
16 R. Pettazzoni, Per lo studio della religione dei Romani, cit., p. 247.
17 R. Pettazzoni, ibid.: «Questa continuità, questo svolgimento impone a noi Italiani in particolare lo studio della religione romana e della sua storia, non per motivi estrinseci, non per non essere da meno degli stranieri, ma per nostro speciale interesse nazionale attualissimo».
18 Per la posizione di R. Pettazzoni nei confronti del Fascismo, cfr. M. Stausberg, Raffaele Pettazzoni and the History of Religions in Fascist Italy (1933-1945), in The Study of Religion under the Impact of Fascism, a cura di H. Junginger, Leiden 2008, pp. 333-368; il rapporto tra R. Pettazzoni e G. Gentile è ricostruito in V.S. Severino, Giovanni Gentile e Raffaele Pettazzoni (1922-1924). Un carteggio sulla storia delle religioni e l’università in Italia, «Storiografia» 6 (2002), pp..
19 Cfr. R. Pettazzoni, La religione nella Grecia antica fino a Alessandro, Bologna 1921, p. 22; per le critiche di M. Eliade, cfr. P. Pisi, Storicismo e fenomenologia nel pensiero di Raffaele Pettazzoni, «SMSR» 56 (1990), n. 41, pp. 264-265.
20 R. Pettazzoni, Per lo studio della religione dei Romani, cit., p. 247; cfr. M. Gandini, Raffaele Pettazzoni negli anni 1928-1929, «Strada Maestra» 48 (2000), p. 98.
21 M. Gandini, Raffaele Pettazzoni dal gennaio 1934 all’estate 1935, «Strada Maestra» 51 (2001), pp. 179-181.
22 Gli appunti di queste lezioni sono commentati ed in parte riprodotti in M. Gandini, Raffaele Pettazzoni intorno al 1935, «Strada Maestra» 52 (2002), pp. 175-180.
23 Si noti che l’aggettivo ‘misterico’ è un neologismo coniato da R. Pettazzoni ne I misteri: saggio di una teoria storico-religiosa, Catanzaro 19972 (ed. or. Bologna 1924).
24 Dagli appunti di R. Pettazzoni in M. Gandini, Raffaele Pettazzoni intorno al 1935, «Strada Maestra» 52 (2002), p. 176.
25 R. Pettazzoni, I misteri, op. cit., p. 26.
26 Opportunamente V.S. Severino, La religione di questo mondo in Raffaele Pettazzoni, Roma 2009, p. 157-8 n. 76 richiama l’attenzione degli studiosi sul fatto che la prima formulazione del concetto di «religione dello Stato» si rinviene ne La religione di Zarathustra nella storia religiosa dell’Iran, Bologna 1920, un lavoro pubblicato quando ancora il Partito Nazionale Fascista non era al potere; un altro paradigma di «religione dello Stato» era rappresentato per Pettazzoni dallo shintoismo, religione ufficiale del Giappone, cfr. E. Montanari, Categorie e forme nella Storia delle religioni, cit., pp. 22-23.
27 L’espressione è ripresa da E. Montanari, Categorie e forme nella Storia delle religioni, cit., p. 18.
28 R. Pettazzoni Religioni nazionali, supernazionali e misteriche, in Saggi di storia delle religioni e di mitologia, Roma 1946, pp. 153-168.
29 R. Pettazzoni, I misteri, op. cit., pp. 311-328 (I misteri e il cristianesimo).
30 E' evidente in questo caso il richiamo al fortunato saggio di A. Loisy, Les mystères paiens et le mystère chrétien, Paris 19302.
31 Dagli appunti di R. Pettazzoni in M. Gandini, Raffaele Pettazzoni intorno al 1935, «Strada Maestra» 52 (2002), p. 177 (integrazioni a cura della redattrice).
32 Cfr. M. Gandini, Raffaele Pettazzoni intorno al 1935, «Strada Maestra» 52 (2002), p. 178-180.
33 Il testo delle tre lezioni appare rielaborato in diversi articoli e saggi: Religioni nazionali, supernazionali e misteriche, cit.; A functional view of religions, «The Rewiew of Religion» 1 (1936-37), pp. 225-237; Oriente e Occidente: tradizioni antiche e prospettive nuove, «Rendiconti dell’Accademia dei Lincei», 6 (1959), pp. 75-80.
34 Le lezioni di questo corso sono conservate in un manoscritto di oltre cinquanta pagine, redatto con una scrittura fittissima, cfr. M. Gandini, Il corso di Storia delle religioni dell’a.acc. 1937-38, «Strada Maestra» 54 (2003), pp. 129-130; per il programma cfr. M. Gandini, Raffaele Pettazzoni negli anni 1937-1938, «Strada Maestra» 54 (2003), p. 130.
35 R. Pettazzoni, La religione, in Augustus: studi in occasione del bimillenario Augusteo, a cura di V. Arangio-Ruiz, Roma 1938, pp. 217-249.
36 R. Pettazzoni, La religione, cit.. pp. 223-227.
37 R. Pettazzoni, La religione, cit., p. 226.
38 R. Pettazzoni, La religione, cit., pp. 233-234.
39 R. Pettazzoni, La religione, cit., p. 233.
40 R. Pettazzoni, La religione, cit., p. 238.
41 R. Pettazzoni, La religione, cit., p. 244.
42 C. Koch, Der römische Iuppiter, Frankfurt a.M. 1937.
43 G. Dumézil, La préhistoire des flamines majeurs, «Revue de l'histoire des religions» 118 (1938), pp. 188-200.
44 A. Brelich, Il mito nella storia di Cecilio Metello, «SMSR» 15 (1939), pp. 30-41.
45 Per gli sviluppi della teoria della demitizzazione nell’opera dei diversi studiosi, cfr. E. Montanari, Identità culturale conflitti religiosi nella Roma repubblicana, Roma 1988, pp. 17-60.
46 R. Pettazzoni , La religione, cit., p. 238 e p. 240.
47 M. Gandini, Nei primi mesi del 1937: pubblicazioni attese, lavori in corso, progetti vari per il futuro, nuove recensioni, Raffaele Pettazzoni negli anni 1937-1938, «Strada Maestra» 54 (2003), pp. 63-64.
48 Cfr. M. Gandini Raffaele Pettazzoni negli anni 1937-1938, «Strada Maestra» 54 (2003), pp. 107-108.
49 R. Pettazzoni , Ianus
50 R. Pettazzoni, Carna, «SE» 14 (1940), pp. 163-172.
51 R. Pettazzoni, Carmenta, «SMSR» 17 (1941), pp. 1-16; ristampato, con lievi modifiche in traduzione inglese, negli Essays on the history of religions, Leiden 1954, pp. 110-124
52 Raffaele Pettazzoni preparò per le celebrazioni del bimillenario della nascita di Livio una relazione dal titolo Religione dello Stato e religione di mistero nella persecuzione dei Baccanali (Livio, libro XXXIX, 8-19) pronunciata il 12 febbraio 1942 e in seguito pubblicata con il titolo La Religione dei Baccanali e lo Stato Romano (Livio, lib. XXXIX, capp. 8-19), «Il libro italiano nel mondo», 3 (1942), pp. 7-11 (ora in R. Pettazzoni, Religione e società, a cura di M. Gandini, Bologna 1966, pp. 143-154); la relazione, leggermente rielaborata, confluirà in Italia religiosa, Bari 1952, e sarà edita anche in francese con il titolo Religion de l'Etat et religion de l'Homme, «La Revue de culture européenne», 3 (1953), pp. 45-55 e in inglese con il titolo State Religion and Individual Religion in the Religious History of Italy, in Essays on the History of Religions, cit., pp. 202-214; altri due saggi, presenti in Italia religiosa, cit., pp. 29-36 e 37-52 furono elaborati dall'autore per un volume tripartito sulle radici religiose dell’eroismo in Giappone, in Italia e in Germania, al quale Pettazzoni fu chiamato a collaborare nel 1941; il progetto editoriale, che prevedeva tre versioni in giapponese, italiano e tedesco della stessa opera, non venne mai realizzato, cfr. M. Gandini, Raffaele Pettazzoni nei primi anni Quaranta (1941-1943), «Strada Maestra» 56 (2004), pp. 124-127.
53 Le vicende di questo volume sono ricostruite nell'articolo di L. Sacco, Italia religiosa. Un “enigma” storiografico, «Storiografia» 8 (2004), pp. 199222.
54 R. Pettazzoni, Italia religiosa, cit., pp. 7-8: «la storia religiosa d’Italia mi si delinea nella continuità del suo svolgimento, che trascende la cesura fra paganesimo e Cristianesimo in una perenne antitesi fra due forme religiose eterogenee che io chiamerò qui la religione dello Stato e la religione dell’Uomo».
55 Per la «religione dell'Uomo», cfr. V.S. Severino, La religione di questo mondo in Raffaele Pettazzoni, Roma 2009.
56 Profonde riserve furono espresse a proposito da E. de Martino nella sua recensione a Italia religiosa apparsa su «Il Mondo», 14/3/1953, p. 6, per l’accoglienza del volume nel mondo intellettuale dell’epoca, cfr. S. Giusti, Storia delle religioni: problemi di metodo, cit., pp. 122-127; riserve altrettanto profonde, anche se di segno diverso, sono formulate da V. Lanternari, nella Prefazione a A. Rivera, Il mago, il santo, la morte, la festa: forme religiose nella cultura popolare, Bari 1988, pp. 7-8, che classifica tale antitesi come «di ordine genericamente fenomenologico».
57 Cfr. R. Pettazzoni, Religioni nazionali, supernazionali e misteriche, cit., pp. 164-166.
58 R. Pettazzoni, Italia religiosa, cit., p. 15: «un conflitto di ieri e di oggi, un conflitto di sempre».
59 R. Pettazzoni, Italia religiosa, cit., p. 24.
60 R. Pettazzoni, Italia religiosa, cit., p. 43.
61 R. Pettazzoni, Italia religiosa, cit., p. 52.

Prof. ssa Claudia Santi
Università della Campania Luigi Vanvitelli
Dipartimento di Lettere e Beni Culturali

L'articolo La Religione Romana negli studi di Raffaele Pettazzoni – Claudia Santi proviene da EreticaMente.

Il diritto e il “rovescio” – Enrico Marino

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Esiste un piano demografico mondiale che da decenni viene tenacemente perseguito a livello internazionale dai potentati finanziari e burocratici che promuovono le immigrazioni incontrollate. Se vi obiettano che questo è solo un “complottismo” da strapazzo, ricordate che esistono uno studio e un programma dell’Onu – con la sua malsana appendice denominata UNHCR – che appositamente pianificano e propongono la redistribuzione della popolazione mondiale, con particolare riferimento all’Italia e all’Europa.

L’idea di fondo è quella di riequilibrare la popolazione fra i vari continenti, considerati alla stregua di vasi comunicanti, allo scopo di risolvere le varie crisi che affliggono intere aree quali Africa e Sud America o Asia, per favorire ovunque la crescita e un incremento dei consumi di massa e, di conseguenza, riversare la popolazione in eccesso rispetto alle condizioni generali di sviluppo di quelle aree in uno spazio europeo, utilizzando il pretesto della necessità di invertirne la decrescente curva demografica.

Per questo, il problema della natalità (peraltro combattuta con le politiche abortiste) e il mantra assillante e ipocrita dell’universalità dei diritti umani vengono sbandierati e agitati come una clava contro chiunque si opponga alle narrazioni dei no-borders.

Ovunque, in centinaia di convegni, talk show, dibattiti televisivi e, in generale, attraverso la comunicazione mediatica, vengono rilanciati gli slogan propagandistici del dogmatismo sinistroide e del cosmopolitismo buonista che ribattono ossessivamente sulla retorica dei diritti umani e sulla condanna di ogni atto o espressione che possano apparire xenofobi, razzisti, discriminatori, intolleranti o incitanti alla violenza contro gli immigrati. E’ un incessante lavaggio del cervello, insopportabile e intollerante, che ricorre a uno stucchevole concentrato di ipocrisia, di politicamente corretto, di gesuitica carità e di terzomondismo antioccidentale, per demonizzare l’uomo bianco e qualsiasi posizione che si contrapponga alla deriva immigrazionista.

Per costoro la necessità dell’accoglienza e l’abbattimento dei muri, che si imporrebbero per ragioni umanitarie, si traducono nella visione, strategica e ideologica, di un continente senza frontiere che, consentendo una circolazione globale delle persone, si aprirebbe al nomadismo mondialista, allo sradicamento totale e alla sostituzione dei popoli, ammantando di buoni sentimenti il futuro distopico di un’umanità indifferenziata, promiscua e imbastardita.

Si tratta di una visione condivisa e sostenuta da quanti, in Italia, si battono per “rimanere umani”, ma per fare questo vorrebbero ridurci tutti ad automi meticci. L’elenco dei soggetti è sterminato e vi fanno parte istituzioni, politici, attori, giornalisti, cantanti, comici, preti, nani e ballerine e tutto l’associazionismo cattocomunista e immigrazionista che ha trovato un filone d’oro nell’immigrazione senza freni e che si identifica con Arci, Cgil, Cisl, Ui, Caritas, Migrantes, Cna, Legacoop, ecc. A questi, ultimamente, s’è aggiunto un redivivo Romano Prodi che, a Modena, ha presieduto una kermesse di tre giorni, con tavole rotonde e conferenze, per dibattere di tematiche sull’immigrazione e per teorizzare un presunto “diritto al viaggio” presentato nella coniugazione, pretestuosa e capziosa, di tre verbi “partire, arrivare, restare”.

Accettare il dialogo con questi soggetti è quanto mai sbagliato e nocivo.

Se si osserva con attenzione, ogni confronto è già viziato in origine e parte dal presupposto di dover eliminare ogni ostacolo all’immigrazione, di doversi battere contro ogni presunta xenofobia o razzismo e di dover agevolare l’integrazione dei nuovi arrivati. Il piano sul quale ci si incontra è già ampiamente sbilanciato dalla parte dei pretesi diritti dei “migranti”, liberi appunto di partire, arrivare e restare, come se tutto fosse loro dovuto e come se, in realtà, al diritto al viaggio non corrispondesse il dovere di chiedere il permesso di essere accolti, secondo le regole del diritto internazionale e secondo le leggi e le tradizioni della Nazione in cui si approda.

Un discorso e una impostazione basati esclusivamente sui diritti di chi arriva, tralasciando subdolamente i diritti di chi su quella terra vive da secoli e detiene per questo un diritto atavico e naturale ad accogliere o meno chiunque si presenti ai suoi confini, è un discorso ingannevole e inaccettabile.

Il discorso di chi antepone sempre il diritto di chi arriva è un discorso arrogante che disconosce implicitamente il diritto dei residenti.

Invece, è esattamente da questo diritto che bisogna partire, rovesciando completamente l’impostazione di base di ogni confronto, azzerando ogni obiezione e contrapponendo alla logica della promiscuità quella della identità, della tradizione e della differenza.

Ancora prima di qualsiasi giustificazione economica, va affermato che non esiste alcun dovere, giuridico o morale, ad accogliere tutti e non esiste alcuna motivazione che possa imporsi alla volontà di un popolo di continuare a vivere e a crescere nella propria terra, vantando una predilezione nella supremazia e nella continuità del proprio sangue e della propria stirpe.

Neppure è più accettabile l’astuzia concettuale di chi finge di non distinguere fra singoli soggetti e masse, fra chi fa propaganda sfruttando immagini tragiche o drammatiche storie individuali per imporre regole che, potenzialmente applicate a milioni di persone, travolgerebbero ogni assetto sociale e distruggerebbero un’intera comunità.

Al diritto di chi cerca condizioni migliori si contrappone, come rovescio, il diritto di chi non può (o non vuole) fornire opportunità che, per la loro scarsità, rappresentano un patrimonio limitato e prezioso, da conservare e non distribuire, per preservare il futuro delle proprie generazioni.

L’autoconservazione di una etnia, quantunque fosse frutto solo di puro egoismo, non può essere sanzionata da alcuna legge. Tanto più quando si traduce nel diritto all'autoconservazione di un popolo sulla propria terra.

Al prodiano e prepotente “diritto al viaggio” opponiamo il naturale e sacrosanto “diritto al rifiuto e al respingimento” di coloro che hanno costruito la loro storia col sangue e pretendono di determinare e di scegliere il loro futuro senza intrusi.

Enrico Marino

Foto copertina Web

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Giacomo Balla (2^ parte) – Emanuele Casalena

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[caption id="attachment_31191" align="alignright" width="300"] Giacomo Balla, Manifestazione patriottica (dimostrazione interventista), 1915[/caption]

Cento anni dalla Vittoria, l’Italia nuota nel fango da Belluno ad Agrigento, una Nazione, senza retorica inutile, tradita, punto e basta. Il Nazionalismo, dice la salma, porta alla guerra confondendo, per ragioni di botteguccia, il primo con il Patriottismo che è ben altra cosa:”Sentimento di amore, obbedienza e devozione verso la patria” citando Treccani. Fu questo sentire il motore dello scontro tra interventisti e anti quasi un prefisso, quest’ultimo, dello spirito degli Shudra. Il Futurismo giocò da subito il ruolo di Sandokan contro l’Europa, non solo il traballante impero austro-ungarico, ma quella votata a fare dell’Italia uno staterello cenerentola anglo-franco-americano come dimostrò il trattato di pace di Versailles del 1919 e quel che ne seguì sulla questione fiumana.

A conflitto esploso si susseguirono manifestazioni pro e contro l’ingresso del nostro Regno in trincea,

Balla vestiva l’abito antineutrale, non si tirava indietro dallo scontro, conoscendo i ceppi dell’arresto , premio non onta della sua partecipazione alla  dimostrazione del 11 aprile 1915. Boccioni, Erba, Sant’Elia tra il’16 e il ’17 salgono nel paradiso degli eroi, sangue futurista contro la mitraglia o incidente da cavallo per Umberto al quale lo smilzo Balla dedicò un ricordo dinamico scevro da romanticismi “Il pugno di Boccioni”. Questa tempera su carta divenne il logo dei messaggi futuristi, incarnava il “temperamento acceso” dell’Umberto, vitalità mediterranea, miscela di follia e gioia di vivere, un pugno lanciato in faccia al cheto destino d’ una esistenza anoressica di rischi quanto comoda poltrona ove assopirsi nel rifiuto d’ogni problema, dentro una campana di vetro immobili statuine da presepe.

Osservando quella tempera vien da chiederci, ma il pugno dov’è? Le linee curve stilizzano il corpo di Boccioni, una retta secca  lo attraversa , a sinistra il braccio è teso col pugno ben chiuso a dare il cazzotto, a destra si piega a prisma per bilanciare il movimento. Dopo Caporetto fu la riscossa con tutte le energie in campo, perdere avrebbe significato la frantumazione della giovine Italia, allora giù a testa come nella testuggine del rugby a spingere, marciare per non marcire, fino al dolce mormorio del Piave, alla terza battaglia di Vittorio Veneto, dopo 10 giorni di combattimenti, fu la Vittoria, Trento e Trieste vestivano il tricolore.

Ad ottobre del ’18 GiacomoBalla firmò il Manifesto del colore  proiettando il Futurismo oltre ogni cornuto ripensamento, da spiritello libero fiutava il ritorno all’ordine, pigiava allora sull’acceleratore lasciandosi alle spalle i tricicli passatisti, argomentava infatti: Data l’esistenza della fotografia e della cinematografia, la riproduzione pittorica del vero non interessa né può interessare più nessuno”; ed ancora: “La pittura futurista italiana, essendo e dovendo essere sempre più una esplosione di colore non può essere che giocondissima, audace, aerea, elettricamente lavata di bucato, dinamica, violenta, interventista”. Chiude con “Pittura dinamica: simultaneità delle forze”.

[caption id="attachment_31189" align="aligncenter" width="625"] Manifesto futurista con il logo del “pugno di Boccioni” di Giacomo Balla[/caption]

L’Italia piroetta sui tavoli della diplomaza, la “vittoria mutilata”, secondo D’Annunzio, aveva bisogno della protesi fiumana, le casse dello Stato erano vuote, il costo della vita schizzava in alto, messo in soffitta lo scomodo non expedit le truppe cattoliche trovavano il loro yogi in don Sturzo, sacerdote “impegnato”, i socialisti perdevano le briglie del movimento operaio, tra riformismo e mito bolscevico restarono nel guado. Il Caos fu lievito d’un pane nuovo sfornato a Milano. Il 23 marzo del ’19, a due mesi dal parto del PP, in un locale a piazza S. Sepolcro nascono i Fasci di combattimento, presenti: futuristi, ex combattenti, anarchici e socialisti pentiti, il bazooka è puntato sulla rivoluzione della terza via, basta rileggerne il programma.

Avangurdismo in arte o rassicurante retromarcia? A gennaio del 1920, Funi, Dudreville, Russolo, e Sironi firmano il Manifesto futurista. Contro tutti i ritorni in pittura, eppure i contenuti strizzano l’occhio al recupero della tradizione artistica italiana. Le spinte futuriste si scontrano con un clima di ritorno al mestiere dopo il coma etilico delle avanguardie sfociato nella morte dell’arte del Dadaismo. I più avvertivano l’esigenza, non peregrina, di lavorare al “restauro” della componente figurativa della pittura e della scultura, intingendo gli arnesi ora nell’aristocrazia del passato, ora nel presente, così a Ferrara, durante la guerra era sbocciata la Metafisica del duo De Chirico-Carrà (ex futurista), a Roma Mario Broglio editava la rivista Valori plastici, a Milano in via Brera Margherita Sarfatti stava tessendo la tela di Novecento Italiano, il Futurismo viveva la sua seconda stagione ma da emarginato. L’ottimismo nella meccanica, nella velocità del progresso, nella lotta contro le forze o leggi ignote dell’universo, approderà all’Aeropittura di Fedele Azari (aviopittore) e Gerardo Dottori, un futurista d.o.c.g. fino alla sua scomparsa nel ’77.

