Quantcast
Channel: Ereticamente, Autore presso EreticaMente
Viewing all 2266 articles
Browse latest View live

Elogio della democrazia – Franco Severini

$
0
0

Secondo alcuni intellettuali la democrazia sarebbe la peggiore forma di governo ma si racconta che, in risposta a questa considerazione, Winston Churchill ribattesse che, comunque, non conosceva un’altra forma di governo che fosse migliore.

Pare, però, che in altra occasione, egli si sia pronunciato in tal modo : “La democrazia funziona quando a decidere siamo in due e l’altro è malato”.

E’ possibile che in un momento di democratico sconforto, il grande statista si sia abbandonato a qualche giudizio non certamente protocollare.

Viene diffusamente e giustamente proclamato che la democrazia sia la dimensione sociale nella quale tutti sono considerati uguali. Questo postulato ha la funzione di risolvere le problematiche più complesse all’interno del cosiddetto contratto sociale.

Generalmente, i postulati reggono le scienze matematiche ma ciò non significa che non si possano operare delle trasposizioni.

Ad esempio, un cumulo di patate è costituito da elementi uguali che possono essere sommati. Se al cumulo di patate si aggiungono cipolle, melanzane, zucche e carote, allora, in matematica, la somma non è più possibile.

Infatti gli elementi che costituiscono un insieme devono essere omogenei. Le patate non sono uguali alle melanzane o alle cipolle. Tuttavia per renderle uguali, basta fare una operazione di insiemistica. Si costituisce un insieme più grande denominato “Ortaggi” nel quale, assieme alle patate, possono tranquillamente confluire anche le carote, le cipolle e le melanzane. A questo punto le differenze scompaiono. Sono tutti ortaggi.

Quando il popolo viene chiamato alle urne, votano gli intelligenti e gli imbecilli, gli istruiti e gli analfabeti, i colti e gli ignoranti, i premi Nobel e gli idioti. Anche in tal caso la somma non sarebbe possibile a causa della disomogeneità e della estrema differenziazione degli elementi. Ma questo problema viene risolto facendo confluire tutti questi elementi in un insieme più grande che viene denominato “Elettorato”. In questo insieme tutti sono elettori e, quindi, sono tutti uguali.

Per questo motivo la democrazia rappresenta il sommo bene. In democrazia deve regnare indisturbata la totale e completa uguaglianza.

Tuttavia realizzazione della democratizzazione del popolo e della completa uguaglianza deve attraversare vari livelli risolutivi.

Il primo livello è rappresentato dalla esigenza impellente di trasformare la lingua come strumento di comunicazione. Essa deve essere semplice, chiara ed elementare per cui è meglio se le proposizioni non contengano delle subordinate in quanto queste potrebbero rendere più difficile la comprensione. Nello stesso tempo, è sempre auspicabile che le proposizioni non presentino articolazioni ed elaborazioni complesse e terminologie troppo accurate perché ciò allontanerebbe la gente dalla comunicazione.

Il tema di italiano che gli studenti sono costretti a svolgere durante gli esami rappresenta, secondo alcuni, una cancrena che dovrebbe essere eliminata al più presto. Bisogna tenere sempre presente, dunque, che il popolo non è un circolo di intellettuali o di scienziati. Il popolo è rappresentato, in misura rilevante, da gente che lavora e poi trascorre il tempo libero frequentando i bar o le discoteche, guardando le partite di calcio oppure le fiction di RAI-1 che sono delle vere e proprie opere d’arte che rappresentano degnamente una società che vive in una felice democrazia.

C’è stato un momento in cui, in conseguenza delle varie direttive ministeriali, le generazioni che affollavano le scuole del primo quinquennio del 2000, venivano informate che esisteva una nuova trinità, la trinità delle tre “i”: inglese, impresa, informatica. Poi, purtroppo, è successo che l’inglese non lo ha imparato quasi nessuno, l’impresa è stata sfortunata perché i fondi strutturali hanno preso altre vie e, per quanto riguarda l’informatica, stiamo ancora aspettando. La teoria delle tre “i” fu, pertanto,un tentativo fallito di egalitarismo culturale. Ma non bisogna stupirsi. Ciò può succedere nelle migliori democrazie.

Il secondo livello risolutivo è rappresentato dalla esigenza di trovare un comune denominatore che riduca al minimo le differenze individuali. Infatti, è proprio questo il compito fondamentale della democrazia. Bisogna assolutamente evitare che emergano delle caratteristiche umane che non siano comuni a tutti. Ora, la base comune a tutti gli uomini che, nello stesso tempo, manifesta differenze meno significative o, comunque, più trascurabili è sicuramente quella emozionale. Per questo motivo, il messaggio comunicato utilizzando al massimo il potenziale emotivo, risulta essere il più comprensibile a tutti, non solo, ma determina una partecipazione estesa e capillare che è appunto il fondamento e il compito della democrazia.

Questa è la ragione per la quale nelle comunicazioni e nei dibattiti politici non viene mai richiesta l’osservanza della logica del principio di non contraddizione. Infatti, se venisse utilizzato tale principio, la comprensione da parte di chi ascolta diventerebbe disuguale e differenziante e, quindi, la democrazia potrebbe soffrirne.

Con il terzo livello, vengono avviate le soluzioni che riguardano la struttura culturale complessiva del popolo. La cultura democratica deve essere impostata sul rinnovamento. La vecchia cultura stantia, obsoleta e polverosa deve essere sostituita con una cultura moderna adeguata ai tempi, aperta alle masse e priva di significati che necessitano di faticose e complesse elaborazioni.

E’ necessario tener conto degli insegnamenti degli uomini saggi come, ad esempio, del discorso di un democratico ministro del tesoro durante il quale ha concluso che con la cultura non si mangia ma bisogna rifarsi anche a quel messaggio evangelico secondo il quale i poveri di spirito sono beati perché, in tal caso, a questi appartiene la democrazia. Comunque, nella cultura democratica, i concetti, i significati, le inferenze e gli enunciati devono essere rapidamente comprensibili e facilmente fruibili. In questa azione di svecchiamento, il simbolo iconico, l’immagine, l’illustrazione riescono a comunicare più di quanto possa fare un complicato discorso. Perché la comprensione dei significati, delle cose e degli eventi raggiunga strati sempre più vasti della popolazione, i giornali, le riviste e i libri devono utilizzare il maggior numero di immagini possibili. L’esempio che può fungere da modello è rappresentato, ad esempio, dalla rivista “Grand Hotel” che riesce, per mezzo di discorsi semplici e significative immagini, a conquistare milioni di persone, incrementando non solo la circolazione del denaro ma dimostrando, nello stesso tempo, quale sia il suo enorme potenziale comunicativo. Non a caso, infatti, la televisione è quella che raccoglie un pubblico più vasto e un maggior numero di consensi rispetto ad un giornale e, specialmente, rispetto ad un libro. Con questo, i sostenitori della democrazia non vogliono concludere che i libri non abbiano la loro importante funzione. Tuttavia mettono in evidenza che “Grand Hotel”, “L’uomo ragno”, Affari tuoi” la “Divina Commedia” o la “Teoria della relatività” sono tutte idee che possiedono democraticamente pari dignità e, pertanto, sono tutte uguali come uguali sono quelli che le hanno prodotte.

Per questo motivo, l’uomo che legge può essere sostituito tranquillamente con l’uomo che guarda. D’altra parte, il compendio dell’universo e l’enciclopedia dei saperi sono già tutti contenuti nelle trasmissioni televisive. E tanto basta.

Nel quarto livello, infine, il regime democratico si preoccupa di rendere più semplici concetti, significati e funzioni della politica, sfrondandoli da obsoleti luoghi comuni che ne inficiano la comprensione e confutando, nel frattempo, anche le obiezioni.
In primo luogo, si occupa di scegliere gli eventi più importanti da comunicare al popolo. Prendendo come modello RAI-1 che ha dimostrato di essere la rete televisiva antesignana della moderna comunicazione politica, si è deciso di evitare di rendere pubbliche le notizie che possono turbare l’animo dei cittadini. All’apertura del telegiornale, improntando tutto alla semplificazione democratica, è sempre meglio non parlare di crisi e recessioni, non solo perché i ristoranti sono sempre pieni, ma anche perché risulta più funzionale parlare dei pirati della strada o del rapporto di coppia, argomenti questi che tengono incollato il pubblico allo schermo televisivo, impedendo che esso venga frastornato da cattive notizie.

E’ necessario, soprattutto, diffondere in modo intensivo ed estensivo che la democrazia si batte strenuamente contro la dittatura che rappresenta il peggiore dei mali che possa affliggere una società. La dittatura è la fine di ogni libertà e soprattutto essa si macchia del sacrilego delitto di reprimere la libertà di stampa e, quindi, la libera circolazione delle idee. Quando un capo di governo impone ad un giornalista di scrivere un articolo secondo quanto gli viene suggerito e ordinato, viene compiuto uno dei più orrendi misfatti contro l’umanità perché in quel momento impone il devastante potere dell’uomo sull’uomo.

Qualcuno obietta che anche le aziende proprietarie dei giornali, specialmente quando si avvicinano le elezioni, chiedono ai propri giornalisti, di scrivere un articolo in un determinato modo e insistono, facendo trapelare, al limite, anche la probabilità di un licenziamento.

Ma c’è una democratica differenza.

In tal caso, non si tratta di una imposizione ma di un suggerimento autorevole da parte del capo dell’azienda ad un suo dipendente al quale, oltretutto, ha generosamente fornito un posto di lavoro. L’altra differenza, ancora più significativa, consiste nel fatto che, mentre l’imposizione operata dal capo di un governo totalitario, è monocratica e, quindi, espressione di un regime assolutistico e dispotico, l’azione del capo dell’azienda è espressione di una ideologia pluralista in quanto le aziende sono tante e partecipano attivamente a difendere la democrazia.

Certamente, il giornalista ostinato a scrivere sempre secondo le proprie vedute, senza ascoltare preziosi suggerimenti, corre il rischio di perdere il posto di lavoro. Ma anche questo fa parte del gioco democratico.

Si obietta ancora che, durante la campagna elettorale, alcune persone che aderiscono ai vari partiti, bussano alle porte delle case degli elettori per chiedere il voto. Questo sarebbe un pessimo modo di condurre il gioco democratico in quanto esso potrebbe assumere le forme di un plagio, di un compromesso o di un ricatto.

In realtà, le cose vanno viste da un altro angolo di visuale. Quelle persone che girano faticosamente, anche di notte, sono da paragonarsi ai frati domenicani che cercano incessantemente di fare in modo che gli uomini trovino la via della verità e, soprattutto, cercano di recuperare le pecorelle smarrite. Dunque, a maggior ragione, questo operare fa anche dignitosamente parte della deontologia democratica. E può bastare.

Si racconta che il mitico Procuste misurasse accuratamente la statura dei viandanti ai quali concedeva l’uso di un suo letto. Egli accorciava quelli che erano troppo alti e allungava quelli che erano troppo bassi in modo che essi fossero amabilmente tutti della stessa statura. Questo è uno dei più antichi e notevoli esempi di democratizzazione che tendeva a sopprimere fastidiose quanto pericolose disuguaglianze. Questa funzione procustiana caratterizza sommamente la nostra democrazia che deve essere rispettata e venerata con tutta la considerazione e la stima che essa merita.

L'articolo Elogio della democrazia – Franco Severini proviene da EreticaMente.


Disciplina iniziatica ed Arte Metallica – Giovanni Ranella

$
0
0

I motivi iniziatici, variamente contenuti nelle grandi narrazioni sacre dell’umanità, come la Bhagavad-Gita, le Argonautiche, l’Odissea o l’Iliade, l’Eneide, l’Asino d’oro di Apuleio, così come negli stessi Romanzi del Graal o la Divina Commedia, sono articolati attraverso una narrazione puramente allegorica (sublime arte del racconto tradizionale) che allude, nella sistemazione simbolica dei diversi quadri narrativi, alle diverse fasi da realizzare per l’edificazione dell’Opera interiore. Ogni viaggio o vicissitudine narrati in queste storie, riferiscono dell’ineludibile attraversamento dell’animo di luoghi e contrade ignote dense di pericoli mortali, che vanno superati per conseguire l'effettiva liberazione: la liberazione in cosa coincide? alla definitiva liberazione da sé.

L’idea di disciplina, è onnipresente in tutti questi poemi significando la subordinazione dell’animo alla inesausta ricerca della sua purificazione, per la quale è sviante anche il desiderio stesso di realizzazione spirituale, essendo tale aspirazione la piu' raffinata proiezione illusoria concepita dall’ego menzognero e malato. L’esercizio estremo e continuo, dovra' riguardare unicamente l’ottenimento del miglior ordine emotivo congiunto al difficile risveglio della compassione, niente altro. Il progressivo aggiogamento dei sensi fisici ordinari, (attraverso i quali è necessario poter accedere al senso dello straordinario) è indispensabile per la comprensione del nostro significato ultimo, diretto verso un’idea suprema e, di fatto, inesprimibile, che prevede il superamento definitivo della caduca materia. L’archetipo della morte-rigenerazione sacramentale, che trasforma l’identità degli iniziati in indicibili estensioni sensibili della preesistente equivalenza luminosa dell’essere, costituiscono il motivo superiore giustificante la nostra transitoria apparizione terrena.
A tal proposito notò giustamente Yukio Mishima:

La bellezza della carne, la bellezza spirituale, tutto ciò che concerne la bellezza nasce solo dall'ignoranza e dalle tenebre” (La decomposizione dell'angelo).

 

Gnosi ferrigna e qualità eroica

“…Governa dunque dolcemente con eguaglianza e proporzione, il tuo orgoglio e le altezzose nature, affinché tu non favorisca l'uno più che l'altro, poiché, in questo caso, loro che sono naturalmente nemici, cresceranno furiosi contro di te, animati dalla gelosia, e disseccheranno irascibili, e ti faranno sospirare per molto tempo dopo.

Oltre a ciò, tu dovrai mantenerli perpetuamente a questo calore temperato, il che significa, notte e giorno, fino al tempo in cui l'Inverno, il tempo della mistura degli elementi, sarà passato; poiché loro faranno la loro pace, e uniranno le mani per essere riscaldati insieme, ma se dovessero queste nature trovarsi anche una sola mezz'ora senza fuoco, diverrebbero per sempre irreconciliabili. Vedi perciò la ragione per cui è stato detto nel Libro dei settanta precetti: Guarda che il loro calore continui infaticabilmente senza mai diminuire, e che nessuno dei loro giorni sia dimenticato” (Nicolas Flamel)

L’idea iniziatica, nel suo esplicitarsi lungo il corso delle differenti manifestazioni storiche, che hanno conferito sviluppi talvolta prodigiosi (seppur discordanti) alla sua applicazione pratica, (sublimata mediante l’architettura, l’arte e la poesia) anche oggi potrebbe essere ricondotta ai principi della sua essenzialità trasmutativa, questo, nonostante l’epoca attuale dimostri con ogni evidenza di contrastare qualsiasi principio puramente iniziatico, congiunto al senso della trasformazione spirituale della persona che, attirata da una eccezionale forza persuasiva subliminale, rimane sottomessa al più fenomenale sviamento del senso di sé come mai prima d’ora ha avuto modo di sperimentare.

L’allegoria ermetica che salda i metalli a determinate proprietà sottili dell’individuo, vede l’Antimonio come emblema dell’Anima Celeste: entità sottile giunta all’apice della trasformazione, della purezza e della forza attiva, che sono proprie alla potenza increata dello Spirito. Si tratta, in buona sostanza, del principio che innalza l’Iniziato ad un dominio d’irriferibile soavità, la cui essenza è completamente sciolta da ogni legame terreno. Gli ermetisti dichiaravano di usare il loro Antimonio per lavare l’Oro filosofico e purificarlo da tutte le scorie. A livello grafico nell’ideogramma dell’Antimonio riconosciamo il cerchio – simbolo dell’Unità – e la croce, che posta al di sopra di esso, indica un lavoro compiuto e una perfezione definitivamente acquisita - peraltro, a parere di una determinata esegetica, presumibilmente influenzata dai capovolgimenti valoriali operati dalle forze della contraffazione iniziatica, lo stesso simbolo costituirebbe anche la sintesi di una grave distorsione, di cui ora qui non interessa approfondirne la disamina.

L’alchimista Filalete scrisse il nostro acciaio è la chiave vera dell’Opera.

L’allegoria dei metalli, congiunti agli aspetti di determinate qualità interiori in noi latenti, renderanno ogni sincero praticante il metaforico fabbro del suo incandescente nucleo emotivo. Nel Dizionario di Alchimia e Chimica antiquaria l’Acciaio dei Saggi è spiegato come una lega di Antimonio e Ferro, rispettivi emblemi dell’Anima intellettuale e del principio guerriero-virile, la dove per Vir (virilità) va inteso l’eminente principio ispirativo congiunto alla compassione, come sovrani unici dell’agire autenticamente cosciente.

L’Acciaio, andrebbe assimilato alla costanza assidua e tenace di chi persegue il proprio riscatto dall’assoggettamento alla materia mediante una pura Determinazione, che avviluppa, come mantello ardente, l’Iniziato al momento della purificazione: il Fuoco Filosofico ben temperato da una perfetta Volontà Mistica. In questo senso l’Acciaio (secondo l’esegetica di Oswald Wirth) metterebbe in relazione costruttiva l’identità dell’operante alla zona maggiormente limpida dell’atmosfera eterica, che è ricettacolo delle virtù superiori ed inferiori, secondo l’adagio che presenta una significativa reminiscenza gnostica: La Terra è nera e dentro di sé, nelle sue viscere, ha luce = Luce immateriale preesistente alla luminosità astrale fisica, la quale, in buona sostanza, ne costituisce la sviante contraffazione.

Pervenire al senso ineffabile della prima, invisibile luminosità pre-celeste, costituisce il fondamento intuitivo necessario per dare avvio ad un concreto lavoro su di sé. Fulcanelli annoterà:

L'oggetto vile e disprezzato dagli ignoranti, è il primitivo soggetto dei saggi, l'unico dispensatore dell'acqua celeste, nostro primo mercurio e grande Alkaest, il 'dissolvente universale' “.

Il simbolismo ermetico riferisce del solfureo drago nero che occulta al suo interno la bianca principessa (quale emblema dell'anima) che dovrà essere liberata dalla sua tetra prigionia. Le antiche favole riferiscono di prodi cavalieri risoluti sconfiggere questo dannato mostro, restituendo allo splendore l’incantevole principessa. Il cavaliere (simboleggiato dallo zolfo) assume compositi aspetti allegorici, per i quali è presentato dalla mitologia come Ares/Marte, Cadmo, Perseo, Ercole, o nelle leggende cristiane nelle vesti di Longino o San Giorgio, a ogni modo, tutti costoro sono coperti da corazza e armati di spada di acciaio per uccidere il drago e liberare la Vergine Bianca (benché la funzione della spada possa anche essere assolta dalla lancia). Vale la pena di notare che l’iconografia maggiormente rigorosa, quando ritrae l’emblema dell’archetipo spirituale nell’atto di sconfiggere il male, rappresenta il vincitore nell’atto di tenere la mano che brandisce l’arma sempre sollevata sopra la testa. Questo perché l’acciaio di cui è formata la spada o la punta della lancia simboleggia la Vir sprituale, la quale è superiore all’identità ordinaria che risiede nella mente: a significare che lo spirito travalica sempre la mente. In questo frangente, il potere evocativo è tutto, ed è estremamente arduo saper mantenere l’equilibrio interiore. Gli ostacoli più difficili sono costituiti dall’avidità del corpo e della mente. Lo slancio vitalistico è fatalmente attratto dall’avidità egoica e, in questo senso, è la vita che ci possiede e non il contrario.

Nell’ottica di una sopravvivenza solo egoistica, dunque massimamente inconsapevole, dire vita significa affermare un principio di distorsione continua cui è impossibile porre rimedio. In ragione di ciò, anche una circostanza apparentemente irrilevante, quale può essere l’esercizio fisico, deve necessariamente disciplinarsi per trasformare l’ego. Si tratta di evocare in sé un continuo appello interiore alla radianza originaria che giace nelle segrete dell’io, incastonato nella prigione terrena del corpo fisico; di fatto, occorre prendere piena consapevolezza che l’esistenza ci coinvolge in una dura lotta interiore costante.

Di questi tempi, sempre più irraggiati da infide persuasioni subliminali, è fondamentale prendere coscienza che quaggiù, finchè abitiamo l'esistenza terrena, fino all'ultimo occorre temprare l'animo mediante una continua disciplina dell'istante, apparentemente insignificante; in quanto nulla potremo travasare al di là del Gran Salto, se non una irriferibile intima determinazione ravvolta in un flebile barlume intuitivo di inesplicabile potenza rivelativa. Questa, dopotutto, sarebbe l'essenza dei Sacri Misteri.

Giovanni Ranella

L'articolo Disciplina iniziatica ed Arte Metallica – Giovanni Ranella proviene da EreticaMente.

OLTRE IL CAPITALISMO: verso l’alternativa della green economy – Alessandra Iacono

$
0
0

« In un mondo dominato dal mercato capitalistico
e dal suo credo utilitaristico,
che pone alla radice del comportamento umano
lo spirito di competizione e l’interesse personale,
la sola idea che gli esseri umani possano essere attratti
da un modello d’impresa cooperativo
basato sulla collaborazione,
l’equità e la sostenibilità
appare fatalmente irrealistica »

Terzo ed ultimo capitolo della trilogia firmata da Riccardo Tennenini ed edita da Ritter, Oltre il capitalismo conclude – momentaneamente - il percorso del giovane autore, appassionato di filosofia e grande osservatore – piuttosto critico - del mondo moderno. Questo lavoro segue, logicamente oltre che cronologicamente, il solco “tradizionale” tracciato dai precedenti episodi, Pan è morto e Europa Nostra. Non fatevi ingannare dal titolo: non oltre ma contro il capitalismo si esprime Tennenini. Una critica radicale, a tratti un'invettiva, sì, ma non fine a se stessa: la ricerca si conclude non in aporia ma con un (potenziale) lieto fine. Dunque il nostro si evolve sul piano formale, nella propria indagine filosofico-politica e nell'elaborazione scritta, ma mantiene intatta o quasi la sua caratteristica più profonda, la sua essenza: l'ottimismo, la speranza di una società migliore, probabilmente dettata dalla comprensione della necessità di un'inversione di rotta, altrimenti... kaputt.

Degna di nota la prefazione della dottoressa Cristina Coccia - biologa e nutrizionista, prestata anche alla scrittura, in quanto autrice di due saggi, Ortogenetica e Un futuro senza avvenire?, entrambi pubblicati da Edizioni di Ar - che introduce alcuni dei punti salienti sviluppati poi dall'autore nel corso dell'opera: «la nostra deve essere la generazione della forza e della decisione, l’intera nazione va rifondata sui principî di sangue e suolo». Difesa dei confini, salvaguardia del territorio, sostenibilità, corretta alimentazione, esaltazione delle differenze, sia in senso naturale (ed individuale) che sociale (e dell'intera comunità), e sopra tutto educazione delle nuove generazioni, la quale «deve essere affrontata - necessariamente al di fuori del sistema scolastico pubblico - da maestri in grado di fissare in maniera inequivocabile le leggi della selezione naturale e dell’ortogenetica - al fine di preservare lo stato di salute del nostro popolo - e del rispetto della comunità e dell’ambiente al quale i nostri gruppi umani appartengono; educatori rispettosi delle doti innate e delle predisposizioni di ogni bambino. Ognuno avrà il posto e la funzione che il destino gli ha assegnato al momento della nascita. Solo in questo modo sarà possibile ricostituire, con individui sani e forti, un popolo che abbia ancora un destino di prosperità, che possa decidere il proprio avvenire sottraendosi alle imposizioni esterne e conservando inalterati, per le future generazioni, i principî sui quali si fonda la continuità etnica dei popoli europei».

Sembra prenderla alla larga Tennenini, affidando al mito di Sisifo - perennemente impegnato a spingere un masso dalla base alla cima di un monte e costretto a ricominciare ogni volta che il masso gli rotola nuovamente giù - la rappresentazione della modernità nel senso più deteriore possibile, indicato dall'autore ora con l'espressione società liquida (Bauman), ora con società-specchio, ora con società dello spettacolo (Debord), tutte sfumature di una società corrotta, basata sull'immagine; e ad un altro mito greco, quello di Narciso, viene affidata la spiegazione dei suoi effetti nefasti. L'immagine, dunque, alla base di una infausta catena di (s)montaggio (dell'individuo): pubblicità, mass media, social network, consumismo sfrenato. “Produci, consuma, crepa!” cantava Ferretti.  Per battezzare il prodotto umano tipico di questa società, l'autore sceglie l'azzeccata definizione coniata da Ortega y Gasset: uomo-massa. Caricatura dell'Uomo (inteso nel suo miglior sé), egli (esso?) è vittima e insieme artefice del proprio conformismo. Individualista, egoista, edonista, narcisista, materialista. All'alienazione da lavoro aggiunge quella da eccesso di tecnologia: il mondo virtuale si sovrappone a quello reale, e si confonde con esso, persino le attività più fisiche, più sanguigne, come lo sport e il sesso, smettono di essere delle vere attività e si convertono prima immagini, in spettacolo, poi in “app” (applicazioni per dispositivi elettronici).

La sapienza greca, con Socrate ed Epicuro, ci aiuta a individuare il nocciolo della questione: l'uomo-massa non è cattivo, è solo ignorante. Ignora cosa sia la felicità (“eudaimonia”), la perde di vista, la confonde con altre cose: «Dunque in queste pagine proveremo a delineare un modello di vita che faccia dell’eudaimonia il suo unico scopo, eudaimonia quale virtù che disprezza la comodità superflua e ogni agio materiale effimero, tale da contrastare le sue illusioni, con la sua edonistica ricerca della ricchezza economica, del potere politico, della fama sociale, del piacere sessuale. Persegue l’eudaimonia solo chi conduce un’esistenza in accordo con la natura, selvaggia e tribale, superando le convenzioni sociali e progressiste, alla ricerca di se stessi, celebrando l’istinto e quella volontà di potenza che appartiene solo a pochi, i quali sono in grado di imporsi, in maniera naturale, come guida e protezione sui più deboli».

Non ci distraggano citazioni e rimandi ai pesi massimi del pensiero occidentale – onnipresenti Platone e Jünger, il nemico è riconoscibile e riconosciuto: il capitalismo sarebbe, heideggerianamente, Verfallen, una “deiezione”; ovvero «il vettore fondamentale della modernità occidentale dettato dall’oblio dell’essere [...] Per capitalismo si intenda non solo il sistema politico-filosofico smithiano, ma più ampiamente, un sistema che crea enormi disuguaglianze economiche, una (cattiva) distribuzione della ricchezza mondiale tale che la vede concentrata quasi interamente nelle mani di una piccola percentuale di popolazione globale […] All’uomo comune resta un modello di vita meccanicistico, come quello di Sisifo, spogliato di qualunque valore, con l’unico rilievo di ciò che produce e consuma: un’umanità sterile e alienata, i cui membri sono (s)componibili e intercambiabili come i pezzi di una macchina. Il capitalismo si appropria della nostra libertà rivendendocela sotto forma di merce».

Ma il mostro non è sbucato fuori dal nulla, come un moderno Minotauro è concepimento di un connubio contro natura, tra borghesia, rivoluzione industriale e urbanizzazione: «Nell’ambiente urbano vengono stravolte le caratteristiche fondamentali di una vita sana, a contatto con la natura, dunque esso è il suo esatto contrario: artificiale, industriale e urbano. Tra le anomalie presenti nella società liquida possiamo annoverare la sovrappopolazione del pianeta, l’isolamento dell’uomo dalla natura, la globalizzazione e il crollo delle comunità locali naturali di piccole dimensioni». Il corrispettivo antropologico di questo scenario stravolto, che non conserva più niente di naturale, non può che essere un'umanità anch'essa stravolta, caratterizzata dalla totale assenza di spiritualità – in occidente sopravvivono sulla carta le religioni abramitiche, ma in una forma blanda, svuotata di ogni sacralità; dalla confusione dei ruoli naturali e sociali: «donne anoressiche o bulimiche con tratti mascolini, uomini effeminati, anziane che si atteggiano ad adolescenti e bambine che si comportano da adulte»; dalla conseguente esasperazione del politicamente corretto a tutti i costi: «l’industria della moda necessita di nuovi modelli che abbiano “difetti”, come persone con handicap, in sovrappeso, anoressiche, asessuati, senza età […] l’individuo libertino [...] vuole andare oltre, apponendosi una seconda maschera con la chirurgia estetica, spingendosi fino a decidere il sesso o la specie a cui appartenere […] La moda tende a rendere simile l’aspetto di chi sta in basso e di chi sta in alto. È chiaro quindi perché in Europa l’affermazione della moda sia connessa con l’ascesa della borghesia». Sotto l'egida di una tipologia politica aberrante e sacrilega, una democrazia fortemente livellante, che propugna l'uguaglianza nella forma, oltre che nella sostanza.

Con l'esortazione al rifiuto di questo modello, malato, l'autore inizia a delineare una possibile terapia: «Con impudenza e fierezza occorre denigrare e disprezzare la società liquida, le sue regole, i suoi costumi, assunti come “normali” dai più, per liberarci finalmente da una volontaria e logorante schiavitù, dall’ingrato servizio dei potenti [...] immaginiamo una comunità composta solo dai migliori europei, intelligenti, forti e sani; uomini e donne nobili, che vivano e lavorino insieme in armonia e unità. Questo è il futuro che vedo». Eccoli i punti chiave: l'ecologismo e il ritorno piccoli agglomerati umani. Occorre quindi innanzi tutto dotare queste comunità di un nuovo habitat, rurale, basato sulla green economy; di un sistema politico-organizzativo arcaico, tripartito in capo, membri e associati; di una sua costituzione, ancora piuttosto rudimentale, ma con buone potenzialità da sviluppare: «L’eco-clan ha regole precise, ogni abitante deve condividerne i principi ispiratori: agricoltura organica, ruralismo, ecologismo, uso di energie rinnovabili, autarchia alimentare basata sul vegetarianesimo, rimedi olistici, educazione pedagogica, selettività e religiosità naturale»; di una valuta alternativa e istituti di credito no profit: «Il risultato è che al valore di scambio nel mercato si sta gradualmente sostituendo il valore di condivisione […] Questo tipo di economia reale, dove avviene un crowdfounding del capitale, la socializzazione della moneta e l’espansione dell’imprenditoria locale in opposizione a quella finanziaria alle affollatissime metropoli e alla caotiche aree suburbane l’europeo può costruirsi un nuovo futuro negli eco-clan di dimensioni più ristrette, piccoli comuni con pochi abitanti immersi nel verde della natura».

Nella declinazione delle varie “proposte” per la fondazione dell'eco-clan, svolge un ruolo fondamentale l'elemento antropico e antropologico: «i membri scelti per iniziare a popolare la nostra comunità devono essere in età fertile, perfettamente sani sotto ogni punto di vista e con l’intenzione precisa di generare, di modo che di anno in anno il numero degli abitanti sia sempre maggiore […] clan, letteralmente ‘discendenza’ o ‘famiglia’, nelle scienze etnoantropologiche identifica specificamente una comunità rurale di famiglie imparentate tra loro, dunque omogenee per ghénos ed ètnos, che si stanziano in un determinato territorio, scegliendo di vivere in un ambiente naturale alternativo all’umanità cittadina». Il principio ispiratore - ben espresso nella proposta VII - è dunque che gli uomini debbano adattarsi all'ambiente - non viceversa - «sino ad una situazione di equilibrio panteistico tra ambiente e popolazione che abita all’interno dell’eco-clan», cioè l’opposto di ciò che accade nella società-specchio: «Questo tipo umano, potremmo dire “cresciuto in cattività” nella società specchio, una volta lasciato libero di conoscere se stesso ed esprimere al massimo le sue facoltà, mostrerà una “volontà di potenza” e un impulso vitalistico caratterizzato da misura, ordine ed equilibrio. Egli sarà l’unico capace di andare oltre il capitalismo, rimanendo fedele alla natura, fonte dei suoi valori, riuscendo a operare una transvalutazione di quei valori capitalistici che fanno riferimento unicamente ad un mondo fittizio».

In altre parole, l’eco-clan immaginato da Tennenini è una piccola comunità autosufficiente e autarchica, posta ai margini se non proprio al di fuori dell’economia globale capitalista, costituita da un'aristocrazia terriera rurale, che nel perseguimento di uno scopo comune si avvale di socialismo contadino e agricoltura organica; l’ereditarietà costituisce l’anima di questo clan, conferendo (o diremmo meglio “restituendo”) ai suoi membri caratteristiche innate, “archetipiche”: «La comunità funzionerà anche da corporazione alimentare, regolamentando i prezzi, avrà una propria microeconomia, grazie alla quale organizzerà, organicamente e indipendentemente, secondo criteri corporativi, l’intera produzione agricola, l’allevamento, la selvicoltura e il riciclo dei rifiuti e avrà come primo scopo soddisfare i primari bisogni di sopravvivenza degli abitanti. Con la socializzazione della produzione, alla fine chiunque nell’eco-clan potrà accedere ai mezzi di produzione [...] Agendo come comunità senza scopo di lucro […] e dunque estraneo alle logiche di mercato, l' eco-clan potrà offrire ai propri membri prodotti e servizi a costi marginali».

L'autore non sembra immaginare una comunità primitiva, bacchettona e cieca nel rifiuto assoluto di qualunque prodotto della tecnica; semplicemente essa accoglie un tipo di techne non esasperato, utile sì, ma non dannoso. La proposta IV della trattazione è dedicata appunto alle energie rinnovabili (solare, eolica, idroelettrica) e al riutilizzo e riciclo dei rifiuti, inoltre «la costruzione delle strutture fisiche dell’eco-clan avviene secondo la bio-architettura, che si ispira alla sostenibilità ambientale». La parola d'ordine è quindi “sostenibilità”, e ad essa viene dedicata la proposta II, in cui viene raccomandata la pratica dell'ortoterapia e del giardinaggio per tutti i membri, fin da bambini, oltre che per gli ovvi benefici psicofisici ad essa associati, come preludio all'impiego prediletto dagli adulti nell'eco-clan, ovvero quello nel settore primario, su cui si basa l'economia del clan, un'agricoltura tipo biologico, altrimenti detta agricoltura organica, ecologica, tradizionale, in opposizione a quella moderna.

Prevedibilmente, nell'eco-clan viene adottato un regime alimentare vegetariano, a cui l'autore dedica la proposta III; anche qui, il discrimine è tra tipo “rurale” e “urbano”: escluse a priori le tendenze alimentari borghesi, progressiste e modaiole, si opta per un vegetarianesimo “tradizionale”, dettato in primis da motivi di natura filosofico-spirituale, essendo l'autore molto vicino alla sensibilità spirituale antica, che contempla tra le altre cose la trasmigrazione delle anime, come insegnano Pitagora e le Upanisad; le motivazioni della scelta sono anche di tipo eco-ambientale, economico e sanitario. E per quanto attiene alla salute e al benessere, non può che avere un ruolo preminente la scienza olistica, che contempla la medicina tradizionale indiana, l'ayurveda (propostaVI), con la sua forte componente preventiva e fitoterapica, completa di tecniche di meditazione e rilassamento (ad esempio lo yoga), pensata per tutti i membri della comunità e adatta anche ad esigenze particolari, come la cura della gestazione.

L'educazione dei giovani - oltre che direzionata verso l'agricoltura, come abbiamo visto - sarà improntata allo studio della filosofia (proposta V), con particolare attenzione al pensiero greco classico - Platone su tutti - e alla tradizione vedica. La scelta non è casuale, in quanto la lettura e l'approfondimento dei testi indicati vuole svolgere una funzione purificatrice per le nuove generazioni. Gli studenti dell'eco clan, lungi dall'essere considerati operai specializzati in germe, e dunque oggetti passivi di un'istruzione solo utile e pratica, «arriveranno a concepire la conoscenza condivisa tra i propri simili, il cui scopo è la realizzazione interiore. Gli studenti dell’eco-clan studieranno tutti insieme in “giardini epicurei”, membri sodali della comunità dove il sapere è un patrimonio condiviso. Il filosofo sarà il loro maestro, organizzando la ricerca interiore e permettendo agli studenti di collaborare tra loro. L’obbiettivo sarà quello di stimolare le loro qualità genetiche ereditarie. Gli studenti dopo lo studio presteranno servizio alla comunità di cui fanno parte».