[caption id="attachment_31188" align="alignright" width="150"] Giacomo Balla, Nasce l’idea, 1920[/caption]

[caption id="attachment_31190" align="alignleft" width="150"] Giacomo Balla, Forze di paesaggio + cocomero,1918[/caption]

[caption id="attachment_31187" align="aligncenter" width="150"] Giacomo Balla, Pessimismo e ottimismo, 1923[/caption]

[caption id="attachment_31186" align="alignleft" width="150"] Giacomo Balla, Arazzo del Genio futurista, 1925[/caption]

 

 

 

 

 

 

 

Anime rivoluzionarie diverse dibattono sulla forma e i contenuti dell’arte nel fascismo, da un lato Sironi, Funi, gli architetti del Razionalismo italiano, dall’altro il vulcano F. T. Marinetti  che avverte la sclerosi del regime paralizzato da un terzo pensiero, per sua natura passatista, quello borghese. Per intenderci quale arte poteva essere  la mise della rivoluzione: il Futurismo, la pittura murale o il neoclassicismo della retorica imperiale di M. Pacentini. Dalla metà degli anni ’30 i razionalisti vengono messi dietro la lavagna, i futuristi fuori dalla scuola, Sironi resiste per l’amicizia con Mussolini nonostante gli attacchi di Farinacci. Giacomo Balla continua la sua ricostruzione dell’Universo dipingendo, nel ’21, il primo cabaret futurista romano a via Milano, il Bal-Tik-Tak, chiuderà dopo un anno e mezzo. Poi aggredidirà, con la sua fantasia, la nuova abitazione in via Oslavia nel borghesissimo quartiere Prati, non solo pareti, ma tutto ciò che essa contiene, arredo e suppellettili, viene da creata e realizzata coe un sacrario quella “Casa Balla” gelosamente custodito fin agli anni ’90 dalle due figlie Lucia (luce) ed Elica. Nel ’29 firmò il Manifesto dell’aeropittura sottoscritto da Benedetta Cappa ( moglie di Marinetti), Depero, Dottori, Fillia, Marinetti, Prampolini,  Somenzi e Tato, perché le prospettive mutevoli del volo costituiscono una realtà assolutamente nuova e che nulla ha di comune con la realtà tradizionalmente costituita dalle prospettive terrestri”.

 

[caption id="attachment_31192" align="aligncenter" width="625"] Gerardo Dottori, Bozzetto della decorazione per lasalad’aspetto dell’idroscalo di Ostia, 1926[/caption]

 

La prima Esposizione dell’Aeropittra viene fissata a Roma dal 1° al 10 febbraio 1931 a Piazza di Spagna, 35, organizzatore F.T.Marinetti, 11 i artecipanti tra cui Giacomo Balla, l’inventore della tuta Thayaht, Pippo Oriani ed Enrico Prampolini.

Balla aveva conosciuto personalmente Mussolini nel 1924 a Villa Borghese,  gancio Giuseppe Bottai, voleva lasciare una traccia indelebile della sua adesione al fascismo progettando un mega quadro dal titolo Apoteosi fascista (1926) del quale realizzò solo il bozzetto preparatorio, troppo dispendiosa l’impresa. Il suo Futur-Fascismo, per celebrare la rivoluzione dismette pian piano le linee di forza, l’astrattismo anche l’ aeropittura, per tornare alla figurazione documentata proprio quando cade il decennale della Marcia su Roma, o ancor prima nelle illustrazioni per la rivista “L’Impero” cui collaborò dal ’23 al’26. Scriveva su Roma futurista un articolo, Fascismo ed Arte, nel quale affermava “Se i periodi più grande dell’Arte dettero opere che furono l’espressione del loro tempo, anche noi dobbiamo, senza imitare il passato, creare uno stile che sia l’interpretazione della realtà”. Quel senza imitare il passato ci dice che, in teoria, l’arte che incarnava il nuovo corso storico era il Futurismo perché arte dell’interventismo, della guerra alla borghesia, del riscatto dinamico di una Patria Nike a prua della nave italica protesa verso gloriosi orizzonti. Però qualcosa appunto in lui si stava incrinando, quella fede religiosa e politica nel movimento marinettiano scricchiolava, siamo nel pieno degli anni ’30, Balla si scioglie dai lacci dogmatici dell’assoluta assenza di tradizione e torna ad esplorare nuove vie, ripartendo proprio dal verismo della sua antica passione: la fotografia, siamo nel 1933.

 

[caption id="attachment_31185" align="aligncenter" width="625"] Giacomo Balla, Marcia su Roma, 1931-32[/caption]

Un tradimento? Una paolina caduta da cavallo? No. La triade futurista Energia-Materia-Luce restava intatta, cambiava la tecnica per analizzarla ed in questo l’inquadratura fotografica rappresentava uno strumento moderno per un’arte altrettanto moderna visto che proprio la luce ne era la regista. Crediamo in parallelo che le riflessioni di Sironi sul ruolo dell’arte in epoca fascista abbiano consumato lo sperimentalismo pirotecnico del futurismo dando dei punti di riferimento verso il  Rinascimento italiano, il Balla dei tanti ritratti ed autoritratti richiama Leonardo, Tiziano attingendo però al suo passato divisionista.

La fotografia è un click, il pittore al contrario filtra con sapienza, analizza, distilla le forme quasi fosse un alchimista, il risultato di queste nuove opere del maestro è di sorprendente bellezza oltre che di autentica modernità.

Nel ’37 (anno di morte della mamma 93nne) Balla autografa una lettera al settimanale Perseo: “ Avevo dedicato con fede sincera tutte le mie energie alle ricerche rinnovatrici, ma a un certo punto mi sono trovato insieme a individui opportunisti e arrivisti dalle tendenze più affaristiche che artistiche; e nella convinzione che l’arte pura è nell’assoluto realismo, senza il quale si cade in forme decorative ornamentali, perciò ho ripreso la mia arte di prima: interpretazione della realtà nuda e sana”. Nulla da commentare sull’inversione a U, quando si esaurisce un filone di ricerca si scava in altra direzione magari riprendendo da una miniera abbandonata. Attenzione ad un fatto però Giacomo Balla aveva percorso strade parallele mai cestinando la pittura figurativa, anzi facendone strumento di narrazione della vita intima, familiare e analisi del Sé nei numerosi autoritratti (un vezzo dechirichiano).

[caption id="attachment_31184" align="alignright" width="235"] Giacomo Balla, Antighigno, 1938[/caption]

Nel secondo dopoguerra la Grande Mela scoprì il Futurismo rivalutandone tesi di ricerca e autori ( Balla aveva persino anticipato la Pop Art  con un ritratto cult di Primo Carnera), in Italia fu braccio di ferro tra astrattisti e neorealisti, Prampolini chiama Balla a riprendere la strada interrotta nel ’37, dare corpo e nome al Neofuturismo, ma lui, pur rivisitando il suo antico percorso,  resta folletto solingo a via Oslavia fino al 1° marzo 1958. Cosa fece in vita? Fu pittore, scultore, scenografo, arredatore, stilista, designer, fotografo ma soprattutto airone.

 

 

Emanuele Casalena

 

 

Bibliografia

Maurizio Fagiolo dell’Arco, Balla, Ricostruzione futurista dell’universo, edizioni Bulzoni, collana arte, architettura, urbanistica, 1968.

Enrico Crispolti, Balla, edizioni Editalia, Monografie d’arte contemporanea, 1975.

Fabio Benzi, Balla Ediz. illustrata, Giunti Editore, collana dossier d’art, 2001.

Giovanni Lista, Balla, la modernità futurista, Edizioni Skira, Milano, 2008.

Giacomo Balla, Scritti futuristi, raccolti e curati da Giovanni Lista, Abscondita, Milan, 2010.

MIBAC, “Giacomo Balla dal Futurismo al Futur-Fascismo”, atti della conferenza della dr,ssa Elena Gigli,

10 ottobre 2011.

 

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Europa: questo nome ci demmo – Alessandra Pennetta

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Oggi è un buon tempo per meditare, domani forse no. Allegro mi è il conversare sull’Europa ma mi è triste il constatare la perdita d’udito in te che non vuoi ascoltare. Stolto, non me, che percuoto soltanto l’aria, ma l’eco della Storia non vai sentendo?

Un tempo sostavi dinanzi alla chiesa, ora t’annoia [1]. Ma chi credi di essere? Di te che sai? Non fare il filosofo, se non lo sei, né l’uomo di scienza, se non sai. È un sentimento antico quello che ci fa dividere la Storia dell'uomo in un avanti o dopo la nascita del Cristo. Ti parlerebbe Erasmo da Rotterdam della pace tra te e i tuoi vicini ed Ernst Junger della guerra. Tu invece vivi così: come nella sua unica stagione la foglia o come l'ombra nel suo transito, incosciente sulla terra; tu stai come nei suoi versi la poetessa Wislawa Szymborska: “ieri mi sono comportata male nel cosmo./ Ho passato tutto il giorno senza fare domande,/ senza stupirmi di niente” [2]. Ma Platone ed Aristotele vollero che proprio lo stupore sia all’origine della tua facoltà di conoscere te stesso e le cose.

Frena la tua inclinazione alla presunzione per non cadere, non farti più grande di quel che sei e di quel che sai come quel piccino che, volendosi innalzare, restitui il libro lamentandosi che esso era troppo infantile e stupido: infatti “una madre aveva dato da leggere ai figli le favole di Esopo per istruirli e migliorarli. Ma ben presto i bambini le riportarono il libro, e il maggiore disse in modo presuntuoso: <<Questo libro non fa per noi! È troppo infantile e stupido. Che volpi, lupi e cornacchie sappiano parlare è un’assurdita’ che non può più abbindolarci: già da molto tempo abbiamo superato simili buffonate!>> [3].

Medita sulla tua età. Medita sulla tua altezza. Un solo Arthur Schopenhauer abbiamo avuto e si vanto’ “chi mi vorrà superare potrà andare in larghezza, ma non in profondità” [4]. Medita sulla pace. Medita sulla guerra, non soltanto su quel che è facile. A Junger soldato (*) fu chiesto: “sia così gentile da raccontarci cos’ha pensato quando era là fuori (**). Dev’essere stato terribile, vero?” [5].

Pensieri là fuori.
Pensieri di guerra.
Pensieri rapidi.
La morte sul campo di battaglia combatte, corre a destra e a manca.
Un pensiero di morte dalle labbra fuoriesce in un sibilo: l'ultimo respiro.
Tranci di pensieri umani.
Ma a sera si torna a sperare [6].

Tu vivi la grande Storia dell'umanità pur vivendo la tua piccola storia di uomo ma come non lo sai. Oswald Splengler ha osservato che “vi è una storia per ogni uomo, in quanto ogni uomo con tutto il suo essere e la sua consapevolezza fa parte della storia. Ma vi è una grande differenza a seconda che il singolo viva nella sensazione costante che la sua vita è elemento di qualcosa che si sviluppa in secoli e in millenni, oppure che egli si consideri come alcunché di compiuto e di chiuso in sé stesso” [7]. Immagina due lumache che conversano dell'Eternità [8]: così sono gli uomini; rispetto ad essa la Storia è in ritardo ma per l’avvenire fa la sua corsa.

La Storia ti appare per ciò che è, per analogie ed opposizioni [9], e tu stai in mezzo, ai corsi e ricorsi, saltando a piè pari antichissime convinzioni. Se poi non sai perché sei qui, cosa ti muove? Spengler ha usato una bellissima espressione: filosofia dell’avvenire [10]. Il filosofo pensa ad una filosofia del movimento: l’uomo è in movimento, la Storia è in movimento. Ora, un capello tra i capelli è un particolare invisibile e insignificante. Ma la facoltà di vedere un movimento come quello determinante, o più determinante, tra tutti i movimenti in atto, per l’avvenire, o come quel movimento prolungato, ancora oggi agente dal passato, piuttosto che uno limitato al presente, coinvolge ben più della piatta vista, coinvolge la conoscenza. Sandor Marai ti direbbe che bisogna “conoscere tutti i particolari, perché non possiamo sapere quale sarà importante in seguito” [11].

Ciò che tu dimentichi lascia un vuoto nella tua memoria - memoria che Spengler chiama organo storico [12]. Ciò che viene dimenticato, o negato, non potrà tuttavia “non essere mai stato” e, per quanto breve possa essere stato il suo ricordo, avrà comunque lasciato un indizio, una traccia, intorno a sé. I confini di una memoria toccano i confini di un'altra e la memoria di un uomo diventa la memoria di un popolo e poi di una civiltà perché la storia di un individuo diventa la Storia di un popolo e di una civiltà. Così, ad esempio, Maria ed il popolo ucraino che - negli anni Trenta del secolo scorso - ha fame e muore sono la stessa cosa, vivono la stessa Storia, hanno la stessa memoria: “Alla fine, la morte era ovunque. La vita dov'era finita? Quand'è che ricomincia? Intorno la gente moriva sul colpo. Perché morivano? La tragedia di Maria era sconfinata” [13]. Medita, tu, che per una minuscola zanzara sei il centro del suo mondo, tanto ti gira intorno, tu, un giorno, potresti morire come una mosca: “La gente iniziò a cadere morta come le mosche d’autunno” [14].

Perciò sappi da dove vieni e dove vai, non come un'ombra in transito ma per esistere e rimanere. Vivi come vorresti che vivesse il tuo popolo e la tua intera civiltà: questo è il mio invito. L’Europa esiste ed “è la sua storia” [15]. La vita dell’Europa è la sua stessa Storia e la sua Storia, a sua volta, è la sua memoria. A te, e agli altri, spetta di ricordare.

Note:
[1]Così Wilhelm Ropke in Al di là dell'offerta e della domanda. Verso un'economia umana: “Benché l’uomo sia innanzitutto homo religiosus (...), della spaventosa scristianizzazione e laicizzazione della nostra civiltà nessuna persona onesta verso sé stessa può ormai dubitare”, cit. in D.Antiseri, L’anima greca e cristiana dell’Europa, Editrice Morcelliana, Brescia, 2018, pag. 55
[2]W.Szymborska, Disattenzione, cit. in C. Ossola, Europa ritrovata. Geografie e miti del vecchio continente, Vita e Pensiero, Milano, 2017, pag. 51
[3]voce I razionalisti illuminati, in A. Schopenhauer, L’arte di insultare, Adelphi, Milano, 2017, pag. 115
[4]voce La filosofia futura, cit., pag. 66
*il filosofo combatte’ la Prima Guerra Mondiale
**fuori dalla trincea
[5]E.Junger, La battaglia come esperienza interiore, Piano B, Prato, 2017, pag. 128
[6]Mi vengono qui in mente i versi di Joseph von Eichendorff: “Ciò che oggi stanco tramonta,/ si leva domani rinato”, cit. in C. Ossola, pag. 44
[7]O.Spengler , Il tramonto dell’Occidente, trad. di J.Evola, Longanesi, Milano, 2017, pag. 21
[8]prendo questa deliziosa immaginetta in prestito dalla poesia Andare a Leopoli di Adam Zagajewski, cit. in C. Ossola, pag. 49
[9]Splengler usa il termine polarità, cit., pag. 14
[10]cit., pag. 17
[11]S.Marai, cit. in C. Ossola, pag. 47
[12]cit., pag. 22
[13]questo brano è tratto dal romanzo di Ulas Samchuk Maria: cronaca di una vita, cit. in C. Ossola, pag. 53
[14]ancora dallo stesso romanzo di Samchuk, cit. in C. Ossola, pag. 53
[15]D.Antiseri, cit., pag. 15.

Alessandra Pennetta

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Reddito di cittadinanza: un progresso antico! – Giuseppe Barbera

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Il polverone che sta alzando l’idea del reddito di cittadinanza è enorme. I poteri forti, secolari e millennari, si scagliano contro questo atto del governo giallo-verde come se fosse un’azione terribile e deplorevole.  La paura di fondo, manifestata pubblicamente, è che ciò accresca l’oziosità, l’evasione fiscale e le truffe contro il tesoro dello stato. Nella realtà dei fatti il reddito di cittadinanza non è un’idea nuova, ma appartiene ad un mondo antico: quello Romano! Cosa altrettanto curiosa è che non si tratta di un concetto maturatosi nel tempo, ma emerso in contemporanea alla fondazione di Roma. Plutarco, nella vita di Romolo, ci segnala che dopo la vittoria contro i Veientini, il primo Re di Roma non volle tenere schiavi, ma restituì i prigionieri di guerra agli avversari ed entrò in conflitto con i Patrizi fondatori perché evitò l’eccesso di crescita delle loro ricchezze rifiutando di distribuire loro nuove terre (oltre, appunto, a non fornirgli manodopera gratuita in forma di schiavi), bensì volle che ad ogni cittadino romano (i quali erano tutti impegnati a partecipare alle attività belliche) venissero equamente distribuite le terre conquistate. In ciò vi è un ideale sociale molto alto che vuole emancipare l’uomo dal dipendere dai ricchi dell’epoca.

A parere di alcuni storici Romolo (1) sarebbe stato eliminato fisicamente da una congiura di individui aspiranti all’accumulazione di ricchezze, e poiché egli era profondamente amato dal popolo, al punto tale che lo riteneva figlio di un Dio, venne sparsa la voce che fu visto ascendere in cielo: da ciò si sviluppò un’apoteosi di Romolo, assunto al rango di divinità col nome di Quirino, che evitò di ricercare il corpo del Re ed eventuali responsabili di un suo possibile omicidio. Nonostante ciò la politica romulea era oramai stata avviata nella città da lui fondata. Questo ideale sociale supererà i confini romani per divenire, due secoli e mezzo dopo, una ideologia comune al mondo italico: la causa di ciò sta nello sviluppo parallelo, nella pitagorica Magna Grecia, dell’intento della cancellazione della povertà tramite la distribuzione di terre (percepite come bene reale appartenente alla natura umana a differenza del denaro che invece la difetta) con la conquista di Sibari nel 510 a.e.v. da parte dei Crotoniati, guidati da Pitagora, il quale propose di distribuire le ampie campagne della città sconfitta alle classi sociali più povere. Anche qui si accese l’opposizione di una parte avida dell’aristocrazia, la quale organizzò una rivolta sanguinolenta nella figura di Cilone, che si concluse con la cacciata dei pitagorici e di un nulla di fatto per i meno abbienti. La cosa ebbe conseguenze pesanti per tutto il sud Italia perché Kroton era la polis di riferimento per le poleis Magnogreche. A riprese i Pitagorici riconquistarono il controllo della città, ma qui gli scontri sociali erano talmente intesi, tra le diverse fazioni, che si dovette fare di Taranto la novella polis a guida della “Lega Italiota”.

Osservando il fenomeno di nascita della prima Italia, risalta la presenza di un filo conduttore che ideologicamente vuole i cittadini liberi da ogni forma di servitù tramite un reddito pro capite che provenga dalla terra concessagli dallo stato. Il fenomeno è oltretutto meritocratico e spinge l’uomo allo sviluppo del concetto comunitario perché arriva alla conquista della sua “indipendenza economica” tramite la disponibilità d’impegno data alla comunità, vuoi servendo nell’esercito od in altre strutture statali. A questa linea ideologica si oppongono gruppi di latifondisti che ambiscono al controllo dello stato e delle ricchezze da esso reperibili.  Quando Roma arriva allo scontro con Taranto, nel 280a.e.v., ci si rende conto di come la Magna Grecia sia animata dalle medesime aspirazioni civili e sociali dei Romani, motivo per il quale questi ultimi elaborarono una leggenda che voleva Re Numa discepolo di Pitagora (cosa impossibile perché i due sono vissuti a circa due secoli di distanza), un motivo di propaganda che risultò credibile a causa delle medesime ideologie attive tra italioti e romani (2). La politica della libertà attraverso il possesso o reddito terriero si vide contrapposta all’ottica delle società fondate sul commercio, come quella punica, dove la ricchezza fondamentale non era la terra bensì il denaro. Gli scontri con la plutocrazia cartaginese si conclusero con la distruzione di Cartagine del 146 a.e.v.

Dopo tale evento le tensioni sociali italiche si accentuarono: i Gracchi proposero, per l’ennesima volta, la distribuzione di terre ai meno abbienti: con la crescita del dominio romano aumentavano i cittadini e le necessità ad essi connesse. I nobili intenti di questa famiglia romana trovarono la contrapposizione dei soliti “poteri forti” che, questa volta, li eliminarono spietatamente in pubblico. Dei terreni di Cartagine non si fece più nulla, ed una enorme ricchezza pubblica restava lì, bloccata ed improduttiva. Nel giro di mezzo secolo i contrasti sociali giunsero ad una terribile guerra dove le città italiane si allearono contro i poteri forti di Roma per vedersi riconosciuta la cittadinanza e poter prendere parte alle votazioni inerenti la gestione delle nuove terre: fu la guerra sociale. Silla ufficialmente vinse, ma dovette concedere la cittadinanza romana ai “socii” (alleati) italici, i quali, con ciò, furono i veri vincitori. L’identità italiana raggiunse finalmente la realizzazione del suo ideale sociale sotto Cesare: questi nel 59 a.e.v. concretizzò la riforma agraria, facendo ottenere ad ogni cittadino la quantità di terreno necessario all’indipendenza della propria famiglia.

Col tempo Roma si trasformò in un impero sempre più strutturato nella realtà statale, da ciò ne conseguirono la crescita di città sempre più grandi con forte intensità demografica: si sviluppò allora una nuova forma di reddito, dapprima consistente nella distribuzione di alimenti (farina, olio, vino) alle classi meno abbienti, fino alla distribuzione di somme di denaro da Augusto in poi: si tratta del congiarium pro capite, ovvero una somma di denaro minima considerata utile ad avere uno stile di vita dignitoso, che veniva distribuita alle classi meno abbienti per cancellare la povertà. La Res Publica dei romani fu la più longeva, nella storia dell’umanità, perché si fondava su un ideale sociale che voleva la cancellazione della povertà. Persino la schiavitù a Roma ebbe diritti che altrove non esistevano: lo schiavo romano riceveva un reddito che poteva essere fittizio (un credito segnato) o reale (in monete), grazie al quale poteva comprarsi la libertà una volta raggiunta la cifra dovuta. Certo Roma ha avuto molti elementi contrastanti, ma dall’antica italicità si possono trarre valori molti sani ed in alcuni casi risolutivi per problematiche attuali che i nostri antenati già affrontarono.

Nella società odierna non sono più i valori ad essere il centro della società, ma il denaro, ciò ha fatto sì che una riforma di diritto, come quella attuata dal governo di Lega e Cinque Stelle, è mal vista, quasi si subisse un furto, mentre a Roma il denaro non era concepito come obiettivo di vita ma come strumento per una vita dignitosa. Le nostre nazioni divengono moderne nel momento in cui si rifanno alla politica romana: lo stesso concetto di repubblica nasce nell’antica Roma e viene ripreso dall’illuminismo in poi. Il corpo dei diritti civici nasce a Roma e da Roma lo riprendiamo. Recuperare il concetto di “reddito sociale”, concepire lo stato come struttura agente super partes per la risoluzione delle differenze sociali, ciò è profondamente moderno, poiché la modernità trae origine dalla romanità: la repubblica francese, ricca di aquile e altri simboli romani, ricca di titoli ed istituzioni riprese dalla Roma antica ne è la dimostrazione concreta e reale. Questo processo di ripresa e sviluppo non è ancora terminato perché molte, delle istituzioni positive romane, sono da riprendere e svilupparsi, ed il nostro governo attuale sta affrontando una riforma moderna che appartiene alla storia del nostro paese, dove per secoli città e fazioni hanno lottato per poter vedere il loro ideale realizzarsi a discapito dei prepotenti e degli avidi.

Note:
1 – Sulla reale esistenza di un primo re di Roma l’archeologia ha fugato ogni dubbio. A tal riguardo si vedano le ricerche condotte dall’archeologo Andrea Carandini sul Palatino. Un primo re v’è stato, ha fondato la città ed ha eretto una cinta muraria sul Palatino. Certamente vi sono elementi mitistorici e propagandistici elaborati dalla storiografia romana, ma il fatto che si attribuiscano determinate riforme al primo re significa che per i romani, ideologicamente, esse erano importanti e che erano intenzionati a promuoverle;

2 - Vedansi gli atti del convegno “Il pitagorismo in Italia ieri e oggi”, Università La Sapienza di Roma, 2005.

Giuseppe Barbera, archeologo e presidente dell’Ass. Tradizionale Pietas

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Tantra quale via della trasformazione – 9^ parte – Luca Violini

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La pratica della consorte avanzata

Abbiamo visto che i fluidi sessuali sono sublimati nel corpo sottile attraverso o Trulkhor il Tummo e la manipolazione dei minerali. Per i tantra però solo i forti flussi dell’'energia sessuale sono in grado di portare i soffi completamente nel canale centrale e sciogliere i nodi karmici. Senza un consorte non si è in grado di combinare i fluidi sessuali femminili e maschili necessari per il successo. Hevajra Tantra rivela: "Senza fluidi sessuali non ci sarebbe beatitudine". Secondo il Tantra del completamento si deve combinare l’energia sottile del Tummo con lo yoga sessuale, affinchè i nodi karmici siano rapidamente sciolti. Come abbiamo visto in precedenza i fluidi sessuali femminili (rakta) sono chiamati "bodhicitta rossa", e costituiscono l'elemento femminile della consapevolezza illuminata. Ricordiamo che i fluidi femminili includono la lubrificazione di liquidi sessuali, fluidi mestruali (rakta), urina (mūtra), e eiaculato femminile (yoni tattva). Lo sperma (śukra) è chiamato anche "bodhicitta bianca" che letteralmente mente risvegliata, perché contiene l'elemento maschile della consapevolezza illuminata. I fluidi sessuali sono ricchi della potenza delle essenze divine femminili e maschili: nutrono il corpo e la mente e ravvivano il corpo sottile. Attraverso lo yoga sessuale l’energia contenuta nella goccia indistruttibile è alchenicamente risvegliata dentro se stessi. Questo cambiamento alchemico avviene attraverso:

1. Ingestione dei fluidi sessuali per via orale: l'ingestione orale è una pratica comune e semplice. Il Caṇḍamahāroṣaṇa Tantra consiglia, "Questa è la migliore dieta, seguita da tutti i buddha";
2. Sublimazione interna dei fluidi: quando una donna prova un intenso orgasmo nell'unione sessuale, lei cervice discende per incontrare il vajra dell'uomo e lo "bacia", creando una corrente di energia sottile tra i partner e collegando i loro due canali centrali insieme. Al punto della loro sottile unione, le essenze maschili femminili e bianche rosse si uniscono. Nello yoga sessuale, le forti energie sessuali vengono generate e dirette internamente per trasformare il corpo sottile e raggiungere i più alti stati di beatitudine e saggezza.
3. Eiaculazione e riassorbimento dei liquidi: durante i rapporti sessuali una donna naturalmente assorbe l'essenza dell'uomo; le tecniche tantriche sono ideate in modo che un uomo possa assorbire fluidi sessuali della donna anche internamente.

Attraverso lo yoga sessuale,si ottiene l'unione (yoga) della mente con chiara luce. L'unione con l'essenza si ottiene attraverso le quattro beatitudini sessuali. L' Hevajra Tantra, nella fase di completamento, afferma che l'innato viene rivelato in un quadruplice modo attraverso cioè le Quattro Beatitudini. Le quattro beatitudini "Sono la via per unire la beatitudine mondana con la beatitudine dell'Essenza, ottenendo così la Grande Beatitudine”. Le quattro beatitudini sono la strada verso casa. Ognuna delle Quattro Beatitudini non è solo una sensazione piacevole ma un profondo assorbimento meditativo:

1.La Prima beatitudine:la beatitudine generata dalla moltitudine delle sensazioni, è quella del primo contatto con i genitali. Crea una consapevolezza beata che è il primo passo sul sentiero verso il risveglio interiore. È unione (yoga) con il tuo partner al livello del fisico. E’ una beatitudine sessuale mondana, perché come Kṛiṣṇācārya osserva "La beatitudine mondana è metodo per sperimentare la Beatitudine trascendente”;
2.La seconda beatitudine;la beatitudine intensificante, la connessione meditativa con il proprio partner si intensifica e si approfondisce. Quando si verifica, si raggiunge un livello di unione profondo tale da dissolvere le apparenze dualiste e la separazione tra se e il proprio partner. In questa fase si sperimenta una beatitudine inesprimibile che non si è mai sperimentato prima. La Sādhana del Segreto Vajravilāsinī afferma che attraverso la seconda beatitudine si raggiungere la fusione di identità tra i partner. L’illusoria distinzione tra se e l’altro è sconfitta e albeggia una consapevolezza senza ego. Una volta che l'incantesimo della consapevolezza dualistica è stata spezzata, tutte le esperienze svolgono in un cornice non duale.
3.La terza beatitudine: La beatitudine del Nirvāṇa, sperimentata durane l'orgasmo (drava) diventa l'oggetto della meditazione. L'orgasmo porta lo yogi al limite della consapevolezza ultima distruggendo i pensieri concettuali e a livello sottile provoca l'unione delle essenze rosse e bianche nel canale centrale. Sviluppando in questo modo le capacità di mantenere alti stati di estasi per lunghi periodi di tempo, si raggiunge la beatitudine del nirvana. Grazie al Samadhi sull'oceano di pura felicità, le apparizioni illusorie vengono spazzate via, le tue oscurazioni karmiche vengono rapidamente bruciate. In questo modo, si trasforma l'orgasmo da un brivido veloce nello strumento più potente per la trasformazione spirituale.
4 La Quarta beatitudine : Mahāsukha. E' l'unione delle tre beatitudini precedenti ed è detta Mahāsukha. la Mahasuka è sia trascendente che immanente; trascende le gioie mondane, ma include anche tutte loro.

Esistono vari metodi per praticare la karma Mudra, quello più avanzato è quello di Naropa. Questo metodo combina le Quattro Beatitudini generate nel tummo con le quattro beatitudini dello yoga sessuale. Il metodo di Nāropa, è il modo più completo per praticare le Quattro Beatitudini. La pratica del calore interiore è chiamato la "condizione interiore" per raggiungere l'illuminazione, e la consorte fisica è chiamata "condizione esteriore". Quando lo Yoga del calore interiore viene praticato con una consorte fisica, le energie sessuali sottili generate sono portate al centro del canale per intensificare il potere dei Cinque Venti di Radice al suo interno. Il risultato finale della pratica è il fuoco della Grande Beatitudine che brucia tutte le oscurazioni. Insieme al proprio consorte, si sperimenta il risveglio interiore. Per la pratica della consorte con il tummo , le quattro beatitudini sono le seguenti:

1. Beatitudine o Beatitudine ordinaria (Ānanda) - La beatitudine del bindus che si scioglie nel cakra della fronte;
2. Suprema beatitudine (Paramānanda) - La beatitudine del bindus che si scioglie nel cakra della gola;
3. Beatitudine di cessazione (Viramānanda) - La beatitudine del bindus che si scioglie nel cakra del cuore;
4. Beatitudine spontanea (Sahajānanda) - La beatitudine del bindus che si scioglie nel cakra dell'ombelico.

Un variante è la medititazione sulla punta del vajra (Dhyāna Bindu Karmamudrā), che è una pratica molto celebrata da molti maestri tra cui Lakṣmiṅkarā. Durante l'unione sessuale con la propria partner, il praticante maschio visualizza, al Vajra Cakra, la punta del suo pene, un phaṭ blu che serra l'apertura per prevenire l'eiaculazione e visualizza una fiamma rossa dal punto appena sotto il cakra dell'ombelico
che sale lungo il canale centrale giunto alla cima del scioglie il bindu bianco nel cakra della fronte. Si sperimentano le seguenti quattro beatitudini:

1. Beatitudine - La beatitudine che si sperimenta quando il bindus cade dal cakra della fronte al cakra della gola. Si raggiunge la perdita del senso grossolano di sé e dell'altro;
2. La beatitudine suprema - La beatitudine che si sperimenta quando il bindus cade dal cakra della gola al cakra del cuore. In questo stadio si raggiungere la sottile perdita di sé;
3. Beatitudine della cessazione - La beatitudine viene sperimentata quando il bindus cade dal cakra del cuore al cakra dell'ombelico. Ottieni la sottile perdita dell'altro;
4. la beatitudine innata - La beatitudine si sperimenta quando il bindus cade dal cakra dell'ombelico alla punta dell'organo sessuale.

A questo punto lo Yogi deve usare un'enorme concentrazione per tenere il bindu sulla punta dei genitali e prevenire l’eiaculazione. Mantenendo la sua consapevolezza sulla punta dei genitali, si manifestano i cinque segni, le Tre Luci, e la Chiara Luce, e la Saggezza discriminante che delizia in tutte le apparenze. Quando la Beatitudine sulla punta dei genitali diventa così intensa, e si sente che si sta per eiaculare, si fa risalire il bindus bianco sperimentando le Quattro Beatitudini interiori lentamente in ordine ascendente, per generare stati di beatitudine alti e prolungati, l'uomo deve imparare a controllare la sua eiaculazione, ma su questo punto vi è un grande fraintendimento. Vi è l'idea che il praticante maschio non deve eiaculare. Alcune affermazioni nei Tantra e nei commenti inducono a pensarlo ma in realtà non è che non bisogna eiaculare, ma controllare la eiaculazione e ritardarla per estendere piacere sessuale e saturare il tuo corpo fino a sperimentare la terza beatitudine, che è la beatitudine dell'eiaculazione. Molti Maestri tantrici come Bhavabaṭṭa asseriscono che gli Yogin avanzati dovrebbero eiaculare tre volte al giorno - scrive, "Uno dovrebbe rilasciare essenza seminale per il culto della consorte. Questa adorazione dovrebbe essere osservata all’alba, a mezzogiorno e al tramonto. Il Tantra Hevajra consiglia di non gettare i fluidi dell'uomo, ma di ingerirli: "Lo yogi dovrebbe far bere alle consorti lo sperma per ottenere una rapida realizzazione". Nella pratica tantrica, l'eiaculazione controllata (śukra stambhādi) è essenziale, ma può essere difficile da raggiungere. Per i principianti, il Cakrasamvara Tantra fornisce un mantra per il controllo dell'eiaculazione: quando l'uomo sente di eiaculare, recita il mantra finché non riprende il controllo. Il mantra, chiamato l'ottuplice Mantra (Mantra Aṣṭavidham), hā he he he ho ho hūṃ hūṃ, e immagina di dirigere i venti sottili che producono l'eiaculazione di nuovo nel canale centrale. Tsongkapa raccomanda inoltre di utilizzare il mantra phaṭ per prevenire l'eiaculazione. Per una pratica più avanzata, le sottili tecniche di yoga energetico danno a un uomo la capacità di controllare fermamente la sua eiaculazione.

Al termine il praticante emette il seme e si unisce al fluido della consorte. Viene prodotto il grande fluido la pura sostanza. Questa pura sostanza risiede originariamente nella partner femminile. Tale sostanza viene scambiata al partner maschile che applicherà la tecnica del vajaroli Mudra dove si combina l’aspirazione uretrale con una pratica di visualizzazione. Questa aspirazione uretrale avviene tirando verso l’alto gli organi sessuali e tendendo la parte bassa dell’addome e contraendo il sistema urinario. Questa contrazione è simile a quella che si fa quando si ha uno stimolo urgente di urinare ma si vuole trattenerlo per qualche tempo .I testicoli dovrebbero muoversi un po’ verso l’alto. Contemporaneamente si immagini di aspirare la pura sostanza lungo nel canale centrale che parte dal pene e giunge attraverso il canale centrale alla sommità del capo, colmando l’intero corpo di beatitudine. La grande sostanza insieme ai venti penetra nella goccia indistruttibile (la feconda) ed emerge il corpo illusorio. Questa pratica che utilizza la sessualità come metodo richiede purezza di visione e di Samaya da parte dei due partner; conduce agli otto Stadi di dissoluzione alle quattro gioie alle quattro vacuità dapprima nell’ordine progressivo e poi nell’ordine inverso; i cinque venti sottili, simili adesso alle radianze dell’arcobaleno delle cinque saggezze servono da cavalcatura alla coscienza di chiara luce e si costituiscono in corpo illusorio ma ancora impuro. Tale corpo illusorio impuro chiamato corpo illusorio del terzo Stadio è oggetto di dodici paragoni:

1. E’ come una Magia
2. E’ come un riflesso nella luna dell’acqua
3. E' simile all’ombra di un corpo
4. E' simile ad un Miraggio
5. E' simile al corpo di sogno
6. E' simile a un’eco
7. E' simile a una città aerea
8. E' simile ad un’allucinazione
9. E' simile ad un arcobaleno
10. E' simile a un lampo che esce dalle Nubi
11. E' simile ad una bolla d’acqua
12. E' simile al riflesso di Vajrasattva in uno specchio

Il Corpo illusorio è come un corpo sognato che emerge dal Corpo grossolano e torna a dissolversi: presenta trentadue marchi Maggiori e gli ottanta segni minori. Con il corpo illusorio, si prende effettivamente la forma di una divinità. Ciò si verifica perchè a causa delle meditazioni del livello di isolamento mentale e l'uso di un sigillo di azione (la consorte), i venti e la grande sostanza si dissolvono nella goccia indistruttibile del cuore. Quindi, la mente di la luce chiara metaforica - il quarto vuoto - viene sperimentato. Quando i venti si muovono leggermente, la forma del la divinità che è stata visualizzata nei precedenti livelli del fasi di generazione e completamento si materializza all'improvviso. Questo è il corpo illusorio in tibetano gylu; fatto interamente di vento non-ostruttivo, brillante e si muove come un miraggio. E' esattamente come il corpo della divinità praticata, tranne per il fatto che il suo colore è bianco. Questo perchè il suo costituente principale è il Bindu bianco. Quando il corpo illusorio si manifesta ricompaiano le menti più grossolane della chiara luce metaforica raggiunta durante la fase dell'isolamento mentale; passando attraverso un processo inverso, si sperimenta la mente prossima al conseguimento al nero , mente detta di accrescimento rosso e la mente detta dell'apparenza al bianco la mente dei sensi ed infine le coscienze concettuali. A questo stadio del completamento, il corpo della divinitàè un corpo impuro illusorio. È considerato impuro perché non si sono ancora abbandonate le sottili ostruzioni alla liberazione dall'esistenza ciclica. Solo dopo aver raggiunto la chiara luce quelle afflizioni sono eliminate; dopo la liberazione la propria apparizione in un corpo illusorio è pura. Il corpo è così chiamato perché, come l'illusione di un mago, sembra un miraggio essendo fatto solo di vento e Bindu bianco .Un simile corpo è visto solo da lo yogi e altri che hanno ottenuto un corpo illusorio puro.Tuttavia, porta i segni completi di a Buddha, che consiste di trentadue maggiore e ottanta caratteristiche minori (come una protrusione della corona, orecchie allungate,ruota del dharma sui palmi e così via). Un corpo illusorio può separarsi dal corpo grossolano e andare dove desidera lo Yogi, ma inizialmente appare al livello del cuore all'interno del corpo grossolano. Ogni essere senziente ha tre tipi di corpi di menti e di venti: grossolano, il sottile e il molto sottile. Il corpo grossolano è il corpo di cui siamo ordinariamente consapevoli, composto dai quattro elementi da cui si è generato. Il corpo sottile comprende i canali,venti e gocce. Il corpo molto sottile è proprio il vento fondamentale nella goccia indistruttibile che serve come supporto della mente di chiara luce. Il vento è chiamato "fondamentale" perchè il suo il continuo è eterno: dimorando nella goccia indistruttibile costituirà il supporto per la sottile chiara luce.Quello all’interno della goccia indistruttibile è il vento più sottile, più sottile dei venti che circolano nei canali che si dissolvono in esso, Per quanto riguarda le menti, le menti grossolane sono le coscienze dei sensi: la mente sottile è la mente concettuale; la mente molto sottile è la mente chiara Luce. Durante la veglia si sperimenta la mente grossolana, durante il sogno quella sottile e durante il sonno senza sogni (la chiara Luce).

Nella normale vita di veglia, solo il corpo grossolane e le menti grossolane e sottili (le coscienze sensoriali ordinarie e la coscienza mentale) si manifestano. Tuttavia, nei livelli di isolamento fisico, verbale e mentale del più alto stadio di completamento del Tantra Yoga, il corpo sottile dei canali, venti e gocce e le menti sottili del quattro vuoti - la fase della mente detta dell’apparenza bianca, la fase della mente detta di accrescimento rosso, la fase della mente detta prossima al conseguimento al nero e la chiara luce – si manifestano . Ad eccezione dell'ultima le prime tre sono considerate non dualiste. Il corpo indistruttibile e il vento indistruttibile si manifestano quando i venti grossolani e sottili si dissolvono nell'indistruttibile nella goccia indistruttibile. E’ molto importante comprendere che ordinariamente parlando, affinchè il corpo illusorio appaia, è necessario che il corpi sottili e grossolani siano separati, cioè che il il corpo grossolano cessi di funzionare. Gli yogi tantrici usano uno due modi per separare i corpi. Un modo per separare il corpo sottile da quello grossolano è la morte. La morte ordinaria può essere utilizzata solo se uno yogi ha raggiunto il livello di isolamento mentale ed è in grado di eseguire pratiche associate al isolamento verbale e all’isolamento mentale mentre si sta subendo il processo della morte. In tal modo, lo yogi ottiene il controllo sui venti, facendoli dissolvere nella goccia indistruttibile; permettendo in questo modo di far emergere la luce chiara e il vento indistruttibile nella forma del corpo illusorio.

Il secondo modo è attraverso il Powa. E’ una delle pratiche del sistema tantrico noto come sei Yoga di Naropa, può essere usato per trasferire la mente in un corpo di qualcuno che è appena morto o per rinascere in una più alta terra pura. Il powa consiste nell’espulsione del vento e della mente fondamentali, sotto forma di una divinità, dalla cima della testa per mezzo di vento yoga e dell’immaginazione .Tuttavia, il trasferimento della coscienza semplicemente separa i corpi grossolani e sottili senza però permettere il conseguimento del corpo illusorio. Il secondo metodo di usare la pratica della fase del completamento per separare il corpo grossolano da quello sottile avviene attraverso la meditazione finale dell’isolamento mentale , che implica l'ingresso del vento e della pura sostanza nella goccia indistruttibile con l'assistenza di una vera e proprio consorte. L'uso di un sigillo di azione è una potente tecnica per far entrare i venti nella goccia indistruttibile del canale centrale .Come accennato in precedenza, una volta che si è realizzato il corpo illusorio è possibile separarlo dal corpo grossolano in base al proprio desiderio può stare fuori dal corpo grossolano per tutto il tempo in cui si è in grado di rimanere nel Equilibrio meditativo illusorio dell'isolamento mentale finale, cioè, un equilibrio meditativo in cui tutti gli oggetti appaiono come le illusioni. Quando l'equilibrio meditativo si degrada, il corpo illusorio rientra nel corpo grossolano. Il corpo grossolano non può essere completamente abbandonato a questo livello di pratica, perché la forza del karma che lo impone non è stato distrutto (e non sarà distrutto fino al livello di effettiva luce chiara). Al momento dell’illuminazione il corpo grossolano cessa le sue funzioni a meno che non sia necessario mantenerlo come una sua emanazione a beneficio dei discepoli. L'illuminazione è effettivamente raggiunta in un puro corpo illusorio: per il Vajrayana non è possibile ottenere l’illuminazione senza aver realizzato il corpo illusorio.