Come si evince in più punti fin dall'inizio, Tennenini tiene in forte considerazione la sfera sacra, senza la quale non può realizzarsi in maniera completa nessun eco-clan: «Del resto, l’insieme delle nostre otto proposte per l’eco-clan è frutto di una visione panteistica tanto della relazione uomo-vita quanto di quella uomo-universo, con l’intento di far scaturire un nuovo vitalismo, di offrire una proposta per affrontare gli attuali problemi globali» e ciò è apertamente dichiarato fin nell'ultima proposta, la VIII, sulla religiosità naturale, «un approccio alla spiritualità completamente diverso da quello monoteistico. La religiosità naturale abbraccia il bisogno umano della ricerca di se stessi, non di un Dio redentore […] L’uomo rurale, distaccato da questa artificiosa società, sviluppa invece una religiosità interiore, che proviene dal profondo della sua anima, non cerca a qualunque costo spiegazioni scientifiche per ogni evento che gli capita, né ha bisogno di antropomorfizzare la divinità a propria immagine e somiglianza, semplicemente crede in un principio metafisico presente in ogni cosa [...] Il tempio di ciascuno è il proprio corpo, che per questo motivo va curato, il tempio non è qualcosa che deve edificare in giro per il mondo; non si ha bisogno di immagini o idoli, ogni anima è il soggetto della propria personale venerazione; la posizione della preghiera è in piedi con le braccia in alto, con fierezza, non piegati in modo servile e mortificante per una supposta condizione di peccatore». Dunque un approccio animista, panteista, con evidenti riferimenti ancora una volta alla religiosità gentile, alla concezione dell'anima secondo Platone e alle Upanisad (i testi sacri del''induismo).

Concludiamo con quella che potremmo considerare una dichiarazione d'intenti dell'autore, riassuntiva dell'intera opera e dei principi che la ispirano: «Questa visione panteistica nel complesso vuole essere una radicale critica al capitalismo; non pretendiamo di cambiare il mondo perché sarebbe utopico, ma si provi almeno a “depurare” le relazioni sociali da ogni forma di urbanizzazione dello spirito e a valorizzare piuttosto la libertà, la conoscenza e la vita».

Alessandra Iacono

L'articolo OLTRE IL CAPITALISMO: verso l’alternativa della green economy – Alessandra Iacono proviene da EreticaMente.

Ardengo Soffici. A cura di Emanuele Casalena

$
0
0

[caption id="attachment_31833" align="alignright" width="300"] (Rignano sull’Arno 1879 - Vittoria Apuana 1964)[/caption]

 

Lacerba fu rivista eretica nel panorama nazionale, già il titolo dava la stura al pensar dei ribelli, quando comparve a Firenze nel gennaio del 1913. L’Acerba era stato un poema allegorico di tal Cecco d’Ascoli ( Francesco Stàbili) scritto nel XIII sec. in aperta polemica con “le favole”( così le chiamava) della Divina Commedia di Dante Alighieri e in difesa dell’astrologia. Cecco fu infatti astrologo erudito e praticante con un occhio alla sapienza araba, ma per il suo esoterismo pseudo scientifico, finì arso vivo a Firenze nel 1327 con l’accusa d’eresia senza aver potuto ultimare la sua fatica lirica, rimasta al V libro, fu vittima indiretta del guelfo bianco fiorentino. Anche Lacerba era in odor d’eresia, Papini aveva abbracciato la Teosofia secondo gli insegnamenti teorico-pratici di R.Steiner che si estendevano, in particolare, all’universo artistico, ma aveva afferrato la seconda anima della nuova fede, quella ferocemente antiborghese. A Firenze proprio il duo Soffici-Papini si mise alla guida del movimento  almeno indirettamente, entrambi valutavano in positivo il suo diffondersi letto come “un ritorno di bisogni spirituali e religiosi” contro l’impero del male del positivismo materialista. Già "Il Leonardo”, al quale collaborarono, era il mormorio intellettuale del ruscello teosofico in Italia al pari del gruppo le Giubbe Rosse, in entrambi si coltivava una ricerca dell’esoterismo cristiano coniugato al neoplatonismo del Rinascimento.

Torniamo a noi, i redattori della pubblicazione gigliata, nata da una costola della “Voce”, erano Ardengo Soffici, Giovanni Papini, Aldo Palazzeschi, Italo Tavolato ai quali si aggregheranno, con il loro contributo esplosivo,  i futuristi F.T. Marinetti, U. Boccioni, C.Carrà e L.Russolo. Ebbe vita breve Lacerba  spegnendosi il 22 maggio del ’15, due giorni prima  dell’entrata in guerra dell’Italia e la partenza al fronte di redattori e collaboratori, ma in quell’infanzia viva fu una delle riviste più importanti del panorama europeo al pari della tedesca “Der Sturm” o della francese “ Les Soirées de Paris”.

Soffici e Papini volevano una casa con le finestre spalancate perché l’aria rarefatta dell’Italietta giolittiana, fosse investita da nuove idee sia interne che portate dal vento dell’Europa, ossigeno per costruire una cultura dirompente contro il mammolismo borghese. Una fucina di libertà espressiva da scodellare nel piatto con l’apporto dei grandi della letteratura e dell’arte internazionale da G. Apollinaire a Max Jacob a H. Des Pruraux, Rémy de Gourmont, C.Nevinson, Hélène d’Oettingen ed altri. Si riproducevano  disegni e dipinti di Soffici, Boccioni, Carrà, Cézanne, Picasso, Archipenko, Férat, Rosai, Severini, Sant’Elia, un mantra di artisti d’avanguardia sconosciuti ai più del muffo provincialismo, in rotta di collisione col bello e col ben fatto delle accademie ma anche col rassicurante romanticismo degli svenevoli sentimenti. Lacerba era una due cavalli, Soffici & Papini scalatori dell’albero della libertà del quale gustavano e donavano frutti della lirica e dell’arte figurativa, scrutando tra i  suoi folti rami nuovi orizzonti, ma soprattutto facendosi alpinisti della ricerca di valori assoluti dello spirito contro la materia.

[caption id="attachment_31832" align="alignleft" width="219"] Copertina del 1° N. di Lacerba datato 1 gennaio 1913[/caption]

 

Si dice che entrambi si recassero alle sedute del pittore mago argentino Alejandro Shulz Solari (Xul Solar) studioso di glossopoiesi, linguaggi artificiali, che influenzò non poco  la loro produzione artistica e letteraria. A. Soffici, in proposito, scrisse per Lacerba un testo, Raggio, denso di principi teosofici, riproposto in seguito sulla rivista Ultra con il titolo di  La teosofia nel futurismo. L’ingresso dei futuristi idolatri dell’ultra moderno, assassini del chiaro di luna e della Nike di Samotracia in virtù dell’apologia del nuovo mito, la velocità della macchina, parve un assurdo, ma ciò che fondeva le due anime era l’accesa rivolta antiborghese in nome della tradizione spirituale o del violento rinnovamento ma anche dall’acceso interesse comune verso le dottrine dell’esoterismo, non importavano le differenze, avanti tutta contro il quieto vivere d’una società impostata sul monoteismo del denaro. Certo questi due spiritacci dissidenti entreranno in conflitto dopo un acceso confronto tra recupero, non accademiuco, della tradizione e dinamismo iconoclasta verso il passato, fino alla scomunica marnettiana del ’14. Resterà terra comune il forte interventismo contro il governo dei vili, con l’apertura del primo conflitto mondiale, Lacerba sposterà i suoi articoli soprattutto sui temi bollenti della politica e del patriottismo insurrezionale perché l’Italia accettasse la sfida della Storia chiudendo finalmente il cerchio del suo Risorgimento.

Ardengo era nel mezzo del cammin di nostra vita, e di strada ne aveva fatta tanta dalle campagne della piccola frazione rurale  di Bombone nel Comune di Rignano sull’Arno dov’era nato. Una famiglia di agricoltori benestanti, implosa nella povertà a ragion del padre Giovanni, preso dal fascino vanesio di trasferirsi a Fireze nel 1893, delapidando, in poco tempo, tutti i suoi averi e morendo di lì a poco A quell’adolescente, appassionato fin da bambino d’ arte, toccò di mollare gli studi per guadagnarsi di che vivere come “giovane di studio” presso un noto avvocato fiorentino ma senza soffocare, nelle angustie del pane quotidiano, la sua vocazione naturale. Occorreva temperare la tecnica per acquisire poi competenze nel dipingere, per questo si iscrisse all’Accademia di Belle Arti fiorentina  frequentando la  Scuola libera di Nudo  avendo per maestri Giovanni Fattori e Telemaco Signorini. Ma la cosa importante fu legarsi d’amicizia col gruppo di giovani artisti frequentatori del caffè Gambrinus quali l’emiliano spritualista Giovanni Costetti, il futuro secessionista Armando Spadini, lo scenografo Umberto Brunelleschi, Giovanni Graziosi col quale condivise lo studio di via degli Orti Oricellari, il postmacchiaiolo Cesare Vinzio. Non solo colori però ma anche interessi letterari cullati, da autodidatta a sera, leggendo autori francesi come Flaubert, Baudelaire, Verlaine o il maledetto Rimbaud, moschettieri del naturalismo d’Oltralpe, tanto divorati da creargli il desiderio di recarsi in Francia dal novembre 1900 con gli amici Costetti e Brunelleschi. Furono sette anni duri per mettere companatico nelle baguettes disegnando illustrazioni anche umoristiche per riviste francesi, però Parigi valeva ben una messa in quel ribollir di idee, ricerche, sperimentazioni in rapida sequenza dall’Impressionismo agli albori delle grandi avanguardie. A scuola del Louvre, dei musei e delle gallerie d’arte il bagaglio di Ardengo si riempiva di osservazioni, spunti, riflessioni che arricchiranno la sua vena di critico d’arte di ritorno sull’Arno. Aveva conosciuto il pot-pourri dei pennelli parigini da P. Cézanne, suo nume di riferimento, al Picasso e Braque del cubismo analitico, a Max Jacob, al fauve Matisse, al poeta G. Apollinaire fino ai “greci” A. De Chirico e suo fratello A.Savinio e tanti altri artisti, letterati, poeti, giornalisti.

La versatilità dei suoi interessi lo spinse a misurarsi su vari campi di battaglia, non solo mostre dei suoi dipinti, già a Parigi,  ma anche testi di critica d’arte, poesia, traduzioni ( vedi Kierkegaard e il maledetto Rimbaud), saggi, elzeviri caustici, ecc. Un corredo di tuoni e fiamme che lo vedrà protagonista nella vita culturale fiorentina dalle pagine de La Voce di Prezzolini poi dell’autonoma Lacerba e dopo il conflitto mondiale sui fogli del mussoliniano Popolo d’Italia.

Parlando di uomini e donne d’ingegno italiani dei primi anni del secolo breve ci viene alla mente la parola fermenti, in senso figurato, per cogliere lo stato d’inquietudine per la volontà di innovazione in ogni campo,  uno spirito ribelle, testardo nel cercare una via nazionale nelle arti come nelle scienze, partendo dalla spalla salda della tradizione ma proteso  a costruire un ponte tra questa e il mondo fluido moderno.

Soffici fu in questo un’acuta vedetta oltre che attore protagonista con le sue pere, a lui si deve la scoperta di geni nell’arte altrimenti sconosciuti ai gretti cultori della “bella pittura”, basti ricordare la prima mostra italiana degli Impressionisti, da lui curata a Firenze nel 1910. Ecco, scoprir geni era un’altra sua vocazione perché diceva “ E’ forse meno difficile essere un genio che trovare chi sia capace di accorgersene”, così l’Italia parruccona conobbe, attraverso i suoi saggi, artisti del calibro di Degas, Cézanne, Picasso, Braque , Medardo Rosso, Fattori e movimenti quali l’Impressinismo, il Cubismo, i Macchiaioli. Fu questo il suo apporto culturale a La Voce al suo ritorno dopo la crisi del settimo anno con l’amante Parigi. La rivista fondata, nel 1908, da G. Prezzolini promuoveva il rinnovamento socio-culturale della fresca Patria assai indietro nei tempi per riforme e innovazioni rispetto all’orizzonte europeo. Vi convivevano sementi diverse poste su un terreno comune, viscerale  l’antipositivismo da combattere con l’idealismo, lo spiritualismo laico, l’irrazionalismo, il misticismo esoterico e quant’altro pur d’annientare il bieco materialismo borghese. Soffici svolgeva il ruolo di critico d’arte avendo sulle spalle anni di aprendistato nella cultura effervescente della Ville Lumière, a quel tempo centro del mondo. Famosa la sua stroncatura delle biennali d’arte veneziane del 1909-1910 definite “cimitero dell’arte e della pittura italiana” perché avulse da ogni rinnovamento o sperimentazione, totalmente slegate dal panorama internazionale.  Idem andò giù duro contro la mostra milanese dei futuristi del 1911, tanto aspre le sue critiche da procurargli qualche sganassone da parte di Boccioni, Marinetti e Carrà, con relativa rappresaglia dei vociani a Firenze, salvo riappacificarsi col movimento ai tempi di Lacerba grazie alla mediazione del poeta futurista Aldo Palazzeschi. Sono di questi anni suoi scritti Ignoto toscano, opera prima di un Ardengo autobiografico, Arlecchino,bozzetti di un mondo oltre il tempo e la storia, L’Impressionismo, del ’15 il Giornale di bordo e BIF§ZF+18 Simultaneità e Chimismi lirici di sperimentazione poetica in chiave futurista.

Ma la bomba futurista aveva illuminato l’aria non solo in Italia, impossibile non fare i conti con l’unica grande avanguardia prodotta dalla nostra Patria, essere o divenire, questo il dilemma vissuto dagli intellettuali nostrani, il bulldozer di Marinetti & C. travolgeva tutto, dissodava terre brulle coperte di brina, scagliava lontano cumuli di luoghi comuni, aprendo un’autostrada da costruire con feroce volontà di cambiamento. Così anche Soffici cadde in tentazione organizzando, tra l’altro, la prima mostra futurista a Firenze nel 1913 presentando lui stesso diverse sue composizioni.

 

   

                       

[caption id="attachment_31831" align="alignleft" width="300"] Ardengo Soffici, Composizione, 1913[/caption]

                            

[caption id="attachment_31830" align="alignright" width="208"] A. Soffici, nature morte encrier, 1913[/caption]

C’è molto Picasso con retrogusto di Cézanne, simultaneità dei piani, scomposizione degli oggetti, spicchi di giornale senza i papiers collés, manca il dinamismo della lezione boccioniana, l’anticlassicismo del tempo che scorre con la velocità dei soggetti, perché Soffici è troppo ancorato alla sua Toscana, quella della grande esposizione fiorentina del 1896 dedicata all’Arte e ai Fiori dove incontrò, quindicenne, oltre alla Primavera di Botticelli il realismo di Bonnat e il genio di un suo maestro Telemaco Signorini presente con L’Angelo della vita, ne restò fulminato, quella pittura simbolista gli ricordava il georgico Millet suo pittore preferito. In fondo Ardengo era un foscoliano con radici profonde nella poetica della sua Toscana,  vocato al recupero del grande Quattrocento, nonostante la sua febbre alta per tutte le avanguardie   Dalla pittura ricca di germi francesi, dall’Impressionismo al poker Degas, Cézanne, Böcklin, Puvis de Chavannes, s’era ora infilato il basco di Picasso inforcando il cavallo di Boccioni, quella sua stagione possiamo definirla cubo-futurista.

[caption id="attachment_31829" align="aligncenter" width="623"] Ardengo Soffici, Il bagno, olio su tela, 1905, collezione privata[/caption]

In questa grande tela, Il bagno, unica superstite di una serie realizzata per il grand Hotel delle terme di Roncegno, vediamo tre giovani bagnanti, tema assai caro a Cèzanne, Puvis de Chavannes e Renoir, ed una mamma intenta ad immergere il figlioletto in una pozza. L’ambiente naturale ci appare simile ad un cartone per una scenografia all’aperto, realizzato a campiture ampie, sicure, attento a creare prospettiva partendo dal particolare dei fiori, in primo piano, per scemare pian piano fino ai monti azzurri del fondo. I soggetti non interagiscono, ciascuno intento  al suo daffare ma la costruzione delle figure ci rimanda ad esempio al neofita del Battesimo di Cristo di Piero della Francesca ( la donna al centro del dipinto) e  Fanciulle in riva al mare di Pierre Puvis de Chavannes ( La ragazza di spalle). La Francia donava al giovane bohémienne toscano i suoi frutti compreso il sintetismo del papà dell’arte contemoranea Paul Cézanne acuto, solitario, indagatore dell’essenza delle forme partendo dalla semplice quotidianità per arrivare al  principio “classico” della geometria e delle proporzioni madri d’ogni cosa.  Il nostro ripercorre anche soggetti cari al maestro di Aix-en-Provence, dai paesaggi alle nature morte o a quei giocatori di carte in un bistrot di paese dopo una giornata di lavoro. Quelli di Soffici sono contadini, seduti al tavolo d’ un’osteria, con lunghe pipe nella bocca intenti a vincere una partita a briscola con accanto un fiasco di buon vino per annaffiarsi la gola. E’ un fotogramma che indaga sulla vita minuta a tratti rapidi, essenziali, entrando dritto nel fatto, la bocca dell’uomo sullo sfondo accenna una smorfia, ha messo giù la carta, azzarda, quello di fianco cala un 6, presa o attesa, chissà? Pur nel silenzio quasi metafisico quell’attimo insignificante si fa opera d’arte, fissa fuori del tempo l’esserci di quel momento oltre la storia di ciascuno, perchè la bellezza arcana della vita si manifesta 24 h al giorno ed è un eroe chi riesce a viverle con gioia e curiosità ben al di là delle costruzioni dei teoreti. Il naturalismo era già per lui il grande insegnamento lasciatoci dalla la civiltà mediterranea, il pozzo dal quale attingere acqua per dissetare la propria ricerca del vero, non quello astratto, ma quello che s’incarna in ogni tessera della vita.

 

[caption id="attachment_31828" align="alignleft" width="205"] Piero della Francesca, Il Battesimo di Cristo, 1440-50[/caption]

        

[caption id="attachment_31827" align="alignright" width="226"] Pierre Puvis de Chavannes, fanciulle in riva al mare,1879[/caption]

 

 

Finalmente l’Italia entra in guerra contro il virus letale della Kultur germanica, l’interventismo ha vinto la sua battaglia, Ardengo lascia la sua casa studio di Poggio a Caiano e parte volontario come quei briganti di futuristi, si batte in armi con ardore rimediando due ferite da schioppettate, una medaglia al valore per il suo coraggio alla Bainsizza e purtroppo, da ufficiale, conosce Caporetto. Nascono da quelle esperienze di trincea i suoi diari-testimonianza Kobilec-Giornale di guerra del 1918 e Ritirata nel Friuli sulla disfatta di Cadorna pubblicato nel 1919, anno del suo matrimonio con Maria. La nuova famiglia vive nella casa di mamma Egle dove i Soffici s’erano spostati dopo la morte di papà Giovanni,  nel piccolo comune rurale di Poggio a Caiano che tra l’altro ha dedicato all’artista un museo nelle exscuderie medicee di Villa Ambra. Maria darà al sor Ardengo tre figli, Valeria, Laura e Sergio, il paese invece gli offrirà gli squarci dei suoi pesaggi campestri riportandolo, dopo i fumi avanguardisti, alla pittura toscana ch’era nelle sue radic1.

[caption id="attachment_31826" align="aligncenter" width="625"] Ardengo Soffici, I giocatori di carte, olio su cartone, 1909[/caption]

Ma Zarathustra guardò, meravigliando il popolo. Poi disse:

    «L’uomo è una corda, tesa tra il bruto e il superuomo, — una corda

 tesa su di una voragine.

    Pericoloso l’andar da una parte all’altra, pericoloso il trovarsi a mezza

strada, pericoloso il guardar a sé, Pericoloso il tremare, pericoloso

l’arrestarsi.

Ciò che è grande nell’uomo, è l’essere egli un ponte e non già una

meta: ciò che è da pregiare nell’uomo, è l’essere egli una transizione ed

una distruzione.

(da Così parlò Zarathustra di F. Nietzsche)

Crediamo di cogliere nel segno a dire che Ardengo Soffici fu un ponte tra la cultura europea e la tradizione italiana, tra innovazione e recupero sapiente della cultura autoctona, lui ha costruito senza ondivagare ma andando dritto in avanti e questo spiega la sua continuità politica da irredentista a fervente fascista fino all’adesione alla RSI.

Quest’uomo elegante, alto, sottile, affilato nel parlare, acuto, già nel ’19 si schiera senza indugi dalla parte del Mussolini rivoluzionario, scrive sul Popolo d’Italia e cura la terza pagina del Corriere della Sera, sembra, in apparenza, contraddirsi, da una posizione aperta alla cultura internazionale ora spinge a viva forza verso uno Stile nazionale. L’artista non vive in opposizione al mondo ma ora respira col suo mondo, perché? ”Il Fascismo non è né reazione né sovvertimento, ma ritrovamento, attraverso la rivoluzione, della ragion d’essere e dell’ordine propri del popolo italiano”. Ritorno alla latinità di contro alla cultura germanica della Riforma, al cattolicesimo che è verità universale in opposizione al nihilismo soggettivista in salsa romantica, modernista, scettico-relativista.  Occorreva ricucire l’unità spirituale di un popolo contro il materialismo di bottega dandogli un comune modus vivendi et pensandi cioè uno Stile che non poteva prescindere dalla grande tradizione classica. Lo Stile è unità e universalità, superamento della meccanica classista e campanilista, recupero dei valori immutabili della civiltà greco-romana e del cattolicesimo che solo il popolo italiano ha nel suo DNA.

Questo percorso di pensiero Ardengo l’aveva già iniziato scrivendo su La Voce e Lacerba, spirito contro materia o meglio materialismo, vita piena contro sopravvivenza borghese, arte come filo indispensabile a cucire etica con estetica, nessuna frattura dunque ma continuità appunto. Finalmente con il Fascismo era possibile rendere vero il reale in tutte le sue manifestazioni, politiche, economiche, artistiche, militari, sociali in stretta interdipendenza unitaria, inverando storicamente quanto auspicato da Dante, Petrarca, Machiavelli, Oriani.

Nel ’23 Soffici scende a Roma, vi resterà un anno, per imbarcarsi nell’edizione del quotidiano Nuovo Paese, testata di orientamento fascista da distinguersi da Paese di sponda comunista chiusa nel ’22, ma anche il Nuovo durerà poco più di un anno. Quel giornale avea da essere il laboratorio di una erigenda torre del pensiero della neonata rivoluzione, d’altronde Soffici non era uno squadrista da camionetta e tortore come Gallian, era un maître à penser, uno stroncatore al limite del dileggio dell’arte cerebrale, non contestualizzata nello scorrere fluido della storia d’ un popolo, in questo sulle stesse posizioni di Mario Sironi. L’esperienza romana lasciò l’amarezza e Ardengo se ne tornò alla sua Poggio a Caiano ma sempre in armi con la sua penna ed il pennello. Nel 1919 aveva già pubblicato un saggio sull’arte “Scoperte e massacri, Scritti sull’arte” titolo poi di una mostra retrospettiva a lui dedicata dagli Uffizi di Firenze nel 2016, proprio per la sua opera di tranchant (acuto e tagliente) critico d’arte.

Il 21 aprile 1925 la sua firma compare sul Manifesto degli intellettuali fascisti assieme ad altre 249 perché “Il Fascismo è un movimento recente ed antico dello spirito italiano, intimamente connesso alla storia della Nazione italiana […] un'idea in cui l'individuo possa trovare la sua ragione di vita, la sua libertà e ogni suo diritto; idea che è Patria, come ideale che si viene realizzando storicamente senza mai esaurirsi, tradizione storica determinata e individuata di civiltà ma tradizione che nella coscienza del cittadino, lungi dal restare morta memoria del passato, si fa personalità consapevole di un fine da attuare, tradizione perciò e missione […]” Sintesi perciò Stile, ecco la continuità del ponte di Ardengo che proietta la razza italiana sulla prua della nave. Quel ”genio” di Margherita Sarfatti l’ aveva acchiappato nella sua tela, aderisce al programma del gruppo Novecento pour le rappel a l’ordre esponendo sia alla I mostra del movimento nel 1926 che alla seconda e poi fino a Buenos Aires nel ‘30. Messo da parte il Futurismo, Soffici riscopre l’armonia della composizione coi colori e le parole, dipinge paesaggi, nature morte, scrive nel ’28 Periplo dell’arte- Richiamo all’ordine 47 articoli sull’arte da quella classica al fascismo. Espone alle Biennali veneziane del 1934 e 1936, riceve il premio Mussolini dell’Accademia d’Italia per la pittura nel ‘32, questo Don Chisciotte ingenuo del suo Lemmonio Borreo (1912) continua a costruire il suo viadotto fra tradizione aulica e presente con una fede messianica nel fascismo.

C’erano i fascisti che sognavano la rivoluzione permanente come Viani (anche lui toscanaccio), Berto Ricci, Bombacci, Galan, Maccari, Sironi, Ugo Spirito, i razionalisti del MIR e i “regimisti” votati alla solidificazione del sistema, alla retorica dell’Impero purtroppo luogo comune delle dittature nel quale ripipolava il virus borghese, lui era coi primi.

Anche Soffici soffrì questo iato dopo i fasti dell’Etiopia, ma restò comunque saldo al porto della rivoluzione incompiuta appoggiando persino la promulgazione delle leggi razziali del ’38, quella sì una contraddizione contro la sua giusta avversione alla Kultur germanica, dimostratasi decisamente nefasta, nello stesso anno pubblicò una sua raccolta di liriche Marsia e Apollo, duello tra il sileno impertinente e il dio dell’armonia delle arti.

Poiché non si può stare da una parte e dall’altra e quando si scende in campo, giusto o sbagliato che sia, in armi o con le fionde, comunque bisogna battersi fino al gong senza arrendersi, Soffici sposò la guerra italo-tedesca contro il resto del mondo anche dopo l’8 settembre del ’43, finis Patriae, dando la sua adesione, non militare, alla Repubblica di Salò sottolineando il carattere social-rivoluzionario dei punti di Verona assieme a Barna Occhini ( papà della famosa attrice Ilaria e genero di Papini). A fucili spenti entrambi furono reclusi, come collaborazionisti, nel campo di concentramento di Collescipoli nei pressi di Terni, da dove uscirono, dopo il processo, per insufficienza di prove.

Tornato nella sua Poggio nel’46, riprenderà a scrivere di arte ed a firmare paesaggi e nature morte con quel metodo che tratta parole e colori con lo sperimentalismo di G. Apollinaire e la sapienza del gesto di Cézanne.

Un riconoscimento nella Repubblica nata dalla Resistenza, al fine gli venne consegnato, fu il premio Marzotto del’55 per il testo autobiografico “Autoritratto di artista italiano nel quadro del suo tempo” un filo d’Arianna delle sue esperienze letterario-artistiche con uno sfondo di amarena per uno che, comunque, era caduto in piedi, con la schiena ben diritta. Nel ’64 passò il limitar della sua vita dalla realtà, mosaico delle piccole cose, al sogno della loro unità inseguendo quello Stile italiano.

[caption id="attachment_31825" align="aligncenter" width="624"] Ardengo Soffici, Case aPoggio, olio su cartone, 1963[/caption]

 

Emanuele Casalena

Bibliografia

Alessandro Del Puppo, “Lacerba” 1913-1915, Bergamo: Lubrina Editore, 304 pp, 2000.Mimmo Cangiano, L’estetica del reale. Ardengo Soffici e il Fascismocome”Stile”in “Italianistica”, n. 3, 2016, pp. 27-43.

Federico Giannini, Recensione della mostra “Scoperte e massacri. Ardengo Soffici e le avanguardie a Firenze”, agli Uffizi. Scritta il 20/12/2016 e pubblicata su Finestre dell’Arte.

  1. Raimondi – L. Cavallo, Ardengo Soffici, Firenze, Nuovedizioni Enrico Vallecchi, 1967.

Giuseppe Antonio Camerino, «SOFFICI, Ardengo». In: Enciclopedia Italiana Treccani - IV Appendice, 1981. Soffici 1907/2007. Cento anni dal ritorno in Italia, catalogo della mostra di Poggio a Caiano a cura di L. Cavallo, Prato, Claudio Martini Editore, 2007.

Vincenzo Trione, Dentro le cose: Ardengo Soffici critico d’arte, Ed. Bollati Boringhieri, Collana Saggi. Arte e letteratura, 2001.

Wikipedia, l’enciclopedia libera, Ardengo Soffici.

 

 

L'articolo Ardengo Soffici. A cura di Emanuele Casalena proviene da EreticaMente.

Il significato politico del Partenone: il tempio di Athena Parthenos come visione europea – Giovanni Pucci

$
0
0

Vi è una struttura che da quasi 2500 anni è l'emblema stesso della grecità: passata attraverso innumerevoli epoche ed adattata agli usi più disparati, da chiesa a moschea fino ad arsenale, è ancora in piedi a testimoniare il suo significato immortale. Stiamo parlando del Partenone, il tempio di Athena Parthenos. Costruito dal 445 al 438 A.C. dagli architetti Ictino e Callicrate, supervisionati dal genio di Fidia, sulle rovine di un edificio incompiuto e devastato dalla furia di Serse nel 480, il tempio dedicato alla vergine Atena fu fortemente voluto dalla personalità più illustre dell'Atene di quel tempo, alla cui volontà si deve non solo il Partenone ma tutta l'Acropoli ateniese, ovvero Pericle. Uscita materialmente a pezzi ma moralmente intatta dalla comunque vinta seconda guerra persiana, la comunità ateniese era in quel momento saldamente egemone all'interno di quella Lega delio-attica che aveva definitivamente ricacciato i Persiani in Asia e sentiva di essere il ramo più consapevole e sviluppato dell'albero greco, e intendeva quindi eternare nel marmo il significato stesso del suo stare al mondo. Attraverso gli edifici raccolti nell'Acropoli, e con il non plus ultra del suo tempio principale, questo intento sarà pienamente realizzato.

Il Partenone, summa assoluta delle conoscenze architettoniche del suo tempo fu costruito in stile ionico in pianta octastile (con un perimetro di 69,5 m per 29,8 m e con una proporzione di 4:9 che ritorna più volte), ma con il peristilio in forma dorica che conta 8 colonne sul lato corto e 17 su quello lungo, custodiva nella cella interna la colossale statua crisoelefantina di Atena, opera di Fidia, alta 12,7 m. I quattro lati esterni, il fregio interno e i due frontoni erano effigiati con sculture ornamentali raffiguranti miti e storie ancestrali dell'immaginario greco. Le 92 metope esterne raffiguravano la Gigantomachia sul lato ovest, l'Amazzonomachia su quello est, la guerra di Troia su quello nord e la Centauromachia su quello sud. Purtroppo moltissime sono andate distrutte nella guerra tra Veneziani e i Turchi nel 1687 e ben 15 sono state predate dall'inglese Lord Elgin nel 1802. Il fregio interno invece era totalmente dedicato alle Panatenee: lungo 160 m si snodavano divinità, eroi, cavalieri, giovani uomini e donne, musicisti e carri a rappresentare la processione che si teneva durante la più importante festività ateniese. Infine nei due frontoni erano scolpite la nascita di Atena in quello orientale e la disputa tra Atena stessa e Poseidone per il possesso dell'Attica in quello occidentale.

Vista l'importanza esiziale del Partenone di per sé e nel contesto in cui venne eretto e la precisa scelta di ogni particolare che lo riguardasse è impossibile pensare che ognuna di queste 'pietre parlanti' non avesse una ben determinata funzione ed un esatto significato. Gli Ateniesi ragionarono sul senso della loro storia comune e trassero dall'intreccio mitico del loro passato le ragioni della loro specificità presente e selezionarono così una visione da immortalare per il futuro. La Grecia, Europa in nuce, prese coscienza di sé dallo scontro con l'Altro irriducibile a sé, quell'impero persiano, bizzarro coacervo di genti tenute insieme dal dispotismo teocratico di un solo individuo, i cui appartenenti erano semplicemente identificati come bárbaros, ovvero balbuzienti, poiché non erano in grado di esprimersi in greco e per questo considerati al limite del consorzio umano. Con le guerre persiane i Greci erano entrati in contatto con un universo profondamente alieno, con quell'Asia dalla sensibilità magico-religiosa dove la potenza era data dalla quantità e dove infinite schiere di schiavi vedevano annullata la propria individualità per esaltare l'esistenza del Re dei Re. A tutto ciò la piccola Grecia, divisa in tante città-stato gelose della propria indipendenza ma etnicamente e culturalmente affini, contrapponeva una visione razionale che coniugava la libertà e la responsabilità, dove un uomo libero era artefice delle sue fortune e delle sue sconfitte. Pur consce e fiere delle proprie differenze, le molteplici entità politiche della penisola greca non esitarono ad unirsi quando compresero il comune pericolo che minacciava di ridurle tutte ad una mera satrapia dell'immenso impero persiano.

Che significato hanno quindi i bassorilievi scolpiti sulla parte esterna del Partenone? Come detto, il tempio costituì anche una formula di valenza apotropaica, che intendeva esorcizzare e sistematizzare lo shock subito a causa dell'invasione persiana e fissare le specificità dell'identità ateniese e quindi greca e europea. Partendo dal lato orientale troviamo scene raffiguranti l'Amazzonomachia, ovvero la lotta tra i Greci e le Amazzoni. Quello delle Amazzoni era un popolo mitico composto da sole donne dedite al combattimento che vari autori collocavano variabilmente in Scizia, in Tracia, in Persia o addirittura in India; tutti territori al di fuori di quella che era considerata Grecia. Rappresentando una società di sole donne guerriere, l'amazzonismo era la quintessenza del principio matrilineare e femminile, appena un gradino sopra all'eterismo. Si trattava quindi di un'evoluzione rispetto allo stadio ferino dei primi uomini, che vivevano, s'accoppiavano e riproducevano al modo degli animali, ad un livello pienamente tellurico, ignorando chi fossero i propri genitori. Tale stato caratterizzato dall'assenza di ogni diritto ed organizzazione sociale è perfettamente rappresentato dal mito di Edipo: nella tragedia che porta il suo nome il protagonista uccide il padre sconosciuto e giace con la madre ignorandone l'identità, proprio come poteva accadere nell'orda animalesca primordiale. Rispetto a tali abomini, il matriarcato delle tribù amazzoni, con la predominanza del principio femminile appariva come una luce lunare che offre un lucore utile a superare le tenebre più scure, ma non era ancora sufficiente. Il sistema matrilineare era ancora troppo materiale, ed alcuni uomini sentirono il bisogno di affrancarsi da esso per approdare ad appartenenze più spirituali, svincolate dai concetti terreni e oscuri ai quali il grembo della madre immancabilmente rimanda. I Greci si sentivano infatti affermatori del puro patriarcato comune a tutte le stirpi indoeuropee, di quel principio maschile che lega invisibilmente un padre ad un figlio e che aveva come protettore Apollo, dio solare per eccellenza, e come campioni umani gli eroi Bellerofonte, Teseo, Perseo, Achille e Eracle, i quali tutti si batterono, vincendo, contro le Amazzoni. Vale la pena ricordare come un altro esponente dell'idea patrilineare, quell'Oreste che per vendicare il padre ucciso dalla madre si era reso matricida e per questo era perseguitato dalle Erinni, sarà salvato dal voto decisivo della Pallade Atena, che nel consesso divino chiamato a giudicare Oreste pareggerà i conti tra accusatori e assolutori. Una divinità femminile salva dunque Oreste, una divinità rappresentante assoluta del pensiero patrilineare, poiché nata armata di tutto punto dalla testa di Zeus, che la definirà "figlia soltanto mia", a dimostrazione di come in questi ragionamenti non ci riferisca mai a patetiche superiorità di 'uomini sulle donne' o viceversa. Il principio solare maschile non attecchirà mai in Asia ma resterà confinato alla Grecia ed ecco perché la raffigurazione dell'Amazzonomachia valse la lotta contro le schiere persiane.

Sul lato sud del Partenone stava immortalatala una Centauromachia, ovvero la lotta tra i Centauri e i Lapiti, una popolazione primordiale greca. I Centauri erano esseri mostruosi, metà uomini e metà cavalli. Il primo di loro, Centauro appunto, fu il frutto dell'unione violenta tra Issione e Nefele, una sosia di Era mandata da Zeus. Issione era un personaggio particolarmente spregevole, essendosi in precedenza già macchiato di un tradimento dei patti ai danni del suocero, al quale non aveva consegnato la dote concordata il giorno delle nozze e anzi lo aveva ucciso. Figli di tale padre quando i Centauri furono invitati alle nozze di Ippodamia dai Lapiti non ressero il vino e diedero sfogo alla loro natura ibrida tentando di stuprare la sposa e tutte le fanciulle presenti al banchetto: i Lapiti presero le armi contro di essi e con l'aiuto di Teseo li sconfissero. I Centauri quindi sono una genia bestiale che non conosce il controllo di sé, figlia di un traditore dei patti che incarna perfettamente il disprezzo del diritto. Identificandosi con chi li combatté, i Greci assunsero il ruolo dell'uomo che ha preso coscienza di sé e che supera la sua immagine ancora ferina. Si tratta dell'uomo che si è fatto uomo ed ha abbandonato il dominio animale, quel 'secondo uomo' che supera il 'primo uomo' secondo quella visione storica perfettamente chiarificata ed illustrata da Giorgio Locchi. L'affermazione contro i barbari Persiani per i Greci era stata anche una vittoria sul proprio passato belluino/matriarcale.