La Chiara Luce

Dopo aver ottenuto il successo nelle Quattro Beatitudini tramite il Tummo e con la Consorte tantrica, segue la pratica dello Yoga chiara Luce (Prabhāsvara Yoga Karmamudrā), il metodo di Vyāḍhali. Quando i venti si assorbono nella goccia indistruttibile sorgono dei segni e sono simili a:
1) un miraggio,
2) fumo,
3) fuoco
4) ad una lampada ad olio,
5) Luce lunare

Infine appiano Tre Luci:
1) Luce Bianca,
2) Luce Rossa
3) La Luce Nera

Questi sono livelli successivi di luce sempre più grossolana o sottile da cui emergono il campo increato della Chiara Luce. Dopo aver sperimentato queste luci i bindu di infinita di luce scintillante, increata, albeggiano pienamente e puramente dentro e intorno a allo yogi. Mantenendo la consapevolezza in questo campo di pura saggezza, amore e potere creativo, tutte le macchie karmiche si trasformano rapidamente. Per amore e compassione per te stesso e per tutti gli esseri si ritorna nel mondo delle apparenze e si consegue la grande Beatitudine.

Luca Violini

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L’incubo debito e spread – Enrico Marino

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Si definisce “avanzo primario” e rappresenta un importante indicatore dello stato di salute dei conti pubblici in quanto misura la differenza tra le entrate e le uscite dello Stato al netto del costo del debito pubblico.

L'avanzo primario viene calcolato sottraendo alla spesa pubblica le entrate tributarie ed extra-tributarie e la parte di spesa pubblica finanziata con emissione di base monetaria, cioè con i titoli di Stato.

In sostanza, si ha un avanzo primario allorchè grazie a politiche di contenimento della spesa pubblica quest’ultima (al netto degli interessi sul debito) è addirittura inferiore alle entrate.

E’ quanto accade in l'Italia dove da 27 anni si registra un notevole avanzo primario con cui, peraltro, si sono finanziati gli interessi passivi sul nostro debito pubblico, per effetto dei quali la situazione di avanzo primario da noi si trasforma in daficit.

Infatti, tutti i sacrifici degli italiani vengono azzerati dalla spesa per interessi che sono costretti a pagare per finanziare l’enorme debito accumulatosi negli anni.

Quando si parla di debito peraltro non si fa riferimento al valore assoluto dell’indebitamento italiano, che ha raggiunto ormai circa 2.300 miliardi di euro ed è difficilmente abbattibile. Si fa riferimento piuttosto alla necessità di far calare il rapporto tra il debito e il Pil, cioè la ricchezza nazionale. Il debito pubblico italiano nel 1981 si trovava ancora al 60% del Pil. perché dal 1975 la Banca d’Italia si era impegnata a garantire il successo delle aste dei titoli di Stato, stampando moneta per comprare le obbligazioni rimaste invendute. In questo modo il costo dell’aumento del debito spariva dai conti pubblici mantenendo in sostanziale equilibrio il rapporto debito/Pil.

Il principio che la Banca d’Italia fosse garante d’ultima istanza del debito nazionale era valido e sarebbe risultato ancora più valido se la cronica avversione dei Governi dell’epoca alla disciplina di bilancio e la loro dissennatezza non avessero condannato l’Italia.

Infatti, in questo contesto nel luglio 1981 il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e il Governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi avviarono il “divorzio” di via Nazionale dal Tesoro, liberando l’Istituto di emissione dall’obbligo di acquistare i titoli di Stato invenduti e rendendolo indipendente nelle sue scelte di politica monetaria.

La decisione, venne assunta nell’ambito di precisi accordi di programma europei per permettere alla lira di restare all’interno del Sistema monetario europeo (SME), la banda di fluttuazioni tra le valute del vecchio Continente introdotta nel 1979 e destinata a diventare il nucleo della futura Unione monetaria.

Così, il nostro Paese arriva al 1982 in condizioni sudamericane: l’inflazione viaggia intorno al 17% divorando il potere d’acquisto di stipendi, risparmi e pensioni, i tassi d’interesse all’inizio dell’anno superano il 25%, lo spread tra i decennali italiani e quelli della Repubblica federale tedesca (BUND esanleihen) tocca l’inimmaginabile record di 1175 punti base. Una vetta mai più raggiunta nemmeno durante la crisi del debito sovrano del 2011 che costò il posto a Berlusconi e spianò la strada a Monti (574 punti base).

Quando con i trattati europei tutti i poteri e le decisioni di politica monetaria vengono trasferiti a Francoforte, lo Stato privato della sovranità monetaria, non potendo più creare moneta dal nulla (facoltà riservata solo alla BCE), per reperire la moneta ha solo tre possibilità:

  1. chiederla in prestito ai mercati dei capitali privati (es. banche private) attraverso il collocamento sul mercato primario dei Titoli di Stato (che poi costituiscono il debito pubblico);
  2. sottrarla a cittadini e imprese attraverso l’aumento delle tasse e i tagli alle voci di spesa pubblica più sensibili (sanità, pensioni, sicurezza, istruzione, giustizia etc);
  3. favorire l’ingresso di capitali esteri attraverso gli investimenti stranieri e le esportazioni.

Per quanto riguarda la seconda opzione, occorre osservare che nel caso dello Stato la minore spesa non è sempre un bene perché la spesa contribuisce anch’essa al Pil. Se lo Stato adotta politiche di austerità e, ad esempio, interrompe gli investimenti o i progetti infrastrutturali, il Pil scende perché vengono meno commesse, lavori, sviluppo e quindi prodotto interno lordo. E infatti, le politiche di rigore, austerità e contenimento della spesa e i parametri economici imposti da Bruxelles, in questi anni, hanno puntato esattamente solo alla creazione di un consistente avanzo primario, a cui ha però corrisposto un enorme massacro sociale.

La Grecia, grazie alle ricette economiche imposte dagli “amici” dell’Ue e del Fmi, ha fatto questo genere di economia e di avanzo primario nella misura del 4% del Pil, operando dei tagli draconiani alla spesa pubblica e accanendosi verso la ricchezza collettiva e le tutele sociali, massacrando la sanità, le pensioni e l’assistenza sociale, riducendo il popolo alla fame.

E infatti, se Atene brucia la protezione civile non ha neppure i mezzi per spegnere gli incendi, mentre alcuni beni pubblici greci sono finiti nei patrimoni delle banche tedesche e fra la popolazione, privata di un sistema sanitario minimo, si registra un boom di Hiv e tubercolosi.

La terza opzione è stata quella adottata con le ricette dell’austerità di Monti e della Fornero. Intervistato dalla CNN, Mario Monti si è espresso così:

Stiamo effettivamente distruggendo la domanda interna attraverso il consolidamento fiscale. Quindi, ci deve essere una operazione di domanda attraverso l’Europa“.

Come si distrugge la domanda interna? Alzando le tasse e svalutando i salari. Così la gente non ha più soldi e compra di meno. Ma non basta: per impedire allo Stato di alzare la spesa a deficit, cioè di investire sui cittadini, mediante politiche sociali (esempio: reddito di cittadinanza) o creando lavoro, si inventa il “pareggio di bilancio” e lo si mette addirittura nella Costituzione, così da rendere impossibile qualunque ripensamento. Se si costringe la somma delle entrate e delle uscite di uno Stato ad annullarsi a vicenda e si punta tutto sulle esportazioni si deve per forza massacrare i portafogli. E’ quello che ha fatto Monti quando ha preso il potere per tagliare le pensioni e distruggere la domanda interna, come gli avevano chiesto le lobby finanziarie, delle quali egli ha perseguito a lungo il vantaggio materiale come presidente europeo della Commissione Trilaterale e membro direttivo del Club Bilderberg.

Abbiamo avuto imprenditori che si sono suicidati, milioni di poveri, italiani che hanno perduto il lavoro e la casa, giovani costretti a cercare fortuna all’estero, ma questa azione politica è stata addirittura impunemente e sfacciatamente rivendicata. Sempre Monti in precedenza aveva detto:

Nei momenti di crisi più acuta ci sono i progressi più sensibili. Non dobbiamo sorprenderci che l’Europa abbia bisogno di gravi crisi per fare passi avanti. I passi avanti dell’Europa sono per definizione cessioni di parti di sovranità nazionali a un livello comunitario. E’ chiaro che il potere politico, ma anche il senso di appartenenza dei cittadini a una collettività nazionale possono essere pronti a queste cessioni solo quando il costo politico e psicologico del non farle diventa superiore al costo del farle perché c’è una crisi in atto, visibile, conclamata. […] Abbiamo bisogno delle crisi per fare passi avanti, ma quando una crisi sparisce rimane un sedimento, perché si sono messi in opera istituzioni, leggi eccetera per cui non è pienamente reversibile".

Più chiaro di così il piano di coloro che vogliono il NWO e più Europa non potrebbe essere illustrato. E’ il piano dei nuovi Kalergi, coordinato a livello politico sovranazionale dall’Onu e a livello economico dal Fmi. E’ il piano delle élite finanziarie transnazionali e dei burocrati europei che ne fanno parte.

E’ il piano che col pretesto della stabilità, del rapporto deficit/Pil, del pareggio di bilancio e della economia globalizzata, impone il taglio dei costi di produzione e, siccome le materie prime si pagano sempre, lo realizza pagando di meno gli stipendi, comprimendo i diritti dei lavoratori (ad es.: con la modifica dell’articolo 18) e, per costringerli ad accettare uno standard di vita meno dignitoso, li getta nella crisi più nera, svendendo tutto il patrimonio di economia nazionale e permettendo ai nuovi padroni di delocalizzare all’estero. E’ il piano che toglie le case con Equitalia, costringe le fabbriche a chiudere e blocca il turn-over nella P.A. e, così, riducendo l’offerta di lavoro accresce e indebolisce la domanda, cioè crea milioni di persone senza reddito disposte a qualunque cosa pur di avere un tozzo di pane. E’ il piano che inventa il lavoro a termine, precario, senza tutele e sottopagato.

Lo strumento migliore per conseguire questi obiettivi, peraltro, era privare la politica di ogni potere decisionale, la democrazia di ogni capacità di rappresentanza, lo Stato di ogni sovranità monetaria.

Sottratta a ogni controllo l’economia finanziarizzata ha preso il sopravvento su ogni dominio.

Abolita la Legge bancaria del 1936 per responsabilità di Mario Draghi, il padre del Testo unico bancario del 1993 e, di fatto, rimessa in piedi la pericolosa commistione fra banche commerciali e banche d’affari, il sistema s’è sempre più privatizzato. La banca è diventata una Spa e s’è imposto il concetto della migliore efficienza. In realtà, è cambiata completamente la mission del sistema creditizio che non s’è più indirizzato verso la qualità del servizio ma la massimizzazione dei profitti. Le banche sono diventate sempre più private, sempre più straniere e hanno smesso di raccogliere il risparmio privato per indirizzarlo sulle imprese che investono o nelle famiglie, per convogliarlo invece nella maggior parte sui mercati finanziari.

Con la internazionalizzazione del debito pubblico, la finanza ha messo un cappio al collo agli Stati impedendo loro di impostare liberamente le politiche economico-sociali, obbligandoli a procurarsi le risorse delle quali necessitano sul mercato, presso investitori e speculatori che ne determinano le aste e le condizioni, a servirsi di operatori specialistici come Goldman Sachs, Gp Morgan o Morgan Stanley e a sottoporsi, infine, al giudizio di apposite Agenzie di rating incaricate di valutarne le performance economiche e l’affidabilità sotto il profilo del debito pubblico. Il rischio spread che può scaturire al termine di questo prestabilito percorso finanziario è solo il frutto prima di una dissennata volontà politica e poi di una scelta tecnico amministrativa operata a monte.

Per questo, secondo molti esperti, quello del debito pubblico è un grande inganno, come dimostrerebbe il fatto che Paesi come il Giappone e gli stessi Stati Uniti hanno i debiti pubblici più rilevanti del mondo ma possono tranquillamente non curarsene.

Per questo, il debito è solo il terminale di un disegno criminoso deciso sulla testa dei popoli, di una strategia complessiva che fonda tutte le sue possibilità di riuscita sull’esistenza di una élite di potere che domina incontrastata, attraverso il controllo della meta-finanza e attraverso la costruzione di un’unica, enorme, sovrastruttura tecnocratica dove il controllo democratico è inesistente, dove i think-tank sostituiscono i parlamenti, alla quale i socialismi europei hanno venduto l’anima, per l’ossessione ideologica di impedire l’ascesa di nuovi fascismi e sperando di riuscire finalmente ad assicurarsi quella vittoria politica che cercano da un secolo: creare una “Internazionale” finalmente vincente e definitiva. Un progetto che ha come termine ultimo la nascita degli Stati Uniti d’Europa.

E’ questa scelta politica, questo progetto, queste dinamiche economiche che vanno capovolte.

Poiché la maggior parte del debito deriva dagli interessi da cui sono gravati i nostri titoli e poiché la collocazione dei titoli è controllata da questo sistema finanziario e viene gestita con queste modalità, per cui gli investitori ci prestano i soldi alle loro condizioni determinando per noi il rischio spread, è esattamente questo sistema che occorre modificare e di questa gabbia dobbiamo liberarci.

Prima i Btp erano una eccezione, sono nati per andare incontro alle esigenze degli speculatori.

Bisogna tornare indietro, a titoli di durata breve, per corrispondere interessi più bassi e per garantire al cittadino che non fa speculazioni e investe i suoi risparmi che questi sono al sicuro e che in qualsiasi momento, quando servono, deve poterli riprendere

Visto che la normativa europea vieta alla Banca centrale di comprare titoli in asta e di prestare soldi agli Stati e a tutti gli enti pubblici tranne che alle banche pubbliche attualmente, con questo sistema, nelle aste dei titoli di Stato la Cassa Depositi e Prestiti potrebbe comprare in Italia l’invenduto. Se si nota che il prezzo sale troppo può interviene la Cassa e comprare una parte dei titoli e poi rivenderla nei giorni successivi sul mercato, come fanno in Germania e come fanno anche in Francia. Non c’è bisogno di chiedere il permesso a nessuno per questi interventi, nessuna norma nazionale o internazionale li vieta. In tal modo si può calmierare l’interesse da corrispondere sui titoli.

Inoltre, dobbiamo ricordare che solo una parte del debito italiano è in mano a stranieri.

I maghi della finanza ci hanno messo nella condizione di farci prestare i soldi dai mercati consentendo sostanzialmente a loro di decidere le condizioni e oggi è evidente che le condizioni si sono adattate al loro interesse, cioè quello di guadagnare il più possibile. Possiamo fare il contrario. Sapendo che c’è una massa enorme di liquidità (4.200 miliardi di risparmi) si possono invitare gli italiani offrendo loro l’1% o il 2% per un certo tempo, invogliandoli a investire. Con quanto arriva si potranno riacquistare i Btp sul mercato e, poco alla volta, nazionalizzare il nostro debito pubblico, facendo crollare lo spread. Con i miliardi investiti dagli italiani possiamo salutare la Commissione europea e i vari Junker e Moscovicì e gli speculatori internazionali, la Deutsche Bank, i fondi europei e americani, i vari Goldman Sachs e compagni.

Gli restituiamo i loro soldi, ma gli diciamo basta, la pacchia è finita.

Enrico Marino

 

Fonte immagine copertina: Web

L'articolo L’incubo debito e spread – Enrico Marino proviene da EreticaMente.


I collegi sacerdotali di Roma arcaica negli studi storico-religiosi italiani – Claudia Santi

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Premessa

Nonostante l'organizzazione sacerdotale costituisca, insieme con il calendario festivo, il principale nucleo documentario per ricostruire la fase arcaica della religione romana, manca a tutt'oggi un'opera che tracci dell'argomento un quadro unitario da una prospettiva storico-religiosa. Nel corso degli ultimi venticinque anni di ricerca, tuttavia, la disciplina storico-religiosa sembra aver raggiunto il duplice l'obiettivo da una parte di eliminare (si spera definitivamente) i pre-giudizi primitivisti che pesavano sull'ermeneutica della religione romana, dall'altra di elaborare adeguati strumenti metodologici in grado di comporre in sinergia i differenti approcci specialistici. E' quindi oggi possibile delineare una prima sintesi aggiornata degli orientamenti relativi al problema, partendo dalle ricerhe che gli studiosi della cd. Scuola Storico-religiosa di Roma, fondata da R. Pettazzoni, hanno dedicato ad aspetti specifici, ma costitutivi, dell'azione dei principali collegi sacerdotali di Roma arcaica. E' quanto tenteremo di fare, soffermandoci, in particolare, sulla figura del flamen dialis, e sull'azione dei collegi dei pontifices, degli augures e dei sacerdoti sacris faciundis.

1. Il Flamen Dialis e la teoria religiosa di Iuppiter

Fino alla metà del nostro secolo, la religione romana arcaica veniva comunemente interpretata in chiave evoluzionista-primitivista: i Romani, incapaci di produrre risultati analoghi al livello di maturità raggiunto dai Greci quanto a elaborazione mitologica o creazione artistica, si sarebbero fermati ad uno stadio meno evoluto, più primitivo, senza riuscire mai ad elaborare un maturo sistema politeista. In tale prospettiva, essi non avrebbero neanche posseduto delle autentiche figure divine, ma solo delle forme impersonali (numina) su cui si sarebbe riversato il materiale mitologico greco importato in Roma per acculturazione. In Italia, fu soprattutto Brelich a contrastare le tesi primitiviste, il quale riprese e rielaborò la teoria della demitizzazione elaborata da C. Koch in relazione alla specificità della religione romana che si presenta senza miti teo-cosmogonici; Brelich mostrò come anche al rito fosse pertinente quel valore fondante che è proprio del mito, donde una religione demitizzata, come è quella romana, poteva altrettanto legittimamente essere fondata dal ritualismo. Alla luce della metodologia storico-religiosa, egli ammetteva la possibilità di recuperare perfino le fasi più arcaiche attraverso le quali il pantheon romano aveva raggiunto un carattere compiutamente politeistico. Tali fasi, contro le posizioni ipercritiche cui era pervenuta la filologia, gli apparivano ricostruibili, sottoponendo le testimonianze ad un esame critico sulla base dei criteri del comparativismo e della fenomenologia storico-religiosa (Brelich 1961; Brelich 19762). In uno studio rimasto incompiuto che doveva riguardare Iuppiter e la formazione del politeismo romano, Brelich si misura proprio con il tentativo di recuperare il processo di formazione che ha portato all'elaborazione della figura divina di Iuppiter O.M., rappresentazione religiosa dell'idea di res publica. In uno dei due lavori preparatorii, lo studioso, in forma di appunti, passa in esame le pratiche del flamen dialis, il sacerdote di Iuppiter, movendo dall'ipotesi che, all'interno dell'istituto del flaminato, siano riconoscibili i segnali di una stratificazione, di un processo che abbia portato il sacerdozio ad assumere l'assetto e l'aspetto che ci è testimoniato dalle fonti (Brelich 1972). Il tema non era propriamente inedito: in particolare, G. Dumézil, in un articolo apparso nel 1938, aveva affrontato un problema analogo, ossia la pre-istoria dei flamini maggiori (dialis, martialis e quirinalis). Lo studioso francese, in base alla comparazione con l'area indo-iranica e italica, aveva formulato l'ipotesi che le tre figure sacerdotali, sottoposte nell'ordine gerarchico solo al rex sacrorum, alludessero ad una dimensione più antica di quella testimoniata dalla triade cd. capitolina. Tale raggruppamento (la cd. triade arcaica) replicherebbe, a livello teologico, la divisione della società, ricostruibile presso altre popolazioni di origine i.e., in tre classi, o caste o "funzioni", quella della sovranità, della forza guerriera, della fecondità e fertilità. In tale contesto, la coppia flamen dialis-rex sacrorum, sarebbe espressione della Prima funzione, quella della sovranità, articolata nei suoi due aspetti, magico e giuridico.

Rispetto all'intepretazione data da Dumézil, Brelich non si pronuncia; egli piuttosto, in relazione alle limitazioni (caerimoniae) cui era sottoposta la persona del flamen dialis ed alle incombenze rituali che gli erano attribuite, da una parte afferma la sostanziale irriducibilità del flamen dialis a sacerdote templare di Iuppiter O.M., dall'altra sottolinea l'esigenza di identificare quale "forma" di Iuppiter abbia di volta in volta agito da referente nei confronti del suo flamen. A giudizio di Brelich, solo il sacrificio annuale a Fides e quello mensile a Iuppiter, in occasione delle Idus, non sarebbero inquadrabili se non nell'ambito di una struttura pre-capitolina, ma già politeista, in cui il dio si avvia ormai ad assumere una posizione sovraordinata, mentre tutte le altre prescrizioni sarebbero, a giudizio dello studioso, perfettamente coerenti, se riferite ad una figura di Iuppiter dio-cielo. Come si può osservare, Brelich pone all'attenzione degli studiosi un problema di rilievo, laddove richiama la necessità di restituire profondità e spessore alla figura divina di Iuppiter; tuttavia appare condizionata pesantemente da una visione evoluzionista soprattutto la soluzione proposta, che vede in un dio-cielo, ovvero in un Essere Supremo pre-politeistico la più antica configurazione di Iuppiter, che per riplasmazione sarebbe giunto alla forma di Iuppiter O.M.. Sulla stessa linea metodologica, ma con esiti assai divergenti, si pone la riflessione portata sul flamen dialis da due studiosi che del Brelich furono allievi, Sabbatucci e Montanari.

Le interdizioni e prescrizioni che gravavano sul flamen dialis sono assunte da Sabbatucci come mezzi di rappresentazione per risalire alla teoria romana di Iuppiter in riferimento "agli altri sacerdozi pubblici di Roma ed al pantheon romano nel suo complesso", all'interno di un saggio, Lo stato come conquista culturale, che segue a distanza di pochi anni la bozza di studio di A. Brelich (Sabbatucci 1975). Sabbatucci, attraverso un confronto tra flamen dialis sacerdote di Iuppiter e rex sacrorum -definito da Wissowa quasi un sacerdote di Ianus- riordina, in termini di dialettiche religiose, una serie di elementi, all'apparenza irrelati tra loro. Così la condizione del flamen esprimerebbe l'essere, ossia il carattere di stabilità, festività, libertà proprio di Iuppiter, anche attraverso la incompatibilità con quanto attiene alla sfera della guerra (cavallo, esercito in armi, ferro). Per contro, Ianus rappresenterebbe il "divenire" e dunque anche la guerra, come sua forma perspicua, così come la pace (sotto il segno di Iuppiter) poteva venire intesa come la forma perspicua dell'essere. Ai fini di questa ricostruzione, piuttosto che Iuppiter O.M. appare significativa la figura di Iuppiter Stator, in cui, secondo Sabbatucci si renderebbe manifesto come il dio supremo, anche quando intervenga nella guerra, ossia in una sfera che esula dalla dimensione di "stabilità" che egli esprime, agisca imponendo una stasi, un congelamento della situazione. Ma attraverso questa analisi, Sabbatucci può anche sottoporre ad esame critico alcune delle conclusioni, raggiunte da Dumézil. Nello specifico, restando sull'episodio che ha portato all'introduzione del culto di Iuppiter Stator, Sabbatucci non ritiene che l'intervento del dio in quell'episodio bellico rimandi ad una sovranità magica per Dumézil rappresentata da Iuppiter, in quanto la contrapposizione tra l'azione del dio supremo e l'azione propriamente militare emergerebbe, senza ricorrere alla magia, facendo riferimento al distanziamento rituale dalle cose di guerra prescritto al flamen dialis. Se fosse la magia a differenziare Iuppiter ed il suo flamen, si chiede Sabbatucci, che senso avrebbe "proibire a un <<mago>> di vedere un esercito in armi, di montare a cavallo, o di avere a che fare con il ferro?".

Sabbatucci supera i residui primitivisti di Brelich, come depura la teoria trifunzionale di Dumézil da sfumature magiste, anche in relazione alla figura divina di Quirinus, della quale contesta sia l'intepretazione di Brelich (Brelich 1960) come dema, sia quella a suo modo agraria di Dumézil: si tratterebbe piuttosto, secondo Sabbatucci, di una sovranità, per così dire, quiritaria, ossia esercitata sui cives uniti in co-viriae(>curiae), cui sarebbe correlata la regalità super-etnica di Iuppiter e quella civica di Mars (Sabbatucci 1984). Alla definizione del rapporto Iuppiter-sovranità concorre anche l'analisi di E. Montanari, che si concentra sul problema posto dalla partecipazione del flamen dialis alla festa dei Vinalia (Montanari 1988). Montanari mostra di non condividere le tesi di Brelich, non solo laddove questi interpreta Iuppiter come forma evoluta di un dio-cielo, ma anche laddove afferma l'assenza di ogni implicazione politica nell'agire del sacerdote dialis. Per Montanari, al contrario, la sfera della sovranità del dio non si risolverebbe entro una dimensione puramente celeste, come pure l'attrazione del vino nell'orbita di Iuppiter non relegherebbe questa bevanda entro una dimensione esclusivamente agraria. Un carattere "politico" dell'auspicatio vindemiae, prerogativa del flamen dialis, appare infatti ricostruibile, per Montanari, non solo sulla base del mito etiologico della festa dei Vinalia priora, ma anche dell'esame dell'intero complesso ideologico-religioso che al vino fa capo. In tale prospettiva, tale elemento, lungi dal risolversi in un uso squisitamente alimentare, neanche assume una funzione inebriante; piuttosto esso sarebbe uno dei "segni" connesso alla victoria come modalità della sovranità del dio, il cui culto riveste particolare importanza nel feriale di Aprile, mese nel quale Iuppiter, oltre ad intervenire attraverso il suo flamen nei Vinalia del 13, era celebrato nelle epiclesi di Victor e di Libertas.

2. L'azione dei Pontifices

Il profondo rinnovamento degli studi storico-religiosi giunge a conseguire, a nostro avviso, i risultati più cospicui, laddove si applica all'analisi del campo di azione dell'altro grande corpo sacerdotale di Roma arcaica, quello dei pontifices. In questo settore si segnalano ancora soprattutto le ricerche di Sabbatucci, e di Montanari che, nell'ambito della teoria della demitizzazione, si sviluppano sui due assi principali della demitizzazione come storificazione e della demitizzazione come ritualismo (anche giuridico). Già Brelich, nel 1938 nell'articolo Il mito nella storia di Cecilio Metello, aveva focalizzato la presenza di temi mitici all'interno di un tessuto storico-narrativo, ipotizzando un passaggio del mito alla storia piuttosto che dal mito alla storia (Brelich 1938). Parallelamente, G. Dumézil, nel corso degli anni Quaranta aveva isolato, nella protostoria di Roma, la presenza di temi mitici, divini o eroici, dei quali in Roma erano stati investiti i personaggi del periodo monarchico o dei primi secoli della res publica. Sabbatucci amplia questa prospettiva in varie direzioni (Sabbatucci 1975). Innanzitutto egli propone un sistema di lettura dei cinquanta anni di storia di Livio dal 445 al 390 a.C. come "cicli narrativi" capaci di esprimere un messaggio religioso e civico insieme: non si tratterebbe più, come per Dumézil, di frammenti mitici più o meno ampi incastonati in un complesso narrativo "indifferente", ma dell'organizzazione in forma mitistorica di un intero complesso ideologico religioso-costituzionale. Sabbatucci ritiene di poter rilevare la presenza di almeno due cicli: 1) il ciclo della censura 2) il ciclo della concordia. La vera novità della ricerca, oltre alla lettura della storia, di tutta la storia, con gli stessi strumenti e nella stessa ottica in cui si legge un mito, consiste nell'affermazione della sostanziale omogeneità tra idea religiosa ed idea giuridica: come si può osservare, non sussiste, per Sabbatucci, una reale distinzione tra il primo ciclo, imperniato sull'istituzione di una magistratura, ed il secondo che celebra la composizione del dissidio tra gli ordines e l'instaurasi della concordia, intesa sia come condizione politica sia come astrazione personificata corrispondente ad un'idea religiosa. Il quadro è perfettamente coerente e coeso; anche troppo per non essere frutto di una "costruzione". Operazioni di tale complessità, infatti, secondo Sabbatucci, non possono essere proiettate su una nebulosa preistoria i.e., né essere attribuite ad una qualità psicologica estesa a tutti i Romani. Questa azione storificante avrebbe avuto un suo agente specifico, i pontifices, i quali avrebbero operato secondo quello che Sabbatucci definisce un orientamento attualistico: tale "<<attualismo>> consisterebbe nel trasferimento al tempo storico di ogni eventuale valenza mitica: la <<sacralità>> o la funzione di dare valori metastorici viene sottratta al <<tempo mitico>>.". E il <<tempo mitico>> viene a perdere così ogni funzione.

In un lavoro successivo, Sabbatucci prende in esame la prerogativa, attribuita ai pontifices di organizzare il tempo non solo in senso diacronico, costruendo e ricostruendo il serbatoio della memoria pubblica, ma anche in senso sincronico attraverso l'organizzazione del calendario (Sabbatucci 1978). Vi viene presa in considerazione la definizione del tempo e dello spazio in relazione all'istituto della regalità, allargando, o meglio, portando una comparazione allargata alla Mezzaluna Fertile. I complessi meccanismi che presiedevano alla elaborazione del sistema di computo del tempo in Roma sono ricostruiti con una acutezza, che in questa sede è impossibile rendere. Ma ciò che soprattutto caratterizza l'approccio di Sabbatucci al problema è il carattere empirico della ricerca: come afferma lo stesso autore, le riflessioni riportate nel testo a proposito della sistemazione del calendario romano arcaico, sono frutto anche di un'osservazione autoptica delle fasi lunari condotta nel corso di un anno intero. Se l'indagine di Sabbatucci prende in considerazione innanzi tutto i meccanismi che hanno agito per grandi direttrici, è con il contributo di Montanari che l'analisi della demitizzazione come storificazione, nell'ambito dell'attività annalistica dei pontifices, si rivolge allo studio di meccanismi ed ingranaggi più minuti, e perciò anche più delicati (Montanari 1990). In particolare, si deve a questo studioso la definizione di alcuni aspetti nodali connessi al rapporto tra annalistica pontificale e annalistica letteraria. Le due produzioni si rivelano sostanzialmente omogenee, da un punto di vista non solo materiale, ma anche per quanto attiene agli estensori. Nell'attività di redazione di annales cooperano, infatti, magistrati e sacerdoti appartenenti ad un unico ambiente, a quella nobilitas senatorio-magistratuale che nel corso del III e del II secolo a.C. espresse le più illustri figure di senatori-storici e di pontifices di cui è giunta memoria. Il processo di storificazione dei miti in Montanari perde quel carattere di azione, in un certo senso, meccanica che poteva avere ancora in Sabbatucci. Così anche l'intervento pontificale, inserito in una più ampia dinamica culturale che viene a coinvolgere l'intera élite, recupera una sua profondità di prospettiva, non configurandosi più come l'agire di una sorta di corpo separato. L'analisi di Montanari si appunta anche su un'altra crux, ossia sul problema dell'attribuzione di nomi di gentes storiche a personaggi delle origini e dei primi secoli della res publica. Come è noto, Dumézil aveva liquidato l'intera questione, ritenendo che un'indagine condotta in tal senso non avrebbe fatto altro che aggiungere incertezze ulteriori alle difficoltà già considerevoli poste dagli intrecci narrativi. Così facendo, tuttavia, restava preclusa la possibilità di investigare su uno dei punti di raccordo tra protostoria e storia repubblicana, e quindi di intersezione tra livello "storico" e livello "leggendario". Montanari muove dall'ipotesi che non possa essere privo di significato il fatto che un'azione sia attribuita all'esponente di una gens, piuttosto che di un'altra. Analogamente egli ritiene che non esistano confini definiti tra mito e storia, ma che al contrario la capacità fabulatoria di rielaborare secondo funzioni e temi mitici si estenda ben al di là del limite acettato convenzionalemente. Una stessa "qualità mitica" consente di delimitare all'interno dell'annalistica un ambito entro cui collocare le azioni "storiche" dei Caecilii, che trova i suoi antecedenti non solo nella gesta  mitistoriche attibuite a Cocles ma anche, ancora più indietro, nelle imprese dei personaggi mitici della serie Cacus-Kyclops-Caeculus. Se da una parte, temi e funzioni mitiche orientano la rappresentazione di atti storici, dall'altra la rappresentazione e l'autorappresentazione di personaggi storici si orienta verso l'esemplarità ereditata. E' il caso dei Mucii Scaevolae: la fides che i Mucii Scaevolae storici ereditano come tradizione dal loro antenato "eroico" fa sì che essi "si riconoscano nel primo portatore del nome familiare, ma anche che vengano pubblicamente riconosciuti in base a quel comportamento.".

Sulla stessa linea metodologica, segnaliamo un nostro lavoro che, partendo dall'indagine sulla complessa tradizione che ruota intorno alla figura di Numa, ha consentito di isolare all'interno della vulgata dei nuclei che per le loro caratteristiche possono ritenersi arcaici: il tema di Numa pitagorico, le historiolae di sapore popolaresco-folklorico che lo vedono come protagonista insieme alla ninfa Egeria, la tradizione delle cd. famiglie numaiche mostrano i segni di una stratificazione che, per i frammenti più arcaici, sembra con ogni probabilità risalire almeno al IV secolo a.C. (Santi 1993). Ancora il processo di storificazione dei miti è oggetto di indagine nel lavoro di V.E. Vernole, dedicato alla figura ed all'epopea di Furius Camillus (Vernole 1997). L'analisi si appunta sugli avvenimenti relativi alla presa di Veio, riconsiderando i principali problemi e giungendo alle conclusioni più originali soprattutto nell'analisi del cognomen Camillus: dal confronto con le altre figure che recano questo nome (la vergine Camilla; i Cadmilli, ministri del culto dei "Grandi Dei"; il camillus, giovane patrizio adiutore del flamen Dialis) scaturisce l'ipotesi che la subordinazione del camillus romano alla sfera di Giove risponda ad una coerente struttura ideologica, che se da un lato ammette la nozione religiosa di un dio servitore o intermediario e del suo corrispettivo umano, dall'altro separa tale nozione da ogni commistione con elementi dionisiaci e misterici.

3. Sacra e iura.

Abbiamo parlato a proposito del processo di storificazione dei miti di un orientamento attualistico che Sabbatucci ritenne di poter rilevare nella produzione annalistica elaborata dai pontifices; dobbiamo aggiungere ora che analogo orientamento Sabbatucci pensò di riconoscere, anche nell'altra attività demandata al collegio sacedotale, l'azione giuridica (e/o giurisprudenziale) (Sabbatucci 1975). Anche in questo campo, Sabbatucci liquida definitivamente le teorie primitiviste e nello specifico magiste diffuse non solo nel campo degli studi storico-religiosi, ma anche in campo giuridico, contestandone l'utilità piuttosto che la fondatezza. I rilievi critici dello studioso si indirizzano soprattutto alle interpretazioni in chiave magico-dinamica delle procedure del postem tenere; dell'investitura dei pater patratus (capo dei fetiales); della legis actio sacramento in rem; della manumissio per vindictam. Ammessa, senza discussione, l'attendibilità delle formule e l'arcaicità delle procedure, Sabbatucci contesta in particolar modo l'interpretazione come trasferimento di potenza dell'atto del toccare, presente in tutte le fattispecie esaminate: si tratterebbe piuttosto, per Sabbatucci, di un contatto che non contagia ma che serve per affermare una proprietà proprio nel momento che prelude all'alienazione dell'oggetto (o del sacerdos) e dunque di una sorta di estensione analogica del principio che sta alla base dell'istituto del mancipium. Al di là delle conclusioni, lo studio di Sabbatucci (che risale al 1975) è un esempio di ricerca in cui lo storico delle religioni si avventura anche sul terreno giuridico e la metodologia storico-religiosa si rivolge all'esame di materiale di natura non strettamente cultuale; ci sembra da segnalare soprattutto l'applicazione anche a questo campo del procedimento della comparazione interna volta al rilevamento di costanti e di varianti, per ricostruire una struttura o un sistema di relazioni. La teoria religiosa, infatti, si rivela agli occhi di Sabbatucci, come coincidente con la teoria giuridica: più volte lo studioso sottolinea la sostanziale unicità dei due campi, che a suo giudizio si sostanzierebbe soprattutto nel sistema di opposizioni publicus/privatus = sacer/profanus. Sabbatucci propone di interpretare questa formula, che secondo la definizione oraziana sintetizzerebbe la sapientia più antica, come il prodotto di una rivoluzione che avrebbe portato il termine profanus, (che egli intende senz'altro come a favore del fanum = unità territoriale templare) a correlarsi dialetticamente non più a pro priuo ma a sacer. In questo equilibrio, che coinciderebbe per Sabbatucci con l'avvento della res publica, sacer e publicus verrebbero ad essere termini solidali, in polemica con l'assetto di una società pre-civica ordinata per fana, ricostruibile in via puramente ipotetica come fase logica (se non cronologica) che precede la costituzione della civitas. Molto nell'analisi di Sabbatucci resta inevitabilmente allo stadio di congettura; ciò non di meno, ci appare che nella ricostruzione da lui operata sia innegabile il dato per cui Roma si costituì come Urbs anche sul rifiuto della città templare.

In un recentissimo contributo, Montanari ha ritenuto di poter suggerire un ruolo determinante dei pontifices, anche in relazione all'elaborazione del concetto di persona (Montanari 1997; Montanari 1998). Montanari prende le mosse dai problemi insiti nell'opinione prevalente secondo cui il termine persona avrebbe avuto in origine il significato di 'maschera teatrale' e quindi di 'personaggio' e 'parte'; di qui sarebbe trapassato in ambito giuridico. Questa posizione obbliga a collocare l'insorgenza dell'uso di persona in ambito giuridico in epoca non anteriore alla fine del IV secolo a.C., essendo a tale data ascrivibile l'introduzione in Roma della più antica maschera teatrale, l'atellanica. Ora l'esame interno di alcuni aspetti della legis actio sacramento in personam rivelerebbero al contrario caratteri di marcata arcaicità in contrasto con questa datazione relativamente bassa. Da una simile aporia non si esce se non ipotizzando una linea di derivazione alternativa a quella così prospettata. L'alternativa può rinvenirsi, a parere di Montanari, nel phersu, enigmatica figura rappresentata in pitture parietali e vascolari etrusche e documentata a partire dall'ultimo quarto del VI secolo a.C.. L'esame del dossier del phersu rivelerebbe, a parere di Montanari, il carattere di operatore del sacro della figura in questione, dotata di una certa versatilità (tanto da comparire in contesti 'festivi' agonistico-liturgici, nonché funerari), ma identificabile sulla base della presenza della maschera, unico elemento fisso (dal momento che neanche l'abbigliamento lo è). Appare quindi per lo meno plausibile che i Romani, proprio nell'età che coincide con il periodo di massima influenza etrusca abbiano assimilato e rielaborato un termine specifico phersu-na 'attrezzo del phersu', essendo in questo caso l'ampliamento -na da intendersi come suffisso di appartenenza. Procedendo su questa linea di ricerca, si può tentare anche di ricostruire i tempi e i modi di questa acquisizione. "Se si ammette, ad esempio, che un uso tra i più antichi sia legato al diritto processuale civile, è ben difficile che la procedura della legis actio sacramento in personam si possa considerare introdotta solo dopo il teatro, ossia almeno nel tardo IV secolo a.C.." La risalenza della procedura appare sufficientemente accreditata anche dal suo carattere di actio generalis al pari della legis actio sacramento in rem, della quale dovrebbe essere coeva. La data più ammissibile, per l'una e per l'altra, non dovrebbe, secondo Montanari, scendere al di sotto della seconda metà del V secolo a.C.. Persona entrerebbe in contesti giuridici a designare ' il ruolo religioso-giuridico degli uomini' ed in particolare, in origine, del pater familias, il quale esercitava una potestas non illimitata, ma soggetta a regole. Indissolubilmente legata ad homo, persona non coinciderebbe con questo livello biologico dell'individuo (pur non potendosi attribuire ad altri che a figure umane), ma sarebbe piuttosto espressione di una natura seconda determinata da relazioni. A promuovere questa definizione e questa astrazione, in un contesto culturale-linguistico, come quello Romano, così alieno dall'uso di metafore, sarebbero stati, in ipotesi, per Montanari, i pontifices, che potrtebbero aver operato in questo caso una ri-nazionalizzazione di un elemento culturale penetrato in Roma con la dinastia etrusca. Tale ipotesi consentirebbe di inserire in un quadro cronologico più persuasivo l'arcaica procedura della legis actio sacramento in personam, stabilendo una coincidenza temporale tra attestazioni iconografiche del phersu ed insorgenza del concetto giuridico di persona.