Seguendo questa linea di lettura si può facilmente capire la scelta della Gigantomachia e della guerra di Troia, disposte rispettivamente sui lati est e nord: la rivolta dei Giganti, figli di Gea dea della Terra, contro il dodekatheon olimpico è un'allegoria delle battaglie che ci furono tra le popolazioni pre-elleniche che abitavano la penisola greca e gli Achei di stirpe indoeuropea che vi si insediarono nel II millennio A.C. Ancora una volta gli Ateniesi individuano così i passaggi mitico-storici che li hanno portati ad essere quello che sono. Stesso discorso per la guerra di Troia, combattuta intorno al 1250 A.C. tra Achei e Troiani e figurazione dell'ancestrale contrapposizione tra Occidente e Oriente. Anche se i Greci e i Troiani erano popolazioni sorelle ed avevano molto più in comune tra di loro che non i Greci con i Persiani, la città di Troia posta al di là dell'Egeo sulle rive dell'Asia Minore e il decennale conflitto che ne porta il nome per il controllo dell'Ellesponto, indicò sempre per l'immaginario greco una potenza straniera naturalmente contrapposta alla civiltà greca.

Tutto intorno alla cella del tempio, lungo 160 m, era posto il fregio delle Panatenee. Dato che tutto il Partenone è una conseguenza della vittoria dei Greci sugli Achemenidi, più di uno studioso ha riscontrato in questa processione una risposta all’Apadana di Persepoli, eretta verso il 513 A.C. durante il regno di Dario. Su tale edificio reale si possono trovare i bassorilievi della cosiddetta Processione dei Tributari: i legati delle ventitré nazione dell’impero persiano sfilano in parata davanti al Gran Re offrendo doni caratteristici a testimonianza della loro sottomissione. I dignitari di Susa, gli Armeni, i Babilonesi, gli Ioni, i Frigi, i Sakas, gli Abissini, i Somali, gli Arabi, i Traci, i Medi, i Battriani, gli Egizi, i Sogdiani, i Parti, gli Elamiti, gli Sciiti, gli Assiri, i Cilici, gli Indiani, gli Aracosiani, i Lidi, i Cappadoci e i Fenici si dispiegano tutti ai piedi del sovrano. In questa impressionante dimostrazione di potenza, l’ordine ed il rigore sono i metri di messa in opera. Traspare un ‘centralismo statale’ che controlla tutto, che sottomette le molteplici differenze alla figura unitaria del Dio-Re. Di tutt’altro segno sono le Panatenee ateniesi. Qui il senso dell’opera è quello del movimento, che si contrappone alla fissità delle figure persiane, qui si vedono i cavalieri chi si accingono a montare in sella, pecore e buoi che vanno verso l’altare, portatori di vasi, musici, fanciulle vergini che recano incensieri e gli eroi mitici che sono alla testa del gruppo delle 12 divinità. Al centro Atena riceve il sacro peplo. Uomini, semidei e dei sono uniti in un unico grande affresco che celebra, apparentemente in modo disordinato, la grandezza di Atene e la libertà dei suoi cittadini. Dal punto vista numerico i bassorilievi di Persepoli sono disposti su 3 fasce alte 0,9 m e che riunite danno una lunghezza complessiva di 125 m. Il fregio di Atene invece misura 1,06 m di altezza per un’estensione di 160 m. Qualunque dimensione si confronti, il capolavoro di Fidia surclassa la creazione dei Persiani.

Rimangono da analizzare i due frontoni e la statua che era costudita nella cella del Partenone. Entrambi i frontoni sono dedicati alla dea eponima di Atene: quello orientale raffigura la sua nascita, avvenuta direttamente dalla testa del suo unico genitore, Zeus, e quello occidentale la disputa tra Atene e Poseidone per il possesso dell’Attica. Sfida chiaramente vinta dalla Pallade. Gelosamente custodita all’interno del Partenone, nel sancta sanctorum a lei dedicato stava la colossale statua di Athena Parthenos, scolpita dall’ingegno di Fidia e che gli diede fama in tutto il mondo ellenico già tra i suoi contemporanei. Alta più di 12 m e mezzo, capolavoro della tecnica crisoelefantina, sparì durante le alterni vicende che coinvolsero il tempio; ne resta testimonianza nelle varie copie costruite a sua immagine. Atena, ritratta in piedi, indossava il peplo e aveva il petto protetto dall’egida con il gorgoneion. Il cimiero dell’elmo era decorato con riproduzioni di cavalli alati, cervi e caprioli, mentre sui paraguance erano visibili grifoni. La mano destra, appoggiata ad una colonnetta per motivi di stabilità complessiva, reggeva una statuetta della Nike, la dea della Vittoria. La mano sinistra teneva invece uno scudo dal quale spuntava un serpente, simbolo di Erittonio, mitico re di Atene dalle gambe serpiformi che aveva istituito le Panatenee. Sui lati dei sandali della dea erano raffigurati Centauri in combattimento, la parte interna dello scudo illustrava scene tratte dalla Gigantomachia e quella esterna era riservata alla lotta tra le Amazzoni e i Greci. La statua si configurava quindi come una suprema sintesi del tempio che la proteggeva.

Eccoci quindi alla fine dell’esegesi del Partenone; un’opera straordinaria dagli immensi e profondissimi significati da qualsiasi punto la si osservi: architettonico, matematico, scultoreo, filosofico, storico e mitico. Dei significati esatti e discriminanti e sì di ampio respiro ma non universali bensì destinati per essere riattualizzati ai diretti discendenti di una comunità di popolo ben precisa che seppe farsi e mantenersi tale. Un messaggio di portata eterna dunque, eterno come il marmo di cui è fatto, che come tutti i messaggi può essere accolto o ignorato ma che cionondimeno resta lì, a esigere comunque una scelta.

Giovanni Pucci

L'articolo Il significato politico del Partenone: il tempio di Athena Parthenos come visione europea – Giovanni Pucci proviene da EreticaMente.

Arte e Magia in mostra a Rovigo – Dalmazio Frau

$
0
0

In un’Italia ridondante di mostre d’arte inutili se non banali, soprattutto quelle strapaesane con velleità nazionali, ne spicca una che merita il tempo e la compagnia. A Rovigo, città lontana dai grandi circuiti dell’arte per tutti, si espone “Arte e Magia” a Palazzo Roverella, sino al 27 gennaio, un percorso “esoterico” nell’arte pittorica tra Otto e Novecento in Europa, promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, con il Comune di Rovigo e l’Accademia dei Concordi, curata da Francesco Parisi.

Colui che, fortunato, avrà letto Il Mattino dei Maghi di Pauwels e Bergier, avrà più bell’agio nel comprendere il sottile pensiero che guida il visitare in questa esposizione di quadri scelti con cura e dedizione, ma anche il “profano” potrà lasciarsi indurre in suggestioni affascinanti e misteriche ad ogni dipinto e per ogni artista.

È la magia che ritorna e impera, con i suoi simboli e le sue “signature ermetiche” in un tempo che avrebbe dovuto prediligere la razionalità futurista, e che invece convive perfettamente miscelando l’alto e il basso, il meraviglioso, il fantastico e la realtà quotidiana. Antico e futuro segnano il punto di questo strano tempo che precede l’ultima guerra mondiale. Architettura sacra, pittura simbolica, arte e mistero che conducono a visioni oltre la Soglia, in un retaggio preraffaellita a volte, attraverso il colore dadaista di Julius Evola e la licenziosa succube scolpita da Auguste Rodin. Qui, a Rovigo, per qualche tempo ancora danzeranno i diavoli e le streghe verso il Sabba, e con loro vanno in teoria i Rosacroce e i molti cavalieri in cerca attraverso una folta selva di fantasmi che è l’Europa tra le due guerre, contornati da maghi e dalle loro cerimonie.

Un altro pregio della mostra è far comprendere a colui che ne attraversa le sale, come e in quale misura il pensiero magico e occultista abbia influenzato sia il Simbolismo europeo sia la nascita delle avanguardie storiche, divenendo quasi una sorta di “controcultura” – a volte reazionaria – a un mondo che stava rapidamente scivolando verso il modernismo. Ogni ambito del rapporto tra Arte e Magia nel nuovo secolo viene ampliamente indagato, sino all’arte applicata dell’editoria senza dimenticare l’influenza espressionista del cinema che subito aveva compreso le possibilità di esprimere la presenza del Golem o del Vampiro.

Rovigo si mostra così città intellettualmente libera e aperta a un tema che fa ancora sobbalzare, chi confonde sempre- per ignoranza – esoterismo e satanismo e chi lo rinnega in nome di un positivismo ormai stantio, che forse è esistito soltanto in poche menti tristi e senza sogni per lo più ancorate ancora a una sinistra visione di Sinistra che fa del mondo, del Cosmo, una prigione dalla quale, invece si deve poter evadere e ritornare liberi.

Dalmazio Frau

(fonte: http://opinione.it/home/)

L'articolo Arte e Magia in mostra a Rovigo – Dalmazio Frau proviene da EreticaMente.

Fascismo e Massoneria, storia di rapporti complessi – 5^ parte – Luigi Morrone

$
0
0

La Massoneria e la caduta del Fascismo

Il Gran Consiglio del Fascismo era diventato organo di rilevanza costituzionale nel 1928, quale coordinamento delle attività di regime. Come è stato chiarito da Costantino Mortati (1), infatti, il PNF era diventato organo costituzionale “in senso materiale” onde il suo organo di coordinamento aveva rilevanza costituzionale indipendentemente dalla collocazione sistematica della sua disciplina normativa. La sempre maggiore preminenza della figura del Duce ne aveva nella prassi esautorato le funzioni (2). Tuttavia, fino alla vigilia della guerra, l’organo si era riunito con una certa regolarità. Dopo quasi quattro anni d’inattività (l’ultima riunione si era tenuta il 7 dicembre 1939), il Gran Consiglio si riunisce alle ore 17 del 24 luglio Al termine di una seduta – fiume, alle ore 2,30 circa del 25 luglio, 19 gerarchi su 27 votano un ordine del giorno presentato da Dino Grandi, che sul presupposto che «è necessario l'immediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle Corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie e costituzionali», invita il Governo a ripristinare anche di fatto i poteri statutari del re. Mussolini si reca in udienza dal re a Villa Savoia e, all’esito dell’udienza, viene arrestato dai carabinieri. È la fine del regime fascista (3). Quale ruolo gioca la massoneria in questo epilogo del Fascismo regime?

I sostenitori del “complotto massonico”, riprendendo la tesi del Fascismo come creatura della massoneria, non hanno dubbi: come il creatore del Golem la Massoneria, che aveva creato il Fascismo, ora lo distrugge. Ma nel caso del 25 luglio 1943, i “complottisti” sono in buona compagnia. Sia da parte fascista, sia da parte massonica, il tentativo di accreditare il “colpo di mano” del 25 luglio come epilogo di un “complotto massonico” trova ampio consenso. Alcune delle argomentazioni sono davvero deboli: rilevando che dei 19 gerarchi che votano l’o.d.g. Grandi 13 sono massoni (4), il “colpo di mano” della Massoneria sarebbe facile da dimostrare. Dei 13 indicati come massoni, però, solo di alcuni (Bottai, De Marsico, Acerbo, lo stesso Grandi) si ha notizia certa di una pregressa iniziazione, ma non di una loro continuazione dell’azione massonica dopo lo scioglimento delle logge. Evidentemente, da parte fascista (5) si ripesca il vecchio semel abbassemperabbasche aveva caratterizzato il sospetto continuo dei fascisti intransigenti verso i camerati provenienti dalle fila della Massoneria, compresi – a quanto pare – quelli del Duce sul suo avversario interno di sempre, Italo Balbo, che sarebbe stato definito da Mussolini «il porco democratico che fu oratore della Loggia Girolamo Savonarola di Ferrara» (6). Ma, che sia un’operazione semplicistica, è dimostrata dal fatto che vota contro l’ordine del giorno Grandi un altro avversario irriducibile del Duce entro il PNF, l’ex massone Roberto Farinacci (7) che morirà in camicia nera, fucilato dai partigiani, dopo aver aderito alla RSI, così sarà fucilatodai partigiani un altro ex massone, Achille Starace, fedelissimo del Duce dalla prima all’ultima ora e accanto al Duce appeso nella macelleria messicana di piazzale Loreto.

Tuttavia, a sostegno della tesi della congiura massonica alla base del voto del Gran Consiglio del 25 luglio 1943 esistono altri elementi, di maggior consistenza. Giovanni Preziosi, ossessionato dalla sua tesi del complotto internazionale plutocratico, giudaico e massonico, il 18 luglio 1943 scrive al Duce: «La seduta del Gran Consiglio porterà il suicidio del fascismo» (8). Dopo l’arresto del Duce, vola in Germania, dove alla radio nazionale, in una trasmissione in italiano, accusa la massoneria di essere all’origine della caduta del Fascismo (9). Sono note le convulse vicende successive al voto del Gran Consiglio: Badoglio viene nominato Capo del Governo, il Duce, internato prima a Ponza, poi alla Maddalena, viene infine tenuto prigioniero a Campo Imperatore. Badoglio prepara la resa, nonostante in un proclama letto alla radio alle 22,45 del 25 luglio 1943 dichiari “La guerra continua” (10). L’armistizio, stipulato il 3 settembre a Cassibile, viene reso noto l’8 successivo. Il 13 ottobre il Regno d’Italia dichiara guerra alla Germania. Il Duce, liberato dai tedeschi il 12 settembre 1943, riappare sulla scena politica quando si credeva definitivamente “defunto” (11). annuncia la fondazione di un nuovo stato repubblicano. La prima riunione del consiglio dei ministri della neonata repubblica si tiene il 23 settembre a Roma, ma viene deciso lo spostamento della capitale in Alta Italia (12).

Ma torniamo alla tesi della “congiura massonica”. Il 15 settembre 1943, su “Vita Italiana”, Preziosi rincara la dose: riprende il Times del 20 agosto 1939 (13), sul colloquio tra il Gran Maestro delle United Grand Lodge of England,“infiora” il racconto con particolari del tutto inventati (14). E fa scaturire da questo racconto la prova inconfutabile che la Massoneria da sempre trama contro l’Italia fascista. In Germania, Preziosi continua nella sua fervida pubblicistica, a cui aggiunge memoriali consegnati ai gerarchi nazionalsocialisti. Utilizza radio Monaco (propagata anche in Italia) per denunziare quelle che egli ritiene infiltrazioni massoniche presenti nella RSI (15). Tornato in Italia, Preziosi redige un Memoriale che invia a Mussolini a fine gennaio 1944 (16). Il Memoriale è incentrato, soprattutto, sulla figura di Badoglio, «il centro della massoneria nell’esercito» (17), che avrebbe costruito la sua carriera militare utilizzando l’appartenenza alla massoneria (18), che avrebbe la responsabilità della sconfitta di Caporetto (19), rovesciando, grazie all’appoggio della Massoneria, la responsabilità sul generale Capello; che avrebbe manovrato per l’insuccesso della manovra dell’Asse in Grecia (20). L’azione massonica avrebbe cagionato la caduta del Fascismo, all’azione sabotatrice della Massoneria sarebbero dovute le sconfitte militari dell’Asse. E nella RSI sono facilmente individuabili le infiltrazioni massoniche, a cominciare dal Segretario del PFR Alessandro Pavolini (21). Nonostante qualche storico affermi «Nessuno prende sul serio un paranoico» (22), Preziosi viene preso in seria considerazione dai tedeschi, tanto che Göbbels, a cui Preziosi consegna un memoriale già nel novembre 1943 commenta amaramente: «… mi sono stati consegnati memoriali intorno al Duce ed al suo entourage scritti dal prof. Preziosi. Sono molto scoraggianti. A dispetto dei disastri subiti, il Duce non ha appreso nulla Si circonda ancora di traditori, antichi massoni e filogiudei» (23). Ma la tesi della “congiura massonica” all’origine del colpo di Stato del 25 luglio serpeggia anche nella RSI. Assodato, dunque, che sia i fascisti, sia i massoni, attribuiscono la caduta del Fascismo ad un complotto di massoni, cerchiamo di capire la fondatezza di questa tesi. Il voto del Gran Consiglio non giunge certo come un fulmine a ciel sereno.

Durante le operazioni belliche, non era mai cessata l’attività diplomatica delle Cancellerie, non solo delle potenze belligeranti, ma anche di Paesi terzi. Particolarmente attiva la diplomazia vaticana (24). Dopo la morte di Pio XI, il papa del Concordato, mentre già si agitano i venti di guerra, ascende al soglio di Pietro il cardinale Eugenio Maria Giuseppe Pacelli, che assume il nome di Pio XII. È subito chiaro che la politica estera del Vaticano sarebbe stata nelle mani di Luigi Maglione, già Prefetto della Congregazione per il concilio, Domenico Tardini e Giovanni Battista Montini, questi ultimi già collaboratori di Pacelli quando era Segretario di Stato (25). Ma è subito chiaro che a tenere veramente le redini della diplomazia della Chiesa è Montini (26). Montini ritiene sbagliata la scelta di Benedetto XV nel 1917, della “Lettera del Santo Padre Benedetto XV ai capi dei popoli belligeranti” della I guerra mondiale (27), che aveva sortito l’effetto propagandistico opposto a quello propostosi dal Papa, in quanto ogni paese belligerante aveva interpretato la lettera come adesione alle tesi dello schieramento avverso (28). Sceglie, invece, un’altra strada: quella delle trattative segrete con tutte le parti belligeranti (29). Ad avviso della storiografia “orientata” di parte cattolica (30) la scelta diplomatica fu indirizzata prima ad evitare che la guerra scoppiasse e poi a renderla il più possibile “umana”, rifuggendo dalle offerte degli Alleati in senso antifascista e dell’Asse in senso anticomunista. In più, la qualcuno trova un presupposto “ideologico” a tale indirizzo della diplomazia vaticana: l’opera di uno dei fondatori di “Civiltà Cattolica”, il gesuita Prospero (in religione Luigi) Taparellidi Montanera e d’Azeglio (31), considerato uno dei principali teorici di un’organizzazione internazionale per la composizione dei conflitti tra Stati. Riteniamo di non aderire a tale tesi.

Montini aveva già al suo attivo delle operazioni contro il regime fascista. Fu incaricato nel 1931 di portare in gran segreto alle nunziature di Monaco e Berna l’Enciclica di Pio XI “Non abbiamo bisogno”, emanata dopo lo scioglimento delle Associazioni Cattoliche da parte del Regime Fascista. L’operazione era finalizzata a disseminare per tutta Europa l’enciclica, in attuazione di quello che Achille Ratti sosteneva in essa: «Noi e questa Santa Sede, per mezzo dei Nostri rappresentanti, dei Nostri Fratelli di Episcopato, veniamo dicendo e rimostrando dovunque gli interessi della Religione lo richiedono, e nella misura che giudichiamo richiedersi, massime dove la Chiesa è realmente perseguitata» (32). D’altronde, la formazione culturale di Montini è chiaramente antifascista. Lo scioglimento delle Associazioni cattoliche da parte del regime era stato determinato soprattutto dall’indirizzo impresso da Montini alla FUCI, l’associazione degli studenti universitari cattolici, e già il 4 novembre 1926 aveva scritto ai familiari: «I governi precedenti avevano la paura del coraggio; questo ha il coraggio di mostrarsi pauroso; è la propaganda del sospetto; è la smania d'individuare avversari; è la logica della rivoluzione. Il fascismo morirà d'indigestione, se così continuerà, e sarà vinto dalla propria prepotenza. Quello che è doloroso è che il popolo italiano venga così a ricevere la esiziale educazione della volubilità e dell'avventura e che sia continuamente eccitato non a contenersi nell'ambito del diritto ma a sfrenarsi nella brutalità improvvisa degli odi di parte» (33). Lo stesso Pacelli, germanofilo e fine conoscitore della lingua e cultura germanica, aveva assunto posizioni acerrimamente antinaziste (34), nonostante fosse il firmatario del Concordato tra Germania e Chiesa Cattolica del 20 luglio 1933 ed è considerato l’ispiratore della durissima enciclica di Pio XI contro il governo nazionalsocialista, redatta in tedesco il 14 marzo 1937: “Mitbrennender Sorge” (“Con bruciante inquietudine”) (35), ritenuta dal responsabile tedesco per gli Affari Religiosi, l’Obersturmbannführer Albert Hartl, una sorta di incitamento alla rivolta mondiale contro il Terzo Reich (36). Il filogermanesimo culturale di Pacelli trae in inganno Hitler e Mussolini al momento della morte di Pio XI. Essi, infatti, desiderano l’elezione al soglio di Pietro di un elemento filotedesco, attese le posizioni anti hitleriane del papa defunto. Le Cancellerie di Francia e Gran Bretagna tessono la loro tela in favore di Pacelli, mentre il controspionaggio Vaticano riesce a neutralizzare il tentativo di Hartl di condizionare il conclave verso Maurilio Fossati, di Torino, ed Elia dalla Costa, di Firenze, a quanto pare anche ricorrendo alla corruzione (37). Pacelli, alla fine, viene eletto perché gradito alle Cancellerie “democratiche” e non sgradito al Terzo Reich. Scoppiata la guerra, dunque, Pacelli e Montini sanno da che parte stare (38).

Figura chiave dell’azione spionistica vaticana verso il Terzo Reich è un avvocato monacense, Joseph Müller, detto «Ochsensepp» (“Peppe il bue”). Di stazza fisica notevole (donde il soprannome), è un leader politico cattolico che sbaraglia le sinistre in Baviera. Alla nomina di Hitler come Cancelliere, organizza un’opposizione al nazionalsocialismo. Nel 1934 è sottoposto da Himmler in persona a pressante interrogatorio, all’esito del quale è invitato ad arruolarsi nelle SS. Al suo netto rifiuto, Himmler, ammirato da tanto coraggio, lo lascia libero. Il suo collegamento con i servizi segreti vaticani è pressoché immediato. Riceve delle confidenze dal capo del Reichssicherheitsdienst (il servizio di sicurezza dei gerarchi della NSDAP), Johann “Hans” Rattenhuber, circa le intenzioni del Regime riguardo alla Chiesa, si mette in contatto con l’arcivescovo di Monaco, MichaelFaulhaber, e con lui organizza una rete vaticana di spionaggio, le cui fila sono rette, da Roma, dallo stesso Pacelli, all’epoca Segretario di Stato (39). Quando scoppia la guerra, Ochsenseppè nel pieno della sua attività spionistica. Viene convocato dall’Ammiraglio Wilhelm Franz Canaris, comandante dell’Abwehr, il servizio segreto del Reich. Lì viene interrogato dal capo della Sezione Z dell’Abwehr, il colonnello Hans Oster,che gli propone di utilizzare i suoi buoni uffici con Pacelli al fine di una captatio benevolentiæ nei confronti del Vaticano. Al suo netto rifiuto, capisce di aver davanti un uomo risoluto e fiero nemico del Führer, e lo mette a parte dell’esistenza di un complotto dell’esercito per rovesciare Hitler, fino all’omicidio. Müller si precipita a Roma, dove si decide la politica estera del Vaticano circa la guerra appena scoppiata. Il piccolo stato – enclave in uno Stato fascista, sarà il terreno neutro dove tessere le fila per preparare la sconfitta del Reich (40).

La Spagna, uscita da una devastante guerra civile, si trova in un crocevia. Da un lato, le potenze dell’Asse sono state alleate dei falangisti, vincitori della guerra civile. Dall’altra, si avverte la necessità di un periodo duraturo di pace perché si sanino le ferite di una lotta fratricida che ha lasciato il Paese in ginocchio. La Falange è per l’entrata in guerra a fianco dell’Asse, l’Esercito per la neutralità. Franco si schiera con l’esercito, decisione a cui non è certamente estranea la pressione esercitata dalle alte gerarchie vaticane sul clero spagnolo (41). Tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943, le sorti della guerra subiscono quella che Liddell Hart definisce «the turn of the tide» («giravolta della marea») (42) e sembrano ormai irreversibilmente pendere in favore degli Alleati in tutti i teatri di guerra: Midway, Guadalcanal, El Alamein, Stalingrado segnano tappe decisive per l’esito finale, donde il timore di Franco di essere considerato vicino all'Asse e – dunque – esposto ad azioni militari ostili da parte degli Alleati (43). Le Diplomazie dei Paesi Alleati esercitano pressioni asfissianti sui Paesi neutrali, al fine di convincerli a scendere in campo a fianco delle “Nazioni Unite” (44). In conseguenza di ciò, Franco, che già a settembre aveva rimosso dalla carica di Ministro degli Esteri il cognato Ramon Serrano Súñer, fautore dell’invio della Division Azul inquadrate nella Wehrmacht sul fronte russo (45), chiede assicurazioni a Roosevelt circa il rispetto della integrità territoriale spagnola da parte degli Alleati (46), forma con il dittatore portoghese Salazar il “Bloque Ibérico”, «per rafforzare la neutralità delle due nazioni latine e iniziava una cauta ma irreversibile manovra di sganciamento dall'orbita nazista» (47). La neutralità dei due Paesi iberici è un punto di approdo di un’intensa attività diplomatica dei servizi britannici ed americani, condotta fin dal 1939 (anche nei confronti di Irlanda, Svezia e Turchia), per portare nell’orbita delle “Nazioni Unite” o, quanto meno, evitare che possano allearsi con le forze dell’Asse dei Paesi di capitale importanza strategica per il controllo delle rotte (48). Inoltre, lo sganciamento dall’Asse dei paesi iberici, nazioni cattoliche a stragrande maggioranza, libera definitivamente le mani alla diplomazia vaticana, che si orienta in modo definitivo verso gli Alleati (49).

Nel frattempo, è iniziata, da parte del Vaticano e delle Cancellerie dei paesi belligeranti, un’opera di persuasione nei confronti di politici e militari italiani affinché si pervenga ad uno sganciamento dell’Italia dall’Asse e ad una pace separata tra l’Italia e le Nazioni Unite. Si muove anche la Massoneria. «Il 16 marzo del 1943 la real ambasciata d’Italia a Madrid avvertì il Ministero degli Interni e il Comando Supremo che, da informazioni del Ministro degli Esteri Jordana, risultava che l’AMI avesse dato alle varie organizzazioni massoniche l’ordine d’infiltrarsi, sia in Italia che negli altri paesi europei, nei Ministeri degli Esteri, Interni, Giustizia e Lavoro allo scopo d’incrementare il movimento anglo-americano controllandolo fino a quando non fosse convenuto alla Massoneria che scoppiassero le rivolte degli operai nelle piazze» (50). In realtà, più che di “infiltrazioni”, si tratta di recupero discreto dei vecchi massoni che, dopo lo scioglimento delle logge, avevano continuato l’attività esoterica nella clandestinità, sia pure sospendendo qualunque attività massonica “esterna”, a volte anche collaborando con il regime. È il caso dei Marescialli d’Italia Ugo Cavallero e Giovanni Messe, dell’ambasciatore a Madrid Giacomo Paolucci de’ Calboli, è il caso di Arturo Reghini, di figure cariche di gloria, ma anche di anni, come il Grande Ammiraglio Paolo Thaon de Revel “Duca del Mare” ed il marchese Guglielmo Imperiali di Francavilla,diplomatico di lungo corso, è il caso, soprattutto, di Domenico Maiocco, sul quale torneremo (51).

L’offensiva diplomatica delle Cancellerie e del Vaticano, l’opera di “convincimento” della Massoneria, trovano terreno fertile nelle Forze Armate ormai demoralizzate dall’andamento delle operazioni belliche. Badoglio, esautorato dalla carica di capo di stato maggiore generale dopo la disastrosa campagna di Grecia (52), cova da allora uno spirito di rivincita nei confronti del Duce (53). Viene informato, alla fine del 1942, che il Vaticano ed il Podestà di Milano, a sua volta pressato dagli industriali lombardi, farebbero pressioni sul re affinché, appropriandosi dei poteri statutari, cambi il governo, nominando lo stesso Badoglio a sostituire il Duce, ed immediatamente chiede lumi a Maglione, con una lettera del 21 dicembre 1942. Maglione, a stretto giro, smentisce (54). Badoglio non si arrende: un rapporto dello Special Operations Executive britannico (55) informa dell’esistenza di una cospirazione militare contro il Duce preparata all’inizio del 1943 con a capo Badoglio ed il generale Gustavo Pesenti, quest’ultimo pronto a prendere le armi a fianco degli Alleati già nel 1941 (56). Nel maggio 1943, Badoglio capeggia un gruppo di collari dell’Annunziata (gli altri sono il Maresciallo Caviglia, il Grande Ammiraglio Thaon di Revel, ed il Marchese Imperiali di Francavilla) che chiede udienza al Quirinale assieme a Vittorio Emanuele Orlando ed Ivanoe Bonomi per sollecitare un cambio di governo. Bonomi, Capo del Governo in pectore in caso di disponibilità del sovrano. Fallito il tentativo, per dissidi interni al gruppo (57) Bonomi, che sostiene di essere a capo di una coalizione di oppositori del regime, dichiara di rinunciare a qualunque tentativo di associare i monarchici al suo progetto (58). Per raggiungere il fine della pace separata, i servizi britannici ed il Vaticano puntano soprattutto su Galeazzo Ciano, genero del Duce (ne ha sposato la figlia prediletta Edda) e Ministro degli Esteri. Già nel 1939/40, il Vaticano punta su Ciano, dapprima perché l’Italia eserciti un’azione moderatrice sulla Germania per la questione di Danzica (59), e poi per creare una corrente contraria all’intervento in guerra dell’Italia (60).

Ora, dopo il “cambio della marea” e la conseguente fronda che emerge sempre più, si punta di nuovo sul genero del Duce (61). Mussolini, il 5 febbraio 1943, rimuove Ciano da Ministro degli Esteri, assumendone la carica in prima persona. I servizi segreti alleati interpretano tale mossa per quella che è: rimuovere la punta di diamante del partito della pace separata (62). Ipotesi confermata da una fonte anonima che, da Ankara, informa il Foreing Office sull’esistenza di un complotto di Grandi e Ciano per deporre il Duce, complotto di cui è a conoscenza il Principe di Piemonte (63). Su richiesta dello stesso Ciano (64), il Duce lo nomina Ambasciatore presso la Santa Sede. Il Re, tramite Acquarone, comunica a Ciano di essere felice della sua nuova destinazione (65). Il 24 febbraio 1943, il maestro di Camera di Pio XII, mons. Arborio Mella di S. Elia, informa di un incontro confidenziale avuto il 19 precedente con il Colonnello Bertone, segretario di Ettore Bastico, governatore della Libia. In tale colloquio, egli chiede udienza al Papa, per esporgli la necessità di accentuare le pressioni Vaticane sul Re perché si giunga ad una pace separata dell’Italia con gli Alleati, ritenendo ormai l’Italia al collasso militare (66). Il 12 maggio 1943, è Pio XII in persona a scrivere a Mussolini perché cessino le ostilità. La lettera viene mostrata a Ciano, che l’approva totalmente, anche se sostiene che il Duce non sia nelle condizioni psicologiche per comprenderla. Il Duce risponde il giorno successivo con un garbato rifiuto, ricordando le diverse funzioni dello Stato e della Chiesa, chiaramente trattando la lettera di Pacelli come intervento pastorale e non di diplomazia internazionale In realtà, confida Ciano a Maglione, Mussolini è piuttosto contrariato da quella che ritiene un’interferenza negli affari italiani di una potenza straniera formalmente neutrale (67). Con la presa di Pantelleria e delle Pelagie da parte degli alleati, la situazione subisce una brusca accelerazione. Si arriva, quindi, alla vigilia degli eventi, con il partito della “pace separata” che conta sempre più adepti, soprattutto nell’esercito e dilaga dopo lo sbarco in Sicilia degli Alleati agli inizi di luglio 1943. In realtà, sul piano delle iniziative diplomatiche, vi è un incessante tentativo, da parte giapponese, con forte appoggio da parte italiana, di giungere ad una pace separata con l’URSS, in modo da liberare le forze del Tripartito dall’impegno nei confronti dell’Armata Rossa, e concentrare gli sforzi bellici nell’Europa Occidentale, in Nordafrica e nel Sud Pacifico. I tentativi sono ben documentati, anche se «Gran parte della storiografia nel nostro paese, nonostante l’importante, seppur non conclusivo, contributo offerto da William Deakin e Renzo De Felice, ha però sostanzialmente sminuito l’importanza di questa iniziativa politica, dimostrando un’irriducibile tendenza a concentrarsi, unicamente, sui peace feelers italiani con Londra e Washington» (68).

Nella citata monografia sulla seduta del Gran Consiglio, Emilio Gentile motivatamente esclude che al voto si giunga per l’emergere del “dissenso interno” maturato in precedenza, come soprattutto Grandi vorrebbe far credere (69). Analizzando il comportamento dei gerarchi nel tempo, dimostra che essi non manifestarono mai alcun dissenso prima del “cambio della marea” nelle vicende belliche. Motivatamente esclude un ruolo attivo della Monarchia, né nella persona del Re, né in quella del Principe del Piemonte. Quest’ultima ipotesi negativa di Emilio Gentile va – però –corretta alla luce di ricerche pubblicate successivamente, che fanno vedere sotto altra luce alcune trame della Principessa di Piemonte Maria José (70). Vittorio Emanuele resta attendista, non si fida di Badoglio ed esita ad entrare in azione. Ma altri membri della famiglia reale, a cominciare da Amedeo d’Aosta, intessono le loro trame con la complicità dei vertici militari, la stessa Maria José «con Badoglio, Maglione, Montini, la vecchia guardia liberale e gli esponenti dell’antifascismo militante (comunisti compresi), riuscì anch’essa, senza però raggiungere nessun risultato, a persuadere Salazar a intraprendere, a suo nome, sondaggi di pace verso il Regno Unito» (71). Dunque, in questo vortice di trame comprendenti ambienti militari, Vaticano, Servizi Stranieri, i gerarchi sono mossi da loro motivazioni, che sono diverse le une dalle altre, tanto è vero che ognuno di loro darà una versione diversa perfino sullo svolgimento della seduta (72). Si è visto, comunque, che vi sono fin dall’inizio della guerra manovre per arrivare ad un cambio di regime, accentuatesi dall’autunno 1942, facendo leva sul timore di una disfatta in seguito al “cambio della marea” vedono protagonisti i servizi delle Cancellerie delle Nazioni Unite e dei Paesi neutrali, soprattutto il Vaticano. Quale il ruolo della Massoneria, dopo l’ordine dell’AMI?

Sul punto, la documentazione è piuttosto scarsa. Abbiamo una lettera di Badoglio datata 8 settembre 1943, in cui si direbbe: «In ogni modo, nel caso che i tedeschi estendano la loro occupazione militare, resta fissata la realizzazione delle ultime direttive del grande Oriente di Londra» (73). La lettera viene mostrata a Mussolini a riprova del “complotto massonico”. Riteniamo di seguire Mola (74): la lettera è un falso smaccato. Per il semplice motivo che non esiste un “Grande Oriente di Londra”. La principale obbedienza della Massoneria inglese non ha mai assunto questa denominazione. Dal 1813, ha assunto l’attuale denominazione di United Grand Lodge of England. Il dato più serio è un appunto sul diario di Ivanoe Bonomi, datato 24 luglio 1943: «Oggi alle 17 viene da me un noto antifascista, il dottor Domenico Maiocco piemontese, che è in molta intimità con il quadrumviro De Vecchi. Egli mi conferma che il Gran Consiglio del Fascismo si convoca proprio nell’ora in cui egli mi parla, e che le deliberazioni dell’assemblea saranno di eccezionale importanza. Il De Vecchi gli avrebbe detto che nella mattinata Grandi e Federzoni lo avevano persuaso a firmare un ordine del giorno inteso a restituire al Re tutte le sue prerogative, invitandolo nel preconizzato, come conseguenza del voto, il ritiro di Mussolini e l’incarico ai presentatori dell’ordine del giorno di costituire un Governo nuovo. Naturalmente – così egli avrebbe detto al mio informatore – il nuovo Governo avrebbe fatto appello alla concordia nazionale, invitando i maggiori uomini della opposizione a dare la loro collaborazione. Il De Vecchi non si sarebbe fatta alcuna illusione sulla mia risposta, pure desiderava di farmi sapere preventivamente che mi si sarebbe rivolto un invito amichevole» (75).

Domenico Maiocco è un vecchio massone che dopo lo scioglimento delle logge ha continuato l’attività massonica, soprattutto tenendo i contatti con i fratelli, sia quelli rimasti in Italia nella clandestinità, sia con i fuorusciti, sia – soprattutto con l’AMI e con le Fratellanze degli altri Paesi, soprattutto oltreoceano (76). Nella preparazione del voto al Gran Consiglio del 25 luglio, si avvale della sua antica amicizia con Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, onde svolge opera di collegamento tra i gerarchi e tra questi e la corona (77). Abbiamo più volte detto che l’opera “del” massone non può di per sé riferirsi alla “Massoneria” come istituzione. Ma, nel caso di specie, riteniamo che l’opera di Maiocco sia riferibile alla Istituzione. Subito dopo l’arresto di Mussolini, il 26 luglio 1943, viene convocata una riunione del “Governo dell’ordine massonico italiano” con l’obiettivo di riattivare le logge sciolte da Torreggiani con la balaustra del 22 novembre 1925 e con un programma politico preciso, di perseguire «il principio democraticonell’ordine sociale e politico», e di lottare «senza tregua controtutti i dispotismi politici, le intolleranze religiose e i privilegidi qualunque genere» (78), segno che la “rinascita” delle logge è un piano preparato da tempo, che ha come presupposto indefettibile la caduta del Regime, a cui – dunque – Maiocco collabora perché venga rimosso l’ostacolo alla ricostruzione del Tempio. Pur non essendo – dunque – decisiva, l’opera della Massoneria nella caduta del Regime ha in ogni caso la sua incidenza. Paradossalmente, però, è molto più incisiva in questo intento, condiviso con la Fratellanza, l’azione continua della sua secolare nemica: la Chiesa Cattolica.

Note:

1 - “La costituzione in senso materiale” Giuffrè, Milano 1940.
2 - cfr. Gentile, “25 luglio 1943”, Laterza, Bari-Roma 2018, pp. 59 ss.; sullo stesso argomento, De Felice, “Mussolini, il Duce. 2. Lo stato totalitario”, Einaudi, Torino 1981; Alberto Acquarone, “L’organizzazione dello stato totalitario”, Einaudi, Tonino 1965.
3 - Gentile, op. ult. cit., p. 7.
4 - Luigi Pareti, “Passato e presente d’Italia”, Casa editrice delle edizioni popolari, Venezia 1944, p. 329; il dato in sé è ritenuto attendibile senza verifica elle fonti da Francesco Leoni, “Storia dei partiti politici italiani”, Alfredo Guida Editore, Napoli 2001, p. 466.
5 - Pareti è uno storico dell’antichità che aveva aderito con entusiasmo alla RSI, ed aveva sposato le tesi di Preziosi sul “complotto massonico”. È curioso constatare come la tesi della congiura massonica che avrebbe determinato la caduta del Fascismo trovi i suoi fautori soprattutto tra i fascisti ed i massoni, come si vedrà infra.
6 - Diario di Galeazzo Ciano, nota del 21 marzo 1939, Milano, Rizzoli, 1950.
7 - Anche contro Farinacci non mancarono gli strali degli irriducibili, sulla base della sua pregressa iniziazione. Addirittura, all’epoca della Segreteria Farinacci del PNF (15 febbraio 1925 – 30 marzo 1926), sorse l’Ordine dei soldati per la buona guerra, con l’intento di contrastare la minaccia di “infiltrazione massonica” che sarebbe stata capeggiata dal ras cremonese.
8 - Stefano Fiorucci, “Giovanni Preziosi (1881-1945). L’antisemitismo nei suoi articoli su «La Vita Italiana» 1919-1943” – tesi di laurea – 2005 con appendice 2007; Clemente Galligani, L'Europa e il mondo nella tormenta, guerra, nazifascismo, collaborazionismo, Resistenza, Armando Editore, Roma 202,p. 202, che data erroneamente la lettera al 1° luglio.
9 - La prolusione di Preziosi viene assunta a prova della congiura massonica dalla anonima voce “Massoneria” nella prima appendice postbellica all’Enciclopedia Italiana pubblicata nel 1948. L’articolo sulla “Treccani” viene poi ripreso dal GOI a riprova delle sue benemerenze antifasciste nel 1960, in un opuscolo intitolato “L’Azione della Massoneria italiana (palazzo Giustiniani) in difesa della libertà e delle libere istituzioni contro il fascismo e le sue reviviscenze”, a cura del Gran Maestro dell’epoca, Umberto Cipollone – pp. 17-18.
10 - Gentile, op. ult. cit., p. 30.
11 - De Felice, “Mussolini, l’alleato – 2. la guerra civile”, Einaudi, Torino 1997, ristampa a cura della biblioteca storica “Il Giornale”, Milano 2015, pp. 55 ss.
12 - Il verbale è pubblicato, tra l’altro, in appendice a Renzo De Felice, op. ult. cit., pp. 604 s.
13 - v. supra, nota 146.
14 - Sostiene, tra l’altro, che il Gran Maestro uscente sarebbe stato il Re. Il precedente Gran Maestro era – invece - il principe Arthur di Connaught and Strathearn, che era succeduto nella carica a Edoardo VII, Gran Maestro quando era principe di Galles, ma dimessosi dalla carica dopo l’ascesa al trono. Preziosi nell’articolo sostiene che i Re d’Inghilterra avrebbero ininterrottamente ricoperto la carica di Gran Maestro fino al 1939. In realtà,nessun sovrano ha mai ricoperto tale carica.
15 - De Felice, op. ult. cit., pp. 513 ss.
16 - Michele Sarfatti (a cura di), “La Repubblica sociale italiana a Desenzano, Giovanni Preziosi e l'Ispettorato generale per la razza”, Giuntina, Firenze 2008, p. 85.
17 - Sarfatti (a cura di), op. cit., p. 88.
18 - Questa tesi ritorna periodicamente, ma senza citare alcuna fonte attendibile. Aldo A. Mola, 2018 p. 646; “Storia della Massoneria Italiana dalle origini ai giorni nostri”, Bompiani, Milano 1992 (d’ora in avanti, Mola 1992), p. 650, la liquida come “chiacchiera”, ma circola da sempre. Lo stesso Maresciallo Graziani, nelle immediatezze dell’armistizio, attribuisce la decisione di Badoglio alle pressioni massoniche in un colloquio con mons. Marchioni, Segretario della Nunziatura apostolica in Italia - “Actes et Documentsdu Saint Siègerelatifs à la seconde Guerre Mondiale. Le Saint Siège et la Guerre mondiale, novembre 1942 – décembre 1943” Libreria Editrice Vaticana, 1973 (in seguito, Actes 7.). L’affiliazione massonica di Badoglio è data come certa da Rivista Massonica (rivista del GOI) – numero di aprile 1976, p. 247.
19 - Questa tesi è abbastanza condivisa nella storiografia. Da ultimo, cfr. Di Rienzo, “Caporetto, la «strana disfatta», in Nuova Rivista Storica, 91, 2007, 3, pp. 661-672”; id. “Caporetto come «problema storiografico»”, Saggio introduttivo alla ristampa di Gioacchino Volpe, “Da Caporetto a Vittorio Veneto”, Rubettino, Soveria Mannelli 2018.
20 - Questa tesi ha un suo fondamento. Badoglio, contrario all’intervento in Grecia, si adopera perché non vengano inviati a Visconti Prasca i rinforzi da lui richiesti. Sul punto, tra gli altri, cfr. De Felice, “Mussolini, l’Alleato. 1. L’Italia in guerra”, Einaudi, Torino 1990, pp. 197 ss.
21 - Sarfatti (a cura di), op. cit., p. 85.
22 - Galligani, op. cit., p. 203.
23 - Joseph Paul Göbbels, “Diario intimo”, Mondadori, Milano 1948, p. 688.
24 - Paul Duclos, “Le Vatican et la Seconde Guerre Mondiale: action doctrinale et diplomatique en faveur de la paix”, Pédone, Paris 1955; Giorgio Andreozzi Gariboldi, “Pio XII, Hitler e Mussolini”, Mursia, Milano 1988; id., “Il Vaticano durante la Seconda Guerra Mondiale”, Mursia, Milano 1992; Owen Chadwick, “Britain and the Vatican during the Second World War”, Cambridge University Press, 1986 – questo lavoro è basato sulla traduzione italiana di Gloria Romagnoli, “Gran Bretagna e Vaticano durante la Seconda Guerra Mondiale”, San Paolo, Torino 2007; Matteo Luigi Napolitano, “Pio XII tra guerra e pace: profezia e diplomazia di un papa (1939-1945)”; Mark Riebling, “Church of Spies. The Pope’s Secret War Against Hitler”, Basic Book, New York 2015 – questo lavoro si basa sulla traduzione in francese di Johan-FrédérikHelGuedj– “Le Vatican desespions: La guerresecrète de Pie XII contre Hitler”ÉditionsTallandier, Paris 2016.
25 - Juan María Laboa, “La chiesa e la modernità, Volume 2, I papi del Novecento” – Jaka Book, Milano 2001, p. 157.
26 - Napolitano, op. cit., p. 252; Mark Riebling, op. cit., cap. 8, “Sécretabsolu”.
27 - AAS IX (1917) pp.421-423.Il testo integrale in italiano è consultabile sulla rete all’indirizzo http://w2.vatican.va/content/benedict-xv/it/letters/1917/documents/hf_ben-xv_let_19170801_popoli-belligeranti.html
28 - John Francis Pollard, “Una «inutile strage». Benedetto XV e la Prima guerra mondiale”, in Concilium 3/2014, p. 170; id., “Il papa sconosciuto”, San Paolo, Torino 2001, pp. 109 ss.
29 - In realtà, il Vaticano non avrebbe potuto, per espressa previsione dell’art. 24 dei Patti Lateranensi, prendere posizione sulle vexatæ quæstiones sottese alla guerra, quindi la scelta di non “manifestarsi” era dovuta. Pio XII violerà permanentemente la norma concordataria durante tutto il conflitto.
30 - Soprattutto Duclos e Napolitano, op. cit.
31 - Duclos, op. cit.,pp. 204 ss.
32 - Il testo italiano dell’enciclica è consultabile sulla rete all’indirizzo http://w2.vatican.va/content/pius-xi/it/encyclicals/documents/hf_p-xi_enc_19310629_non-abbiamo-bisogno.html
33 - Giovanni Maria Vian, voce “Paolo VI”, in Enciclopedia del Papi, a cura dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana.
34 - Riebling, op. cit., cap. 1., “Ténèbres sur la Terre ».
35 - testo italiano reperibile sulla rete all’indirizzo http://w2.vatican.va/content/pius-xi/it/encyclicals/documents/hf_p-xi_enc_14031937_mit-brennender-sorge.html
36 - Mark Riebling, op. e loc. ult. cit.; sull’enciclica, cfr.HubertWolf, “Il papa e il diavolo: il Vaticano e il Terzo Reich”, tad. Paolo Scotini, Donzelli 2008, p. 217.
37 - David Álvarez – Robert A. Graham, “Nothing Sacred: Nazi Espionage Against the Vatican, 1939-1945”, New York, Irish Academic Press, 1998
38 - Napolitano, op. cit., pp. 134 ss.
39 - Riebling, op. cit., cap. 3., “Jo le bœuf.
40 - In “Actes et Documents duSaint Siège relatifs à la seconde Guerre Mondiale. Le Saint Siège et la Guerre mondiale, mars 1939 – août 1940”, Libreria Editrice Vaticana, 1970 (in seguito, Actes 1.), p. 436 n,, Müller è definito “l'agent ordinaireentre le Vatican et lesgénérauxhostilesaurégime naziste” (l’agente ordinario tra il Vaticano ed i generali ostili al regime nazista) – cfr. Napolitano, op. cit., p. 100.
41 - Duclos, op. cit., p. 117 – l’A. propone una mera ipotesi, non essendo ancora noti i documenti custoditi nell’Archivo Vaticano, ma verrà successivamente confermata dai documenti: cfr. la nota del nunzio apostolico in Spagna, mons. Cicognani, al Segretario di Stato mons. Maglione il 13 maggio 1940, in “Actes 1. ”, cit., p. 452.
42 - Liddell Hart, History of the Second World War, New York, Exeter Books 1980, pp. 353 ss.
43 - Enrique Moradiellos, “La España de Franco (1939-1975). Política y sociedad”,Madrid:Síntesis 2000, p. 67.
44 - Di Rienzo – Gin, op. e loc. ult. cit.; Wayne H. Bowles, op. cit., p. 88.
45 - Lúis Suárez Fernández, “Franco. Los añosdecisivos. 1931-1945”. Barcelona: Ariel 2011, pp. 201 ss.
46 - ibidem, p. 227.
47 - Di Rienzo – Gin, op. cit., p. 35;
48 - Álvarez – Graham, op. cit.; Di Rienzo – Gin, op. cit., p. 37.
49 - Wayne H. Bowles. “Spain during Worls War II”, University of Missouri, 2006, p. 50; siveda la nota a mons. Maglione di mons. Cicognani, Nunzio Apostolico a Madrid, del 17 dicembre 1942 (Actes 1., p. 142), in cui si parla di un’iniziativa iberico-Vaticana per la cessazione delle ostilità.
50 – Vantina Marica Melfa, “Massoneria e Fascismo: Dall'interventismo alla lotta partigiana” Mondi Velati Editore, Chivasso 2013, pos. Kindle 1797 ss.
51 - Mola 2018, pp. 583 ss.
52 - Sul piano formale si era dimesso, ma erano state dimissioni forzate, dopo le dure critiche allo Stato maggiore, soprattutto da parte di Farinacci, ed il rifiuto del Duce di far cessare tali attacchi: cfr. Galeazzo Ciano, “Diario”, cit., nota 25 novembre 1940; De Felice, “Mussolini, l’Alleato, l’Italia in guerra”, vol. I, parte 1., Einaudi tascabili, Torino 1990, pp. 343 ss.; Gian Carlo Fusco, “Guerra d'Albania”, Sellerio, Palermo 2001, p. 91; Matteo Di Figlia, “Farinacci: il radicalismo fascista al potere”, Donzelli, Milano 2007, p. 241.
53 - Marco Patricelli, “Settembre 1943: i giorni della vergogna”, Laterza, Bari/Roma 2010, p. 21. Secondo HelGuedj, op. cit., cap. 19. “Prisonnierdu Vatican”, le manovre di Badoglio erano accelerate da una voce, diffusa in ambienti Vaticani, secondo cui il Duce avrebbe avuto l’intenzione di deferirlo ad una “Corte marziale” (recte, ad un Tribunale militare di guerra).
54 - “Actes 7.”, cit., pp 155 s.
55 - Dipartimento speciale dei Servizi britannici alle dirette dipendenze di Churchill dal 1940.
56 - Di Rienzo – Gin, op. cit., p. 38.
57 - Si veda la nota del Conte Della Torre (Direttore dell’Osservatore Romano) al cardinale Maglione del 12 maggio 1943, in Actes 7., pp. 333 ss.
58 - cfr. la lettera del Conte della Torre a mons. Maglione del 20 maggio 1943, in “Actes 7.”, p. 354.
59 - Si vedano la lettera dell’Ambasciatore di Polonia al cardinale Maglione del 9 maggio 1939, in “Actes 1.”, pp. 135 ss., la nota dello stesso Maglione della stessa data ibidem, p. 138, ma, soprattutto il resoconto del Nunzio d’Italia Borgongini Duca al cardinal Maglione in data 14 giugno 1939, circa un colloquio con Ciano del giorno prima – ibidem, pp. 177 ss. – Ciano rassicura il Nunzio: la Germania non ha intenzione di invadere la Polonia. Questa “rassicurazione”, tramite il Vaticano, fa il giro delle Ambasciate d’Europa. Ciano si reca a Salisburgo per dissuadere i tedeschi da intenzioni bellicose verso la Polonia. Regno Unito e Vaticano sono immediatamente informati dell’insuccesso della missione – ibidem, pp. 221 ss.; illuminante la nota di mons. Tardini del 26 agosto 1939. « … il Ministro degli Esteri fa del tutto per influire su Mussolini affinché faccia capire a Hitler le difficoltà di seguirlo in una guerra» - ibidem, p. 247. Ciano fa di tutto per dissuadere la Germania dalle sue pretese per Danzica, cerca di coinvolgere in questo tentativo il governo e ne informa passo passo i britannici ed il Vaticano. Annota nel suo Diario il 30 agosto 1939: «Continuo e moltiplico i miei contatti con gli inglesi: Percy Loraine è venuto questa notte a casa e durante il giorno telefona continuamente».
60 - Nella nota 5-6 settembre 1939, Montiniscrive: «La notizia dei primi successi della Germania contro la Polonia ha ridestato gli spiriti bellicosi del Duce, che a stento è trattenuto dal Ministro Ciano»; in seguito a tale nota, Pio XII invia Padre Tacchi Venturi a Palazzo Venezia per fare pressioni su Mussolini affinché conservi la neutralità (Actes 1., p. 294) – il gesuita Pietro Tacchi Venturi, grande negoziatore tra Vaticano e regime fin dall’ascesa al potere, era stato messo da parte subito dopo l’elezione di Pio XII, che – evidentemente – lo rispolvera sperando nelle sue doti di mediatore e nei suoi rapporti con il Duce; dal diario di Ciano sappiamo che il colloquio si svolge il 6 settembre; Tacchi Venturi, con nota del 7 settembre (ibidem), comunica che ci sono buone speranze perché l’Italia rimanga neutrale fino alla fine del conflitto e che il partito della neutralità ha in Ciano il suo perno. Continuando le operazioni belliche, svariate note vaticane esprimono “gratitudine” a Ciano per i suoi “sforzi per la pace”; il 21 dicembre 1939, Ciano, durante un’udienza di Pio XII con il Re, dice a mons. Tardini: «… ho potuto salvare la pace d'Italia ma non ho potuto salvare la pace dell'Europa» (ibidem, p. 347); nella nota del 17 febbraio 1940 (ibidem, pp. 373 ss.), il cardinale Maglione riferisce un colloquio privato con Ciano, il quale lo avrebbe rassicurato circa il perdurare nella neutralità italiana, illustrando i motivi per i quali non sarebbe entrata in guerra. Il colloquio avviene dopo un incontro di Ciano con Percy, annotato nel suo Diario del 17 febbraio 1940. I rapporti di Ciano con la diplomazia vaticana sono intensissimi, e sono diligentemente riportati nei documenti di fonte pietrina, spesso secretati. Da questi, si evince con la massima chiarezza che Ciano intende accreditarsi con il Vaticano quale perno della fazione fascista favorevole alla continuazione della neutralità. E, diligentemente, tiene informati i diplomatici del Papa circa l’evoluzione della situazione. Quando, il 18 marzo 1940, Mussolini si incontra al Brennero con Hitler, Ciano sul suo diario annota: «Per quanto ci riguarda, l'incontro non ha sostanzialmente alterato la nostra posizione», e lo comunica al Vaticano, agli SUA ed al Regno Unito (Diario del 19 marzo 1940) ma, successivamente (una parte del colloquio non aveva avuto testimoni), ha l’impressione che il suocero si sia ormai “compromesso” con l’alleato tedesco, e si precipita ad informarne il Nunzio apostolico in Italia, Borgognoni Duca, come apprendiamo dalla nota 27 marzo 1940 di quest’ultimo al cardinale Maglione (ibidem p. 412). L’11 maggio 1940, Ciano informa il Nunzio di aver ormai perso le speranze di mantenere la neutralità, come apprendiamo dalla missiva di Borgognoni Duca a mons. Maglione (ibidem, p. 450). La realtà è che, nel periodo immediatamente antecedente all’entrata in guerra dell’Italia, tra Mussolini e Ciano s’instaura un vero e proprio “gioco delle parti”. Il Duce è ben consapevole della impreparazione dell’Italia alla guerra, ma, dovendo fronteggiare gli impazienti (Starace, Farinacci, Alfieri), lascia a Ciano la recita della parte del “moderato”. Ciano ne approfitta per accreditarsi come tale agli occhi delle diplomazie degli Alleati e del Vaticano. Ciò fin dall’immediatezza delle operazioni belliche, che vedono Daladier e Chamberlain premere sull’Italia perché resti neutrale. Che Ciano menta al Vaticano riguardo ai suoi presunti conflitti con il suocero, si evince da una nota di Bocchini (capo della Polizia) del 30 agosto 1939, in cui confida a Padre Tacchi Venturi (su cui, v. infra), che il Duce non ha alcuna intenzione di entrare in guerra a fianco della Germania. L’intento di Ciano di accreditarsi come “moderatore” rispetto al suocero, lo porterà a “falsificare” i suoi Diari, inserendo note a suffragare tale immagine (cfr., sul punto, Di Rienzo, “Ciano”, cit.).
61 - Si veda la lettera datata 13 febbraio 1943 di Harold Tittmann (ambasciatore S.U.A. in Vaticano) al Segretario di Stato Cordell Hull: «Ciano a causa della sua nota propensione pro alleati, era adatto ad agire attraverso il Vaticano, nella sua nuova funzione di ambasciatore italiano, sui rappresentanti delle Nazioni Unite nella Città del Vaticano favore di una pace di compromesso sostenendo con loro il pericolo russo» - la lettera è pubblicata in Ennio Di Nolfo “Vaticano e Stati Uniti. Dalle carte di Myron C. Taylor”, Franco Angeli, Milano 1978, p. 234.
62 - Di Rienzo – Gin, op. cit., p. 41.
63 - Di Rienzo, “Ciano”, cit., pos. Kindle 9053 ss.
64 - Diario, 5 e 6 febbraio 1943.
65 - ibidem
66 - Actes 7., pp. 240 s.
67 - Il succedersi degli eventi è riportato in Actes 7., pp. 330 ss. L’irritazione del Duce per le interferenze vaticane comincia già con le pressioni del Papato per impedire l’entrata in guerra dell’Italia, e prosegue per tutto il corso della guerra: sul punto, v. Napolitano, op. cit.
68 - Di Rienzo – Gin, “Quella Mattina del 25 luglio 1943. Mussolini, ShinrokuroHidaka e il progetto di pace separata con l’URSS”, in NRS, XCV, 1, 2011, p. 31; id., op. cit., p. 198. Gi AA. fanno riferimento a Renzo De Felice, “Mussolini, l’alleato. I. L’Italia in guerra, 1940-1943”, cit., pp. 1278 ss. e Frederick WilliamDeakin, “Storia della Repubblica di Salò”, Einaudi, Torino 1962, pp. 88 ss.
69 - Dino Grandi, “Il mio paese: ricordi autobiografici”, a cura di Renzo De Felice, Il Mulino, Bologna 1985.
70 - Dai diari di Joseph Müller, apprendiamo che la principessa del Piemonte, pur non rivestendo un ruolo attivo nella vicenda, il 24 novembre 1942, su incarico di Badoglio, incontra Montini per discutere delle conseguenze di un eventuale mutamento di regime – cfr. HelGuedj, op. e loc. ult. cit.
71 - Di Rienzo, “Ciano”, cit., pos. Kindle 9024.
72 - In modo immaginifico, Emilio Gentile titola il prologo della monografia “Rashōmon a Palazzo Venezia”, con riferimento al film di Kurosawa in cui ognuno dei testimoni oculari di un delitto dà una versione diversa dello svolgimento dei fatti.
73 - Melfa, op. cit., pos. Kindle 1803.
74 - Mola 1992, p. 650.
75 - Ivanoe Bonomi, “Diario di un anno”, prima edizione 1946 - edizione digitale, con introduzione di Umberto Gentiloni Silveri, Castelvecchi, Roma 2017, p. 56.
76 - Alberto Cesare Ambesi, “Storia della massoneria”, De Vecchi, Milano 1971, p. 209; Massimo Della Campa - Giorgio Galli, “La massoneria italiana”, Franco Angeli, 1998, p. 77; Mola, 1992, p. 622.
77 - Per una completa ricostruzione della figura di Maiocco, cfr. Zarcone, op. cit.; Mola 2018, pp. 586 ss., riprende adesivamente gli studi di Zarcone, mentre nelle precedenti edizioni dell’opera non rileva questo ruolo svolto dal Maiocco nella preparazione della “notte del Gran Consiglio”, definendo il personaggio «ex socialista, ex antifascista, poi nuovamente antifascista». riportando il parere diffidente di Giuseppe Romita e mostrando di condividerlo (Mola 1992, p. 622). Evidentemente, il révirement di Mola è determinato dagli studi di Zarcone
78 - Conti, “Massoneria, politica e questione cattolica in Italia tra fascismo e Repubblica”, in “Religione e politica in Italia - Dal Risorgimento al Concilio Vaticano II” - Nino Aragno Editore, Torino 2013, p. 313.

(continua…)

Luigi Morrone per la Redazione di Ereticamente

L'articolo Fascismo e Massoneria, storia di rapporti complessi – 5^ parte – Luigi Morrone proviene da EreticaMente.

È possibile una democrazia illiberale? – Eduardo Zarelli

$
0
0

La condizione storica che stiamo vivendo ha involontariamente alcuni risvolti di grande portata, data la pochezza del confronto che caratterizza il dibattito e l’elaborazione ideale, ma è comunque vero chesi possono constatare delle tendenze inaspettate, in controtendenza all’annunciata “fine della storia”. Come in ogni momento di transizione, non è possibile prevedere con certezza quali scenari si andranno a imporre nel futuro, ma una cosa è oramai certa: la globalizzazione produce effetti contraddittori e spesso opposti alle aspettative create dall’occidentalizzazione del mondo. Il pensiero egemone liberale, affermatosi declamando la presunta morte delle ideologie – conil dettato del “politicamente corretto”, che impone un pensiero unico conformistico–resta, non a caso, sconcertato dalla confutazione aperta della coincidenza tra la democrazia e lo stesso liberalismo.

Come noto, Viktor Orbán – primo ministro dal 2010 per più legislature consecutive, con sovrabbondanti maggioranze parlamentari e un consenso diffuso e consolidato in Ungheria(Paese membro dell’Unione Europea) – esprime apertamente la legittimità di una “democrazia illiberale”, concetto che trasversalmente anche altri elaborano, sulla scia del montante populismo – fenomeno oramai mondiale – oltre un cristallizzato posizionamento di destra e di sinistra. È d'altronde lo stesso leader del Fidesz (Unione Civica Ungherese), ad affermare senza giri di parole che «i valori della Patria e dell’identità culturale hanno la precedenza sull’identità individuale». Parole ovviamente irricevibili tanto per i tardi cantori del cosmopolitismo illuminista e del primato universale dei diritti individuali quanto per i nuovi corifei della governance tecnocratica. Diessi prendiamo – tragli altri – l’autorevole giurista Sabino Cassese, il quale– in occasione dell’incontro politico svoltosi a Milano tra Viktor Orbán e Matteo Salvini –sulle pagine del Corriere della Sera scrive che «la democrazia non può non essere liberale», e la ragione è che «se non c’è libertà di parola, o i mezzi di comunicazione sono nelle mani del governo, non ci si può esprimere liberamente e quindi non si può far parte di quello spazio pubblico nel quale si formano gli orientamenti collettivi. Se la libertà di associazione e quella di riunione sono impedite o limitate, non ci si può organizzare in partiti o movimenti e la società civile può votare, ma non organizzare consenso o dissenso. Se i mezzi di produzione sono concentrati nelle mani dello Stato, non c’è libertà di impresa e le risorse economiche possono prendere soltanto la strada che sarà indicata dal governo. Se l’ordine giudiziario non è indipendente, non c’è uno scudo per le libertà. Se la libertà personale può essere limitata per ordine del ministro dell’Interno (come è accaduto nei giorni scorsi in Italia sulla nave Diciotti), i diritti dei cittadini sono in pericolo» (1).

Il compendio giusnaturalista di filosofia del Diritto è sicuramente completo; Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu non potrebbe che sottoscrivere ex postle parole di Cassese, a partire dalla valenza universalistica di tale richiamo della democrazia a un canone liberale, ma in realtà proprio su questo elemento fondante della modernità notiamo una determinante contraddizione di merito. L’idea che La democrazia svanisce se diventa illiberale–come dichiara il titolo stesso dell’articolo scritto dal giudice emerito della Corte costituzionale – non può che essere un’affermazione da contestualizzare storicamente giacché, come tutti sanno, la parola e la pratica della democrazia sono nate ad Atene nel VI secolo a.C., quando il liberalismo era ben lungi dall’aver fatto la sua apparizione sul palcoscenico della storia (avvenuta a partire dal XVII secolo). In Grecia, la democrazia era diretta (tutti i cittadini potevano prender parte all’ekklesìa o assemblea, vero organo decisionale) ea governare erail popolo, invece di eleggere gli uomini incaricati di governarlo. La democrazia è stata concepita quindi in rapporto non all’individuo, ma alla comunità organizzata, alla città (pòlis). Caratteristica principale della sua esistenza, il concetto di cittadinanza, secondo cui cittadino (polìtes) è chi appartiene a una patria, cioè a una terra e a un passato. Anche per il concetto di “libertà” vale la stessa premessa: per il Greco, è l’appartenenza a conferire la libertà, ed essere libero significa avere il diritto di partecipare alla vita politica, dunque alla vita della città. Ebbene, se la democrazia è inscindibilmente legata al concetto di libertà– e questo è legato a sua volta al concetto di appartenenza a una comunità (cittadinanza politica, quindi)– ne consegue che in una città di uomini liberi l’interesse particolare non può che sottostare all’interesse generale, cioè a quello della pòlis, e di ciò ne rimane traccia nell'insulto moderno “idiota” (idiotes), che in origine indicava per l'appunto la persona non interessata alla vita politica comunitaria.

Questo intendimento della democrazia– prima del contrattualismo di John Locke e il formalismo giuridico di Montesquieu a garanzia dei diritti individuali– siè caratterizzato in più contesti nel tempo storico. Il thing o Parlamento dei popoli scandinavi e germanici, assemblea di governo di tutti gli uomini liberi, ha svolto un ruolo decisivo nel Medio Evo sia precristiano che cristiano. Le assemblee cantonali svizzere derivano direttamente dal federalismo premoderno, così come Marsilio da Padova evoca il concetto di sovranità popolare per difendere l’autorità politica dell’Imperatore sulla Chiesa. La concordia e il consenso –nonla costrizione – caratterizzano il rapporto tra governanti e governati nella concezione di Altusio (Johannes Althusius), basata sull’associazione comunitaria e sulla sussidiarietà. Questa consociatio è una struttura cooperativa di gruppi organizzati volontariamente, in cui si sviluppa la vita politica e sociale legittimando dal basso l’autorevolezza del decisore. La democrazia, in ciò che ha di più fondamentale, si contrappone dunque direttamente alla legittimazione liberale dell'apatia politica, nella quale non si può che vedere una negazione della sovranità popolare; ma il governo democratico si dimostra incompatibile con i principi liberali in molti altri modi perchèè una forma di autorità politica e non ammette che questa venga assoggettata all'economia, né al controllo dei suoi rappresentanti. Esso fa discendere i diritti politici dalla cittadinanza e implica quindi che l'individuo si definisca prima di tutto tramite le sue appartenenze associative intermedie. Non si dà democrazia senza popolo, senza nazione e senza città, non essendo queste strutture transitorie e precarie, ma i contesti privilegiati della pratica politica. La democrazia, in ultima analisi, non è altro che la forma politica con la quale il maggior numero di persone può partecipare alla vita pubblica.

Per intendere quindi la profonda crisi della democrazia nella contemporaneità, bisogna avere ben presente la differenza fra la democrazia premoderna e quella attuale, definita comunemente liberal-democrazia. Le società occidentali, in cui essa storicamente si è affermata, sono scosse innanzitutto dalla distanza incolmabile tra le classi dirigenti e la popolazione. Le istituzioni rappresentative sono delegittimate nel senso comune, tanto che le élite tecnocratiche e intellettuali dubitano esplicitamente della rappresentabilità del popolo. L’ideale della governance, il modo cioè di rendere “non democratica la società democratica” è oramai nei fatti: senza sopprimere l’apparenza procedurale, si pratica un sistema di governo indifferente al popolo –o,se è il caso, contro – in nome di una etero-direzione transnazionale economico-finanziaria.A dimostrazione di ciò, la surreale discussione intervenuta in merito alla legittimità dell’attuale governo in carica nel nostro Paese: «Dobbiamo integrare i barbari o dobbiamo scacciarli?», così si interrogano apertamente intellettuali e accademici come Paolo Mieli, Giovanni Orsina e Angelo Panebianco, sempre sul Corriere della Sera. I barbari, ovviamente, sono i populisti che siedono oggi inaspettatamente nella “stanza dei bottoni” senza averne ottenuto il permesso dalle oligarchie. Conviene “civilizzare” i barbari, come avevano tentato di fare i Romani con Odoacre (versione Orsina) oppure scacciarli (versione Panebianco)? Metafora inquietante, commenta Mieli, per il solo fatto che la durezza dell’oggi evoca la tenebrosa epoca della caduta dell’Impero. Ma in regime democratico, inquietante per chi? Probabilmente per la comunità dei cittadini, visto che siamo di fronte all’ennesima conferma – la precedente ce l’ha fornita lo stesso presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con il veto anticostituzionale alla nomina politica di ministri dello stesso esecutivo – chela governance di un regime liberale non può accettare gli effetti “collaterali” della democrazia: quando il “popolo bue” esercita il suo ruolo sovrano e si esprime su questioni in cui non avrebbe la competenza, bisogna correggerne l’errore con le buone (Orsina) o con le cattive (Panebianco).Dicono insomma che queste forze rappresentino una minaccia per la democrazia e per la libertà. Ma oggi la democrazia come sovranità popolare è minacciata più da chi vuole invalidare i verdetti elettorali piuttosto che da chi vuole rispettarli.

Non è certo un caso che questa eterogenesi democratica dei fini liberali si sposi con l’occidentalizzazione del mondo, l’espansione anche cruenta della liberal-democrazia che caratterizza lo scenario internazionale. L’esportazione della “democrazia” e dei “diritti dell’uomo” (ai tempi del primo colonialismo si diceva della “civilizzazione” e del “progresso”) strumentalizza l’universale in funzione di meri interessi politici ed economici opportunistici, parziali. L’universalismo dell’oggi è in realtà il nazionalismo della potenza egemone mondiale. Imporre la democrazia a un popolo non può che portarlo a considerare la “democrazia” come una forma di aggressione. D'altronde, la falsa coscienza occidentale ha dato l’ultimo evidente sfoggio di sé nella unilaterale celebrazione della figura del senatore John McCain,recentemente scomparso: costui, una delle figure più attive nella destabilizzazione e promozione di aggressioni (tra le altre) in Iraq, Iran, Siria e Libia– con una scia di sangue per centinaia di migliaia di morti –è stato celebrato come campione mondiale della “guerra umanitaria” e quindi dell’egemonia mondiale statunitense cui la Provvidenza avrebbe destinato il Paese nordamericano. È proprio vero che il progressista si compra e si vende con le atrocità: nel commuoversi si sente buono e nell'indignarsi migliore, tanto che, se le atrocità non ci sono, bisogna inventarle oppure commetterle.

La liberal-democrazia subordina la società alla realizzazione edonistica dell’individuo, che degenera la libertà in liceità, un “dispotismo dolce” – perdirla con Alexis de Tocqueville – chesi installa al di sopra della folla solitaria di uomini simili plagiati nell’ortodossia del “politicamente corretto”, mentre lo scopo della democrazia classica è il bene comune, ove la persona svolge il proprio fine (telos), la vita buona che si riconosce nella comunità di cui è parte. Nello Stato democratico è il popolo a essere sovrano. Altra cosa avviene nello Stato liberale, in cui sovrano diventa il numero a profitto. La modernità pone il limite della libertà soggettiva dove comincia quella dell’altro, mentre l’appartenenza comunitaria ti pone in obbligo verso gli altri, ragione per cui la libertà è intesa come responsabilità, che si fa disinteressato dovere civico. Il liberalismo, per vizi privati e pubbliche virtù, promuove la realizzazione della ricchezza individuale come emancipazione del singolo da ogni misura e norma etica, mentre la democrazia degli antichi mira a evitare che il Re diventi un tiranno, che il singolo diventi un despota in sé e per gli altri, considerandoli uno strumento del suo utile e degradando la potenza di sé alla “volontà di potenza” su una realtà reificata e quindi annichilita. Alla luce di tutto ciò, in presenza del declino della vita associata e della giustizia sociale dovuta alla sussunzione nella forma capitale di ogni intendimento e azione individuale e collettiva, è legittimo immaginare – in controtendenza – una democrazia olistica, in cui il criterio dell’agire politico sia rappresentato non dall’espansione dei diritti individuali, ma dalla promozione e dalla difesa della comunità nazionale, territoriale, religiosa, familiare? Sì, possiamo immaginarla, anzi dobbiamo, se preserviamo ancora il rispetto di noi stessi e una considerazione della dignità umana non degradata a mere pulsioni mercificate. Comeben coglie Rodolfo Casadei,il liberalismo, avendo relativizzato, e infine disarticolato, con successo tutte le forme di appartenenza collettiva della persona – famiglia, comunità territoriale, affiliazione religiosa, patria – può portare avanti con successo il programma di ingegneria sociale totalizzante, incentrato sull’individuo: «Autodeterminazione è la parola d’ordine delle liberal-democrazie; tutte le discussioni politiche, culturali e giuridiche hanno luogo a partire dal presupposto che la volontà autonoma dell’individuo è il criterio da rispettare e valorizzare» (2).