4. Divinazione e demitizzazione

Abbiamo già parlato del sedimentarsi della memoria delle res gestae populi Romani. Il quadro, tuttavia, non sarebbe completo, se non accennassimo, in chiusura, ai due collegi degli augures e dei sacerdoti sacris faciundis, che presiedevano, per quanto era nei loro poteri, alla fase per così dire progettuale. In un articolo ampio e assai accurato, G. Piccaluga, alla fine degli anni Sessanta, ha esaminato l'intero dossier di Attus Navius, protagonista di un famoso episodio ambientato sotto il regno di Tarquinius (Piccaluga 1969). Alcuni dei passaggi più problematici, che sembrano contrastare con la realtà storica della pratica dell'augurato, troverebbero, a giudizio della studiosa, soluzione nella prospettiva di un istituto che ancora non ha assunto i suoi caratteri definitivi e che pertanto potrebbe raffigurare in Attus Navius e nella sua azione carismatica quasi il corrispettivo romano di un "mito" di fondazione. Al rilevamento di una dialettica augures -sacerdoti sacris faciundis si rivolge l'analisi di Sabbatucci, i cui risultati appaiono sintetizzabili nelle formule il “mondo-da-scrivere” ed il “mondo-da-leggere” (Sabbatucci 1989). A suo giudizio il compito affidato agli augures di indagare la disposizione degli dei in ordine ad un’azione da intraprendere, interpretando il manifestarsi di segni all’interno di uno spazio celeste pre-scritto (“mondo-da-scrivere”) poteva porsi in relazione alternativa con l’incombenza demandata al collegio sacris faciundis di derivare dalla lettura di un repertorio oracolare, i cd. libri Sibyllini, i mezzi cultuali con cui ripristinare la pax deorum, la cui frattura si era palesata con il verificarsi di prodigia (“mondo-da-leggere”). Le due pratiche appaiono a Sabbatucci afferenti ad ambiti dialetticamente correlati, per cui l’uno presuppone l’altro e ognuno entra in funzione quando l’altro è in crisi: in una situazione di normalità si ricorre all’auguratio, allorché l’ordine naturale si incrina, viene decretata la lettura dei libri Sibyllini. La parte più originale e persuasiva dell'analisi di Sabbatucci è rappresentata dalle pagine in cui viene tratteggiata una sorta di genealogia istituzionale, combinando in un'unica lettura le vicende che portano al passaggio dei tribuni plebis da 5 a 10 (bini ex singulis classibus) e dei duoviri s.f. di estrazione patrizia ai decemviri s.f. in un organismo ormai paritetico che attribuisce uguale peso ai componenti patrizi e a quelli plebei (367 a.C.). La collegialità denaria (simbolo di democrazia anche in Grecia) è interpretata da Sabbatucci come una formula di concordia, sia a livello sacerdotale che a livello magistratuale. Ancora una volta l'indagine di Sabbatucci si appunta su aspetti della storia religiosa e costituzionale di Roma; ancora una volta con questo studioso, la metodologia storico-religiosa si applica ad istituti religiosi e giuridico-magistratuali.

Se l'augurato si lega tra l'altro al carisma individuale di Attus Navius ed al rifiuto della figura del rex-augur, come espressione di una fase irrecuperabile, il collegio dei sacerdoti sacris faciundis, al contrario, non presenta alcuna proiezione mitica fondante in età regia. Anzi, nella ricostruzione dell'età regia il significato infausto associato alla nozione di prodigium è risultato negli studi condotti da chi scrive non ancora esclusivo (e neanche prevalente): il termine, che appare molto prossimo alla sfera semantica di ostentum e di portentum, poteva caricarsi infatti di valori sia favorevoli che sfavorevoli (Santi 1996). Se tale è quindi in origine il senso del termine, più della cerimonia di espiazione, che spesso manca nei prodigi di età arcaica, risulta importante l’esatta decodifica del messaggio che si esprime attraverso il prodigium. E’ questa intonazione profetica un segnale di distanza tra il sistema di valori dell’età monarchica e quello dell’età repubblicana. Nel passaggio dal regnum alla res publica sembra si sia modificato il modo di percezione del prodigium e la sua funzione: al tempo stesso causa e conseguenza di questa alterazione di equilibrio sarebbe stata l’istituzione del collegio dei sacerdoti sacris faciundis, interpreti dei responsa custoditi nei libri Sibyllini, ma privi di qualsiasi “carisma” divinatorio. In epoca repubblicana ogni annuncio di prodigi era interpretato infatti come una rottura della pax deorum, il cui ripristino necessitava non di sottigliezze ermeneutiche, bensì di procedure cultuali efficaci. L'intervento dei sacerdoti-magistrati preposti poteva prescindere così da un’esegesi del prodigio e restringere il proprio campo di azione alla ricerca delle modalità di soluzione della fase problematica; il procedimento divinatorio, che si trovava in tal modo ad essere sollevato da ogni prospettiva volta alla ricognizione sia del futuro sia del passato, si risolveva integralmente nell’attualità dell’indicazione del piaculum da effettuare (Santi 1994).

Lo spostamento ordinato da Augusto dei libri Sibyllini dal Campidoglio al Palatino, con il conseguente passaggio della tutela da Iuppiter O.M. ad Apollo, sta ad indicare un nuovo orientamento religioso: questo trasferimento, oltre a suggerire una complementarità tra la funzione esplicata dai sacerdoti sacris faciundis e l’azione salvifica metastorica del dio, sembra sottintendere una diretta derivazione dei libri da Apollo, secondo una visione avvalorata anche dalla leggenda virgiliana della Sibylla. In tale contesto, emergono i segni di una più marcata acculturazione, laddove il rapporto libri Sibyllini-Iuppiter O.M. era il risultato di una riplasmazione in termini originali del complesso acquisito. Mentre in Grecia il sibillinismo è un fenomeno connesso alla sfera di Apollo e della mantica ispirata, il fatto che a Roma la raccolta oracolare consultata dai decemviri sia ospitata nelle fondamenta del tempio Capitolino sottintende innanzi tutto una tutela da parte del dio garante dei patti e della pax metastorica (Santi 1985). Non solo. Trovandosi ad operare la sua forma di divinazione sotto il segno di Iuppiter ed entro i confini del suo templum (l’espressione libros adire mostra senza dubbio che i libri non venivano spostati in occasione della consultazione e che erano i sacerdoti a recarsi nel luogo in cui erano custoditi) il collegio sacerdotale dei decemviri s. f. era chiamato a replicare tutti i tratti caratteristici della suprema divinità del pantheon romano, e in primo luogo la ratio, intesa in questo caso come attitudine a ordinare al fine della salus rei publicae un materiale oracolare per sua natura “sibillino”. Alla discesa materiale nei penetralia del tempio capitolino corrispondeva, in senso figurato, un’immersione in quella dimensione “sibillino-oracolare” che precedeva l’ordo rerum istituito da Iuppiter O.M. e che poteva sopravvivere solo in questo specifico ambito, letteralmente sottoposta alla ratio ordinatrice del dio supremo.

NOTA BIBLIOGRAFICA (*)
(*) La nota bibliografica si riferisce solo alle opere di Storici delle religioni italiani prese in esame nel testo.

Brelich 1938 – A. Brelich, Il mito nella storia di Cecilio Metello, "SMSR" 14 (1938), pp. 30-41.
Brelich 1960 – A. Brelich, Quirinus: una divinità romana alla luce della comparazione storica, "SMSR" 31 (1960), pp. 63-119.
Brelich 1961 – A. Brelich, Un libro dannoso: la "Römische Religionsgeschichte" di Kurt Latte (München 1960), "SMSR" 32 (1961), pp. 311-354.
Brelich 1972 – A. Brelich, Appunti sul flamen Dialis, "Acta Class. Un. Scient. Debrec." 8 (1972), pp. 17-21.
Brelich 19762 – A. Brelich, Tre variazioni romane sul tema delle origini, Roma 19762.
Brelich 1979 – A. Brelich, Storia delle religioni: perché?, Napoli 1979.
Montanari 1976 – E. Montanari, Roma. Momenti di una presa di coscienza culturale, Roma 1976.
Montanari 1988 – E. Montanari, Identità culturale e conflitti di religione nella Roma repubblicana, Roma 1988.
Montanari 1990 – E. Montanari, Mito e storia nell’annalistica romana delle origini, Roma 1990.
Montanari 1997 – E. Montanari, Phersu e persona, "SMSR" 63 (1997), pp. 5-22.
Montanari 1998 – E. Montanari, Rappresentazioni simboliche della nobilitas in età repubblicana, "SMSR" 64 (1998) (in bozze).
Piccaluga 1969 – G. Piccaluga, Attus Navius, “SMSR” 40 (1969), 151-208.
Sabbatucci 1975 – D. Sabbatucci, Lo stato come conquista culturale, Roma 1975.
Sabbatucci 1978 – D. Sabbatucci, Il mito, il rito e la storia, Roma 1978.
Sabbatucci 1984 – D. Sabbatucci, Da Osiride a Quirino, Roma 1984.
Sabbatucci 1989 – D. Sabbatucci, Divinazione e cosmologia, Milano 1989.
Santi 1985 – C. Santi, I libri Sibyllini e i decemviri sacris faciundis, Roma 1985.
Santi 1993 – C. Santi, La costruzione annalistica della figura di Numa. Apporti romano-sabini. Folklore italico. Tradizioni gentilizie. Dissertazione di Dottorato di ricerca in “Filologia latino-italica, Sabino, Latino e continuazioni romanze”, (V ciclo), Sassari 1993.
[123] Santi 1994 – C. Santi, Divinazione e civitas, in The Notion of "Religion" in Comparative Research, Selected Proceedings of the XVI IAHR Congress, Roma 1994, pp.329-334.
Santi 1996 – C. Santi, La nozione di prodigio in età regia, "SMSR" 62 (1996), pp. 505-524.
Vernole 1997 – V.E. Vernole, Il mito di Furio Camillo, L'Aquila-Roma, 1997.

Prof. ssa Claudia Santi
Università della Campania Luigi Vanvitelli
Dipartimento di Lettere e Beni Culturali

 

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E se questa democrazia fosse il “male assoluto”? – Sandro Giovannini

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Il male assoluto è come un sacco da boxer, si prende tutti i pugni e non ne restituisce nessuno. Sappiamo alla fine che chi vince s’è allenato bene al sacco e chi perde, evidentemente, meno proficuamente, ma questo, essendo solo il risultato, non dice nulla delle ragioni di chi gli tirava i pugni. Ed ogni volta che ci avviciniamo alla metafora dobbiamo ricordarci quante implicite, quante variabili, quante follie, stanno in quel sacco, di fronte a chi gli tira pugni. Ora… ad esempio, mi chiedo: ma l’eccezionalismo (quello che produce tanti onori ed orrori) è una costante della storia che privilegia solo pochi popoli o per alcuni è improponibile? Per esempio, per l’Italia, è stato o sarebbe (ancora) proponibile? Eppure, se dobbiamo considerarci con fredda oggettività, pochi popoli, come l’italico, nella storia, potrebbero (e forse potrebbero ancora) esser stati eccezionali. Certo è dalla caduta della pars occidentalis che l’imperium non ha più prodotto un’eccezione, innegabile, insuperabile. Perché l’unica eccezione che si possa infatti almeno rispettare (temere) è proprio quella innegabile, insuperabile. Altri nostri primati, evidenti, si sono mossi su diversi e successivi piani, ma sono stati comunque solo parte di un tutto od un periodo, irripetibile ed imperfetto. Ed il momento che supera, cioè che nega l’evidenza è quel momento in cui l’impero inizia la sua fase discendente, che non è però, né facile per nessuno né corta ed in genere è poi costellata di tragedie immani. L’esempio dell’impero americano, oggi. Quindi l’evidenza, qualsiasi sia la sua moralità dichiarata o quella contestabile (perché il non giudizio od a maggior ragione il contro-giudizio di valore viene in realtà sostenuto prevalentemente dagli indeboliti, dai disfattisti, dai sovversivi in una prima fase, poi da troppi in una fase intermedia ed infine dalla maggioranza), è l’unico dato certo. Indiscutibile per tutti. Il karma negativo così svolta, diviene pesanteur, vortex tamasico, fortemente traente. Ed allora s’avanza la fosca divisione: inaudite defezioni e sublimi eroismi. Questo avviene, allora, ben al di là del giudizio di valore, anche se tale discrimine serve al singolo per scegliere come posizionarsi nelle crinalità epocali, perché è un puro dato (forse l’unico) costantemente rilevabile. Dicevamo: inaudite defezioni, sublimi eroismi. Eroismi che, ben sappiamo, portano in sé il crisma del più d’uno, qualunque cosa esso implichi o comporti. Defezioni, che possono avere mille ragioni e mille scuse, ma - alla fine - non spartiscono mai il sé senza mutilarlo, (…il contrario esatto di ciò che dice Noica, riguardo all’essere) nell’apparente utile conservazione.

I defezionari, molti, che occhieggiano paurosi dietro i muri e alla fine partono solo se s’illudono di vincere… S’ingrossano a dismisura dopo le soluzioni. Gli eroi, pochi (ultima fase), relique - a vario titolo - d’un valore castale, conscio od inconscio che sia, che in alcuni frangenti (anch’essi eccezionali) potrebbe persino ricondizionarsi - anch’esso a vario titolo - ai più… al popolo (ma esperibile come laos e non certo come demos) e con ragione indubitabilmente elitaria, marginale ed attiva, di rinuncia dell’io verso il Sé, pur nella vittoria interiore. Splendente. Il caso, ad esempio, degli Arditi. O dei Corpi Franchi, nel caso di perdenti. Ciò che in società organiche era di molti, a volte persino dei più, diviene, necessariamente, di pochi.

E la guerra… tu lo sai… ormai uccide i migliori sia dei vinti che dei vincitori, moltiplicando all’infinito la razza inestirpabile dei bastardi e dei vigliacchi già dilagati da secoli, accorpando il popolo debole come un infante al suo peggior demone, tanto più o tanto meno gli sia stato chiesto, non fa differenza, ma soprattutto tanto meno fosse realmente in grado di dare… Ma chi ricorda dei vincitori i morti in un popolo duro che ha vinto se non per rituali omelie e cos’importa realmente di loro se non viventi nei vivi, sopravvissuti ed irosi? Perché chi sopravvive, anche dei vincitori, dovrebbe essere della stessa razza dei morti eroi, il che poi - nella vita del compromesso di pace - è veramente duro… difficile, quasi impossibile. E questo si conferma solo se s’impone una forte rettorica dell’ordine che giustifichi e valorizzi l’autentica persuasione che ha portato alla desctructio destructionis, al disordine ribelle dei forti, degli impavidi, degli strafottenti del moderatismo inconcludente. Ch’é a suo modo folle, contro ogni narrazione subdola (“…il paradiso diventa artificiale, l’enfer non plus…”), perché produce solo disunione, caduta, sofferenza, decadenza, resa, morte. Alla finale morte dei popoli, quindi – in realtà – alla morte dei più… Murder by capital. Ma ciò che conta davvero - ciò che resta alla fine di tutto - è la rapina dei vivi ai morti (gli abbiamo tolto la forza d’amare e godere, di cibarsi esultare indignarsi e gridare e sorridere per anni, per anni, per anni…) e la consegna severa dei morti ai vivi coraggiosi e superstiti (…il lascito dei caduti vicini, fratelli… onore e debito, innegabili), esistendo questo poi solamente nell’omelia dei sopravvissuti alla vittoria, nell’ostia della vittoria propria. Alzata necessariamente come un trofeo. Nella sconfitta poi, - lo sappiamo bene, per esperienza diretta ed epocale - si dirà ch’era tutta retorica. E questo potrebbe essere perfino funzionale ai perdenti. Ma non è solo un meccanismo fattuale, comprensibile, di transfert, è forse soprattutto una scelta ideologica… lo dimostra la perdurante - storica - narrazione catto-progressista della geopolitica, ove la sovranità (chiunque riguardi e qualsivoglia ambito implichi) viene declinata sempre al negativo, quando dovrebbe rappresentare comunque un minimo necessario e scontato. Per ragioni prima internazionaliste ed ora globaliste, si ridice nemico pernicioso. Per questo, ora - pur comprensibilmente - molta sovranità s’è ricondizionata anch’essa - sulle carsiche faglie a perdere e sulle tristi linee di ripiegamento - a sovranismo. “…Sovra-voler produce sovra- effetto…”. Ma allora… quelli che nella vittoria alzavano l’ostia dei morti non facevano solo la suprema finzione (alla Stevens). Uno mi raccontava che - in un tempo, tra i piloti, quasi ogni giorno, si faceva il Presente armato ed il funerale… E non s’interessavano del giudizio vigliacco e rancoroso dei più, ma affermavano il loro diritto di vita e di possesso della vita, che rimane sempre e che non si può lasciare in mano ai causidici ben vivi … non essendo ciò più fattibile agli eroi morti.

Sono logiche spietate, lo sappiamo bene fuor d’esaltazioni inutili… ma che si ripetono nella storia, senza eccezioni. L’eccezionalismo, allora, in realtà, implica l’eliminazione dell’eccezione, la riduzione a normalità della funzione di dominio. Si può solo dominare od essere dominati, sia pur proporzionalmente, predittivamente, destinalmente… il resto è finzione senza onore, non suprema finzione, comunque s’inventi, gestisca o sviluppi la volontà di potenza, in relazione alla parola data alle folle. “La menzogna è lo strumento della volontà di potenza, ma la volontà di potenza non è menzognera”, come recitiamo in un nostro recente Elogicon…

Invece nella sconfitta non c’è menzogna o ragione che tenga perché non c’è Dio, non c’è Dea… Può esserci, c’è… solo la ragazza indomita che a bordo pista saluta romanamente i nostri prigionieri vergognosi che scorrono polverosi in Nordafrica sui camion inglesi; o “…la contadinella un po’ tozza ma bella, ch’aveva a braccio due tedeschi, e cantava cantava amore senz’aver bisogno d’andar in cielo, aveva condotto i canadesi su un campo di mine…”.

Nella sconfitta non c’è che corrispondenza di sangue e di fango per quello che ti faranno - poi - subire. E proprio per questo è meglio l’onore dei morti che la sopravvivenza dei vinti. Ma non riguarda solo loro, i morti ed i vivi di quel tempo, i nostri eroi di quella prova, ch’è sempre ultima anche se ritorna senza sosta. Il tempo non si ferma. Il sangue - nonostante tutto - si rinnova… per forza vengono le generazioni infinite del dopo. E dalla sconfitta c’è solo il subire, il servire od il ribellarsi per poter ricominciare davvero a combattere. Oppure - come ora per troppi - semplici sopravviventi che chiedono in realtà molto poco a se stessi… di vivere senza eccessivi disturbi. Al Sé. Perché qui parliamo di vocazioni, non di legittimazioni formali o pedantesche.

E poi ci saranno persino quelli che diranno (ultima feccia epocale) che gli arditi (perenni) sono del territorio sventrato dei frustrati, delle paurose vittime dei padri, transfert di violenza, d’educazione severa e di paideia non bastarda. In parte (in partenza) può essere persino vero… Ma chi avrebbe fondato ordini, ranghi, schiere, vittorie, trionfi, sofferenze, sconfitte durissime e poi ancora vittorie insperate, se non la razza inestirpabile d’allievi dei padri e dei nonni, di quelli che portano rispetto persino per sconosciuti avi putativi, presunti, persino inventati, se li troviamo al loro giusto posto di comprimari di epoche certe e d’imperi comunque indiscutibili? Non saranno certo i biascicatori di preghiere, “…i renitenti alla leva dell’Ideale… i perbenisti frenatori dal passo calcolato, i becchini cocciuti nello sforzo di seppellire primavere entusiaste di gloria…”, coloro che potranno fondare ordini. Potranno solo essere trascinati senza essere, senza volontà, senza Sé… ma gli rimane d’offendere (offendere?) tutti questi come fascisti e non capire ch’essi risorgono, qualsiasi sia la forma ch’assumano, come acqua pura di fonte nel deserto dei vivi, magari dopo esser filtrata per territori sconvolti e lunari, tra immondizie e degrado, tra rovine e macerie, nell’architettata confusione immonda della mano pesante, quella che sta dietro ogni cosa e che governa ipocritamente tutto, alla faccia dei ciechi dei sordi e dei muti.

Ma - parliamoci chiaro - per i guerrieri ci vorrebbero almeno due vite, almeno due vite perché vedi è inutile programmare delle educazioni profonde, addestrare l’uomo che è la cosa più difficile, e poi vederselo morire… Lo spreco sacro avviene solo sui grandissimi numeri… La dépense dilapidante e virulenta della phisis, dell’infinito grande e piccolo, non sappiamo mai quanto affidato alla vacuità, al destino, all’indeterminazione… No. Nel mondo artificiale dell’uomo, l’addestramento invece è come l’arte, una pratica che può - ed a volte deve proprio - durare. Certo c’è l’eccezione della rapidità folgorante ma l’eccezione dentro l’eccezione è durissima da sopportare per qualsiasi societas, anche la migliore. Se l’uomo s’autoeduca e poi muore può andare anche benissimo per lui… Per lui va benissimo. Ma per chi resta? Tutti gli altri, vigliacchi e cialtroni, prendono il sopravvento, come il Bushido dice che l’uomo per educarsi deve distanziare la vita proprio amandola nella morte possibile, sempre accanto… ma questa è morale castale, reversibile solo all’interno, ogni vita tanto più colta, divenendo indispensabile proprio per gli altri, per il popolo (laos), non per sé… Per il Sé - paradossale egotismo - ognuno può fare come vuole del proprio, ma proprio per gli altri è - rimane - che deve riflettere sulla durata, sulla paideia, sull’esempio, che non solo è vita splendente nel lampo… così per tante tradizioni e prendiamo le più diverse… ad esempio Gurdjieff e Castaneda ed il Bushido di prima, i guerrieri, dalle più diverse dimensioni storiche e geo-etiche… dovrebbero durare. Lavorare. Produrre stile. Per questo Cesare cercava disperatamente di farlo capire a qualcuno dei suoi arditi, che si lanciavano avanti a tutti, a volte solo per compiacerlo, senza neanche un percome e solo per farsi vedere da lui, che evidentemente parlava forse soprattutto quando non parlava… L’istituzione ampia degli Arditi invece è illuminante, in quel tempo dopo il ’17, proprio per il metodo, l’interazione - ben gestita - tra l’audacia folle e la programmazione minuziosa. E’ la solita geniale intuizione, che si determina rara nel tempo - ed in quel caso (solo in quel caso?) imposta dalla necessità - d’integrazione d’opposti. Con le conseguenze storiche che tutti sappiamo. Non ci arriverebbero mai gli altri, coloro che non sanno significare per presenza/assenza, per depauperamento primario dell’attaccamento… Schiaffo a tutte le prevedibili logiche di prima, me ne frego degli altri e di me stesso… per eccesso d’amore, per eccesso di calore o di freddezza, di sangue… base non tiepida - appunto calda o fredda - di tutte le pratiche onorevoli, ascetiche, virili, entusiaste, eccessive, di ogni mano destra o sinistra, comunque d’ogni grandezza… Consona al tempo della poesia, della musica, della calligrafia, della ritmica, dell’arte, mai escluse ma – per educarsi – assorbite. Per il guerriero - così corretto dall’assenza e dall’eccesso - dalla vacuità e dal destino, conquistare il regno e non il mondo od il mondo assieme al regno e morire… è il meglio per Sé, per i più essendo invece escluso in sorta di specchio. Esclusi dalla partecipazione… ma cosa vuoi partecipare se ti manca l’interiore eversione, il tuo cambio di passo… ch’è in salita? E ch’è problematico, sempre. Cosa mai potrai comprendere della partecipazione? Arco di volta e punto di svolta che inventi il terzo tra le forze divaricanti d’ogni sistema, che superi la dicotomia insensata degli opposti… Questa sarebbe una possibile, perfettibile democrazia e verrebbe - paradosso, ma la storia n’é piena - proprio dal suo contrario. Ovvero il potere al popolo nel senso di un potere agente e sapiente, ma questo non è naturalmente né sovranaturalmente sempre possibile, o facile, per l’eterna resistenza di un peggio rispetto ad un meglio…

Tu dici - ma nei tempi questo cambia! Invece il rapporto - lo dicono i Maestri - rimane sostanzialmente costante… tutto si trasforma ma nulla muta veramente nel rapporto di proporzione e si determina comunque una spaventosa esclusione dai benefici del meglio… che è poi sempre non ciò che appare il meglio al peggio… E questo perché il peggio sceglie per regolarità sua propria ciò che gli è più comodo che quasi mai sarà il meglio come noi lo intendiamo…

E sempre ricordati: ogni fantasia, stupida o geniale che fosse è sempre superata dal reale, che sta nella zona dell’ombra per venire alla luce - come dice l’Oscuro… nella trama sotto/sopra l’ordito, la T ancestrale ed eterna. La devi vedere, valutare, amare. E questo ci insegna che è il reale il nostro maestro di sogni, visioni e follie, di sobrietà ed eccesso, di quotidianità e d’impero… che ci fa uomini e sperimentando, se gli dei ci guardano e gli avi ci guidano, guerrieri.

Sandro Giovannini

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Rinascenza classica: sorge un nuovo Tempio dedicato ad Apollo

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La sera del cinque dicembre 2018 dell’era volgare il Tempio di Apollo è compiuto nella sua geometria essenziale. Lo ha annunciato il presidente dell’Associazione Tradizionale Pietas Giuseppe Barbera. Il tempio è inserito in un santuario realizzato alle porte della Roma moderna,nella città di Ardea, luogo teatro del mito che vide i Troiani vincitori sui Rutuli di Turno.

Il santuario è stato fondato ed inaugurato sacralmente il giorno 11 novembre 2761 a.V.c. (2018 e.v.) alle ore 11. In quel giorno è stata posta la pietra di fondazione come da rito antico. Al centro della cittadella sacra sorge il Tempio di Apollo (realizzato in meno di un mese dai volontari dell’Associazione Tradizionale Pietas), nume solare che unisce le genti Greche ed Italiche. Fu per volontà dell’oracolo di Delo che Enea partì alla volta dell’Hesperia (nome antico dell’Italia), una terra promessa alle genti della diaspora troiana, le quali si riunirono con i luoghi di origine dei loro antenati più antichi. Al Dio Solare, portatore di ordine ed equilibrio, sovrano dell’armonia e padre di Pitagora, viene dedicato il tempio da parte dei soci Pietas.

Attorno al tempio sorge un locale di accoglienza per i visitatori (il B&B “la culla degli Dei”), diverse sale riunioni, ambienti per conferenze, palestra per praticare arti inerenti il movimento delle energie interiori, una libreria esoterica, una sala lettura ed ambienti per il ristoro. Giardini fioriti, alberi da frutto, verdi prati ed una piscina di acqua salmastra per le catarsi, decorano d’intorno la casa di Apollo. Questo santuario è un nuovo luogo di luce che nasce dal buio dell’epoca contemporanea per portare coscienza e benessere alle persone pie, realmente interessate alla riscoperta di quel sacro italico, un tempo considerato perduto ma oggi recuperato. Presso questo tempio sarà possibile approcciarsi alla sacralità classica, ai misteri solari in esso preservati e serbati alle anime meritevoli, trarre consulti oracolari e tanto altro.

Il tempio dovrà adesso essere rivestito delle decorazioni, per questo motivo il presidente Giuseppe Barbera invita tutte le persone che aderiscono all’idea del ritorno del culto antico, ad iscriversi o a rinnovare la tessera all’Associazione Tradizionale Pietas per sostenerci in questa opera titanica. Ogni forma di contributo, come donazioni ed aiuto pratico, è bene accetta.

Il tempio sarà attivo già dal mese di dicembre, presso di esso si svolgeranno incontri inerenti il mito antico ed anche qui, come al tempio di Giove, avrà sede un’etherìa della Schola Ermetico-Pitagorica Italica, e presso di esso saranno svolti i festeggiamenti del prossimo solstizio invernale. Ulteriori informazioni sulle attività saranno presto pubblicate sul sito www.tradizioneromana.org e tramite i vari canali ufficiali dell’Associazione Tradizionale Pietas.

Un’altra vittoria della coscienza contro il buio mentale dell’epoca contemporanea.

L’Associazione Tradizionale Pietas

 

 

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Fascismo e Massoneria, storia di rapporti complessi – 1^ parte

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1. La massoneria italiana tra ‘800 e ‘900

Le logge massoniche si diffondono nella penisola italiana a macchia di leopardo fin dalla metà del XVIII secolo: la prima loggia viene fondata da alcuni massoni inglesi a Firenze tra il 1731 ed il 1732 (1). Con l’avventura napoleonica, la massoneria si espande in tutta Italia mediante la penetrazione delle idee della Rivoluzione Francese, idee già in periodo prerivoluzionario divulgate proprio per opera della massoneria, che dalla fine degli anni 70 in poi si trasforma progressivamente da associazione speculativa «… in una struttura cospirativo-terroristica legata al segreto, al giuramento di fedeltà dei membri, alla tecnica del colpo di Stato, alla manipolazione della pubblica opinione» (2).

La Massoneria, dunque, è protagonista del processo di abbattimento dell’ancien régime, che in Italia solo casualmente coincide con la realizzazione dell’antica aspirazione all’unità della Nazione, ed alla diffusione, in un’accezione solo in parte “nuova”, di un concetto antico, quello di “nazione”. Raggiunta l’unità della nazione italiana con la coincidenza di Kulturnation e Staatnation, la massoneria si “appropria” del “mito” di quello che viene chiamato “Risorgimento”, attribuendo all’azione dei massoni sia il crollo delle monarchie assolute, sia l’Unità d’Italia. A dire il vero, sono i gesuiti di Civiltà Cattolica che, con forzature notevoli, presentano l’intero processo risorgimentale come una sorta di “complotto massonico” (3). Fin dall’inizio, infatti, la Massoneria aveva avuto un nemico: la Chiesa Cattolica. Con la costituzione apostolica In eminenti apostolatus specula del 1738, Clemente XII commina la scomunica latæsententiæ ai massoni. La scomunica viene ribadita da Benedetto XIV nel 1751 con la bolla Providas Romanorum Pontificum.

In Italia l’unificazione viene raggiunta contro la Chiesa rappresentante la religione maggioritaria, che costituiva anche la religione ufficiale del Regno di Sardegna (4), il cui espansionismo costituì il regno d’Italia. Pertanto, la ricostruzione del risorgimento quale “complotto massonico” da parte degli ambienti cattolici che vedono Porta Pia come un sacrilegio prima che un’usurpazione, è strumentale alla tesi del Risorgimento come complotto contro il cattolicesimo romano. La Massoneria non confuta la tesi di Civiltà Cattolica, anzi: la rilancia. Dai testi immediatamente successivi alla raggiunta unità (5), fino alla pubblicistica più recente, i massoni rivendicano un ruolo decisivo nel processo risorgimentale arrivando a sostenere: «… il ruolo della Massoneria nell'unità d'Italia - soprattutto attraverso la cosiddetta Carboneria - fu ancora più importante che nella fondazione degli Stati Uniti» (6).

L’affare “Giordano Bruno”

Individuata la Chiesa Cattolica come “nemico”, la Massoneria compie un’altra operazione propagandistica, “appropriandosi” dei perseguitati dalla Chiesa Romana, accomunandoli tutti nell’unica categoria di “liberi pensatori”. Questa operazione diventa eclatante con la creazione del mito di Giordano Bruno “protomassone”, che tocca la sua acme quando, nel 1889, auspice il Presidente del Consiglio Francesco Crispi (massone di rito scozzese), viene inaugurata una statua del Nolano in Campo dei Fiori. Fin dal 1886 Giordano Bruno era stato elevato a simbolo della Massoneria italiana, con l’istituzione dell’Ordine di Giordano Bruno quale massima onorificenza dell’associazione. In effetti, i massoni si “appropriano” della figura di Giordano Bruno, compiendo una vera e propria mistificazione del pensiero del frate “eretico”, tanto da far dire: «Che cosa c’è di più bigotto di quei fieri atei, tutti convinti che un mistico sovrano come Giordano Bruno fosse uno dei loro? La Chiesa, che lo ha bruciato, sapeva assai meglio con chi aveva a che fare. Loro invece gli hanno anche dedicato un monumento, come fosse il Milite Ignoto. E gli illuministi? Se davvero esistessero, dovrebbero evitare innanzitutto di credere nei Lumi. Ecco la nuova “gente pia”, neppur protetta nella sua bigotteria dalle mediazioni cerimoniali, dall’arcano pragmatismo di una Chiesa. Non sanno su quali presupposti agiscono e non amano che qualche irriverente sofista glielo chieda. Meglio che lo coprano con le loro pratiche superstiziose» (7). In modo meno corrosivo e quasi “giustificativo” di questa sorta di “appropriazione indebita”, si è scritto: «L’elevazione del Nolano a emblema della Massoneria … non va giudicata sotto il profilo della rispondenza filologica tra il suo sistema filosofico e gli orientamenti prevalenti nella Famiglia … bensì va apprezzata per la sua efficacia rappresentativa. Per i massoni (che non ne conoscevano il pensiero) Bruno era la vittima del dogmatismo teocratico di Roma in combutta con i sordidi intrighi dell’assolutistica diplomazia veneziana. Al tempo stesso era l’uomo che fra il rogo e la rinunzia alle sue più profonde convinzioni scelse il martirio, onorando, quindi, non l’ateismo o il rifiuto del cristianesimo (come poi asserito da certo malinteso positivismo) ma la libertà di “ricerca” e, quindi, la libertà di religione» (8). L’opera propagandistica della Massoneria italiana a cavallo tra i secoli XIX e XX tende dunque ad accreditarsi quale protagonista del Risorgimento e della “lotta all’oscurantismo”, incarnato dalla chiesa cattolica (9). Due note a margine di tale precisazione: il più importante studioso italiano di Giordano Bruno, Gabriele La Porta, nelle sue trasmissioni televisive e nelle sue numerose pubblicazioni, ha ribadito più volte quanto la dottrina del Nolano nulla abbia a condividere con il mondo delle idee illuminate e del libero pensiero, essendo, al contrario, inserita nel solco arcaico della tradizione ermetica; Benito Mussolini, durante le trattative con la Chiesa Cattolica per il Concordato, si oppose alla richiesta di abbattimento della famosa statua a Campo dei Fiori, concedendo solo il divieto di svolgervi manifestazioni anticlericali.

La penetrazione nella società civile

Il suo porsi come contraltare all’antirisorgimento (10) ed al clericalismo, unito alla scomparsa per naturale esaurimento delle sette segrete che avevano operato durante il periodo risorgimentale, polarizza verso la Massoneria tutti coloro per i quali il Risorgimento era un mito e la Chiesa Cattolica sentina di ogni male. Il non expedit di Mastai Ferretti impedisce ai cattolici legati alla Chiesa di occuparsi di politica, onde si può dire, come noterà poi Gramsci (11), che la scena politica italiana, fino alla fondazione del Partito Popolare Italiano(1919), è monopolizzata dalla Massoneria. Nonostante Aldo Alessandro Mola (12) sostenga che si tratti di una “leggenda” alimentata dagli stessi massoni, è innegabile che, nel periodo postunitario, fino alla vigilia della Grande Guerra, vi sia una massiccia presenza massonica nelle posizioni di verticedi tutti i “blocchi” del dibattito politico italiano (13). L’analisi del Mola, infatti, si ferma all’aspetto “quantitativo” della presenza massonica nella burocrazia, laddove – invece – è caratterizzante l’aspetto “qualitativo”. Per rendere l’idea, basterebbe ricordare che dei due comandanti supremi delle FF.AA. nella Grande Guerra, è massone il comandante delle forze di mare Paolo Thaon de Revel (14), ed è in “odore di massoneria” il comandante supremo Armando Diaz (15).

La vita interna della Massoneria era stata fin da subito travagliata, con scissioni, litigi, reciproche diffidenze, onde sarebbe veramente difficile tracciare un “asse medio” della posizione politica della Massoneria in quanto istituzione (nel senso che a tale termine darà Santi Romano). Certamente, un punto nodale nella storia della Massoneria italiana è la cosiddetta “scissione di piazza del Gesù”. Il 24 giugno 1908, giorno natale di Giovanni il Battista, patrono del rito scozzese antico e accettato, dal Grande Oriente d’Italia si distacca un gruppo di massoni aderenti a tale rito, guidati dal calabrese Saverio Fera, Sovrano Gran Commendatore del rito in seno al GOI, dando vita alla Serenissima Gran Loggia d'Italia, successivamente denominata Gran Loggia d'Italia degli ALAM (Antichi Liberi Accettati Muratori). La scissione è determinata dalla battaglia per l’elezione del Gran Maestro del GOI, conclusa con l’elezione di Ettore Ferrari, il quale imbocca la deriva del Grande Oriente verso il «principio democratico nell’ordine sociale» (16). È da allora che nella Massoneria si crea la diatriba politica tra l’obbedienza del GOI, accusata dagli ALAM di essere “demagogici” e gli ALAM, accusati dal GOI di essere “reazionari” (17). Come detto, massoni sono presenti in tutti le formazioni politiche. Si crea, comunque, all’interno di qualcuna di queste, il problema della compatibilità tra l’appartenenza alla massoneria e l’appartenenza a determinati partiti.

Particolarmente intenso il dibattito tra i socialisti. Per due volte (1905 e 1908), il partito indice un referendum tra gli iscritti sul tema, ma non raggiunge un numero di adesioni sufficienti ad impegnare il Congresso, per cui il tema viene portato per la prima volta all’XI Congresso di Milano del 1910, in cui da Mondolfo, Mastracchi, Salvemini e Angelica Balabanoff presentano una mozione che invita «i socialisti che non sono massoni a non entrare nella massoneria e quelli che vi appartengono di uscirne» (18). L’OdG non viene approvato. Situazione rovesciata nel XIV congresso, che si svolge ad Ancona dal 26 al 29 aprile 1914. Giovanni Zibordi presenta una mozione con cui si chiede di sancire l’incompatibilità tra appartenenza alla massoneria ed iscrizione al partito, dichiarando: «Noi combattiamo la Massoneria non per le sue remote né per le più recenti origini filosofiche, ma per la sua funzione attuale, che reputiamo perniciosa per l'educazione socialista». Benito Mussolini, allora direttore dell’Avanti, si era già schierato su posizioni antimassoniche nel 1905, 1908 e nel 1910, e nel Congresso di Ancona chiede l’approvazione di OdG più radicale, che prevede la “cacciata” dei massoni dal partito, mentre nel presentare il suo originario OdG, Zibordi aveva detto: «Tutti quei nostri compagni massoni i quali sentono profondo il loro amor e devoto per il partito, sentiranno che questo loro sentimento non è compatibile colla serenità della loro coscienza massonica, essi si ritireranno dalla Massoneria per rimanere fedeli al partito. La massoneria può corrompere i corruttibili, non può corrompere le coscienze salde dei nostri compagni». L’OdG Zibordi viene integrato con la proposta di emendamento di Mussolini, che alle parole «dichiara incompatibile per i socialisti la entrata e la permanenza nella Massoneria» aggiunge: «ed invita le sezioni ad espellere quei compagni che non si conformassero nella loro condotta avvenire nelle norme su esposte». La mozione così emendata è accolta a maggioranza schiacciante.

In quel Congresso, il delegato polesano Giacomo Matteotti vota perché venga mantenuto l’originario ordine del giorno Zibordi (19). Si tratta, dunque, di una mistificazione storica quello che sostiene Alfonso Maria Capriolo (20), secondo il quale a Mussolini che proponeva l’incompatibilità «… tenne testa un giovane delegato del Polesine, Giacomo Matteotti, quasi anticipando quella contrapposizione che, dieci anni dopo, avrebbe condotto all’assassinio del leader dei socialisti riformisti, con l’avallo del capo del fascismo». Matteotti è favorevole a sancire l’incompatibilità. A votare affinché venga mantenuta la possibilità per i massoni di iscriversi al partito, è gente come Poggi, Raimondi, Lerda. Anche i nazionalisti si pongono il problema della compatibilità tra appartenenza all’associazione ed alla Massoneria. Eppure, la Massoneria italiana, vista la scarsa penetrazione del suo anticlericalismo, aveva abbracciato la scelta patriottica. Su tale “svolta” del GOI (in contrapposizione alla “Universalità” dell’istituzione massonica), significativa la balaustra inviata dal Gran Maestro del GOI Ernesto Nathan del 25 luglio 1896 ai Maestri Venerabili delle logge italiane, in cui – tra l’altro – scrive: « …bisogna che l’Ordine nostro promuova la solenne pubblica affermazione del patriottismo italiano e la contrapponga, in tutta la maestà della coscienza nazionale, alle trame sottili dei nemici della Patria» (21).

Dal contesto della balaustra si evince chiaramente che il patriottismo è invocato da Nathan in contrapposizione alla Chiesa cattolica, accusata di “tessere trame sottili” contro la Patria. In occasione della guerra di Libia, il GOI accelera la sua posizione. Ancora una volta, significativa la balaustra inviata dal Gran Maestro Ettore Ferrari il 4 novembre 1911: «Dai lontani lidi d'Africa giunge, con l'eco delle vittorie, il grido dei forti che cadono gloriosamente per la nuova affermazione della civiltà italica. Quel grido commette alla Patria la sorte degli orfani, delle spose e delle madri dei caduti. Il supremo appello si ripercuote nella grande anima italiana. La Massoneria, alta espressione della coscienza nazionale, deve, ora come sempre, immediatamente e degnamente rispondervi» (22). Il GOI apre una sottoscrizione per i soldati italiani partiti per la Tripolitania e la Cirenaica e stanzia £ 15.000,00 dal fondo comune. Gli “scissionisti” della Serenissima si mostrano ancor più estremisti sul punto. Grande entusiasmo del Sovrano Gran Commendatore Saverio Fera, che annuncia la fondazione di tre logge tra Cirenaica e Tripolitania a guerra finita e, successivamente, respinge con sdegno le accuse di crudeltà mosse alle truppe italiane (23). Nonostante ciò, come detto, anche i nazionalisti si pongono il problema della compatibilità con la massoneria. L’A.N.I. (Associazione Nazionalista Italiana), pur denominandosi “Associazione”, si organizza da subito come un partito, con una struttura piramidale tipica dei partiti organizzati, con congressi annuali, con le correnti incarnanti le diverse anime.

Fin dal primo congresso svoltosi a Firenze nel 1910, è posto il problema della compatibilità tra l’appartenenza alla massoneria e iscrizione al partito. Dopo l’introduzione, nel 1912, del suffragio universale maschile, la polemica antimassonica dei nazionalisti scoppia con maggiore veemenza. L’allargamento della base elettorale spinge ad evitare “infiltrazioni massoniche” in un partito che aspira a diventare di massa. «Il settimanale dell’Associazione “L’Idea Nazionale” propose tre quesiti taglienti a personalità di spicco: la sopravvivenza di una società segreta, quale la Massoneria, era compatibile con le condizioni della vita pubblica moderna? Il razionalismo materialistico e l’ideologia umanitaria e internazionalistica, a cui la Massoneria nelle sue manifestazioni si ispirava, corrispondevano alle più vive tendenze del pensiero contemporaneo? L’azione palese e occulta della Massoneria nella vita italiana, e particolarmente negli istituti militari, nella magistratura, nella scuola, nelle pubbliche amministrazioni, si risolveva in un beneficio o in un danno per il Paese?» (24). L’esito del referendum, ricalcato su quelli dei socialisti di cui si è detto, ha una netta prevalenza di posizioni antimassoniche. L’Idea Nazionale lancia anche un altro quesito: è compatibile l’appartenenza alla Massoneria e l’appartenenza alle Forze Armate? Anche qui, la totalità degli intervistati risponde negativamente, soprattutto riguardo al giuramento massonico, ritenuto confliggente con il giuramento di fedeltà alla Patria ed al Re a cui è tenuto il militare (25).

Allo scoppio della guerra europea nel 1914, la Massoneria italiana si schiera inizialmente su posizioni neutraliste. La balaustra del Gran Maestro del GOI Ettore Ferrari del 31 luglio 1914 (26), sostiene l’aspirazione della Fratellanza alla Pace Universale, continuando:
1. nel caso di ineluttabilità del conflitto, l’Italia deve fare la sua parte, ed i Massoni non possono non essere a fianco della Patria,
2. il Governo non può essere spinto all’intervento dai moti di piazza.