Le critiche liberali portate al governo magiaro di Viktor Orbán sono intellettualmente oneste, o invece rispondono alla mistificazione ideologica? Le sanzioni contro l’Ungheria votate dal Parlamento Europeo aprono una prospettiva inquietante sul rapporto tra volontà popolare e ordinamenti sovranazionali. Sappiamo che le principali accuse mosse da una parte politica riguardano le iniziative nel campo dei media,l'uso improprio dei fondi europei, le presunte violazioni della libertà di associazione, la corruzione, il “condizionamento” nell'apparato giudiziario, il mancato rispetto dei «diritti fondamentali di migranti, richiedenti asilo e rifugiati». In realtà, all’oggi in Ungheria, la libertà di parola, di stampa e di associazione è pienamente vigente. L’influenza sui mezzi di comunicazione ufficiali (ma non elettronici), non è certo superiore a quella esercitata in qualsiasi Paese della Unione Europea da una forza politica maggioritaria; anzi, se facessimo una attenta comparazione con l’Italia, probabilmente avremmo esiti assai poco scontati sull’unilateralità dell’informazione. In merito al potere legislativo, tutte le costituzioni democratiche prevedono la possibilità di essere modificate, in nome del Popolo sovrano che ne legittima lo statuto. Opportuna sembra solo la attenzione sulla indipendenza dell’ordine giudiziario; in realtà, senza entrare in merito alle accuse specifiche molto labili, anche in questo ambito, la minaccia allo stato di diritto non è certo appannaggio esclusivo di governi politici plebiscitari. Chiunque sia in buona fede è consapevole chel'esempio di una giustizia il più delle volte negata è proprio il nostro Paese, in cui la legge la si applica al "nemico", mentre la si interpreta per l'"amico". In generale i giuristi, a livello internazionale, tendono sempre di più a sostituirsi ai rappresentanti del popolo, persino come creatori di leggi, che non andrebbero applicate né alla lettera né secondo lo spirito di chi le ha emanate, bensì reinterpretate alla luce della misoginia morale dei giudicanti. Ora, che cosa dovrebbe rendere un giudice– funzionario non eletto– autorevole interprete della società? Nulla, perché la volontà popolare si esprime in democrazia tramite la partecipazione e il consenso politico. La deriva tecnocratica, quindi, comprende l'autoreferenzialità dell’ordine giudiziario, che travalica il suo ruolo esi pone come élite dominante sul popolo, anziché servirlo.

Nonostante questa deriva, il primato del comunitario non deve comunque insidiare le libertà personali, compresa la volontaria adesione a un contesto politico e sociale, pena la negazione della giustizia come valore universale,in una deriva autoritaria del potere costituito. Il superamento del paradigma individualista con il paradigma comunitario non legittima alcun sistema politico nel venire meno al rispetto della dignità e della natura umana, cosa che invece sta accadendo con il vero e proprio mutamento antropologico prodotto dalla civilizzazione tecnomorfa e dal dominio totalizzante del materialismo pratico e del riduzionismo tecno-scientifico. È evidente che la demagogia degli “esperti” ha sostituito il dogmatismo confessionale o ideologico con una altrettanto dogmatica fede acritica nella tecnoscienza, tra l'altro nulla di più lontano dall'autentico spirito scientifico, che è assai incline alla problematizzazione e al senso di provvisorietà dei risultati. L’individuo mutante post-umano che si prefigura in questo presente distopico non sarebbe possibile, all’oggi, senza la premessa filosofica liberale per cui il soggetto ha il diritto a perseguire la propria massima felicità senza limiti e pregiudizio per gli altri, la natura e l’Essere. L’antropologia individualistica e utilitaristica è insofferente alla natura e il senso comune della realtà, infervorata da una tensione titanica all’illimitato, negala forma e la sacralità del vivente, generando sistemi economici, politici e giuridici destinati a una catastrofe ecologica e a contraddizioni sociali irrisolvibili, nella presunzione irresponsabile dell’affidarsi alla tecnica, per risolvere i problemi che la tecnica stessa crea.

I giornalisti e gli intellettuali neoliberali sono talmente unilaterali da non comprendere che la demonizzazione pregiudiziale del populismo ne alimenta la diffusione. La natura del capitalismo contemporaneo appare “di destra” in campo economico (emancipazione assoluta della logica del profitto), “di centro” in ambito politico (nel senso che vengono mantenute le forme istituite dell'esistente) e “di sinistra” in campo culturale (il costume dominante è quello del progresso e dell’individualismo “politicamente corretto”). Il ribaltamento di tale triade dominante nel senso comune diffuso lo colse per tempo con efficacia il sociologo americano Daniel Bell nel suo Le contraddizioni culturali del capitalismo, quando scrisse di ritenersi socialista in economia, libero nel campo della politica, conservatore nel campo della cultura. La manipolazione dell'opinione pubblica ha d'altronde raggiunto un tale livello, che si invera nel suo opposto, anche perché a furia di manipolare e di mistificare induce chi manipola e mistifica a credere che l'immagine distorta della realtà sia il mondo reale. Quali sono, quindi, le tendenze da porre effettivamente a discrimine delle politiche sovraniste? In primis, la subalternità al paradigma occidentale dominante. L’Europa oggi “paga” la sua incapacità di smarcarsi dagli Stati Uniti dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica, la scelta di tornare al capitalismo predatore e di mettere gli Stati al servizio dei “mercati”. È indispensabile quindi individuare delle procedure qualitative e non meramente quantitative di consenso, riattivare la partecipazione dal basso – attraverso i corpi intermedi, le associazioni, i municipi e le assemblee regionali –e valorizzare il vissuto, il locale e il territoriale nella sostenibilità e nella resilienza, ma in un respiro di grande spazio continentale autosufficiente e multilaterale. A tale fine, gli strumenti concreti sono le autonomie locali reali, la sussidiarietà, l’istituto referendario propositivo; in una parola, va sancita la priorità della partecipazione rispetto alla delega e alla rappresentanza. Appartenenza, socializzazione, reciprocità, partecipazione sono i caratteri di fondo della «democrazia organica», per dirla con Alain de Benoist (3). Per partecipare, è indispensabile riconoscersi nel contesto in cui l’interazione avviene; di conseguenza, risulta essenziale ricostruire la comunità, nella quale il bene comune non è subalterno a quello individuale e anzi l’individuo assume coscienza di sé proprio perché appartiene a una identità culturale collettiva. In una società in cui l’idea di Patria sia volontaristica, disinteressata e inclusiva, la solidarietà non decade in un astratto umanitarismo moralistico (e nelle sue ingerenze internazionali), ma si esprime in un “comune sentire” e si incarna politicamente nella giustizia sociale e nell’autodeterminazione dei Popoli.

Note

1) “La democrazia svanisce se diventa illiberale”, Corriere della Sera, 29 agosto 2018.
2) “È possibile una democrazia illiberale?”,Tempi, 31 agosto 2018.
3) Alain de Benoist, Democrazia il problema, Pagine editore, 2017.

Eduardo Zarelli

 

L'articolo È possibile una democrazia illiberale? – Eduardo Zarelli proviene da EreticaMente.


La Befana di Frau Holle ed il mito delle Madri volanti – Carlo Giuliano Manfredi

$
0
0

"La Befana riccia riccia
tutta quanta inanellata
scende giù con Befanino
da la cappa del camino.
Va dicendo a le regazze;
Siate bbone, nun siate pazze".

Frau Holle, conosciuta tramite la fiaba dei sapienti fratelli Grimm, è una una storia piena di simboli, con la quale si è saputo immortalare una delle più importanti tradizioni orali delle terre del nord. Legata a una divinità germanica precristiana, il ricordo della vecchia Signora, divinità protettrice della casa e della famiglia, è in effetti ancora vivo. Nella fiaba la troviamo sotto terra, in fondo al pozzo, dove la fanciulla la incontrò. Buio, profondità della terra ed acqua, ricordano che nei tempi passati, Frau Holle era venerata soprattutto negli anfratti delle montagne e nelle vicinanze degli stagni (quel mondo oscuro definito nella mitologia classica come mondo degli Inferi).

La radice hol appare nel termine tedesco Höhle che significa grotta e ben si addice alla figura di quest’antica divinità pagana della natura, regina del regno sotterraneo e delle montagne. Altra affinità linguistica lega il suo nome al vocabolo germanico Hell, che definiva il regno dei morti. Frau Holle era anche la signora dei morti. Il nome Holle rivela inoltre un’affinità con il termine tedesco hold, che significa incantevole, leggiadro. È la leggiadra dea della natura che diventa quindi anche la dea della primavera.

Nel periodo dal 25 dicembre al 6 gennaio, Frau Holle abbandona il suo regno sotterraneo e penetra nel mondo dei vivi per vedere chi abbia passato l’anno diligentemente lavorando e chi si sia dato invece alla pigrizia. Premia i buoni e punisce i cattivi. Un’epifania. Come la nostra Befana, la vecchia che nella notte fra il 5 e il 6 gennaio penetra nelle case attraverso il camino con i regali per i bambini buoni e il carbone per i cattivi, Frau Holle in quei giorni si avvicina al respiro dei mortali.

Anche la befana abita secondo la leggenda nelle caverne delle montagne ma arriva, nella famosa notte, a cavallo di una magica scopa che inforca al contrario per sottolineare che non è una strega. E' una figura non solo misteriosa, ma pericolosa se non si rispetta la sua invisibilità: chi infatti incautamente volesse sorprenderla mentre deposita i doni incorrerebbe in gravi pericoli. Questa vecchia misteriosa ed inquietante, che appare nella dodicesima notte dopo quella di Natale alla fine del periodo di transizione fra il vecchio e il nuovo anno, è stata interpretata come un'immagine di Madre Natura che, giunta alla fine dell'anno invecchiata e rinsecchita, assume le sembianze di una befana e prima di morire offre dolciumi e regalini che altro non sono, simbolicamente, se non i semi, grazie ai quali riapparirà nelle vesti della giovinetta Natura.

Questa Madre Natura, che rivela analogie sia con la mitologia greca che con molte tradizioni nordiche, allude alla Grande Madre, signora della vita, che regna su animali, rocce, vegetali, evocando l'idea della fecondità, dell'abbondanza ed della prosperità: madre del cosmo che governa il ciclo terreno di vita-morte-vita; padrona del fuoco domestico. Ma secondo un'altra interpretazione la Befana sarebbe anche la manifestazione degli antenati di ogni famiglia. Sicchè l'arrivo della Befana è un ritorno temporaneo dei parenti che portano doni importanti per la famiglia, segnando un rapporto tra il mondo dei bambini e quello degli antenati depositari della Tradizione.

Infine, l'azione rituale dell'arsione della Befana è spiegata dal fatto che la comunicazione tra i morti e vivi non può durare oltre quel periodo magico di passaggio da un anno all'altro, di caos, di con-fusione fra mondo dei vivi e quello dei defunti, gli antenati: ed è la fine del giorno dell'Epifania a segnare la fine di questa transizione fra un anno e l'altro, del periodo dei prodigi, della comunicazione con l'aldilà; sicchè la vecchia dev'essere bruciata perchè si possa instaurare il nuovo anno, il cosmo rinnovato.

La fanciulla sta sul prato. Porta un abito verde. Accanto a lei siedono tre belle vergini. L’una guarda davanti a sé, le altre nel vento. E la bella della città di Borne ha tanti, tanti bambini…

Carlo Giuliano Manfredi

L'articolo La Befana di Frau Holle ed il mito delle Madri volanti – Carlo Giuliano Manfredi proviene da EreticaMente.

Un ributtante scritto razzistico – Claudio Antonelli

$
0
0

Montréal 04/01/2019

Il vero scandalo di questo purulento scritto razzistico, pubblicato in una rivista canadese medico-scientifica intitolata « L’information médicale et paramédicale », (5 ottobre 1971) è dato dalla rimozione di cui esso è stato fatto oggetto. Subito dopo la pubblicazione, l’infame scritto sparì infatti nel nulla. A parte la reazione del momento di alcuni italiani di Montréal, nessuno da allora cita questo testo che, fatto veramente inusuale, non è reperibile in Rete. A ricordalo si direbbe che sia rimasto solo il sottoscritto. Eppure il suo autore, François Hertel, è considerato un gigante del Pantheon culturale e politico del Québec. Basti dire che Hertel fu il mentore di Pierre Elliott Trudeau, e fu l’ispiratore di numerosi altri personaggi di spicco del Canada francese.

Devo confessare che ho dovuto fare un grande sforzo per infine riproporlo. Mi ero accinto più di una volta a farlo, perché si tratta di un importante documento della disumanizzazione di cui noi italiani abbiamo fatto le spese in certi tristi momenti della storia della nostra patria adottiva. Ma ho dovuto attendere anni prima di riuscirvi, perché la rilettura delle infami parole di François Hertel comportava per me, ogni volta, accanto a un senso di incredulità e sconcerto, un’intima pena mista a ribrezzo. Inoltre, ogni volta tornavano alla mia mente altri episodi d’intolleranza da noi patiti nel passato, il cui ricordo mi rattristava.

Le incredibili parole dell’ex gesuita Hertel rivelano uno stato d’animo di ostilità, allora purtroppo assai diffuso, verso di noi “les Italiens”. Io ne sono testimone.

Il termine geograficamente riduttivo “Siciliens”, al quale Hertel fa ricorso, non è altro, secondo me, che un sinonimo di “Italiens”. Del resto, gli immigrati siciliani, a Montréal e altrove nel Québec, erano e sono indistinguibili, per la popolazione maggioritaria, dal resto degli italiani.

A scatenare la “reazione” di Hertel furono, molto probabilmente, gli aspri dibattiti sulla lingua in conseguenza della cosiddetta “crisi scolastica”, quando si ebbe la rumorosa reazione di molti italiani al cambiamento radicale che stava per avvenire in campo educativo nei confronti della lingua inglese, rimpiazzata da quella francese come lingua d’insegnamento scolastico per i figli degli immigrati. Furono probabilmente l’indecisione del governo del tempo ad andare subito fino in fondo nell’imposizione della lingua francese come lingua obbligatoria d’insegnamento a suscitare le ire di François Hertel (che si guardò bene dall’accusare invece gli ebrei, nettamente favorevoli all’inglese, ma minoranza temibilissima).

Vi sarebbe troppo da dire su questa complessa, delicata questione, su cui io d’altronde ho molto scritto; sempre prendendo posizione non per la cosiddetta “libera scelta”, che nei fatti si traduceva nella prevalenza massiccia dell’inglese nelle scuole del Québec frequentate dai figli degli immigrati, ma per i diritti della maggioranza francese di stabilire le regole in materia imponendo il francese come lingua obbligatoria d’istruzione. Ma la posizione da me tenuta allora, sulle colonne del settimanale di lingua italiana di Montréal “Il Cittadino canadese”, in contrasto con quella di molti dei cosiddetti leader della comunità italiana favorevoli invece all’inglese, non mi valse mai un commento di simpatia da parte dei nazionalisti quebecchesi, poiché io non ero considerato un individuo: Claudio Antonelli, responsabile delle sue scelte e dei suoi scritti, e non delle scelte e degli scritti degli altri, ma ero per loro un “Italien”. Incarnavo, insomma, ai loro occhi un’intera collettività.

Per lo spasmodico senso identitario collettivo che alberga nell’animo dei franco-quebecchesi io non potevo essere considerato un individuo, ma appunto un “Italien”. Infatti, anche quando si rivolgevano direttamente a un solo italiano, i quebecchesi erano soliti usare il plurale: “Vous, les Italiens…“ Quindi, pur rivolgendomi io a loro sempre e solo in francese, mi sentivo da loro rivolgere l’eterna domanda: “Ma perché voi Italiani parlate solo l’inglese?”

“Nous-autres” e “Vous-autres” : la mente dei quebecchesi ritagliava “les autres” in blocchi etnici a loro ostili.

Io mostrai questo incredibile manifesto razzistico a tre colleghi universitari ai quali mi sentivo molto vicino e che stimavo. Lo mostrai ad ognuno di loro separatamente e in momenti diversi. Rimasi raggelato vedendo la loro uniforme reazione: con espressione un po’ imbarazzata, ma con tono assolutorio e un po’ spicciativo, ognuno di loro pronunciò due o tre brevi frasette di commento, non di condanna dell’osceno scritto, bensì di sostegno e solidarietà a Hertel, l’ex gesuita “in esilio in Francia”.

Fu per me un colpo. Il sentimento tribale quebecchese ancora una volta mi mostrava il suo volto non sempre gradevole. Cosa volete, in quelle particolari circostante l’amico e collega Claudio Antonelli tornava ad essere per loro l’“Italien”. Io tornavo insomma ad assumere una veste, una valenza, un’identità collettiva che rendeva legittimo l’uso da parte loro del plurale: “Vous, les Italiens…”

Tra gli uomini più ricchi del Canada vi è oggi Lino Saputo, magnate di prodotti caseari, presente anche in altri campi dell’economia della sua patria adottiva. Saputo, nato in Sicilia da genitori siciliani, è tra le tante cose anche un generoso contributore di cause caritatevoli. L’apporto della famiglia Saputo alla società quebecchese è stato e continua ad essere molto rilevante. Spero che lino Saputo non abbia letto lo scritto di Hertel, o forse lo ha letto ed esso gli è stato di sprone… Innumerevoli altri siciliani, e i loro discendenti, hanno dimostrato, in questa terra, capacità d’intrapresa e qualità umane non indifferenti

Come mai i responsabili dell’ “Information médicale et paramédicale” permisero la pubblicazione di un simile osceno scritto, vero concentrato di odio razzistico e di assurdità (i siciliani, tra l’altro, difetterebbero di cultura…)? La semplice risposta è che il razzismo antitaliano in quegli anni era ammesso. Inoltre “omnia munda mundis”, e dalla bocca e dalla penna di un celebrato personaggio come François Hertel non potevano fuoriuscire che verità assolute.

Ma chi sono questi siciliani, colpevoli d’ogni male, campioni d’ignoranza, autentiche bestie “dal coito puzzolente” contro i quali Hertel lancia i suoi strali, in questo capolavoro retorico d’incitazione all’odio? Secondo me sono tutti gli immigrati italiani, anche se la frase evocante il “periodo d’oro” in cui “les émigrants italiens se recrutaient dans le nord du pays ou dans les centres et devenaient des citoyens paisibles de leur pays d’adoption” sembra voler fare una distinzione tra loro. Perché infatti Hertel non cita i calabresi, i molisani, molto numerosi in Québec e in Canada, e gli altri italiani del sud, napoletani e campani ad esempio, che di certo non si distaccavano molto dai siciliani nelle loro preferenze linguistiche? Nulla in questo indecente scritto ha la pretesa di essere fattuale. Infatti, non si accusano i siciliani di cose precise, ma li si condanna in blocco tutti perché “non vogliono parlare francese”.

In questo lurido scritto, i siciliani sono una pura astrazione. Sono una categoria antropologica del male. Essi non hanno nulla né di reale né di umano.

L’analisi di Hertel evoca senz’altro l’epoca in cui i siciliani, negli USA, erano visti come una “razza” a parte. Venivano infatti distinti dagli altri italiani. Ma neppure quest’ultimi, nel loro insieme, erano considerati dei bianchi a pieno titolo, venendo inseriti in una categoria intermedia tra i bianchi e i neri, ma più vicini ai neri che ai bianchi.

È difficile ed anzi impossibile trovare una spiegazione al fatto che questo lurido scritto sia stato ignorato per mezzo secolo. Eppure I diritti dell’uomo sono divenuti una religione, e ogni atteggiamento discriminatorio del passato, quando “discriminare” dopo tutto non aveva il significato dilatato e direi esagerato che tale verbo ha assunto oggi, è stato oggetto di innumerevoli analisi critiche e di aspre condanne. Io l’ho talvolta menzionato nei miei articoli giornalistici, ma senza approfondire l’argomento. La mia reticenza è da attribuire unicamente al grande disagio che questo scritto provocava in me ogni volta che i miei occhi lo sfioravano. Dopotutto, non si rimesta lo sterco con piacere.

Ed è uno sterco in fondo misto a sangue. Non vorrei apparire retorico, ma la Sicilia essendo parte d’Italia, fa parte, almeno nel mio cuore, della sfera sacra della nostra patria d’origine. Inoltre penso a certi straordinari siciliani che ho avuto la fortuna di conoscere e che meritano da me affetto, stima, lealtà e riconoscenza. Ne menzionerò qui solo tre, ma basterà: Franco Palmeri (mio zio acquisito), Baldassarre Sparacino (Alitalia), Francesco Paolo Fulci (Ambasciatore).


Dalla rivista “L’information médicale et paramédicale” (5 ottobre 1971)


Questi orrendi siciliani

Vi fu un tempo in cui gli emigranti italiani si reclutavano nel nord del paese o nel centro e divenivano cittadini tranquilli del paese adottivo. Tutto è cambiato da quando i siciliani si sono messi ad emigrare. Questa gente, che parla un dialetto talvolta completamente incomprensibile per un milanese o un romano, è profondamente incolta di padre in figlio, di origine molto dubbia, di onestà discutibile. Emigrano per sfuggire alla miseria dovuta a una sovrappopolazione che è però cara ai merdosi. Più il coito è puzzolente, più è fecondo!

Eccoci alle prese con questi nuovi venuti, sudici, rumorosi, senza la minima educazione. Essendo sfuggiti alla condizione di bisognosi, hanno fretta di diventare miliardari. Senza dubbio non ignorano che la Mafia americana sono loro. Senza voler pervenire a tanta opulenza, vogliono cessare di far parte del semplice popolino. Quando si stabiliscono nell’Ontario, la cosa va da sé, dimenticano il siciliano e si arrampicano. Qui, poveri martiri si vuol far loro imparare due lingue. Poiché non ne parlano neppure una, ciò li mette in serio imbarazzo. Da qui il loro cattivo umore.

Invece di azzuffarsi con loro, che li si convinca benevolmente ad andare a farsi impiccare altrove! Sarà vantaggioso per tutti.

Ecco le riflessioni, poco amabili, che mi permetto di pubblicare, da che questi nuovi arrivati senza interesse hanno fatto indietreggiare il governo del Québec stesso.

Mentre gli emigranti di origine ungherese, greca, polacca, o fiamminga, etc. non chiedono nulla di meglio che d’imparare il francese quando si stabiliscono nel Québec, questi strampalati individui si oppongono, con il loro cicaleggio siciliano di bassa lega, a una cultura di cui non hanno mai avuto la minima nozione nel loro stesso paese.

Confesso di stentare molto a capire questo peso sulla coscienza che i nostri dirigenti hanno provato nei confronti di chi opponeva loro questo rifiuto elementare.

I cittadini quebecchesi d’origine britannica, con i quali avemmo un tempo numerosi conflitti, hanno deciso di darsi al francese. Non lo fanno sempre con un entusiasmo delirante, ma fanno un simpatico sforzo.

Adesso che il Québec si è dato un ufficio d’immigrazione autonomo, speriamo che la ricerca in Italia non superi i limiti continentali e che si trascuri di sollecitare gli insulari del sud, decisamente irrecuperabili.

François Hertel dell’“Accademia canadese-françese”


Testo originale, in francese


« L’information médicale et paramédicale » (5 ottobre 1971)

Ces affreux Siciliens.

Il fut un temps où les émigrants italiens se recrutaient dans le nord du pays ou dans le centre et devenaient des citoyens paisibles de leur pays d’adoption. Tout est changé depuis que les Siciliens se sont mis à émigrer. Ces gens, qui parlent un patois complétement incompréhensible pour un Milanais ou un Romain, sont profondément incultes de père en fils, d’origine assez douteuse, d’une honnêteté souvent discutable. Ils émigrent pour fuir la misère due à un surpopulation chère aux crottés. Plus le coït est puant plus il est fécond!

Nous voici aux prises avec ces nouveaux venus, crasseux, bruyants, sans la moindre éducation. Ayant fui la condition de nécessiteux, ils ont hâte de devenir milliardaires. Il ne sont pas sans savoir que la Maffia américaines c’est eux. Sans vouloir atteindre a tant d’opulence, ils veulent cesser d’être des gagne-petit. Lorsqu’ils s’établissent dans l’Ontario, ça va tout seul. Il s’oublient leur sicilien et il s’accrochent. Ici, pauvres martyrs!, on veut leur faire apprendre deux langues. Comme il n’en parlent même pas une, ça les gêne aux entournures, D’où leur mauvaise humeur.

Au lieu de se bagarrer avec eux, qu’on les persuade donc en douce d’aller se faire pendre ailleurs! Tout le monde y trouvera son compte.

Voilà le réflexions, peu aimables, que je me permets de publier, depuis que ces nouveaux venus sans intérêt on fait reculer le gouvernement du Québec lui-même.

Alors que les immigrants d’origine hongroise, grecque, polonaise, voire flamande, etc… ne demandent pas mieux que d’apprendre le français quand ils s’établissent dans le Québec, ces hurluberlus s’opposent, avec leurs pialleries siciliennes de mauvaise aloi, à une culture dont ils n’ont jamais eu la moindre notion dans leur propre pays.

J’avoue que je suis loin de comprendre cette sorte de mauvaise conscience qui s’est emparé de nos édiles vis-à-vis de ce refus élémentaire.

Le citoyens québécois d’origine britannique, avec lesquels nous eûmes jadis maints conflits, ont décidé de se mettre au français. Ils ne le font pas toujours avec un enthousiasme délirant, mais ils font un effort sympathique.

Maintenant que le Québec s’est donné un office d’immigration autonome, espérons que la prospection en Italie ne dépassera plus les limites continentales et que l’on négligera de solliciter les insulaire du sud, décidément irrécupérables.

François Hertel de l’Académie canadienne-française


Tratto da “L’Encyclopédie Canadienne”

Hertel, François


François Hertel, pseudonimo di Rodolphe Dubé (Rivière-Ouelle, Qc, 31 maggio 1905—Montréal, 4 ott. 1985). A 20 anni entra nei Gesuiti ed è ordinato sacerdote nel 1938. Professore di letteratura, di filosofia e di storia, insegna nelle scuole Jean-de-Brébeuf, Ste-Marie e André-Grasset, come anche nel Collegio dei gesuiti di Sudbury. Nel 1946, lascia l’ordine e diviene prete secolare a Montréal, ma domanda la laicizzazione l’anno seguente. Nel frattempo, scrive articoli per diversi periodici, inclusa la rivista America Francese fino al 1947. Nel 1949, parte per la Francia dove dà conferenze, fonda una rivista d’arte (Rythmes et Couleurs, che diverrà più tardi Fer de lance) e dirige la casa editrice “Éditions de la Diaspora française”. Dopo 37 anni di esilio volontario ritorna a Montréal. Gli scritti di questo autore poligrafo comprendono quasi 40 titoli. (…)”

 

Fonte copertina: Dagospia

L'articolo Un ributtante scritto razzistico – Claudio Antonelli proviene da EreticaMente.

Epifania, sulle orme del Magus  – Stefano Mayorca

$
0
0

La Magia, immagine oscura e da sempre alterata dell’autentico significato, è riconducibile alla parola Maga, Magheia, termine derivante da Zoroastro (o Zarathtustra) e dai suoi seguaci, i sacerdoti caldaici o Parsi, i Magi legati alla dottrina del Fuoco Sacro. Magia significa sapienza, conoscenza, e la fonte sapienziale che fa capo ai dettami di questa “Scienza” non è contenuta nei libri, ma deve essere conquistata mediante un percorso iniziatico serio e arduo.

I Magi, che parteciparono alla Teofania Cristica, configurano in realtà i sacri sacerdoti, i re e i seguaci dell’Arte Regale, giacché l’iniziazione all’Alta Magia costituisce un’autentica sovranità. Non a caso la stella cometa citata nel Vangelo simboleggia fin dalla notte dei tempi il Cammino iniziatico. Per gli alchimisti rappresenta il segno della Quintessenza, per i maghi il Grande Arcano, per i cabalisti, al contrario, il Pentagramma Fiammeggiante che ritroveremo anche nella simbolica massonica.

La magia era la scienza di Abramo, di Orfeo, di Zoroastro. I dogmi della ermetica ragione che racchiudono la sacra filosofia magica secondo la Tradizione sono stati scolpiti nella pietra da Enoch e dal sommo Ermete Trismegisto; Tavole della legge che Mosè ha trasformate rivestendole di inediti significati, velandole nuovamente. La lunga marcia della occulta sapienza procede per gradi, insinuandosi in altrettante filosofie senza perdersi o estinguersi, ma semplicemente adattandosi e trasformando l’aspetto più superficiale, allo scopo di proteggere la parte maggiormente secreta da sguardi profani. Le tante maschere che essa ha indossato durante i secoli sono servite per non disvelare l’origine remota che ne segna le dinamiche di esternazione.

L’applicazione pratica delle regole nascoste e negate al profano determina la realizzazione dell’Opera, che in ultimo mostrerà a chi è meritevole e ha conquistato la scienza, il volto rifulgente del Sapere primordiale. Il cammino magico è essenzialmente operativo, o meglio sperimentativo. Non è affidato a pratiche mistiche e ciarlatanesche ma ad una perfetta sperimentazione, che, in base alle potenzialità animiche di ciascun soggetto, porta a determinati risultati sul piano materiale e “spirituale”.

Solo mediante una sperimentazione seria, equilibrata, esente da sterili esaltazioni, il magista-sapiente, può, alfine, pervenire alla realizzazione o stato d’essere attivo (fuoco creatore), capace di generare, in una genesi occulta (celata), quanto deve essere concretato. La Magia è la “Scienza” assoluta, scienza dell’uomo che deve reintegrare le potestà sopite nel profondo. Scienza che comprende l’astronomia, la geometria (Geometria Sacra), la matematica, la filosofia ermetica, lo studio dei simboli. Questa dottrina sacrale è giunta fino a noi frammentata, compito di ogni autentico iniziato è ricomporre le tessere del mosaico per ricreare il quadro originario della sapienza remota.

- Stefano Mayorca - riproduzione riservata

Nell'immagine un dipinto di Piotr Stachiewicz (1858-1938)

L'articolo Epifania, sulle orme del Magus  – Stefano Mayorca proviene da EreticaMente.

Lo smartphone è un killer – Gianfranco De Turris

$
0
0

Ci sono certe immagini che si possono ben definire rappresentative del loro tempo. Un paio d’anni fa un grande quotidiano pubblicò in prima pagina una foto in banco e nero che si rivela sempre più emblematica del nostro oggi. Raffigurava un ragazzo seduto su una sedia e una ragazza a sua volta seduta sulle sue gambe. Lui guardava verso sinistra il proprio smartphone, lei guardava verso destra il proprio smartphone. Vicinissimi eppur lontanissimi. Il telefono portatile e le sue evoluzioni collegate alla Rete sono l’invenzione oggettivamente più “pericolosa” della tecnologia non militare del Novecento, soprattutto per il modo in cui ha trasformato la nostra vita nei rapporti interpersonali e con il mondo esterno. Assai più invasiva di telefono fisso, radio, cinema, televisione, automobile, ha reso palpabile la teoria secondo cui la tecnologia ha una proprietà transitiva: modifica chi la usa se non la sa usare nel modo dovuto senza farsene condizionare. Ha prodotto una vera e propria mutazione antropologica globale. Ha reso possibile la comunicazione istantanea in ogni luogo e in ogni condizione e in ogni momento annullando le distanze e consentendo contatti video e vocali in tempo reale. Dal computer di una certa grandezza fisso su un tavolo al pc tascabile che ti porti appresso dappertutto.

In realtà però lo smartphone è un killer, in senso concreto e metaforico. E’ noto che molti incidenti stradali sono provocati dalla disattenzione prodotta dal telefonino col quale si parla e si mandano messaggi mentre si guida, e si sa delle morti assurde, soprattutto di giovani e giovanissimi, causate dagli autoscatti, o selfie, in posizioni e situazioni pericolose di solito volutamente cercate, ma forse pochi sanno che il governo coreano a installato una app agili smatphome degli abitanti di Seul che spegne l’apparecchio dopo cinque passi del suo proprietario se lo tiene acceso mentre cammina. Tanti sono gli incidenti pedonali causati dalla distrazione provocata dal suo uso compulsivo. A parte questo, l’aggeggio è un killer dei sentimenti, dei rapporti individuali e della cultura. Premessa. Il primo Rapporto Auditel-Censis del settembre 2018 ci fa sapere che l’89% degli italiani possiede uno smartphone, percentuale che sale al 98% nella fascia di età 18-34 anni. Gli “utilizzatori notturni” sono quasi metà della popolazione (28 milioni), cioè coloro che se lo tengono accanto nel letto, anche per usarlo, insieme o al posto del partner (!). Invece circa la metà (49,2 %)sono i minori fra 4-10 anni collegati con la Rete. Da questi dati quantitativi derivano conseguenze qualitative, vale a dire che, volenti o nolenti, il gadget sta provocando una mutazione psicofisica tuttora in corso. E non solo dalle generazioni nate dal 2000 col cellulare in mano, ma anche le precedenti sin quasi agli anziani. Stiamo passando dall’Homo Sapiens all’Homo Connexus. Lo smartphone è nelle mani praticamente di tutti e praticamente sempre: anche a pranzo, al cinema, al teatro, in camera da letto, per strada, nei bus e nella metropolitane non c’è chi non traffichi con la tastiera, o ascolti o vi parli dentro. Certi ortopedici sono preoccupati per la posizione ingobbita perenne di molti giovani e la foto dei due ragazzi inizialmente descritta è esemplificativa. La nostra si sta trasformando in una civiltà in continuo contatto sì, ma allo stesso tempo separata e distante perché privilegia il rapporto attraverso la tecnologia digitale che non il rapporto umano, fisico: se a tavola o a una conferenza tutti hanno lo smartphone acceso poggiato accanto, significa qualcosa, no? 

Sul piano culturale, l’assenza di una esplicita loro proibizione a scuola e in classe sta provocando disastri, e non si capisce perché il ministro della Pubblica istruzione non emani una circolare esplicita in tal senso a imitazione del governo francese che li ha vietati alle elementari e alla medie, mentre nei licei si possono usare solo a fini di ausilio didattico. Lo smartphone pare essere diventato la Bocca della Verità: solo da lui si apprendono notizie vere e la cultura in pillole. Attraverso il marchingegno si leggono informazioni a scapito della carta stampata penalizzando libri e giornali, si attingono dati da Wikipedia dove spesso sono errati, sommari o anche falsi, si va alla ricerca di fonti non sempre giuste o oggettive. In pratica, per fare in fretta si sceglie la via più facile e ci si accontenta dei surrogati e delle fonti di terza mano invece degli originali e di quelle di prima mano. Un volta i pedagogisti se la prendevano con i fumetti perché secondo loro facevano diventare elementare il linguaggio e atrofizzavano le menti. Esageravano, ma oggi questo risultato è stato raggiunto non con i comics ma con la cultura sintetica appresa tramite lo smartphone, cioè tramite Internet, in quanto ornai, come si è detto, questi strumento non è altro che un computer tascabile collegato con ogni fonte elettronica.

Si esagera? Si è troppo apocalittici dato che di esso ormai nessuno può a quanto pare fare a meno? Guardando in faccia la rapidissima evoluzione dei cellulari e il loro modo di incidere sulla vita quotidiana, modificandola, non si direbbe. Gli allarmi di qualche anno fa si sono rivelati giusti. Certo, c’è a chi questa mutazione della vita individuale e collettiva potrà anche andar bene (è indispensabile! come facevamo quando non esisteva?), ma a chi non va affatto è legittimato a dire che lo smartphone è un piccolo killer che ci portiano in tasca…

Gianfranco de Turris

L'articolo Lo smartphone è un killer – Gianfranco De Turris proviene da EreticaMente.

Il Figlio del Morto – Vittorio Varano

$
0
0

La condizione di orfano può essere congenita: la gravidanza concede ad ogni uomo, una volta avvenuta la fecondazione della donna, nove mesi di tempo per morire prima che nasca suo figlio ; il caso più tipico e frequente è quello del soldato che mette incinta la fidanzata o la moglie o l'amante durante una licenza, poi torna al fronte e viene ucciso, e il bambino viene al mondo già orfano, fin dalla nascita. Ma un conto è che il parto avvenga dopo la morte del padre, tutt'altra cosa è che ad avvenire dopo la morte del padre sia addirittura il concepimento – e questo è ciò che racconta la leggenda che sta alla base della religione misterica egiziana. Nascere significa cominciare a vivere, cioè ad avere vita, e si può cominciare a un certo punto ad avere qualcosa che fino ad un attimo prima non si aveva, solamente ricevendolo da chi ce l'ha, perché nessuno può dare ciò che non ha : si può nascere solo da un vivo. Osiride è padre di Horo, pur non potendolo essere se per padre si intende “colui che gli ha dato vita”, poiché il momento in cui il figlio l'ha ricevuta è successivo a quello in cui lui l'ha persa, e perciò, non avendola più, non poteva più darla. Osiride è padre di Horo pur non avendolo generato, o, in altre parole, ne è padre pur non essendone genitore. Horo non ha due genitori, ma una sola genitrice che è la madre, e un padre che non è un genitore. Non soltanto il rapporto che il figlio ha con il padre non è dello stesso tipo di quello che ha con la madre, ma in un certo senso ne è addirittura persino l'opposto. Infatti Horo ha con sua madre Iside un rapporto di provenienza-da, e con suo padre Osiride un rapporto di propensione-a : la madre è “colei da cui il figlio nasce”, invece il padre non è “colui da cui il figlio nasce” ma “colui per cui il figlio nasce” ; la madre è datrice di vita, mentre il padre non è datore di vita ma destinatario della vita, e il figlio non è “colui che riceve la vita”, ma egli stesso è la vita, offerta amorosa di Iside al suo fratello e sposo Osiride ( il signore della morte che è egli stesso la morte in persona ) ; la madre dà la vita, il padre la prende : Iside è ἔρως e Osiride è θάνατος ; e siccome la coppia ἔρως-θάνατος coincide con la coppia ἀρχή-τέλος, Iside è l'ἀρχή in persona e Osiride è il τέλος in persona. Si dice che “la morte è la sola cosa certa”, ma una volta che abbiamo scoperto che “la morte è il padre della vita”, possiamo applicare all'ambito escatologico la locuzione latina "mater semper certa, pater numquam” : è sicuro che il figlio deriva dalla madre ed è rivolto verso il padre, ma non è affatto altrettanto sicuro che ci arriverà ; in questo senso e per questo motivo è necessario trasformare la semplice formula giuridica ( attribuendo ad essa un significato ontologico che oltrepassa di gran lunga quello della semplice constatazione empirica da cui è ricavata ) nella seguente affermazione metafisica : θάνατος è trascendente. La morte non è il mostro da temere e tentare di evitare/allontanare per-più-tempo-che-si-può, opponendo una resistenza a oltranza, ma la meta a cui tendere attivamente.