Anche gli “scissionisti” della Serenissima hanno un’iniziale posizione neutralista. Il 1° agosto 2014, il Sovrano Gran Commendatore Saverio Fera intima: «Giù le armi! Tutti al Tribunale Internazionale della pace all’Aja» (27). Senza scadere nel complottismo, l’inversione di tendenza di ambo le obbedienze verso l’interventismo si verifica dopo che il 6 agosto 1914, l’ambasciatore d’Italia a Londra, marchese Guglielmo Imperiali di Francavilla, informa il ministro degli Esteri Antonino di San Giuliano che Alfred Rothschild gli aveva confidato nel massimo segreto che, se si fosse schierata con la Triplice Intesa, l’Italia avrebbe reso “incalcolabili vantaggi alla causa della pace” e, con successivo, più articolato dispaccio dell’11 agosto, chiariva che Rotschild “non parlava a titolo personale” (28). Il barone Alfred Rotschild, è non solo ai vertici del più grande gruppo bancario europeo, ma è anche un influente dignitario della United Grand Lodge of England (29), che la Massoneria Universale considera dappertutto “madre” di tutte le massonerie. Sta di fatto che, immediatamente dopo tali comunicazioni, il GOI dà il proprio avallo alla costituzione di un corpo di volontari massoni al fine di provocare l’Austria e provocarne una reazione armata (30). Secondo la ricostruzione degli storici di tendenza massonica, tale inversione è, comunque, determinata dalle scelte di altri partiti, dalle pressioni dei fratelli legati alla causa risorgimentale, ma soprattutto, la contrapposizione con gli ambienti clericali, votati al pacifismo (31), pacifismo che i massoni ritengono nasconda la volontà di perpetuare regimi assoluti molto permeati dalla religione (cattolica in Austria, luterana in Germania, ortodossa in Bulgaria, islamica in Turchia) (32).

Per gli “scissionisti”, decisiva l’azione del fratello Gabriele D’Annunzio, campione dell’irredentismo ed affiliato alla loggia XXX ottobre di Fiume, la cui rivendicazione di italianità è conclamata nella sede della Gran Loggia, nel frattempo insediatasi a Piazza del Gesù (da cui prenderà il nome). L’interventismo porterà ad un avvicinamento dei massoni ad antichi avversari come Mussolini ed i nazionalisti. Difatti, com’è naturale, i nazionalisti si schierano subito per l’intervento, anche se con profonde lacerazioni tra i sostenitori dell’Intesa e quelli degli Imperi Centrali. Benito Mussolini ha, dal suo canto, abbandonato le posizioni pacifiste ed internazionaliste che aveva assunto nel 1911 (tanto da essere arrestato per una manifestazione contro la guerra di Libia): ha lasciato il Partito Socialista e la direzione dell’Avanti per fondare un nuovo giornale, Il Popolo d’Italia, il cui primo numero vede la luce il 15 novembre 1914, con un’apertura intitolata “Audacia”, di forte carattere interventista. Secondo Gianni Vannoni (33) il demiurgo della palingenesi di Mussolini in senso combattentistico è Massimo Rocca, le cui vicende successive s’intrecceranno con il fascismo attraversando fasi alterne. Non pensiamo, però, di aderire a tale tesi. L’evoluzione di Mussolini verso forme di movimentismo è determinata da molti fattori, ma – se proprio si deve cercare un “demiurgo” – questo non può che essere Vilfredo Pareto, con la sua teoria delle élites. Mussolini aveva seguito delle lezioni di Pareto a Losanna durante l’esilio e ne era rimasto subito folgorato. Dirà Mussolini al suo medico Georg Zachariae: «Da socialista convinto, tentai dapprima di realizzare nell’ambito del socialismo le idee che avrebbero dovuto portare a una soluzione delle grandi questioni sociali. Purtroppo, tali miei tentativi sono completamente naufragati, e per meglio spiegarle le ragioni di questo fallimento le racconterò un piccolo fatto, che mi capitò qualche anno avanti la prima guerra mondiale in una città dell’Italia settentrionale. Tenevo un discorso dinanzi a circa diecimila operai per incitarli a unire i loro sforzi e a combattere corpo e anima per gli ideali del socialismo. Venni acclamato vivamente ma allorché in lontananza si fecero vedere quattro carabinieri a cavallo gli operai dimenticarono il loro sacro entusiasmo e si squagliarono, lasciandomi là quasi solo. Quando potei di nuovo parlare a quegli operai dissi loro in faccia che erano dei vigliacchi e che non si sarebbe mai riusciti a vincere la battaglia per il trionfo del socialismo con della gente che alla vista di quattro carabinieri a cavallo scappava come lepri» (34). A convincerlo ad abbandonare i socialisti, è – dunque – la consapevolezza che le masse hanno bisogno del bagno della guerra per fare la rivoluzione (35), e che le masse stesse hanno bisogno di élites che le guidano.

Finita la guerra, l’Italia è attanagliata da una grave crisi economica e non solo, che analizzeremo infra. Il GOI, che aveva riportato Nathan alla Gran Maestranza negli anni della guerra, nel 1919 elegge a tale carica lo sconosciuto Domizio Torrigiani, mentre, morto Saverio Fera, gli “scissionisti” nel 1915 avevano elevato alla carica di Sovrano Gran Commendatore Raoul Palermi, che si muove fin da subito per partecipare attivamente alla vita politica. Mentre ambo le obbedienze maggiori continuano sulla linea del patriottismo, appoggiando l’impresa Fiumana dei legionari, convergono entrambe anche sul contrasto al montante bolscevismo, nel timore di un’espansione in Italia della Rivoluzione russa del 1917. Tuona Torrigiani: «Ma intanto il movimento operaio monta pauroso. Lo Stato par divenuto uno scenario vecchio; la sua autorità è in gran parte perduta. Noi, che concepiamo lo Stato moderno, nella sua sostanza immanente, quale suprema entità politica ed etica e quale organo necessario di realizzazioni democratiche sino alle più alte ed alle più lontane, lo vogliamo difeso, anzi restaurato, nelle funzioni sue: Resistemmo secondo le nostre forze, e resistiamo, alla minaccia di dittatura agitata dai demagoghi del proletariato, alla tirannide nuova non meno odiosa e più fosca delle antiche, che l'Ordine nostro atterrò» (36).

La Massoneria si rende conto che la borghesia italiana è una classe sclerotizzata nella difesa dei piccoli privilegi, e la ritiene incapace di opporsi al montante bolscevismo. Un “manifesto” del progetto massonico di ricostruzione dello Stato dalle macerie della guerra può rinvenirsi nella “Carta del Carnaro”, lo Statuto della Reggenza Dannunziana dell’Istria elaborata da Alceste De Ambris, massone dell’obbedienza di piazza del Gesù. Ed è in questo crogiuolo che nasce il fenomeno fascista.

Note:

1 - Luigi Pruneti - La Massoneria e l’Europa: tendenze e caratteristiche in AA.VV.. La Massoneria: La storia, gli uomini, le idee, Mondadori, Milano 2004 – pos. Kindle 5420; Aldo Alessandro Mola, “Storia della Massoneria in Italia”, Giunti, Firenze 2018 (d’ora in poi: Mola 2018), p. 26;
2 - Eugenio Di Rienzo. “Sguardi sul Settecento. Le ragioni della politica tra antico regime e rivoluzione”Guida, Napoli 2007, pos. Kindle 2230 – cfr. Giuseppe Giarrizzo, “Massoneria e illuminismo nell'Europa del Settecento”, Marsilio - Venezia, 1994;
3 - Già la Rivoluzione francese era stata presentata come opera di un complotto massonico da autori cattolici come l’abate Jacques-François Lefranc ed il gesuita AugustinBarruel, ma con ben più solidi argomenti, sia pure con evidenti forzature;
4 - art. 1 dello Statuto Albertino. Sul peso negativo che tale “vizio d’origine” ha avuto nella creazione di un’identità nazionale, cfr. Gioacchino Volpe, “XX settembre – Italia e Papato”, discorso pronunciato a Venezia il 20 settembre 1924, pubblicato in Gioacchino Volpe, Pagine risorgimentali, II, Giovanni Volpe, Roma 1967;
5 - Oreste Dito, “Massoneria, carboneria ed altre società segrete nella storia del Risorgimento italiano”, Roux e Viarengo, Torino 1905, in cui l’autore sostiene che tutte le società segrete del Risorgimento, dalla Carboneria alla Giovine Italia, agli Scamiciati, alla Sacra Fratellanza, ai Filadelfi, agli Adelfi, ai Federati, sono riconducibili alla Massoneria;
6 - Michael Baigent, Richard Leigh, “Origini e storia della massoneria. Il Tempio e la Loggia”, Newton Compton, Roma 1998, p. 235;
7 - Roberto Calasso, “La rovina di Kasch”, Adelphi, 1983, p. 339;
8 Mola 2018, p. 197;
9 - emblematico è l’inno a Satana del massone Giosuè Carducci, in altri componimenti cantore del Risorgimento. Da notare che, per accentuare il valore simbolico del monumento a Giordano Bruno, alla sua base sono incisi i volti dei “martiri del pensiero”, associando in unico contesto JanHus, JohnWycliff, Miguel Servet,Antonio Paleario, Lucilio Vannini, Pietro Ramo, Tommaso Campanella e Paolo Sarpi, aventi quale unico denominatore comune le divergenze con la Chiesa Cattolica;
10 - sul cosiddetto “Antirisorgimento”, un’acuta analisi è contenuta in Di Rienzo – “Storici smemorati, A proposito del centocinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia”, in NRS, 2010, vol. II, pp. 381-406
11 - v. infra;
12 - op. cit., pos. Kindle 3276
13 - sulpunto, cfr. Jean-Pierre Viallet, « Anatomie d'une obédience maçonnique: le Grand Orient d'Italie (1870-1890 circa) », MEFRM, 90, 1978, 1, pp. 185 ss.
14 - Mola 2018, p. 479;
15 - Mola 1992, p. 435. L’appartenenza di Diaz alla Massoneria è affermata da Maria Rygier, “La fracmaçonnerieitaliennedevant la guerre et devant le fascisme”, Gloton, Paris, 1929, pp. 58 s., ma non c’è alcun documento probante. Certo, molte logge sono intitolate al “Duca della Vittoria”, ma ciò non è decisivo per affermare l’affiliazione di Diaz;
16 - Mola 2018, p. 219
17 - Michele Terzaghi, “Fascismo e massoneria”, Edit. Storica, Milano 1950, pp. 32-33;
18 - Giovanni Artero, “Massoneria, socialismo, anticlericalismo dall’età giolittiana al fascismo”, Buccinasco, Memoriediclasse, 2009, p. 8
19 - Il resoconto del dibattito congressuale è pubblicato su L’Avanti del 28 aprile 1914
20 - L’Avanti, 25 aprile 2014;
21 - Fulvio Conti, “La Massoneria e la costruzione della nazione italiana dal Risorgimento al fascismo”, in AA.VV.. “La Massoneria: La storia, gli uomini, le idee” cit., pos. Kindle 2921-2922
22 - Mola 2018, p. 409. Questa posizione è il culmine di una travagliata stagione per la Massoneria Europea, che aveva visto il GOI convocare, il 20 settembre 1911, un congresso internazionale al termine del quale si auspicò il sorgere un organismo internazionale intermassonico, che avrebbe dovuto, nelle intenzioni, costituire una sorta di “camera arbitrale” per le controversie tra stati per prevenire qualunque conflitto. Giuseppe Leti, uno dei relatori del GOI al congresso (cui parteciparono anche i massoni turchi) pronunciò un discorso inneggiante al “cosmopolitismo” massonico, che sarebbe apparso in conflitto con la successiva posizione assunta in relazione al conflitto italo-turco – v. Marco Cuzzi – “Dal Risorgimento al Mondo Nuovo” – Mondadori, Milano 2017, pos. Kindle 857 - Marco Novarino, “La Massoneria tra cosmopolitismo pacifista e interventismo” – in “Guerra e nazioni – “Idee e movimenti nazionalistici nella Prima guerra mondiale”, Guerini e Associati, Milano 2015, p. 224;
23 - Cuzzi, op. cit., pos. Kindle 903 ss.
24 - Mola 2018, p. 410;
25 - In realtà, la questione del giuramento è stata travisata allora, come sarà travisata anche in seguito (e lo è tuttora). Il giuramento massonico riguarda la sfera privata e non confligge con altri giuramenti afferenti all’azione pubblica dell’individuo, ma la questione è estranea al tema di questo lavoro;
26 - pubblicata in «Bollettino del Rito Simbolico Italiano», n. 57, ottobre 1914;
27 - Cuzzi, op. cit., pos. Kindle 1234;
28 - Ferdinando Martini, “Diario, 1914-1918: A cura di Gabriele de Rosa”, Mondadori, 1966, p. 137, n. 31;
29 - “The Freemason's Chronicle”, voll. 51-52, p. 226;
30 - Conti, “Storia della massoneria italiana dal Risorgimento al fascismo”, Il Mulino, Bologna 2003, p. 239;
31 - il papa Benedetto XV il 1° novembre 1914 con l’enciclica Ad Beatissimi Apostolorum aveva lanciato un appello affinché tacessero le armi;
32 - Gustavo Canti, “La Massoneria italiana nell’ultima Guerra di redenzione”, Cooperativa tipografica Egeria, Roma 1923, p. 23;
33 - “Massoneria, Fascismo e Chiesa cattolica”, Laterza, Bari-Roma 1980, p. 18;
34 - Georg Zachariae, “Mussolini si confessa”, B.U.R., Milano 2004, p. 57;
35 - De Felice – “Mussolini il Rivoluzionario” Einaudi, Torino 1965, intitola il cap. 10 (pp. 288 ss):“Il mito della guerra rivoluzionaria” ;
36 - Discorso all'Assemblea costituente della massoneria italiana il 9 maggio 1920, Tip. Bodoni e Bolognesi, Roma 1920, p. 9 (ISRT, Archivio Torrigiani, s. III, fasc. 2.1.3), citato in Laura Cerasi, “Democrazia del lavoro, laicismo, patriottismo: appunti sulla formazione politica di Domizio Torrigiani”, in AA.VV., “La massoneria italiana da Giolitti a Mussolini: Il gran maestro Domizio Torrigiani”, Viella, Roma 2014, pos. Kindle 196.

(continua…)

Studio storiografico a cura della Redazione di EreticaMente

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Prospettive per un Sovranismo Europeo – Umberto Bianchi

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E’ da un po’ di tempo che, ad alterne riprese, si fa un gran parlare della nascita di un Polo “Sovranista”, di un raggruppamento, cioè, in grado di radunare attorno ad un unico soggetto politico tutte quelle forze che, bene o male, si riconoscono nelle linee guida e nei punti cardine rappresentati da Sovranità ed Identità. Se, di tale progetto, a livello nazionale, la Lega si ‘è fatta portavoce, nel ruolo di motore trainante, vi sono tutta una serie di forze che sono state invece identificate quali ideali candidate in un rapporto di futura partnership politica. In un impeto caratterizzato da un mix di nostalgie per il passato, entusiasmo ed un malinteso senso di comunanza ideologica, si è voluto identificare nei vari spezzoni della “destra” italiana (o, per lo meno, di quel che ne rimane, sic!), l’unico e privilegiato interlocutore di questo progetto. Ad oggi, però, la Lega governa il Paese assieme ai 5Stelle e non con la Destra…e questa, quanto mai obiettiva osservazione, ci dovrebbe portare ad un primo punto fermo. Non si va al governo di un Paese assieme ad un’altra forza politica, se non vi sono comuni sensibilità e comuni obiettivi di fondo. Non ci si va, al governo di un Paese, così, giusto per accontentare i mal di pancia della pubblica opinione. I matrimoni combinati, si sa, al giorno d’oggi reggono poco; prima o poi i nodi vengono al pettine e tutto viene giù rovinosamente…meglio allora sarebbe stato un finale spareggio elettorale ai “calci di rigore”, per meglio definire la situazione. Ma così non è stato e, pertanto, siamo costretti a ritenere che, contrariamente a quanto si vuole far credere, questo non è un matrimonio forzato ma, invece, il primo passo verso una nuova forma di schieramento politico a più ampio spettro, rispetto alle vecchie ed usurate dicotomie Sinistra-Destra. Questo per tutta una serie di motivi. Anzitutto, ambedue i movimenti, 5 Stelle e Lega, ognuno a modo proprio ed attraverso peculiari percorsi e momenti, sono caratterizzati da una forte carica antisistemica. Secondo poi, ambedue i movimenti, sono da sempre caratterizzati da un “trasversalismo” di fondo, ovverosia da una ricerca di consensi che esula da appartenenze ideologiche, da questi considerate sempre più obsolescenti e superate. Ad un primo sguardo di superficie, ambedue i soggetti politici presentano delle differenze che, ad ogni occasione buona, non si esita a rimarcare.

Dalla questione immigrazione, agli ultimi mal di pancia penta stellati sul decreto sicurezza, passando per altre questioni, quella che ci governa sembra un’alleanza fragile e rissosa, ma i fatti stanno un po’ diversamente. Di fronte al conclamato intento governativo di aumentare il deficit nella prossima manovra di bilancio, di fronte al reddito di cittadinanza, di fronte agli stessi provvedimenti adottati in tema di immigrazione, l’Europa, da sinistra a destra, con il concorso di tutte le istituzioni economiche sovranazionali, hanno fatto fronte comune, senza concedere sconti ed adottando un linguaggio, a livello istituzionale, spesso al limite di un vero e proprio linciaggio mediatico. Battutacce, offese, accostamenti ai Totalitarismi del Novecento, al fine di intimidire un’opinione pubblica ancora incerta e disorientata, ci fanno però percepire il diffuso stato di malessere dell’establishment nazionale ed internazionale. Il fatto è che, i primi provvedimenti di questo governo, rappresentano un vero e proprio elemento di rottura con il tram tram governativo delle varie esperienze repubblicane succedutesi in decenni di governi e governicchi. Per la prima volta, si mettono in discussione i dettami liberisti che avevano, sinora, ispirato le linee guida in materia economica, di tutti i governi della Seconda Repubblica. Per la prima volta, ancor più, si va controtendenza rispetto a quelle medesime linee guida che avevano da decenni ispirato l’Europa intera, in materia di immigrazione e di sicurezza. Fatti questi, che ci riportano ad una più vasta visione d’insieme, tutta incentrata sulla crisi e sul fallimento a livello Globale, (dimostrato dalle sempre più ricorrenti e violente crisi finanziarie che, negli ultimi vent’anni hanno scosso i mercati, dic!) dell’economia liberal-liberista e del suo correlato ideologico progressista.

L’aspirazione ad un mondo uniformato e standardizzato secondo i dettami di un “politically correct”, tutto incentrato sulla totale eliminazione di qualunque principio di Sovranità ed Identità etnica, economica, politica e giuridica, all’insegna di uno Stato, unicamente concepito quale burocratica ed ottusa entità, nel ruolo di inerte esecutore dei desiderata dei Poteri Forti, sta, ancor più, clamorosamente fallendo. Le proteste dei “gilet gialli” francesi e belgi, al pari dei nuovi equilibri politici nostrani, costituiscono una tra le più lampanti dimostrazioni di quanto, sin qui, asserito. Per questo, tornando alle cose di casa nostra, la sola prospettiva di costituire un fronte “identitario”, senza uno dei due protagonisti ad oggi al governo (in questo caso, i Cinque Stelle…),costituirebbe un notevole passo indietro, facendo ripiombare la politica nostrana nel vicolo cieco del contrasto Destra-Sinistra in cui si è trascinato il nostro paese negli ultimi venti anni e che, come risultato finale, ci ha portato al governo Monti ed a tutta una sequela di esecutivi non eletti, con tutto il contorno delle varie Leggi Fornero, fiscalità a go-go e compagnia bella, a causa delle quali il popolo italiano chiede oggi un decisivo cambio di rotta….La vecchia Destra italiota, al pari della sua omologa paredra di Sinistra, hanno avuto dall’iniio della Seconda Repubblica, venti e passa anni di occasioni di governo per dimostrare cosa sapessero fare. Con i risultati che stanno agli occhi di tutti, senza se e senza ma.

Ma, perché quel populismo “trasversale”, nato a fine anni ’80 in Italia con la Lega, abbia successo e riesca a traghettare il nostro Paese fuori dall’impasse, verso un decisivo cambiamento di rotta. Perché quel laboratorio per il populismo europeo ad oggi rappresentato dall’Italia, non si trasformi nel laboratorio di un nuovo, squallido ed improduttivo qualunquismo, è necessario che si verifichi un passaggio sinora temuto, rifiutato, evitato per paura di cozzare contro le colonne d’Ercole del Pensiero Occidentale, tuttora rappresentate dalla dicotomia Destra-Sinistra. La sinergia e la fusione negli intenti e nell’azione tra il lato più progressista di quel trasversalismo, rappresentato dal Movimento 5 Stelle e quello più conservatore, rappresentato dalla Lega, rappresenta ad oggi l’unica possibilità che il populismo italiano ed europeo sopravviva a sé stesso, trasformandosi in un movimento duraturo e non rimanendo una momentanea ed effimera espressione del mal di pancia delle masse… E questo perché, oggi più che mai, la Destra ha bisogno della Sinistra e viceversa, per fondersi ed addivenire a quella nuova sintesi di pensiero ed azione, in grado di trascinare l’Europa e l’Occidente intero fuori dalle secche di una crisi senza fine, generata da un modello di sviluppo, i cui evidenti fallimenti, sono oramai agli occhi di tutti.

UMBERTO BIANCHI

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