La morte è il contrario della vita come l'esterno lo è dell'interno : Osiride è esterno alla vita, escluso dalla vita, in quanto essa si svolge entro il campo gravitazionale delle cui linee di forza Iside è la sorgente centrale. Osiride è il punto 0 in cui avviene l'inversione dalla vis-a-tergo del principio-di-ragion-sufficiente alla finalità ( in linguaggio aristotelico : l'εὐθανασία è il passaggio dall'ἐνέργεια all'ἐντελέχεια ). Osiride corrisponde alla classica iconografia della morte ( non in effigie ma nell'effettivo esercizio della sua sovranità per il sacrificio che esige ) : è il mietitore munito di falce, con la quale, come la moira Ἄτροπος fa con le sue affilate cesoie, recide il cordone ombelicale che mantiene il legame causale, mediante cui il figlio rimane attaccato alla madre pur essendosene allontanato, e che come un elastico lo tira indietro minacciando di interromperne l'avanzamento ascensionale prima che riesca a raggiungere il limite estremo del segmento che di quella sfera d'influenza è il raggio d'azione. Iside, partorendo, separa da sé quella parte che ha la tendenza a staccarsi dal suo corpo per tentare di toccarne il termine : il luogo d'incontro tra la superficie dello spazio che ne è l'espansione, e la tangente che sfugge alla forza centripeta con cui lo attrae la totalità lacunosa che in anticipo ne sente la mancanza. Horo è modello esemplare e figura dell'uomo ; la sua situazione è la stessa di cui parlano Aristotele e San Paolo, che io ritengo rispettivamente l'interprete più fedele dell'insegnamento di Socrate e l'interprete più fedele dell'insegnamento di Gesù : infatti Platone ha vanificato la predicazione di Socrate facendone il prosecutore di Pitagora e Parmenide, e sottovalutando la portata delle svolta costituita dalla sua rottura con i rappresentanti a lui contemporanei della sapienza greca ; mutatis mutandis, San Pietro ha vanificato la predicazione di Gesù facendone il prosecutore di Abramo e Mosè, e sottovalutando la portata delle svolta costituita dalla sua rottura con i rappresentanti a lui contemporanei della profezia giudaica.

A differenza dei suoi predecessori, Socrate non si chiedeva “da dove proviene il mondo” ma “dove va l'uomo”, e Platone ha creduto che questo fosse solo uno spostamento della messa a fuoco del problema, e che la domanda, nonostante la diversa angolazione prospettica secondo cui la formulava, restasse sostanzialmente la stessa, invece così non era ; insomma, Platone non ha capito che Socrate cambiava la domanda perché aveva pronta una nuova risposta, e rifiutava quella implicita nella mentalità immanentista a cui sferrava la sua sfida : gli antichi non si erano mai preoccupati di distinguere le due domande perché davano per scontato che “Ciò da cui proviene il mondo è lo Stesso verso cui va l'uomo”, perciò, separarle, significava affermare, da parte sua, innanzitutto che “ἀρχή ≠ τέλος”, ed inoltre, scegliere di dare più importanza ad una delle due, tanto da mettere da parte l'altra come irrilevante, significava affermare che “τέλος > ἀρχή”. Socrate introduce l'interrogativo sul Bene ; Platone lo neutralizza ( per scongiurare il rischio che Socrate venisse ridotto al ruolo di uno dei tanti sofisti fautori di un auspicato passaggio dal discorso sull'ἀρχή a quello sull'ἄνθρωπος ) con l'identificazione “ἀγαθός = ἀρχή” ; Aristotele lo utilizza inserito nell'equazione “ἀγαθός = τέλος” a cui sarà appoggiato il suo progetto di un discorso sul passaggio dalla φύσις alla ψυχή. A differenza di Platone, Aristotele capisce le implicazioni della separazione operata da Socrate, e parte dall' ἄνθρωπος/φύσις per arrivare all' ἄνθρωπος/ψυχή : l'uomo aristotelico è figlio della terra ma può farsi figlio del Cielo, come l'uomo cristiano è figlio del mondo ma può farsi figlio di Dio. Confrontando queste tre dottrine ( i misteri isiaco-osirici, la filosofia dello Stagirita, il κήρυγμα del Χριστός ) comprendiamo la ragione per cui il padre di Horo non prende parte al suo concepimento : ad accomunarle è la concezione adozionista della paternità divina. L'aristotelico ( ellenistico/alessandrino o tomista/medievale che sia ) in un certo senso è un gurdjieffiano ante-litteram : l' “anima forma del corpo” non è insufflazione-nel-corpo ma effluvio-dal-corpo, il suo sopravvivere alla decomposizione fisica non è assicurato da un'insostenibile preesistenza, non c'è incorporeità che non sia disincarnata, il processo che porta alla perfezione non è un implosivo inviluppo come l'ἐπιστροφή di Plotino ma un'ampliante dispiegamento, perché il motore immobile non emana-da ma fa emergere-a, non è “Ciò da cui tutto si cava e ne cade” ma “Colui che chiama chi ascolta” : Osiride è l'ἕτερος, uno dei due termini di una delle tre coppie di contrari impersonali ( ἔρως-θάνατος, ἀρχή-τέλος, ἕν-ἕτερος ) coincidenti con l'unica coppia di persone complementari Iside-Osiride. L'azione dell'ἕτερος è alterare : Osiride agisce sulla ψυχή facendola passare dalla dimensione della φύσις a quella del νοῦς, cioè dalla condizione di μορφή del/dipendente-dal σῶμα a quella di ἐντελέχεια autosufficiente, di intelletto separato.

La figliolanza non per filiazione modifica l'identità iniziale dell'adottato e richiede la rinuncia a tutti i beni apparenti ereditati alla nascita dal genitore che gli ha trasmesso quello che il dogma cristiano definisce “peccato originale”, che indica che tutte le cose che ci sono state date ( oggetti materiali o disposizioni interiori ) non sono beni proprio perché sono semplici dati di fatto immediati, averi non acquisiti, doni non domandati, avuti senza essere voluti ( la svolta di Socrate si può indifferentemente etichettare “scoperta del bene” o “scoperta del fine” perché consiste appunto nella spostamento di questo dall'ambito dell'avere a quello del volere, e solo attraverso il volere a quello dell'azione ) ; “il primo atto fu una colpa” = “in principio era il male” ( in sintonia con la sentenza di Anassimandro «Principio degli esseri è l'infinito ... da dove infatti gli esseri hanno origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l'uno all'altro la pena e l'espiazione dell'ingiustizia secondo l'ordine del tempo» : ἀρχή = ἄπειρον ≠ ἀγαθός ) ; il primo atto fu una colpa perché non fu una scelta ma un gesto spontaneo, non un'azione ma un accadimento : l'errore del cristianesimo non consiste nell'affermazione del peccato originale ma nella connotazione colpevolizzante e castigatrice della sua formulazione. Osiride, non essendone genitore, può essere giudice dei propri figli adottivi, perché questi non possono giustificarsi di fronte alle sue accuse dicendo “non faccio niente di male perché non lo faccio apposta” o “faccio così perché sono fatto così” o “agisco così non perché voglio così ma perché sono così, come tu mi hai fatto, come tu hai voluto che io fossi” : non funziona, perché il padre può rispondere “non sei come ti ho fatto io ma come ti ha fatto tua madre, e io non voglio che tu sia così ; non ti condanno per essere nato così ma per essere rimasto così : per non essere cambiato”. Quando nella genesi leggiamo che il peccato originale è stato mangiare il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male, possiamo pensare che prima di mangiarlo Adamo ed Eva conoscessero solo il bene perché nell'Eden esisteva solo il bene, e che il morso al frutto abbia aggiunto alla loro conoscenza del bene la conoscenza del male, e che la conoscenza del male, e che sia stata questa a causarne la morte. Ma è altresì possibile che prima di mangiarlo Adamo ed Eva conoscessero solo il male perché nell'Eden esisteva solo il male, e che il morso al frutto abbia aggiunto alla loro conoscenza del male la conoscenza del bene, e che sia stata questa a causarne la morte. Dal racconto della genesi è certo che il serpente è insieme portatore di morte ( del resto, questo lo è anche nella realtà, non con il morso che fa dare ma con il morso che dà ) e di sapere, ma non è chiaro di quale sapere si tratti, se della conoscenza del bene o della conoscenza del male. Nella genesi il frutto proibito non cresce sull'albero della conoscenza del bene o sull'albero della conoscenza del male, ma sull'albero della conoscenza del-bene-e-del male, perché la conoscenza dell'uno è inscindibile dalla conoscenza dell'altro ; apparentemente ; ma in verità non è proprio così, non lo è esattamente, perché non lo è in modo reciproco e reversibile, perché il bene e il male non sono sullo stesso piano : il male è un fatto, il bene è un fine. È possibile che prima di mangiarlo Adamo ed Eva conoscessero il male ma non sapessero che lo era, proprio perché, nell'Eden esistendo solo quello, solo quello conoscevano, e se per conoscere il male è sufficiente farne esperienza guardandosi intorno ( perché ogni essere vivente è immerso in esso, dal momento che esso è dovunque ) per sapere che lo è bisogna conoscere il bene e metterli a confronto. Poiché la differenza fra il bene e il male è che il male è male in rapporto al bene mentre il bene è bene in sé ( essendo il fine in quanto tale è fine a sé stesso ) tutto ciò che non si relaziona ad altro sembra un bene. Gli abitanti dell'Eden si sono trovati di fronte al serpente nella stessa posizione in cui si sono trovati gli abitanti di Atene di fronte a Socrate e gli abitanti di Gerusalemme di fronte a Gesù ; in tutti questi casi la popolazione locale subisce una spaccatura che corrisponde alla dualità di cui i personaggi osirici sono i portatori ( quella tra immanenza e trascendenza ) : da una parte i ciechi e i sordi intenzionati a rimanere ciò che sono così come sono ( nell'Eden gli elohim, ad Atene gli areopagiti, a Gerusalemme i farisei ), dall'altra quelli che hanno occhi per vedere e orecchi per intendere, che ascoltano i tre tentatori, decisi ad inoltrarsi in luoghi ignoti per seguirli.

Introdurre la conoscenza del bene ha sempre lo stesso effetto collaterale : l'irruzione della morte nel mondo ; innanzitutto è maledetto e condannato il traviatore, e poi il contagio si diffonde come un'epidemia estendosi a quelli che ne erano stati l'entourage, su cui il castigo si abbatte concretamente nella forma materiale del martirio, o in modo più mitigato come morte-sociale/morte-civile sotto forma di accusa anatema scomunica per eresia, espulsione dalla comunità di appartenenza, esilio lontano da essa, eccetera. Abbiamo tutti gli elementi che caratterizzano la situazione osirica : l'abbinamento tra la morte e il bene, perché entrambi estranei rispetto alla sfera dell'essere ; “il bene è il fine” + “il fine è la morte” = “la morte è il bene” ; e Socrate, in punto di morte, testimonia esattamente questo, con la celebre raccomandazione rivolta all'amico Critone, come riporta il dialogo platonico Fedone, di ricordarsi di offrire a nome suo un gallo ad Asclepio ; infatti, essendo Asclepio il guaritore ossia colui-che-fa-star-bene, è indubbia l'identificazione Ἀσκληπιός = ἀγαθός, e ringraziarlo subito prima di bere la cicuta è come dire che “bere la cicuta” = “assumere un farmaco”, e il motivo del ringraziamento è il regalo che Asclepio gli fa : la morte, guarigione dalla malattia della vita. Ma quale morte è “guarigione dalla malattia della vita” ? Ogni morte lo è, o lo è solo quella di Socrate ? Quella di Socrate è una morte qualsiasi, come quella di chiunque altro, o è una morte speciale ( unica, o simile solo ad alcune altre, come la morte di Osiride e la morte di Gesù ) ? Siccome la condizione di vivente coincide con quella di mortale, e siccome morire significa smettere di vivere, la morte è simultaneamente la cessazione della vitalità e della mortalità, e si può smettere di essere mortali in due modi : smettendo di essere, o smettendo la mortalità ( nel senso di sfilarsi-da, spogliarsi-di, come si smette un vestito ) ; in ambedue i casi la morte effettua una scissione, perché quella della morte, che è sempre la falce tagliente del signore della dualità, è comunque un'opera separatrice, ma come in un triangolo scaleno, staccare il lato medio dal lato maggiore lasciandolo attaccato al lato minore, o staccare il lato medio dal lato minore lasciandolo attaccato al lato maggiore, è ugualmente staccare uno dei tre lati dagli altri due, ma il risultato ottenuto è diverso : nel σύνολον la ψυχή si colloca, come la copula verbale nella proposizione tra il soggetto e il predicato nominale, in posizione intermedia tra l'elemento minore che è il σῶμα ( che della ψυχή è l'ἀρχή come Iside lo è di Horo ) e l'elemento maggiore che è il νοῦς ( che della ψυχή è il τέλος come Osiride lo è di Horo ) e come lo è della copula verbale ( con cui la ψυχή non condivide soltanto la posizione che occupa ) anche della ψυχή quella di congiungere è la funzione che svolge, fintanto che vive, finquando, alla morte, non smette, e li stacca ; ma questo può farlo in due modi : o staccandosi da entrambi e smettendo di esistere, perché una copula-non-congiungente è una copula-che-non-c'è ( e questa è la morte dell'anima o seconda morte di cui parlano le lettere apostoliche ) ; oppure staccandosi da uno dei due ma non dall'altro. Tanto per fare un esempio rimanendo in tema ma trasferendosi dall'ambito geometrico a quello sentimental-sessuale, per una coppia, perdere un pezzo e spezzarsi è la stessa cosa, perché la coppia ha soltanto due componenti ; invece un rapporto triangolare può spezzarsi ( se tutti e tre si salutano e ciascuno se ne va per la sua strada, la causa della rottura è l'allentamento di ogni legame ) oppure perdere un pezzo ( se uno dei tre diventa il terzo incomodo e il triangolo amoroso si trasforma in una coppia, la causa dell'allentarsi di uno dei legami è lo stringersi dell'altro ). Se nel σύνολον σῶμα-ψυχή-νοῦς si stringe il legame tra la ψυχή e il σῶμα, il σύνολον si scioglie in σῶμα-ψυχή e νοῦς, e la ψυχή fa sua la sorte del σῶμα di cui segue il moto verso la φύσις finché, all'incontro con la φύσις, la ψυχή scavalca in basso il σῶμα, si frappone tra il σῶμα e la φύσις, entra in contatto con la φύσις, e congiunge il σῶμα alla φύσις che ne è l'ἀρχή, formando, al posto del σύνολον iniziale σῶμα-ψυχή-νοῦς, il nuovo σύνολον φύσις-ψυχή-σῶμα, che lo sostituisce, ma non per sempre ; se nel σύνολον σῶμα-ψυχή-νοῦς si stringe il legame tra la ψυχή e il νοῦς, il σύνολον si scioglie in σῶμα e ψυχή-νοῦς, e la ψυχή fa sua la sorte del νοῦς di cui segue il moto verso il λόγος, finché, all'incontro con il λόγος, la ψυχή scavalca in alto il νοῦς, si frappone tra il νοῦς e il λόγος, entra in contatto con il λόγος, e congiunge il νοῦς al λόγος che ne è il τέλος, formando, al posto del σύνολον iniziale σῶμα-ψυχή-νοῦς, il nuovo σύνολον νοῦς-ψυχή-λόγος, che lo sostituisce, per sempre. Il σύνολον φύσις-ψυχή-σῶμα non può essere per sempre, perché la φύσις è sia maelstrom che geyser, e ciò che vi affonda ne affiora : la configurazione provvisoria φύσις-ψυχή-σῶμα porterà alla formazione di un nuovo σύνολον σῶμα-ψυχή-νοῦς con cui il ciclo della ricorrenza ricomincia da capo. Il θάνατος-τέλος non è né la morte-estinzione-della-vita né la morte-estensione-della-vita : la morte-estinzione-della-vita è un vicolo cieco e la morte-estensione-della-vita è un circolo vizioso.

La definitività è un aspetto della finalità, che non è, come lo streben e la sehnsucht, una torsione del soggetto per tenersi “sù di giri”, ma una tensione che ha la tendenza a trovare il modo per togliersi di mezzo, come nell'atto di fermarsi l'applicazione della forza non serve a provocare un movimento ma ad interromperne uno che altrimenti andrebbe avanti per inerzia. Il movimento che va dalla nascita alla morte passando attraverso la vita è come il movimento di un uomo seduto che sentendosi stanco, per non abbandonarsi al sonno lì dove sta ( sulla sedia, luogo inadatto a dormire, dove dormirebbe scomodamente ) si alza in piedi per andare a sdraiarsi su un letto poco lontano : dopo essersi alzato in piedi può cambiare idea prima ancora di aver mosso un solo passo verso il letto, e rimettersi subito seduto sulla sedia, come se nulla fosse successo ; dopo essersi alzato in piedi e aver cominciato a camminare verso il letto, può comunque cambiare idea e : o tornare indietro verso la sedia, o rimanere fermo in piedi ( o se non riesce a rimanere in piedi fermo, continuare a camminare ma non verso il letto, non più per raggiungere qualcosa, ma soltanto per riuscire a rimanere in piedi ) finché ce la fa, e poi crollare a terra. L'uomo che cambia idea dimentica che s'era alzato dalla sedia per due validi motivi : uno soggettivo ( la propria stanchezza ) e uno oggettivo ( la scomodità della sedia ). L'uomo che torna sulla sedia spera di risolvere il problema oggettivo risolvendo il problema soggettivo, come se la sedia fosse scomoda perché ci stava seduto sopra un uomo stanco, e bastasse alzarsi in piedi per stiracchiarsi, fare due passi per sgranchirsi le gambe, e poi, dopo essersi data una scossa, con una scrollata di spalle tornare alla stessa situazione di prima, con la sola differenza che il problema di prima non ci sarebbe più, tornerebbe il soggetto che aveva il problema ma non tornerebbe il problema che il soggetto aveva, sparito come se essersi-svegliato non significasse non-essere-più-stanco ma non-poter-essere-stanco-mai-più, come se non ci si fosse svegliati già prima di essere stanchi e non si fosse stati svegli già prima di stancarsi, come se la stanchezza non fosse figlia dello stato di veglia, come se lo stato di veglia non fosse ciò di cui ci si stanca, come se non ci si stancasse proprio perché si è svegli e proprio di esserlo.

L'uomo che resta in piedi, come se fosse stanco perché stava seduto sopra una sedia scomoda, spera di risolvere il problema soggettivo risolvendo il problema oggettivo, come se alzarsi in piedi per stiracchiarsi, fare due passi per sgranchirsi le gambe, darsi una scossa, scrollare le spalle, e non tornare alla stessa situazione di prima, bastasse a non stare più scomodo e a non sentirsi più stanco, come se la sola cosa stancante fosse la scomodità e la sola cosa scomoda fosse la situazione e la sola situazione fosse quella di stare seduto e la sola situazione scomoda fosse stare seduto su quella sedia ; ma siccome continua a stancarsi anche stando in piedi, comincia a capire che a stancarlo non era la sedia ma continua a non capire che a stancarlo non era la scomodità, e comincia a credere che la scomodità sia scollegata dalla posizione ( in piedi o seduto ) e che la cosa scomoda ( e siccome scomoda, stancante ) non sia stare seduto o stare in piedi, ma stare fermo, e poco importa che si stia fermi in piedi o si stia fermi seduti ; e così comincia a camminare cercando di continuare a camminare, e non fa differenza fra avanzare e arretrare perché per lui il fine non è arrivare, quindi il bene non è avanzare e il male non è arretrare, ma il male è arrestare il movimento. Invece il bene, anche se l'uomo-che-torna-a-sedersi e l'uomo-che-rimane-fermo-in-piedi ( o l'uomo “che non riesce a rimanere in piedi fermo e continua a camminare per restare in piedi in movimento” ) non lo riconoscono per tale, è quel letto su cui non si vogliono andare a sdraiare, quel letto su cui ci si sdraia per addormentarcisi e siccome ci si dorme bene non ci si sdraia lì sopra per riposarsi e poi risvegliarsi, ma per addormentarcisi e morirci, perché la morte è una buona dormita, e una buona dormita non è una dormita da cui ci si sveglia riposati, ma una dormita che abolisce totalmente la stanchezza, ogni tipo di stanchezza, incluso il bisogno di svegliarsi che è una forma di stanchezza, perché come la veglia da cui si scivola nel sonno è la veglia di cui ci si stanca, così il sonno da cui si sveglia è il sonno di cui si stanca, cioè un cattivo sonno, un sonno scomodo ( in piedi o seduti ) la cui scomodità costringe a svegliarsi perché è stancante, perché solo quello che è buono non stancante, l'unica cosa di cui non ci si stanca è il bene, ossia la morte. Il θάνατος-τέλος è la morte riconosciuta come un bene e voluta come un fine, non come un mezzo nel suo doppio senso di intermedio (come la notte che è intervallo tra un giorno e l'altro, come il sonno che è la pausa tra una veglia e l'altra ) e di strumentale ( come un modo per recuperare le forze e tornare alla vita ), non come ci coglie una sorte inevitabile ma come si compie una scelta irreversibile. Né la vita-estinta né la vita-estesa ma la vita-esatta, vissuta “di stretta misura”, pronta per essere estratta dal mondo così come è stata, perché non lascia conti in sospeso, né crediti da riscuotere né debiti da risarcire, è la vita di chi ha tutte le carte in regola non per subire-la ma per sottoporsi-alla pesatura della ψυχή sulla bilancia di Maat, accertamento che prelude-al o preclude l'accettazione della domanda di essere ammesso al cospetto di Osiride, non per la propria innocenza, qualità dei pieni-di-sé ( gli elohim, gli areopagiti, i farisei... ) che non è ottenimento ma omissione ( “adagiarsi nel già” : ignavia, ignoranza, illusione, indolenza, inerzia, ingenuità... ), ma per la propria idoneità a venir introdotto nell'Amenti ( dove gli esseri sono irrigiditi e congelati come cadaveri, perché compiuti ) che nel caso in cui l'esame abbia avuto buon esito, ha fornito la sua prova col prezzo pagato per ogni cosa nel corso della vita, non quella estinta o quella estesa ma la vita-estratta, cioè “tolta di mano” al tempus-puer-ludens ( il fanciullo del frammento 52 di Eraclito, che infantilmente irresponsabile ed irrispettoso, ci si trastulla come con un giocattolo ) ed offerta all'eternità, il regno di un altro dio, che non è l'αἰών, perché l'αἰών è l'ἀρχή, e l'ἕτερος-θεός non è l'ἀρχή ma il τέλος : non colui che possiede il “campo da gioco” ( il κόσμος in cui “πάντα ῥεῖ” perché “Έν καì Πãν” ) perché l'ha costruito, ma colui che presiede alla “camera di giustizia” ( la sala delle due verità nella Duat ) perché l'ha conquistata mediante la morte sacrificale, la morte saputa e voluta, in virtù di cui, se riferito a chi come lui morì di quella, sapendo e volendo, morto non significa annullato ma ultimato, uscito-di-scena, non dietro le quinte, come un teatrante a fine atto, per cambiarsi d'abito mentre è abbassato il sipario e quando si solleva farsi trovare dalle luci dei riflettori dove sono puntati insieme agli sguardi degli spettatori per il proseguimento della rappresentazione, ma sceso dal palco, andato in fondo alla platea, e preso posto in un angolo alle spalle del pubblico, non si vede non perché sia incorporeo, privo di volto e figura ( amorfo e impersonale era prima, assumendo la fisionomia assegnatagli dal costumista come parte da interpretare ) non si vedrebbe neanche se fosse lì in carne e ossa perché sta dove nessuno guarda.

Vittorio Varano

L'articolo Il Figlio del Morto – Vittorio Varano proviene da EreticaMente.

Il Problema (contro il quale unirsi) – Enrico Gatto

$
0
0

Tenerli sotto controllo non era difficile. Perfino quando in mezzo a loro serpeggiava il malcontento (il che, talvolta, pure accadeva), questo scontento non aveva sbocchi perché privi com'erano di una visione generale dei fatti, finivano per convogliarlo su rivendicazioni assolutamente secondarie. Non riuscivano mai ad avere consapevolezza dei problemi più grandi (George Orwell, 1984).

 

 

Il neoliberismo, che è la base economica del moderno capitalismo assoluto (speculativo-finanziario), va necessariamente compreso per inquadrare le attuali dinamiche socio-politico-economiche e poiché costituisce quello che viene definito Pensiero Unico (che sostiene il primato dell'economia sulla politica).

In parole povere si tratta della dottrina economica (cui corrisponde, ovviamente, un'inscindibile ideologia politica) all'origine di tutti i nostri problemi e, semplificando, altro non è che la coronazione di un progetto di restaurazione del potere di classe da parte della "classe dominante" (risalente già agli anni venti del novecento ma iniziato ad attuarsi negli anni settanta); è la reazione delle élite che tanto avevano perso in termini di potere e di ricchezza nell'età contemporanea e soprattutto nei "trenta gloriosi" successivi al secondo dopoguerra (quando le costituzioni "socialiste" associate alle politiche economiche keynesiane avevano portato benessere ai popoli e forza alle democrazie, tanto che nello studio Crisi della Democrazia del 1975 commissionato dalla Trilaterale si parlava della necessità di apatia e spoliticizzazione delle masse e di indebolimento del sindacato a causa di un pericoloso "eccesso di democrazia" da risolvere anche con l'introduzione di tecnocrazie).

Quindi, partendo dalle teorie di Von Hayek e con la Scuola di Chicago di Friedman, andò imponendosi in campo accademico questo nuovo pensiero (grazie, tra le tante, alla influente Mount Pelerin Society fondata già nel 1947 da Hayek con l'intento di aggregare varie personalità del mondo intellettuale al fine di ridiscutere il liberalismo classico della mano invisibile di Adam Smith). Essi contestarono il liberismo espansivo con intervento statale di tipo keynesiano (l'embedded liberalism della piena occupazione e della redistribuzione della ricchezza) e suggerirono di passare alla deregulation, a politiche di tagli alla spesa sociale, alle privatizzazioni (degli utili e socializzazione delle perdite), alla finanziarizzazione dell'economia, al monetarismo, all'austerità, alla deificazione del Mercato e quindi alla definitiva sottomissione dello Stato, della Politica agli interessi economici dei potentati privati. Il tutto andò in porto grazie alla diffusione a reti unificate del nuovo credo tramite le "categorie previane" del circo mediatico, del clero giornalistico ed accademico e del ceto intellettuale (che, con la sintassi di Bourdieu, è da sempre il gruppo dominato della classe dominante). Si iniziò dal "test pilota" dopo il golpe di Pinochet in Cile del '73 e, poi, nei primi '80, dai governi occidentali di Thatcher, Regan, Mitterrand e Kohl per arrivare al capolavoro degli arbitrari parametri di Maastricht (fulcro dell'ordoliberismo) e della moneta unica europea a cambio fisso con banca centrale indipendente (e, sostanzialmente, privata). Fin da allora la distribuzione di ricchezza avrà un'inversione di tendenza ed andrà concentrandosi sempre più nelle mani di quella che è di fatto un'oligarchia finanziaria che non fa che portare avanti programmi a proprio vantaggio e a detrimento dei popoli (vedasi dati oggettivi sulla sperequazione crescente).

Ciò che si è riassunto in poche righe va contestualizzato all'epoca ed è "solo" la lotta di classe dopo la lotta di classe (Gallino) ovvero la ribellione delle élite (Lash); è l'operato di un gruppo, dell'1%, che fa i propri interessi a spese di un altro, quello del 99% (come è lecito, anche se non etico). Il problema è stata la mancata risposta delle "classi subalterne" e dei loro rappresentanti (politici e sindacali) che non hanno saputo interpretare e comprendere i fatti e tendono a non vederli o capirli tuttora (alcuni "stupidamente", altri in malafede, sia a sinistra che a destra con l'esaurimento della storica dicotomia).

Bisogna liberarsi dei mantra che abbiamo introiettato: quelli del There Is No Alternative (Thatcher), dell'ineluttabile fine della storia (Fukuyama) e del "siamo vissuti al di sopra delle nostre possibilità"; in realtà tutto è frutto di scelte politiche ed economiche deliberate e pianificate, il sistema socio-economico nel quale viviamo non è un fatto naturale ed irriformabile e, in quanto tale, non è necessario subirlo, basta pensare ed agire altrimenti (poiché, parafrasando Einstein, non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l'ha generato). Purtroppo però le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti (Marx).

Per giungere ad un cambiamento è necessario arrivare ad una "massa critica" di persone consapevoli che comprendano che è in atto una "guerra" (la mai estinta contrapposizione hegeliana servo-signore) e che si compattino riconoscendo il "nemico" comune da combattere (che personalmente, credo a ragione, ho identificato appunto nel neoliberismo e nelle sue ricadute politiche e sociali). Dal sistema economico vigente scaturisce l'onnipervasivo e catechizzante Pensiero Unico nel quale si innervano tutte le esiziali logiche sociali hobbesiane della competizione, dell'homo homini lupus, del mors tua vita mea, del do ut des, del narcisismo individualista, dell'egoismo, dell'edonismo, del materialismo, del  consumismo e della spietatezza di cui è malata la nostra società nichilistica egocentrata e che ci rendono "schiavi perfetti" poiché il velo di Maya (Schopenhauer) ci rende incapaci di vedere le nostre "pastoie" e, quindi, impossibilitati a liberarcene. All'interno di quel coagulo di interessi economici e di valori culturali e morali (il blocco storico di gramsciana memoria) appare chiaro come il pensiero economico egemone abbia influito cambiando la società che, come propugnava la Thatcher, davvero non esiste più, esistono solo gli individui: non più una comunità di animali sociali (Aristotele) ma una massa di homines oeconomici, di imprenditori di , di monadi, la cosiddetta modernità liquida di Bauman (prodromici furono i movimenti sessantottini e successivamente grazie al neoliberismo ed alla sua sovrastruttura, il "politicamente corretto", l'attenzione è stata sempre più focalizzata sui diritti civili a spese di quelli sociali).

Perciò, dunque, occorre una rivoluzione culturale che può partire solo da chi ha una propria coscienza infelice (Hegel) rifuggendo dalla crematistica e ritornando all'equilibrio e quindi ai concetti di misura e limite (come ci insegnano gli antichi greci).

Rimane un unico ostacolo che Platone conosceva fin da 2400 anni fa: l'eventuale "liberatore" verrà dapprima deriso e finanche ammazzato da quelli in "catene": è davvero eloquente ed attuale il mito della caverna in cui Platone descrive come  una  realtà mediata e manipolata viene invece percepita come "verità" dagli sventurati protagonisti che, poiché nati in cattività, non possono immaginare un'esteriorità rispetto alla caverna nella quale sono imprigionati e quindi, non sapendosi schiavi ingannati,  tantomeno ambire alla libertà.

 

Enrico Gatto

 

fonte copertina: web

L'articolo Il Problema (contro il quale unirsi) – Enrico Gatto proviene da EreticaMente.

La coscienza di Huck – Roberto Pecchioli

$
0
0

L’anno nuovo è il tempo delle buone intenzioni. L’illusione di un nuovo inizio, accompagnato da manifestazioni di buona volontà, è un’esigenza dell’essere umano. Un conoscente, nel trasmettere i suoi auguri per il 2019 attraverso un messaggio whattsapp, un mezzo che esenta dal contatto personale, anche soltanto vocale, ma veloce, pratico e “funzionale” come prescrive la nostra epoca afasica e virtuale, ha affidato all’etere un pensiero che deve aver considerato virtuoso e persino profondo: che gli uomini riscoprano la coscienza!

I buoni sentimenti e gli onesti desideri vanno rispettati anche quando finiscono in luoghi comuni. Chi scrive è reso disincantato dagli anni e aborre le scorciatoie a buon mercato, specialmente quelle delle cosiddette anime belle. Tende quindi a essere d’accordo con l’algido Adrian Leverkuehn, il geniale tormentato compositore protagonista del Dottor Faustus di Thomas Mann, che chiamava calore da stalla certe espressioni vacue e languide. Tuttavia, il richiamo alla coscienza ha sempre un forte impatto, desta impressione e induce a qualche riflessione. A dire il vero, abbiamo ascoltato un giudizioso messaggio commerciale che invitava, per le feste, a consumare e regalare “con coscienza”. Un negozio di moda maschile propone di donare “moda e coscienza”, operazione obiettivamente difficile, da realizzare forse nel circuito del commercio equo e solidale.

Probabilmente, la confusione nasce dall’ambiguità del termine coscienza. Non soltanto è difficile darne una definizione accettabile, ma i suoi significati sono molteplici: si può intendere come consapevolezza, rendersi conto, ma anche capacità di discernere il bene e il male, giudizio del valore morale del proprio operato, sensibilità etica. Sono di uso comune locuzioni come mettersi una mano sulla coscienza, avere la coscienza sporca o pulita. Dante, padre della nostra lingua, si rivolge a Virgilio come “dignitosa coscienza e netta, come t’è picciol fallo amaro morso. “

Esiste una dimensione comunitaria, pubblica, della coscienza, orientata a guidarci verso condotte buone perché socialmente approvate, e un elemento personale, la voce del foro interiore teso a allineare i nostri comportamenti alle convinzioni che affermiamo. Un crescente manicheismo nella vita sociale e politica esibisce la bontà propria attraverso intenzioni suppostamente virtuose lanciando ombre di sospetto sull’avversario, trattato non come qualcuno che la pensa diversamente, ma da nemico malvagio sprovvisto di coscienza. Un esempio di queste ore è l’incredibile comportamento dei sindaci di sinistra decisi a violare la legge sull’accoglienza agli stranieri. Dietro il paravento della bontà, dell’umanità, della filantropia, si lancia il devastante messaggio che la legge, quando non ci piace poiché contraria alle opinioni, agli interessi e ai sentimenti personali mascherati da imperativi di coscienza, può essere violata, con buona pace della cultura della legalità, anch’essa figlia della buona coscienza, diffusa a piene mani fino al giorno prima.

Disturba, in un tempo programmaticamente amorale e spesso apertamente immorale, il continuo sermone moraleggiante a cui veniamo sottoposti in nome di una definizione astratta di coscienza. La coscienza non può essere confusa con le nostre opinioni o con le inclinazioni soggettive. Tanto meno può esistere una coscienza a corrente alternata, per la quale ciò che è giusto oggi può essere revocato in dubbio o rovesciato domani. Relativismo e coscienza sono opposti. Noi continuiamo a pensare che esista una legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo e la coscienza civile consista nell’aiutare ciascuno a scoprire, ascoltare, praticare le condotte da essa prescritte. Coscienza è libera adesione alla verità della legge naturale. Fa riferimento alla capacità di giudizio, al discernimento, alla distinzione, ovvero alla scelta fondamentale tra bene e male, riconosciuta per la maggiore o minore adesione alla legge naturale.

L’intenzione è importante, ma non è il criterio fondamentale. E’ certo bene intenzionato chi vuol fare il bene agendo in conformità con ciò che considera tale. La sfumatura è fondamentale, specie in un’epoca in cui la pressione che viene dall’esterno è immensa. Pensiamo alla correttezza politica: essa ci impone un mutamento di coscienza, addirittura vuole cambiare il nome delle cose per mutarne la percezione, rideterminare il significato, riformulare il giudizio. Un potente agente esterno suggerisce che il bene, il giusto, l’azione conforme a coscienza, è quella che fa valere il criterio unico dell’uguaglianza, o meglio di equivalenza. Contro l’evidenza, ci viene instillato il principio, il postulato ideologico indiscutibile che tutto si equivale, dunque qualunque opinione o comportamento difforme deve essere estirpato, ogni idea diversa sradicata. L’uguaglianza orizzontale di tutto viene spacciata come buona e conforme a giustizia, ogni distinzione è vietata per empietà. La coscienza, trasformata in imperativo di una nuova bizzarra morale di piombo, deve combattere e cancellare come scellerate persone, idee, comportamenti estranei al nuovo vangelo.

La via dell’inferno in terra è lastricata di buone intenzioni e di richiami alla coscienza. L’esito delle azioni compiute ha un rapporto assai contraddittorio con le intenzioni dell’agente. Il fanatico è capace di commettere le peggiori atrocità seguendo scrupolosamente i dettami della coscienza. I Savonarola del politicamente corretto ne sono la prova, allorché respingono, vietano, bollano con lo stigma di malvagità ciò che non corrisponde al folle progetto che considera deviante, dunque contrario alla coscienza, tutto ciò che non si conforma all’ossimoro del relativismo intransigente. Un falò delle vanità del terzo millennio, la virtù capovolta di un mondo viziato.

Un esempio letterario illustra bene la difficile definizione della coscienza. Nel romanzo più importante di Mark Twain, Huckleberry Finn, il protagonista, Huck, ragazzo un po’ deviante e un po’ pirata, affronta come può, con i deboli mezzi culturali che possiede, il dilemma morale relativo alla consegna del suo amico Jim, il negro schiavo fuggitivo, diventato suo compagno di viaggio attraverso il grande fiume Mississippi. Da ragazzo cresciuto nel Missouri prima della guerra civile, Huck sa che non deve aiutare a fuggire uno schiavo: così dice una parte della sua coscienza, potremmo chiamarla il Super Io legato alla comunità e cultura di appartenenza.

E’ la legalità violata; Twain descrive perfettamente l’agonia di chi ha un peso così grande sulla coscienza, la vergogna e i rimorsi per la sua cattiva azione. Huck si sente cattivo, meschino e disgraziato, poiché ha rubato un negro a una povera vecchia che non gli aveva fatto niente di male. Quando decide di consegnarlo sente la confortante emozione di riavere una coscienza pulita. Alla fine gli risulta impossibile tradire il suo compagno d’avventura e agisce contro la sua coscienza, rassegnato a essere cattivo, un malvagio privo di redenzione per disconformità alle regole introiettate.

L’ironia e la profondità dell’episodio sta nel fatto che Huck si comporta correttamente quando agisce contro ciò che ritiene moralmente giusto, senza fare caso alla sua coscienza. Senza coglierne il significato profondo, con l’anima sceglie l’amicizia e la dignità della persona umana. Se per buone intenzioni intendiamo voler fare ciò che uno considera “giusto”, Huck Finn ne è privo. Ciononostante, noi sappiamo che operò bene, anzi il suo comportamento rivela l’indole positiva di Huck, che si impone sulle norme di una società moralmente corrotta sino a considerare una proprietà l’essere umano.

Certo, in tempi di soggettivismo estremo, è comodo ritenere che le nostre idee siano l’unica guida possibile. Senza di esse, mancheremmo di bussola morale. Non seguendo la sua coscienza, forse Huck ha agito bene unicamente per buona sorte, o per caso. Ha ricevuto un’educazione carente, sommaria, non è certo un campione di riflessione intellettuale, ma dietro i suoi modi rozzi e le sue parole elementari è un ragazzo di fine sensibilità morale, come si vede in tutto il romanzo. E’ arrivato ad apprezzare Jim come amico a prescindere dalla razza. Per questo, nonostante condivida le opinioni correnti del suo tempo e della sua gente, agisce mosso dall’amicizia e dalla pura umanità. Risponde quindi alle ragioni morali rilevanti nella circostanza e non a quelle vigenti, alle quali formalmente aderisce in quanto sono le sole che conosce. E’ disposto a rischiare una sorte simile a quella di Jim e a sacrificare la tranquillità della sua coscienza. Si comporta in modo giusto per ragioni moralmente superiori, nonostante la sua coscienza civica di ragazzo del Sud di metà Ottocento gli dica altre cose.

Huckleberry Finn diventa così un libro sovversivo poiché proclama l’esistenza di una legge morale naturale comune che ogni uomo, anche un ragazzo senza istruzione esposto alle insidie del mondo, è in grado di cogliere, di riconoscere all’interno di un cuore tanto più pulito dei suoi abiti sporchi e dei suoi piedi scalzi.

La crisi morale di Huck obbliga il lettore odierno a chiedersi quale sia la relazione tra la voce della coscienza e ciò che passa per eticamente giusto e rispettabile nel tempo nostro. La lezione di Huckleberry Finn è un trattato involontario di agire morale. Ciò che davvero conta, per lui e per noi, non sono le convinzioni o l’ideologia che si proclama, né le apparenze di rispettabilità farisea, ma saper rispondere in termini morali concreti e sensibili, ovvero autenticamente umani, al momento delle scelte.

E’ assolutamente grottesco, eticamente e culturalmente devastante che in America e altrove si chieda a gran voce il ritiro del grande romanzo di Mark Twain da biblioteche e programmi di studio in nome della correttezza politica e della lotta contro il razzismo. E’ proprio vero: Deus quos perdere vult, dementat prius. Dio, a quelli che vuole rovinare toglie prima la ragione.

ROBERTO PECCHIOLI

 

L'articolo La coscienza di Huck – Roberto Pecchioli proviene da EreticaMente.


Tra Esoterismo E Filosofia: Rudolf Steiner – Umberto Bianchi

$
0
0

Mi sono appena finito di legger tutto d’un fiato “La Scienza Occulta” di Rudolf Steiner ma, contrariamente alle generiche aspettative di chi vorrebbe sentirsi dare sul testo e sul personaggio Steiner un giudizio “tranchant”, estremamente positivo, entusiasta, sino al fanatismo, da una parte, o estremamente negativo, ipercritico, deluso e stroncatorio, dall’altra, il giudizio di chi scrive, non propende né per l’una, né per l’altra opzione, bensì ad un composito sguardo d’insieme, costituito da un insieme di chiaroscuri tale che, alle volte, diviene concretamente difficile arrivare ad una visione d’insieme completa ed obiettiva.

Ad onor del vero, va anzitutto detto che, quello steineriano, è un testo risultante da un pensiero visionario e come tale andrebbe, pertanto, preso ed interpretato. La ricerca di una coerente definizione ed esplicazione di una “Scienza Occulta”, conosce in Steiner, vari momenti. L’autore con il nitore ed il linguaggio semplificato di chi ben naviga con una certa collaudata maestria nella materia, mette il lettore scettico e dubbioso dinnanzi ad una primaria e ben mirata considerazione: è perfettamente inutile cercare di interpretare con criteri razionali, ciò che tale non è… lo sforzo sarebbe inutile e dannoso; è necessario, invece, cercare di porre la propria mente su un piano superiore e differente a quello della semplice e lineare cartesiana razionalità. Solo in questo modo si potranno recepire appieno le istanze di un sapere, altrettanto “scientifico”, quanto distante e non comprensibile e perciò stesso “occulto”, rispetto a quello usuale.

Una distinzione questa, salutare e necessaria alla continuazione di questa, ma anche di qualsiasi altra narrazione, che voglia frantumare e superare i parametri culturali della modernità illuminista, permettendo così, alla obnubilata mente di chi muove i primi passi in questa direzione, di poter spaziare ed arrivare a percepire dimensioni spirituali, altrimenti precluse. Diciamo che Steiner raccoglie e rielabora quelli che, delle scienze occulte, rappresentano i motivi più salienti. Nel rifarsi un po’ alla narrazione platonica, Steiner ci parla dei vari stadi della natura umana, partendo da un corpo meramente “fisico”, per passare via via ad uno stadio “eterico”, “astrale” e così via discorrendo, sino quasi ad arrivare a far coincidere l’animo umano con lo Spirito Assoluto, ricalcando, in questo, come in altri motivi, le elaborate indicazioni della metafisica Hindu che, a tal riguardo, ci parla di Atman, come manifestazione ultima di quanto poc’anzi accennato. La stessa metempiscosi delle anime, con tutto il processo di morte e rinascita, la teoria sull’accesso alle dimensioni superiori dell’Essere attraverso i vari stadi della meditazione e del pensiero (razionale, intuitivo, etc….), sembrano in qualche modo ripetere, attraverso l’interpretatio steineriana, i più classici motivi delle varie tradizioni esoteriche.

Laddove, invece, varrebbe la pena soffermarsi, al fine di estrapolare degli elementi non esenti da una certa originalità, è proprio la parte riguardante la genesi dell’uomo contestualizzata in una originale cosmologia, a detta della quale, ad ogni pianeta corrisponde uno stato dell’essere umano che, inizialmente presente solo ad uno stato gassoso, andrà via via condensandosi, partendo da Saturno sino ad arrivare alla Terra, attraverso vari pianeti (Giove, Luna, Venere), rappresentanti altrettanti stati dell’essere. La stessa umana civiltà è vista come una prosecuzione di questo processo di “condensazione”. Ad una fase “Atlantidea”, caratterizzata da una superiore conoscenza iniziatica, succederà una spiritualizzata e contemplativa civiltà Hindu, passando per tutta una serie di fasi (“persiana”, greco-latina, etc.), tutte caratterizzate da una graduale perdita di quella superiore carica di spiritualità che, retaggio dei precedenti stadi ontologici, vanno però consolidandosi verso un nuovo modello umano, in cui la figura del Cristo, assume un ruolo centrale, in quanto simbolo della nascita della pienezza di coscienza razionale, in Occidente e nel mondo intero.

Quella stessa presa di coscienza, genererà una civiltà i cui effetti sono tutt’oggi ravvisabili ed i cui sviluppi sono forieri di nuovi ed ulteriori stadi di evoluzione dell’umanità intera. Qui, la visione steineriana sembra attraversata da suggestioni tutte provenienti dall’emanazionismo gnostico, caratterizzato da un peculiare atteggiamento “negativo”, verso la materia, a sua volta vista come prodotto di una graduale ma irrimediabile caduta dello Spirito verso il basso. Tutto questo se non fosse che, il buon Steiner, ci parla di “evoluzione” della specie umana verso differenti e peculiari forme di spiritualità, per ogni epoca da questa attraversata.

Quale che sia la risposta certa, in grado dipanare il bandolo della matassa antroposofica, quello di Steiner rappresenta sicuramente uno di quei tentativi destinati a lasciare un segno, nella lunga scia di pensiero vitalista ed irrazionalista che ha caratterizzato il 19° ed il 20°secolo, in quanto la Scienza dello Spirito, qui sembra offrire un modello alternativo all’evoluzionismo darwiniano, non rappresentato dai soliti richiami chiesastici e fideistici. Al pari di altri autori a lui più o meno contemporanei, (basti pensare al Kremmerz o al precedente Eliphas Levi, sic!) anche lo Steiner cerca di dare una veste “scientifica” al sapere occulto, commettendo, a detta di chi scrive, un madornale errore.

Nel riprendere le varie suggestioni offerte dal Platonismo, dalla Gnosi, dalla cultura Hindi, dallo stesso Hegel (per quanto riguarda la figura cristologica…), guardando anche a Dilthey ed a Nietzsche, il nostro nell’intento di edificare una “Nova Scientia”, si fa prender troppo la mano ed arzigogola all’eccesso. Ampollose e pesanti le sue visioni sulla natura umana e sul suo rapporto con la morte. Altrettanto ampollose e contorte quelle sulla antropogenesi. Peggio ancora, va per la parte finale del testo steineriano, incentrato sulle prospettive del genere umano, stavolta declinate all’insegna di uno strabordante sentimento di “amore”, che tanto sembra possedere il dolciastro sapore di una sgangherata utopia progressista o di una narrazione New Age “ante litteram”.

Il tutto, molto incerto e confusionario, visto che non si riesce a capire cosa per “amore” il nostro voglia intendere. Steiner fu uomo sicuramente animato da grandi intuizioni e da una forte carica visionaria. Nell’alveo culturale della Teosofia, l’originalità della sua visione, sta proprio nella sua visione fortemente “occidentocentrica” ed imperniata sulla figura del Cristo, la qual cosa lo porterà alla rottura con la Teosofia di Madame Blavatskji e di Annie Besant che, anche se animata dai medesimi presupposti culturali, guardava ad Oriente ed alla cultura Hindu, sebbene interpretata e riletta ad “usum delphini”, secondo le suggestioni blavatskjiane.

Steiner lascerà sicuramente influenze in vari esponenti del pensiero esoterico, ma anche in quello più propriamente filosofico. Per quel che riguarda l’esoterismo, basti ricordare due importanti esponenti del Gruppo di Ur: Giovanni Colazza e Giovanni Antonio Colonna di Cesarò. Non senza voler ricordare anche la figura di Massimo Scaligero. Per quanto concerne il pensiero filosofico, la Jaspersiana teoria dell’Età Assiale dell’umanità, tutta incentrata su una generale e qualitativa presa di coscienza del genere umano, in un determinato arco di tempo della storia, sembra voler ricalcare delle mai sopite suggestioni steineriane.

Il pensiero dello Steiner, sembra volerci prepotentemente riproporre l’interrogativo, mai definitivamente risolto, sul senso della umana civiltà. Ovverosia se, quel nostro progressivo “solidificarci”, quel nostro allontanarci da un primigenio rapporto di osmosi ed immediatezza con l’Essere, abbia rappresentato una reale e positiva “evoluzione” per il genere umano o, invece, non sia stata la parabola di una caduta verso la dannazione della occidentale schiavitù alla civiltà Tecno Economica. Una risposta che, neanche lo Steiner, sembra riesca a darci, non riuscendo egli stesso a motivare e giustificare l’intero processo antropogenetico, tanto minuziosamente descritto, con le future ed “evoluzionistiche” prospettive del genere umano.

Ma forse, va bene così. Forse la non-risposta, la mancanza di certezza e definizione, rientra in ambedue delle più pregnanti espressioni dell’umano pensiero: quello filosofico e quello, più propriamente, esoterico. Nel primo, a prevalere delle volte, non è tanto la ricerca di una soluzione alla ricerca del senso della realtà, quanto il percorso indicato per cercare di pervenire al tanto agognato fine. Nel secondo, invece, a sovrastare il tutto, un’immagine direttamente mutuata dalla antica sapienza alchemica ed ermetica: quella di una sostanza universale che, nel cambiar continuamente forma e stato, permane, alfine, sempre la stessa.

E’ l’Azoth, o Azoto degli alchimisti, che va riaffacciandosi prepotentemente sulla scena e non solo per quanto riguarda l’umana microfisica, attraverso la ricerca della Pietra Filosofale, ma anche per quel che riguarda l’intero Ordine Universale ed il Destino del genere umano, intesi alla stessa guisa di una sostanza che, anche se in perenne mutamento, senza soluzione di continuità, resta nel proprio fondo sempre identica. E forse, questa potrebbe essere la risposta più appropriata a tutti quei tentativi che, nel cercare di trovare una soluzione a problemi come quelli della genesi del genere umano, della sua civiltà e dello stesso Universo, si infrangono costantemente sulla infinita complessità e contraddittorietà delle risposte che incontrano sul cammino.

UMBERTO BIANCHI

 

 

 

 

L'articolo Tra Esoterismo E Filosofia: Rudolf Steiner – Umberto Bianchi proviene da EreticaMente.

Fascismo e Massoneria, storia di rapporti complessi – 6^ parte – Luigi Morrone

$
0
0

La Massoneria e la Guerra Civile

Dopo l’armistizio, i partiti antifascisti si mobilitano. Già il 9 settembre, all’indomani dell’annuncio, a Roma, in una casa di via Adda, si riunisce il “Comitato Centrale” del concentramento antifascista, presieduto da Bonomi. Sono presenti: Scoccimarro, e Amendola, per i comunisti; Nenni e Romita per i socialisti; La Malfa e Fenoalteaper il Partito d’Azione (1); Ruini per i democratici del lavoro (2): De Gasperi per i democristiani (3); Casati per i liberali. Nella riunione, si discutono le mosse da compiere dopo l’armistizio. Si decide di costituire un Comitato di Liberazione Nazionale, di cui viene steso anche il proclama (4). Il Re ed il governo fuggono da Roma; l’11 settembre a Roma fanno ingresso le truppe tedesche, mentre le FFAA italiane sono allo sbando; il governo non ha diramato alcuna istruzione. Non si sa dove sia il Re, non si sa dove sia Badoglio. La confusione regna sovrana (5). Anche prima della dichiarazione di guerra alla Germania, i tedeschi da alleati diventano nemici, e l’occupazione, sul piano giuridico, dovrebbe essere considerata un’occupazione straniera. Il CLN, nella seduta del 30 settembre 1943, dibatte su due punti:
1. Quale atteggiamento avere nei confronti del governo Badoglio;
2. Quale posizione assumere riguardo alla questione istituzionale.

Sul primo punto, si raggiunge immediatamente l’accordo: nessuna collaborazione con Badoglio. Sul secondo, viene incaricato Bonomi di stendere un ordine del giorno, in quanto le posizioni divergono. Bonomi media, e raggiunge l’accordo: finita la guerra, sarà il popolo a scegliere la forma istituzionale, mentre medio tempore la monarchia resterà “commissariata” dai partito del CLN (6). Dopo la dichiarazione di guerra alla Germania, il Regio esercito combatte a fianco dei vecchi nemici contro i vecchi alleati, i fascisti repubblicani riprendono a combattere contro i nemici di prima, restando a fianco degli alleati di prima. Il CLN ne prende atto, ribadisce sia il rifiuto di collaborare con Badoglio, sia la sospensione della questione istituzionale. Nella seduta del 16 ottobre 1943, il CLN approva un ordine del giorno predisposto dal democristiano Gronchi, che auspica la formazione di un governo politico superando il momento Badoglio, e chiama il popolo italiano alla “guerra di liberazione a fianco delle nazioni unite” (7). È chiaro, dalle riunioni del CLN, che per il Comitato, la “lotta di liberazione” contro «l’estremo tentativo mussoliniano di suscitare, dietro la maschera di un sedicente Stato repubblicano, gli orrori della guerra civile» dovrà essere condotta a fianco delle nazioni unite «soltanto come cobelligerante e non come alleata».

Indipendentemente dalle posizioni del CLN, però, formazioni irregolari prendono le armi e combattono con la tattica della guerriglia contro fascisti e tedeschi. Sostiene De Felice: «Il fascismo repubblicano e il movimento partigiano nacquero autonomamente l’uno dall’altro ad opera di piccoli gruppi» (8) Come ricorda Carlo Pavoni (9), le motivazioni individuali che spingono i partigiani ad imbracciare le armi sono molteplici e non riconducibili ad unità. La guerra continua, dunque, anche nella forma di guerra civile tra italiani (10). I resistenti, infatti, rifiutano di combattere a fianco del Regio Esercito, nutrendo un profondo disprezzo verso di esso «inteso sia come istituzione e classe dirigente militare, sia come stile di vita» (11). Tale autonomia si esplica subito dopo l’occupazione tedesca di Roma. Il CLN comincia la lotta clandestina nella Capitale senza alcun contatto con i comandi militari. Nel frattempo, all’indomani dell’8 settembre, si costituisce a Milano un altro CLN, nello studio dell’avvocato liberale Giustino Arpesani (12). L’inizio della guerriglia nel Nord Italia sfocia nella costituzione di un “governo provvisorio”, guidato dal CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia), costituito il 31 gennaio 1944 su diretta “delega” del CLN romano (13). Del Comitato fanno parte Azionisti, liberali, democristiani, comunisti e socialisti. Il CLNAI non ha una struttura burocratica ben definita, e la lotta partigiana si espleta per lo più in assenza di direttive precise dal centro (14).

Dopo l’occupazione della parte peninsulare dell’Italia da parte delle Nazioni Unite, viene costituito un governo “civile”, presieduto da Bonomi che, il 26 dicembre 1944, a conclusione della missione a Sud dei comandanti partigiani Parri, Sogno e Pajetta, firma un protocollo con il CLNAI conferendo ad esso la delega di tutti i poteri per il governo del Nord Italia (15). Nel frattempo, la Massoneria, dopo la prima riunione del 26 luglio 1943, comincia a riorganizzarsi. Palermi riappare e “giustifica” con i fratelli la sua collaborazione con il Fascismo sostenendo di essersi infiltrato d’accordo con le logge statunitensi, e cerca di ricostruire la Gran Loggia d’Italia (16). Il 4 dicembre 1943 viene ricostituita un’altra Gran Commenda del Rito Scozzese Antico e Accettato, eleggendo quale Sovrano Gran Commendatore Carlo De Cantellis, il quale esordisce attaccando violentemente Palermi per le sue intese con il Fascismo (17). Dal canto suo, Maiocco ottiene dalle logge statunitensi un riconoscimento della Massoneria Unificata, da lui fondata, ma viene “scomunicato” sia dal GOI, sia dalla rinata Gran Commenda della Gran Loggia d’Italia (18). La Massoneria, quindi, si riorganizza a fatica e ritrovando le antiche divisioni, l’antica rissosità: a guerra finita, ci saranno il GOI, quella della Reggenza, nonché numerose Massonerie di rito scozzese che reclamavano in l’eredità della Gran Loggia d’Italia: quella di “via della Mercede”, facente capo a Palermi, quella “Unificata” di Maiocco, quella di “via Avezzana”, quella di De Cantellis, quella di Bencivegna-Battaglia, quella di Gustavo Scervini, il Gruppo San Giovanni di Scozia ed il Gruppo Nalbone (19).

Quale il suo ruolo nella guerra civile?

Come abbiamo visto, all’atto di fondazione del CLN è presente Meuccio Ruini, massone di lungo corso. Alla guerra civile partecipano, indubbiamente, dei massoni. Ma Ruini partecipa alla fondazione del CLN quale esponente della Democrazia del lavoro, non in quanto massone, ed i partigiani massoni vi partecipano a titolo personale o quali esponenti dei partiti aderenti al CLNAI. Va considerato, infatti, che alla guerra civile partecipano anche formazioni non inquadrate nei partiti del CLNAI. È il caso – ad esempio – delle formazioni monarchiche: ricordiamo la Brigata “Amendola” del Col. Gancia, la Brigata “Piave”, che opera nel trevigiano, la Brigata “Scordia” di Cavarzerani in Cansiglio, le formazioni dei comandanti Longhi, Genovesi, De Prada e Lombardini, operanti in Val d’Ossola e in Val di Toce, il Reggimento “Italia libera”, che agisce in Carnia (20). Non vi è traccia di formazioni partigiane di estrazione massonica, come – invece – avviene in Francia. Non solo non vi è traccia della partecipazione della massoneria in quanto istituzione a qualunque evento organizzativo nella preparazione e nella gestione della guerra civile, per quanto, non vi è traccia di sostegno massonico alla guerra partigiana sul piano logistico o finanziario, e manca, nei documenti massonici tra il 1943 ed il 1945, qualunque riferimento alla guerra civile in atto. Tali rarissimi documenti si occupano esclusivamente di problematiche interne, essendo obiettivo primario la “ricostruzione del Tempio”. Si veda, come esempio, il “manifesto del 10 giugno 1944 diffuso a Roma, firmato da Umberto Cipollone, Giuseppe Guastalla ed Ermanno Solimene, che annuncia la rinascita del Grande Oriente d’Italia, l’adesione al Rito Simbolico, la composizione della Giunta, facente cenno alla situazione politica solo per innalzare peana alla “rinascita” dell’Italia, ma senza alcun “richiamo alle armi” (21).

Si tenta, da parte massonica, di enfatizzare il ruolo dell’Unione Nazionale Democratica Italiana nella resistenza romana. L’UNDI viene definita associazione a forte connotazione massonica, perché fondata da aderenti alla Loggia Carlo Pisacane, fondata clandestinamente da Torregiani durante il confino a Ponza (22). Ma, a parte i dubbi collegamenti di questa formazione con la Massoneria che si va ricostituendo, non è dato rilevare alcuna incisività al suo ruolo nell’organizzazione delle azioni di guerriglia. Al di là – dunque – della propaganda fascista ossessionata dalle “logge”, al di là della propaganda massonica sul “tributo di sangue dei fratelli alla lotta di liberazione”, possiamo concordare con Carlo Francovich: (23) «non vorrei minimamente negare il coraggio, il sacrificio, talvolta fino alle estreme conseguenze, di singoli “fratelli” militanti in questo o in quel partito, durante gli anni della Resistenza. Ma la massoneria come organizzazione, in Italia, fu assente».

 

Note:

1 - Il partito d’Azione nasce nel 1943, vagheggiando idee mazziniane, quale trasformazione del Movimento di rinnovamento politico e sociale italiano, movimento fondato nella clandestinità durante la guerra, con idee “liberalsocialiste” – Francesco Leoni, op. cit., pp. 481 ss. cfr. Antonio Alosco, Il partito d'azione nel regno del Sud, Guida Editori, 2002; Giovanni De Luna, Storia del Partito d'Azione, UTET, Torino, 2006.
2 - Il movimento “democrazia del Lavoro” è costituito per iniziativa di Bonomi e Meuccio Ruini dopo il “cambio della marea”. Vi confluiscono personaggi della politica prefascista di ispirazione radicale e socialriformista. Nel 1944 assumerà il nome di partito democratico del Lavoro. Cfr. Antonio Alosco, “La Democrazia del Lavoro nel Regno del Sud”, inStoria Meridionale Contemporanea, 1983-1984; Id., “Il Partito democratico del lavoro”, in Aa.Vv., Il Parlamento italiano. 1861-1988, vol. XIII, “1943-1945. Dalla Resistenza alla democrazia. Da Badoglio a De Gasperi”, Nuova Cei, Milano 1989.
3 - La Democrazia Cristiana, partito di ispirazione cattolica, nasce dalle ceneri del vecchio partito popolare nella primavera del 1943.
4 - Bonomi, “Diario di un anno”, cit., pp. 98 ss.
5 - Ibidem; Carlo Pavoni, “Una guerra civile”, Bollati Boringhieri, Torino 1994, pos. Kindle 335; Marco Patricelli, op. cit., pp. 34 ss.; Anna Bravo e Daniele Jalla, Introduzione a “La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti”, Franco Angeli, Milano 2015, p. 23.
6 - Bonomi, ibidem, pp. 108 ss.
7 - ibidem
8 - De Felice, “Mussolini, l’Alleato, II – La Guerra Civile”, cit., p. 102.
9 - op. cit., pos. Kindle 828 ss.
10 - Riteniamo ideologicamente orientata la definizione “Guerra di Liberazione”. Fu una guerra civile, di italiani contro altri italiani. La definizione di “guerra civile” può ritenersi comunque ormai un approdo storiografico consolidato. Il primo ad usare il termine è, nel 1961, Rosario Romeo, in “Il Risorgimento: realtà storica e tradizione morale”, Einaudi, Torino 1961. Ma, fino al 1975, l’espressione è utilizzata solo da storici di estrazione fascista (Pino Rauti, Giorgio Pisanò). Nel 1975, De Felice rilascia a Michael Leeden una “Intervista sul Fascismo”, pubblicata da Laterza, in cui utilizza l’espressione. Da allora, nonostante il rifiuto psicologico di molti ad accettare l’idea, gli studiosi più neutrali non hanno dubbi sul fatto che, quella combattuta tra italiani dal 1943 al 1945 ha le caratteristiche di una “guerra civile”. Come nota Ernesto Galli della Loggia in “La Morte della Patria. La crisi dell'idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica”, Laterza, Roma-Bari 2015, p. 17: «L’ostracismo comminato per tanti anni dalla storiografia repubblicana alla definizione di «guerra civile», non è stato altro … che l’esito obbligato del rovesciamento meccanico, operato dalle forze della Resistenza, della mitologia fascista del «popolo di camicie nere» nella nuova mitologia di un popolo di antifascisti». L’ultimo volume della biografia del Duce scritta da Renzo De Felice, pubblicato postumo e già citato, ha come sottotitolo “La Guerra Civile”. L’inizio del terzo capitolo, “Il dramma del popolo italiano tra fascisti e partigiani”, è dedicato proprio alle motivazioni che spinsero i combattenti dall’una e dall’altra parte (non solo tra i partigiani, come analizzate da Pavoni). E tali motivazioni furono svariate, alcune delle quali inconfessabili, come in tutte le guerre civili.
11 - Pavone, op. cit., pos. Kindle 2083.
12 - Franco Catalano, “Storia del CLNAI”, Laterza, Bari 1956, p. 57.
13 - Ibidem, p. 116.
14 - Pavone, op. cit., pos. Kindle 2655 ss.
15 - Catalano, op. cit., pp. 341 ss.
16 - Pruneti “La tradizione massonica scozzese in Italia - storia del Supremo Consiglio e della Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. obbedienza di piazza del Gesù dal 1805 ad oggi” Edimai, Roma 1994
17 - Mola 1992, pp. 659 ss.
18 - Mola 2018, p. 586; id., prefazione a Zarcone, op. cit., p. 27, assume che – però – nella temperie di quegli anni, quella di Maiocco è l’unica Massoneria accreditata a livello internazionale.
19 - AUSSME, fondo SIM, “Massoneria Italiana”, citato in Zarcone, op. cit., pp. 246 ss. - cfr. la cronologia di Mola 2018, pp. 13 ss., in cui parla di “vagiti” della Massoneria tra il 1943 e la fine della guerra – sulla rissosità tra le varie comunioni Massoniche, v. Terzaghi, op. cit., p. 143,
20 - I partigiani di tendenza monarchica vengono sbrigativamente etichettati dai vari CLN come “badogliani” – sulla “resistenza monarchica”, cfr. Antonio Ratti,“L'attività delle formazioni partigiane”, in Domenico De Napoli, Antonio Ratti, Silvio Bolognini, “La resistenza monarchica in Italia (1943-1945)”, Guida 1985, pp. 63 ss.
21 - Una copia del manifesto è conservata nel Museo della Liberazione di via Tasso a Roma – cfr. Isastia, “L’eredità di Nathan. Guido Laj (1880-1948) prosindaco di Roma e Gran Maestro”, Carocci, Roma 2006, p. 157.
22 - cfr. Mauro Valeri, “A testa alta verso l’Oriente eterno. Liberi muratori nella Resistenza romana”, Mimesis, Roma 2017
23 - op. cit., p. 91.

(continua…)

Luigi Morrone per la Redazione di Ereticamente

L'articolo Fascismo e Massoneria, storia di rapporti complessi – 6^ parte – Luigi Morrone proviene da EreticaMente.

“Dove finisce l’arcobaleno”. Il simbolismo esoterico in ‘Eyes Wide Shut’. Di Simöne Gall

$
0
0

"C'è inoltre un romanzo di Arthur Schnitzler, Doppio Sogno, che vorrei realizzare ma sul quale non ho ancora cominciato a lavorare". Così dichiarava Stanley Kubrick nel corso di un'intervista agli albori degli anni Settanta. Il testo di Schnitzler lo aveva stregato ("Esplora l'ambivalenza sessuale di un matrimonio felice equiparando l'importanza dei sogni agli ipotetici rapporti sessuali con la realtà"), tanto da decidere di trasformarlo, dopo 2001: Odissea Nello Spazio, nel suo prossimo progetto cinematografico. Nell'aprile del 1971, un comunicato della Warner Bros. dichiarava che il nuovo film del regista sarebbe stato, per l’appunto, Traumnovelle (titolo originale di Doppio Sogno). Ma saltò tutto, poiché Kubrick optò per la trasposizione in pellicola di un altro splendido romanzo, questa volta del britannico Anthony Burgess.

Quando il progetto su Schnitzler vede finalmente la luce, nel luglio del 1999, Kubrick è già morto da diversi mesi. Le riprese del film, ambientato, rispetto al volume dell’autore austriaco, in una New York dicembrina (ma ricostruita completamente agli studi inglesi di Pinewood), erano cominciate nel novembre di due anni prima, protraendosi per oltre quindici mesi. Oggi, nel suo ventesimo anniversario, Eyes Wide Shut resta un racconto visivo profondamente seducente, un lucido e disincantato viaggio esoterico in cui si incuneano enigmi e simbolismi, realtà e sogno, anche se poi “nessun sogno è mai solamente un sogno”. Naturalmente, il titolo del lavoro conclusivo kubrickiano è una chiara allusione all’idea di segretezza (letteralmente significa “occhi spalancati chiusi”), a quello stesso anonimato osservato dagli adepti che partecipano al rituale-orgia tenuto dall’officiante ammantato di rosso (interpretato, tra l’altro, da Leon Vitali, allora assistente di Kubrick).

Il tratto misterico del film traspare già dall’immagine fermata in una cornice a specchio impressa sulla locandina ufficiale del film. Alice (Nicole Kidman) si presta al bacio del marito Bill (Tom Cruise), ma mentre quest’ultimo appare totalmente coinvolto nell’approcciarsi alla sua compagna, del cui viso possiamo captare solamente l’occhio destro, ella punta lo sguardo in un’altra direzione, come se stesse percependo una realtà o una verità altra, aliena a quella della vita coniugale che la coinvolge. L’occhio destro di Alice è quindi, in questo senso, un occhio per così dire illuminato: lei vede o sa qualcosa che il marito non può intercettare, come quando lo chiama interrompendo, di fatto, l’incontro con la prostituta Domino, un po’ come se il suo sesto senso l’avesse avvertita di un pericolo imminente. Tutto questo sembra suggerire che i suoi occhi siano spalancati e quindi coscienti, differentemente da quelli del coniuge.

All’inizio del film, la coppia presenzia a un party prenatalizio tenuto da Victor Ziegler, uno dei pazienti di Bill. A giudicare dagli interni della sfarzosissima abitazione, così come dal clima dell’evento, si intuisce che Victor non è semplicemente un ricco, ma è probabilmente parte di un sistema che sta al di sopra di ogni classe sociale. Da qui è inoltre possibile presupporre un legame tra la festa in questione e il rituale occulto che si verificherà più avanti. Nel riprendere la sala da ballo, Kubrick pone in risalto una particolare decorazione natalizia, una stella a otto punte che risulta molto simile all'antico simbolo della stella di Ishtar. Tenendo conto della sua attenzione smisurata per i dettagli, l'inclusione della stella di Ishtar all’interno della festa non può essere casuale, così come non può esserlo nemmeno il fatto che la Kidman graviti per diversi secondi nel raggio visivo in cui il simbolo in questione risplende. Ishtar è notoriamente la dea della sessualità, della fertilità e dell'amore, il cui culto prevedeva la prostituzione sacrale e gli atti rituali, due elementi fondamentali rispetto alla trama del film.

Nella medesima circostanza, Alice è presa di mira da un distinto ungherese di nome Sandor Szavost. L’uomo beve dal di lei bicchiere con fare audace e spudorato, un gesto che parrebbe evidenziare una certa propensione a voler scambiare fluidi con la donna. Il convinto seduttore, inoltre, le cita L’Arte di Amare di Ovidio. Questa serie di testi, composta ai tempi dell'Antica Roma, era molto in auge tra le élite del tempo. Il primo libro si apre con un'invocazione a Venere, pianeta esotericamente associato alla lussuria. Alcuni analisti del film hanno anche ipotizzato che il nome Sandor potesse essere un rimando al fondatore della Chiesa di Satana, Anton Szandor Lavey. In effetti, l’approccio dell’uomo ha un che di serpentino. Costui vorrebbe indurre Alice a tradire senza remore suo marito, elargendo frasi mirate a sottolineare la futilità della vita coniugale, glorificando invece un più puro piacere sessuale che è intrinseco alla natura animale umana e che si pone all’opposto di una convenzione sociale come quella del matrimonio. Alice, inebriata dall’alcol (la Kidman in questa fase riesce ad essere più credibile che nella scena in cui finge fastidiosamente di subire gli effetti della cannabis), dapprima accoglie maliziosamente le avances, per poi respingerle trincerandosi dietro allo sfoggio dell’anello nuziale. Bill, dal canto suo, si lascia ammaliare da due splendide modelle, le quali vorrebbero scortarlo fino a “dove finisce l'arcobaleno". Non è dato di sapere a cosa alluda questa frase dai toni sibillini, ma quello dell’arcobaleno, che riemerge mediante la ragione sociale del negozio in cui Bill affitta il costume con la maschera, (Rainbow Fashions) è un altro dei simboli che contrassegnano il carattere prettamente esoterico del film. Possiamo quindi affermare che Eyes Wide Shut sia suggellato da due mondi: quello dell’arcobaleno, ricolmo di luci accecanti e di alberi natalizi, e quello in cui lo stesso arcobaleno si completa e si pone al confine con le pratiche occulte dell’èlite, un mondo che non può e non deve mai essere rivelato all’esterno, così come anonimi devono restare coloro che costituiscono quell’universo parallelo. “Chi pensi che siano quelli là?” dirà Ziegler a Bill. “Non era mica gente qualsiasi, sai? Se ti dicessi i loro nomi, e non te li dico, ma se te li dicessi, non dormiresti più tranquillo”.

Tornando alla figura di Alice, si nota come la giovane donna nutra un certo malcontento per la vita di madre e di moglie che conduce. Il nome Alice è, molto probabilmente, un riferimento all’omonimo personaggio di Alice nel Paese delle Meraviglie, favola che, come certamente ricorderemo, narra le gesta di una fanciulla che si insinua "attraverso lo specchio" in un Paese delle Meraviglie. Non è un caso, infatti, che la Kidman si mostri più volte dinnanzi a uno specchio. Riportando al marito il proposito di tradimento con un ufficiale di marina ella pone in risalto, se vogliamo, il suo lato Ishtar, facendo insorgere nel consorte un compendio di sensazioni fatte di estrema gelosia, insicurezza ed umiliazione. Per riscattare questo sentimento ricolmo d’impotenza, egli intraprende goffamente uno strano viaggio notturno, che finirà per condurlo all'apice di una realtà oscura ed estremamente angosciante. Bill, in preda a un crescendo di desiderio e lussuria, incappa più volte in situazioni in cui potrebbe dare sfogo ai suoi impulsi più reconditi, ma alla fine, come nel caso della moglie e dei suoi pensieri turbolenti, nulla si concretizza. Tuttavia, i suoi impulsi hanno la capacità di generare dolore, quando non morte. Il suo viaggio può quindi essere letto come un dialogo fra Eros e Thanatos. Freud vedeva in Eros l'istinto per la vita, l'amore e la sessualità, in Thanatos l'istinto di morte, l'aggressività. L'eros è la spinta verso l'attrazione e la riproduzione, Thanatos verso la repulsione e il trapasso. Il primo conduce alla riproduzione della specie, il secondo al suo stesso sfacelo.

Da rilevare è inoltre la suggestiva location inglese scelta per filmare le scene dell’orgia. Mentmore Towers, edificio costruito nel diciannovesimo secolo per la potente famiglia dei Rothschild, i quali erano soliti partecipare a sciarade in maschera. Quando Bill fa il suo ingresso nella villa, lo vediamo mescolarsi a una folla di soggetti col volto coperto da spaventose maschere veneziane, intenti a osservare silenziosamente il rituale. Maschere come queste erano utilizzate durante il Rinascimento italiano e rappresentavano un modo per le élite del tempo di indulgere senza peccato alla dissolutezza. Il brano che fa da sfondo a questo scenario si intitola "Backwards Priests" e presenta una liturgia ortodossa-rumena suonata alla rovescia. Si dice che l'inversione di oggetti o di elementi sacri sia tipica della magia nera e dei riti satanici. Non ci sono però segni evidenti a indicare che l’èlite occulta descritta da Kubrick abbia un’origine satanista.

Il Sommo Sacerdote esegue una routine cerimoniale ponendosi al centro di un cerchio magico formato da giovani donne, dal fisico rigorosamente longilineo; cortigiane sacre dedite, forse solo passivamente, all’erotismo rituale. Quando Bill viene esortato a rimuovere la sua maschera dal viso, i partecipanti sono nuovamente disposti in un cerchio, secondo una modalità estremamente composta. Nel sottoporre Bill a giudizio, l’officiante siede su un trono che reca il simbolo di un'aquila a due teste, sormontata da una corona. L'aquila bicipite è rappresentativa del 33° grado della Massoneria, che è anche il massimo grado raggiungibile.

In seguito alla sua illegittima apparizione in quell’imponente dimora, concessa grazie alla parola d’ordine “Fidelio”, Bill troverà la sua maschera deposta sul cuscino accanto a una moglie dormiente. È forse segno che Alice è a conoscenza di ciò che gli è accaduto? È forse stata lei a rimuovere la maschera dal sacchetto del Rainbow Fashions? Oppure sono stati gli adepti della setta, penetrando in casa Hartford?

Nell’estate del 2001, la coppia Cruise-Kidman si sarebbe infine separata. A quanto pare, l’attrice australiana non sarebbe stata più disposta a tollerare ulteriormente l’affiliazione del marito alla fantascientifica setta di Scientology.

 

Simöne Gall

L'articolo “Dove finisce l’arcobaleno”. Il simbolismo esoterico in ‘Eyes Wide Shut’. Di Simöne Gall proviene da EreticaMente.

Milano (Medhelan/Mediolanum): tra storia e leggenda. A cura di Luigi Angelino

$
0
0

Proviamo a scattare qualche fotografia di Milano, seconda metropoli italiana per numero di abitanti e capoluogo della Lombardia, nonché sede della Borsa, considerata una delle capitali mondiali della moda e del design.

Secondo le ricostruzioni degli storici, Milano fu fondata intorno al 590 a.C., probabilmente con il nome di Medhelan, da una tribù celtica rientrante nel gruppo degli Insubri (1), nell'ambito della cultura di Golasecca (2). Secondo la leggenda tradizionale riportata da Tito Livio, poi ripresa in epoca medioevale da Bonvesin de la Riva (3), la fondazione di Milano si verificò nel VI secolo a.C., nello stesso luogo dove fu rinvenuta una scrofa semilanuta, per volere della tribù celtica capeggiata da Belloveso (4), che riuscì a sconfiggere i temibili Etruschi, che fino a quel momento avevano mantenuto una quasi incontrastata egemonia sulla zona.

I ritrovamenti archeologici hanno evidenziato che l'oppidum celtico si era sovrapposto al più antico insediamento golasecchiano, anche se non state trovate tracce di opere difensive della città, che, con ragionevole certezza, era costruita in legno e terra, meritando l'attribuzione della definizione di “villaggio” da parte di Polibio e Strabone. Tuttavia, i ritrovamenti della prima età del ferro evidenziano che l'insediamento golasecchiano di Medhelan era localizzato, più o meno, su una superficie di circa 12 ettari, nelle vicinanze dell'attuale Piazza della Scala.

Divenuta una delle più importanti città dei Celti Insubri, Milano fu poi conquistata dai Romani nel 222 a.C., a seguito di un duro assedio, da parte dei consoli Gneo Cornelio Scipione Calvo e Marco Claudio Marcello. La conquista fu resa ancora più difficile dalla discesa in Italia di Annibale, che si alleò con i Celti. Soltanto nei primi anni del II sec. a.C., gli Insubri e i Boi (6) si sottomisero, in via definitiva, alla dominazione romana. La città, chiamata ormai con il nome latino di Mediolanum (5), raggiunse una considerevole importanza strategica, quando Cesare intraprese le campagne di conquista della Gallia. Verso la metà del I sec. a.C., Mediolanum diventò la più importante città della Gallia Cisalpina, fino ad essere elevata al rango di municipium dallo stesso Cesare nel 49 a.C. Nei secoli successivi, Mediolanum acquistò un progressivo e crescente potere economico, politico e militare, al punto che Diocleziano, al momento della suddivisione dell'Impero romano, la rese, con Treviri, capitale dell'Impero romano d'Occidente. Con l'editto di Milano del 313, Costantino rese lecita la professione della religione cristiana, mentre nel 380 Teodosio la proclamò “religione di stato” con l'editto di Tessalonica. Riporto, di seguito, la testimonianza di Ausonio (7) sulla Mediolanum della fine del IV secolo:

 

A Mediolanum ogni cosa è degna di ammirazione, vi sono grandi ricchezze e numerose sono le case nobili. La popolazione è di grande capacità, eloquenza ed affabile. La città si è ingrandita ed è circondata da una duplice cerchia di mura. Vi sono il circo, dove il popolo gode degli spettacoli, il teatro con le gradinate a cuneo, i templi, la rocca del palazzo imperiale, la zecca, il quartiere che prende il nome dalle terme Erculee. I cortili colonnati sono adornati di statue di marmo, le mura sono circondate da una cinta di argini fortificati. Le sue costruzioni sono una più imponente dell'altra, come se fossero tra loro rivali, e non ne diminuisce la loro grandezza neppure l'accostamento a Roma. (Ausonio, Ordo urbium nobilium, VII).

 

Le sorti di Milano furono poi legate alla decadenza dell'impero romano d'occidente, fino a conoscere la sua prima distruzione nel 539, quando l'imperatore romano d'oriente Giustiniano, che mirava a riconquistare tutti i territori occidentali, inviò in Italia le sue truppe comandate dai generali Belisario e Narsete, per attaccare il re goto Teodato, dando inizio al sanguinoso conflitto che verrà chiamato “guerra gotica” (8). Anche la discesa longobarda del VI secolo portò saccheggi e spoliazioni che si protrassero diversi decenni, ai quali seguirono i primi segni di rinascita, quando Milano diventò per un breve periodo capitale dei Longobardi al posto di Pavia. Nell'epoca del Sacro romano impero di Carlo Magno, diventò sede di un conte imperiale e di un vescovo, evolvendosi in libero comune ed estendendo la sua influenza su tutta la Lombardia nell' XI secolo. Ma il prestigio acquisito e l'indipendenza costarono a Milano un'altra distruzione nel 1162, questa volta ad opera di Federico Barbarossa, riuscendo a rinascere soltanto dopo la vittoria della Lega Lombarda nel 1176. Sul finire del Medioevo, Milano fu teatro della lotta tra le famiglie Della Torre e Visconti per il possesso della città, con la prevalenza di questi ultimi, che cedettero il potere agli Sforza solo alla metà del XV secolo. Già con la Signoria dei Visconti, Milano diventò la capitale di uno stato abbastanza esteso e Gian Galeazzo Visconti (9) ideò la costruzione di un'immensa cattedrale che raggiungesse il prestigio delle maggiori in Europa, quella che diventerà famosa con il nome di “Duomo di Milano”. Nel XIV secolo Milano era una delle poche città europee che riusciva a superare i 100.000 abitanti, grazie alla fiorente attività economica, soprattutto nel campo dell'artigianato, della lavorazione dei metalli, dei tessuti, dell'agricoltura e dell'allevamento.

Ma Milano non è soltanto la città della moda, della Borsa e dell'industria italiana, situata in una delle aree più densamente popolate d'Europa. Milano conserva molte antiche tradizioni e leggende, che ne arricchiscono il fascino ed il mistero. Come si è detto all'inizio, un guerriero celtico di nome Belloveso, dopo aver sconfitto gli Etruschi, intorno al VI sec. a.C. sarebbe il mitico fondatore della città. Egli non avrebbe scelto il luogo a caso, ma la leggenda fa riferimento ad un animale “totemico”, una scrofa, o forse un cinghiale, con il dorso parzialmente ricoperto di pelo, che sarebbe stato interpretato come segnale magico e divino, propiziando la nascita della città. In tale contesto si attribuisce al termine celtico “Medhelan”, latinizzato in “Mediolanum”, il significato di medio-lanae, cioè di scrofa semilanuta, che fu il simbolo della Milano gallica fino al IV secolo. Secondo un'altra leggenda, lo stesso termine dovrebbe essere inteso come “terra di mezzo”, cioè come terra a metà strada tra i fiumi Olona e Seveso. Per altri studiosi Medhelan avrebbe il significato di “santuario di mezzo”, un luogo sacro dove i druidi erano soliti recarsi per completare la propria formazione spirituale e per perfezionare le proprie arti magiche. I Romani, successivamente, daranno al nome “Mediolanum”, il significato di “luogo al centro della pianura” (medium-planum), in considerazione dell'importanza che assumerà la città negli scambi commerciali con l'Europa centro-settentrionale (10). Significativo è il fatto che il centro della vita cittadina, anche nell'epoca celtica, fosse lo stesso luogo di ora, cioè in prossimità di Piazza Duomo. Secondo lo storico Polibio, ivi sorgeva il tempio di una divinità gallica, Belisama (11), che potrebbe essere assimilata, per funzioni e simbologia, ad Atena o a Minerva, dove si custodivano le sacre insegne dei guerrieri delle popolazioni insubre, chiamate anche “le immobili”.

Milano è legata ad un'altra suggestiva ed affascinante tradizione. Si narra che il carro con il quale sant'Eustorgio (12) trasportava le reliquie dei Re Magi da Costantinopoli, si fosse fermato inspiegabilmente alle porte della città e, pertanto, il santo, non potendo raggiungere la chiesa di Santa Tecla (13), dove erano destinate le reliquie, fece edificare un'altra basilica, quella appunto che sarà intitolata al santo. Infatti, in tale basilica, a destra dell'altare maggiore, nella parte superstite della porzione di chiesa paleocristiana del IV secolo, si può scorgere un enorme sarcofago che sarebbe servito a portare in Italia i resti dei tre re Magi che, secondo la tradizione, avrebbero visitato Gesù, seguendo la stella cometa. Ma le reliquie furono trafugate dal cancelliere Rainaldo di Dassel nel 1164 e portate nella città tedesca di Colonia. Tale evento provocò una delle cause legali più lunghe della storia, durando ben 740 anni. Furono intraprese negoziati con i Tedeschi per riaverle indietro, coinvolgendo personaggi famosi come san Carlo Borromeo. Finalmente, una parte delle reliquie tornarono a Milano nel 1904, grazie alla mediazione del cardinale Andrea Ferrari e del cardinale Fischer. Attualmente le preziose reliquie sono conservate dietro una grata, in una nicchia incassata nel muro a sinistra del sarcofago, e precisamente sopra l'altare della cappella.

Il sottosuolo milanese nasconde tanti misteri, come l'immenso ricovero realizzato sotto la stazione centrale durante la seconda guerra mondiale. Qui gli speleologi urbani hanno ricercato un enigmatico secondo livello, ma hanno trovato solo passaggi non percorribili, in quanto ostacolati da diversi strati di detriti (14). Inoltre si contano numerosi passaggi segreti del Castello Sforzesco, al di sotto del cortile di Piazza D'Armi. Si pensa che si tratti di uno sviluppo lineare di oltre tremila metri di sotterranei, per una superficie complessiva di circa diecimila metri quadrati. Forse la parte più affascinante ed imponente dei sotterranei è costituita dal circuito della cosiddetta “Strada Coperta Segreta” che segna tante diramazioni, che però quasi tutte portano alle postazioni d'artiglieria della Ghirlanda (15). E la Milano sotterranea non si ferma qui, perché quasi in una visione onirica, riappare in un altro dei suoi luoghi più celebri: i Navigli, al giorno d'oggi teatro della movida e della vita notturna, ma che un tempo rappresentavano la rete idroviaria e difensiva della città. I pozzi, infine, rappresentano un'altra particolare categoria di cavità sotterranee della topografia milanese. Secondo i ricercatori, se ne contano diverse migliaia in tutto il capoluogo lombardo, in considerazione del fatto che alcuni secoli fa la falda acquifera risultava essere molto vicina alla superficie. Anche in tale ambito non mancano originali leggende, come quella che riguarda proprio l'edificio più importante della città, il Duomo, di cui parleremo più dettagliatamente in seguito. Si dice, a tale proposito, che nello spazio riservato al Coro, siano stati nascosti gli accessi di pozzi profondi che, come era consuetudine presso alcune civiltà antiche, non sarebbero serviti a prelevare acqua, bensì a captare e convogliare verso l'alto energie telluriche. Ed alcuni resti di antichi luoghi di culto sono stati rinvenuti nella zona del centro cittadino, come il mitreo di San Giovanni in Conca, nei pressi di Piazza Missori, e l'avvolgente Tempio della Notte, situato nel Parco di Villa Ottolenghi-Battyani-Finzi, nel quartiere di Gorla. Uno dei luoghi più sinistri della metropoli lombarda è la chiesa di San Bernardino alle Ossa, situata in piazza Santo Stefano ed edificata sopra ad un cimitero. Il nome della chiesa deriva dalla particolarissima cappella, che appare completamente adornata con ossa e teschi. Tale decorazione fu aggiunta nel Seicento con ossa provenienti dai defunti dell'ospedale di San Barnaba in Brolo, vittime della peste o anche provenienti da alcuni cimiteri distrutti. Nella cappella si notano anche teschi chiusi nelle cassette, che appartenevano ai condannati a morte. A questo luogo è legata anche un'altra stranissima leggenda: la notte del 2 novembre, il giorno dei morti, le ossa di una bambina poste a sinistra dell'altare tornerebbero in vita, per mettersi alla testa di una stravagante processione di scheletri, in grado di mettere in atto un'inquietante danza macabra.

Per quanto riguarda la simbologia ricorrente del capoluogo lombardo, è noto che l'emblema più importante è il cosiddetto “biscione”, ovvero un drago a forma di serpente che stringe tra le fauci un bambino (16). Tale simbolo era lo stemma araldico della famiglia nobile dei Visconti, signori di Milano nel tardo Medioevo. Ma intorno alla sua reale origine, numerose sono le ipotesi: ad esempio, secondo una leggenda, il simbolo compariva sullo scudo di un nobile islamico ucciso durante una battaglia; un'altra leggenda vuole che, dopo la morte del veneratissimo sant'Ambrogio, un drago avrebbe assediato Milano divorando gli sventurati che si spingevano fuori dalle mura, tranne il nobile Uberto Visconti che fu il solo ad affrontare e a sconfiggere il drago. E' chiaro l'intento celebrativo di questa leggenda, nonché il tentativo di esorcizzare le sanguinose razzie barbariche avvenute con la caduta dell'impero romano d'occidente. Secondo un'altra versione, il biscione non sarebbe altro che il mitico Tarantasio (17), un mostro che avrebbe occupato il lago Gerundo (18), situato alle porte di Milano, ormai scomparso. A tale proposito, è giusto ricordare che nella basilica di San Marco vi è un affresco risalente all'inizio del quattordicesimo secolo che raffigura l'uccisione di Tarantasio, attualmente collocato nel museo del chiostro della stessa basilica. Ma l'aspetto sorprendente è che la raffigurazione del mostro è più simile a quella di un dinosauro, così come ricostruito dalla scienza moderna, che non all'immagine fantasiosa del drago diffusa in epoca medioevale.

Il monumento più famoso di Milano è sicuramente il Duomo, una delle cattedrali gotiche più importanti d'Europa, dove si intrecciano fitte trame di storia e di mistero. In realtà il nome per intero è “Basilica Cattedrale Metropolitana della Natività della Beata Vergine Maria, dedicata a Santa Maria Nascente. Si tratta della chiesa più grande d'Italia (ovviamente San Pietro non conta perchè è nel territorio di Città del Vaticano), la quarta al mondo per superficie, nonché la sesta per volume. Sotto il sagrato del Duomo, sorgono i resti della Basilica di Santa Tecla risalente al IV secolo d.C., che, a sua volta, era stata costruita sulle rovine di un tempio dedicato a Minerva. E' molto suggestivo entrare nella Cattedrale, partendo proprio dai sotterranei, visitabili con una guida. Appena si entra nel Duomo si rimane affascinati dalla maestosità della basilica e dal gran numero di simboli esoterici, tra cui la Meridiana in ottone che attraversa l'intera chiesa in senso longitudinale, su cui sono raffigurati i 12 simboli dei segni zodiacali. La Meridiana fu aggiunta nel 1786, in pieno periodo illuminista, dagli astronomi di Brera (19), rappresentando un capolavoro di capacità scientifica ed architettonica nel contempo. Infatti, si può affermare che la luce che illumina la striscia e che entra dal foro della cupola stia ad indicare i solstizi d'inverno e d'estate, nonché la stessa posizione del sole, a seconda della stagione dell'anno. Peraltro, è stato notato che la striscia d'ottone termina sulla parete, in perpendicolare al pavimento, in corrispondenza del segno del Capricorno. Per alcuni studiosi, ciò starebbe a simboleggiare la venuta di Cristo, come colui che rischiara le tenebre. Non bisogna dimenticare che l'interno del Duomo di Milano ha visto una delle incoronazioni più sfarzose della storia, quando il 26 maggio del 1805 Napoleone, già imperatore dei Francesi, si incoronò re d'Italia, ponendosi sul capo la corona ferrea dei re longobardi, pronunciando la storica e famosa frase “Dio me l'ha data, guai a chi la tocca”.

Secondo la leggenda, la magnifica storia del duomo di Milano cominciò con un incubo di Gian Galeazzo Visconti, che avrebbe sognato il diavolo. Satana gli avrebbe intimato di edificare un luogo ricco di immagini demoniache, altrimenti la sua anima sarebbe stata destinata all'inferno. Il Signore di Milano, spaventato dal sogno, si accordò con l'arcivescovo Antonio da Saluzzo per iniziare l'opera colossale nel 1386, che sarebbe stata del tutto completata soltanto dopo circa 500 anni. E come non parlare delle bellissime ed imponenti vetrate policrome, le prime al mondo ad illuminarsi dall'interno, grazie a 68 lampade a basso impatto ambientale. Un rituale antico ed unico al mondo è quello della Nivola, che si celebra ogni anno il 14 settembre, a partire dal 1500 all'interno della cattedrale, nell'ambito delle peculiarità del rito ambrosiano (20). La Nivola è in realtà un rudimentale ascensore, ora mosso elettronicamente, ma una volta tirato con funi, che permette all'arcivescovo di Milano di raggiungere la volta dell'abside, dove si trova un reliquario che custodirebbe addirittura uno dei chiodi della crocifissione di Gesù. Tra i tanti capolavori, che si trovano nella cattedrale, è degno di nota, anche perchè molto verosimile ed inquietante, la statua di San Bartolomeo, che viene raffigurato completamente scorticato che indossa sulle spalle la sua stessa pelle. In origine la statua era posta all'esterno, ma fu poi deciso di portarla all'interno, in quanto la sua vista era troppo raccapricciante (21).

Nell'intera struttura della cattedrale, nell'ambito del numero complessivo di oltre 3400 tra statue e doccioni, ben 96 sono comunque dedicate a figure infernali e demoniache. Un'altra particolarità degna di rilievo è il fatto che l'intera cattedrale è formata da blocchi di marmo proveniente dalle cave di Candoglia (22), località distante, più o meno, un centinaio di chilometri da Milano, già nota ai Romani per il pregio del materiale. Per il trasporto dei grossi massi, i Milanesi sfruttarono il Naviglio Grande, allora navigabile.

Gli architetti e gli ingegneri che si occuparono del Duomo di Milano furono numerosi, di cui alcuni personaggi veramente eminenti ed illustri. Nel 1487, già cent'anni dopo l'inizio della costruzione, Ludovico il Moro (23), duca di Milano, chiamò a raccolta i più bravi pensatori per risolvere il problema del “tiburio”, ovvero una particolare struttura architettonica di copertura esterna di certe cupole, tipica del Rinascimento. Tra gli architetti celebri, presentarono le proprie soluzioni anche Leonardo da Vinci ed il Bramante, che fornì un originale progetto ligneo, andato perduto, sul quale, però, successivamente scrisse un trattato, la Opinio super Domicilium seu Templum Magnum, l'unico suo scritto teorico a noi pervenuto. Lo speciale “concorso” indetto da Ludovico il Moro fu vinto poi da Giovanni Antonio Amadeo (24), che presentava un profilo artistico più in sintonia con la scuola lombarda. Ammirando l'imponente esterno del Duomo di Milano, si nota che non esiste un vero e proprio campanile, elemento classico delle altre cattedrali, eppure le campane sono presenti ! Si tratta di tre campane, nascoste nell'intercapedine del tiburio della guglia maggiore tra la parete esterna e la volta interna.

Sicuramente uno degli elementi più famosi del Duomo è la Madonnina, che trovò la sua attuale collocazione, sulla guglia maggiore, soltanto nel 1774. La Madonnina ha sempre costituito il simbolo ed il punto di riferimento di Milano, già nel 1848, durante le Cinque Giornate (25), fu alzato il tricolore sulla statua della vergine, suscitando l'orgoglio dei combattenti per incitarli alla vittoria. La statua della Madonnina è alta 4,16 metri ed è composta da ben 33 lastre che fungono da rivestimento, a cui si aggiunge la lastra portante in acciaio inox e le foglie d'oro come decorazioni di completamento. E la canzone milanese più famosa è proprio dedicata alla bella Madunina del Duomo, composta da Giovanni D'Anzi (26) nel 1935. L'autore, quasi interpretando il pensiero di tanti concittadini, desiderò dare un volto più umano e culturale alla sua Milano, che non fosse solo di città grigia, operosa, industriale e dedita agli affari, ma che, attraverso la canzone popolare, potesse in qualche modo competere con il fascino di Roma e di Napoli, la cui musica ineguagliabile ed inimitabile spopolava soprattutto nella prima metà del secolo scorso.

Altre leggende avvolgono Milano, come la colonna del diavolo davanti alla chiesa di Sant'Ambrogio (27). La denominazione attribuita a questo singolare monumento deriva dal fatto che sulla sua superficie sono collocati due fori, che secondo la tradizione popolare sarebbero stati creati dalle corna del diavolo. La leggenda racconta che sant'Ambrogio abbia scaraventato il demonio sulla colonna e che questi vi rimase incastrato, ma il santo lo rimandò all'inferno, creando una voragine alla base della colonna. All'interno della chiesa di Sant'Ambrogio si possono ammirare simboli misteriosi, come la presenza di due colonne, su una delle quali è collocata una croce, sull'altra un serpente di bronzo, simbolo della conoscenza, che risalirebbe perfino a Mosè. E non mancano storie di fantasmi e di presenze inquietanti nel capoluogo lombardo, come la vicenda legata alla figura di Bernardina Visconti, sulla quale la tradizione narra che il suo fantasma vagherebbe tra le arcate di Porta Nuova. La ragazza si era innamorata di un cortigiano ed il suo amore fu contrastato dal padre che, dopo aver scoperto la passione della ragazza, la rinchiuse in una torre e fece sì che morisse di fame in solitudine.

E mi piace concludere questa breve e sicuramente non esaustiva rassegna su Milano, facendo riferimento ad uno dei più grandi capolavori artistici di tutti i tempi, L'ultima cena di Leonardo da Vinci. L'opera, infatti, è collocata sulla parete di una sala rettangolare che era utilizzata come refettorio dai frati del convento di Santa Maria delle Grazie (28). Mai, prima della rappresentazione di Leonardo, il sacro e leggendario episodio dell'ultima cena era apparso così prossimo a noi e a tal punto verosimile. Al visitatore sembra quasi che un'altra sala si aggiunga a quella dei frati e che contemporaneamente si svolga un altro evento conviviale. E non si sbagliava Leonardo, quando affermava che le opere d'arte sono sempre state giudicate per la loro somiglianza al vero, o meglio per la loro somiglianza all'idea che si vuole rappresentare. Niente, nell'opera di Leonardo, può essere accostato alle scene tradizionali dell'Ultima cena, dove gli apostoli sono raffigurati tutti in fila, seduti a tavola in maniera composta, con Giuda un po' discosto, mentre Cristo istituisce il sacramento dell'Eucaristia. Si trattava di rappresentazioni quasi liturgiche che non entravano nel vivo della vicenda drammatica, non solo teologica, ma anche profondamente umana, narrata dai vangeli. Ma Leonardo cerca di risalire ai testi sacri, al momento apicale quando Gesù annuncia agli apostoli il tradimento di uno di loro (29). Non è casuale, poi, che l'intera scena, oltre ad essere diretta ad ottenere una simmetrica composizione, sia contraddistinta da un evidente linguaggio pitagorico, neoplatonico ed ermetico. La terra è rappresentata dal numero pitagorico quattro, con varchi scuri che non sembrano condurre da nessuna parte, a differenza delle tre finestre luminose che indicano la Trinità, con una raffinata inclinazione prospettica convergente sulla necessità di Dio, dell'Uno.

Non è un caso che Leonardo, formatosi a Firenze, la città che nel Rinascimento era all'avanguardia negli studi ermetici, neoplatonici e pitagorici, per motivi non solo utilitaristici, abbia scelto come sua seconda patria Milano (30), all'epoca stella nascente nel firmamento culturale e politico europeo.

Milano è una città che esercita il suo fascino maggiormente d'inverno, me ne accorsi una sera di gennaio di qualche anno fa, ammirando i Navigli ricoperti dalla neve, con la consapevolezza di preferire di girovagare con le guance arrossate dal freddo piuttosto che con la fronte sudata delle lunghe giornate estive. A pochi passi dal Duomo, per riscaldarmi, mi affidai alla preziosa compagnia dei libri antichi della biblioteca Sormani (31), dove un grande mappamondo di legno mi apparve come l'emblema delle grandi conquiste dell'umanità e di quanto ci fosse ancora in futuro da scoprire.

 

 

 

 

NOTE

 

  1. Gli Insubri furono una popolazione che si stanziò nell'Italia nord-occidentale tra il VII e il VI sec. a.C., sulla uqlae è incerta l'appartenenza etnica. In merito vi sono due tesi principali ( la prima li ritiene di origine celtica, la seconda di derivazione celto-ligure). Sugli Insubri scrisse Tito livio.
  2. La cultura di Golasecca su sviluppò nella pianura padana verso la fine dell'età del bronzo (IX-IV sec. a.C.) e prende il nome dalla località di Golasecca, vicino al fiume Ticino, dove l'abate Giani, all'inizio del XIX secolo, rinvenne i primi reperti antichi.
  3. Bonvesin de la Riva (1240-1315), detto anche Bonvicino della Riva, fu uno scrittore e poeta milanese che scrisse il libro storico De magnalibus urbis Mediolani.
  4. Belloveso, guerriero gallo, secondo la narrazione di Tito Livio, sarebbe vissuto alla fine del VII secolo e avrebbe rappresentato una sorta di “Romolo” milanese, quale mitico fondatore della città lombarda
  5. L. Cracco Ruggini, Milano da “metropoli” degli Insubri a capitale dell'impero: una vicenda di mille anni, in Catalogo della Mostra “Milano capitale dell'Impero romano (286-402 d.C., a cura di Gemma Sena Chiesa, Milano 1990.
  6. I Boi o Galli Boi furono una popolazione dell'età del ferro orignaria dell'antica Gallia o dell'Europa centrale, probabilmente dalle stesse regioni che conservano la radice della parola come Bo-emia e Ba-viera.
  7. Decimo Magno Ausonio (310-395 circa d.C. circa), poeta storico romano di origine gallica.
  8. La guerra gotica durò dal 535 al 553 fu un sanguinoso conflitto che vide come nemici da un lato gli Ostrogoti e dall'altro l'Impero bizantino che rivendicava i territori che erano appartenuti all'impero romano d'occidente.
  9. Gian Galeazzo Visconti (1351-1402), oltre ad essere un nobile ed un'importante figura politica, fu il primo Duca di Milano, nonché Signore di numerose città dell'Italia settentriionale e centrale.
  10. , Giovanna Rosa, Forme di potere e struttura sociale in Italia nel Medioevo, ed. Il Mulino, Bologna 1977.
  11. Belisana o Belisma era la divinità celtica delle arti e del fuoco. Una particolare iscrizione latina ritrovata a Saint-Lizier in Aquitania, la identifica alla dea Minerva/Atena della cultura mediterranea. Il suo compagno era Belanu, il dio della luce, uno dei più importanti della cultura dell'Europa centrale.
  12. Sant'Eustorgio fu vescovo di Milano verso la metà del IV secolo, anche se non esiste una documentazione storica sulla sua vita. Le uniche testimonianze su di lui si ricavano da sant'Ambrogio e da sant'Atanasio.
  13. La basilica di Santa Tecla era una basilica a cinque navate, attualmente non più esistente se non in piccole parti presenti sotto il sagrato dell'odierno Duomo.
  14. , Ippolito Edmondo Ferrario e Gianluca Padovan, Milano sotterranea, New Compton Editori, Roma 2014
  15. La strada coperta della Ghirlanda, denominata anche “Galleria della Ghirlanda”, è un percorso sotterraneo composto da un cunicolo voltato, che si insinua parallelo alla parte esterna della controscarpa del fossato e che formava la prima difesa del quadrato Sforzesco.
  16. Giulia Bologna, Milano e il suo stemma, Archivio storico civico e Biblioteca Tivulziana, Milano 1981.
  17. Nella tradizione popolare, Tarantasio è un drago leggendario che terrorizzava gli abitanti del lago Gerundo, in prossimità della città di Lodi. Si narrava che il mostro divorasse i bambini, che distruggesse le barche e che con il suo fiato pestilenziale inquinasse l'aria, causando una stranissima malattia, chiamata febbre gialla. In sua memoria, resta il nome di una frazione di Cassano d'Adda, appunto denominata Taranta.
  18. Si suppone che il lago Gerundo fosse un vasto specchio d'acqua situato tra i letti dei fiumi Adda e serio. Non vi sono fonti storiche che lo descrivano, ma la sua esistenza è stata tramandata oralmente, mentre dai dati geologici rilevati, sembrerebbe che sia esistito in età preistorica.
  19. L'osservatorio astronomico di Brera, INAF, è una vera e propria istituzione storica, formata nella seconda metà del Settecento nel palazzo di Brera.
  20. Il rito ambrosiano è il rito liturgico ufficiale utilizzato dalla Chiesa cattolica nella maggior parte dell'arcidiocesi di Milano e in alcune zone che ne facevano parte. Esso si distingue da quello utilizzato nel resto dell'Occidente, chiamato invece “rito romano”.
  21. , Giacomo Bascapè e Paolo Mezzanotte, Il Duomo di Milano, Bramante editrice, Milano 1965; Carlo Romussi, Il Duomo di Milano tra arte e storia, Meravigli edizioni, Milano 2014.
  22. Il marmo di Candoglia è una tipologia di marmo di colore bianco/rosa o grigio, che si estrae nelle cave nel comune di Mergozzo, in Val d'Ossola.
  23. Ludovico Maria Sforza (1452-1408), detto “il Moro”, fu duca di Bari dal 1479, reggente del Ducato di Milano dal 1480 al 1494, affiancando il nipote e infine duca egli stesso dal 1494 al 1499. Durante il suo governo, Milano conobbe il Rinascimento e la sua corte diventò una delle più rinomate del Nord Italia.
  24. Giovanni Antonio Amadeo (1447-1522), fu uno dei più importanti scultori, ingegneri ed architetti del Rinascimento lombardo. A lui si deve anche la facciata della certosa di Pavia.
  25. Le cinque giornate di Milano rappresentarono un'insurrezione armata, tra il 18 e il 22 marzo, contro la dominazione austriaca.
  26. Giovanni D'Anzi (1906-1974), diventato famoso per la canzone “Madunnina”, è stato un importante musicista e compositore.
  27. La basilica di Sant'Ambrogio, il cui nome completo è “basilica romana minore collegiata abbaziale prepositurale di Sant'Ambrogio” è una delle più antiche chiese di milano, costituendo un importante monumento di epoca paleocrostiana e medioevale ed un solido punto di riferimento della storia milanese e della Chiesa di rito ambrosiano.
  28. La chiesa di Santa Maria delle Grazie è una basilica e santuario che appartiene all'ordine domenicano, nel comprensorio della parrocchia di San Vittore al Corpo.
  29. , Matteo, 26, 21-22; Giovanni 23, 21-22.
  30. , Luigi Angelino, I miti – luci ed ombre, Ed. Cavinato international, Brescia 2018, pp. 227-237.
  31. La Biblioteca Comunale Centrale di Milano, conosciuta come Biblioteca Sormani, è la principale sede del sistema bibliotecario comunale del capoluogo lombardo, contando una vastissima collezione di volumi (il catalogo ne conta più di 650.000).

 

 

 

L'articolo Milano (Medhelan/Mediolanum): tra storia e leggenda. A cura di Luigi Angelino proviene da EreticaMente.

La poesia di Evola come testo sconfinante – Vitaldo Conte

$
0
0

Mia notte mia malattia stregata” (J. Evola)

La produzione poetica di Evola, fino a oggi conosciuta, è costituita da una trentina di testi, inclusi alcuni usciti su pubblicazioni del tempo e i dieci, che a questi si aggiunsero nel 1920, e che furono pubblicati in Arte Astratta. Tutti questi testi furono poi raccolti dall’autore nel libro Râaga Blanda.

Questa produzione costituisce una rilevante testimonianza, anche per le sue diversificate e transdisciplinari letture, che interagiscono con la sua espressione pittorica e di pensiero. Una creazione sconfinante, come questa, può richiedere, infatti, esistenze e momenti differenti, nel suo svolgersi, per trovare la consapevole totalità del proprio procedimento. L’idea di arte totale o sintesi delle arti è già presente in diversi aspetti delle avanguardie storiche che Evola ha attraversato: il Futurismo e il Dada. L’autore stesso rifiuta di distinguere e separare i momenti più significativi del suo percorso culturale. Ne rivendica il senso complessivo e la continuità fra l’espressione artistica e il percorso filosofico: “Nell’essenziale, sussiste una continuità attraverso tutte le varie fasi della mia attività”. In maniera similare “non delimita” i confini della stessa espressione artistica: “Schopenhauer e Nietzsche, nell’esaltare la superiorità della musica, hanno dimostrato di esser incapaci a comprendere le altre arti: perciò l’arte stessa, forse... Chi possiede un solo mezzo espressivo, non è artista...”.

La sua astrazione diviene posizione interiore che può essere “oggettivizzata”, sia nella pittura che nella poesia. La coscienza astratta vuole essere “uno stato di intensità in cui non vive più né sentimento, né pensiero, ma solo un’atmosfera rarefatta, strana, in cui suoni e forme quasi d’un altro mondo, di un’altra realtà, passano come in un paesaggio cangiante; avente ora il color del sogno, ora quello del delirio. L’arte dadaista cerca di esprimere tale stato”.

Le immagini, che Evola “affida” alla sua pittura e poesia, non evocano solo una comunicazione sinestetica: risultano anche immagini-concetto. Queste accompagnano, in maniera sotterranea, il suo procedimento di pensiero, che sottintende simultaneamente quello esoterico e propriamente alchemico. Le composizioni astratte dei suoi Paesaggi interiori possono essere lette come un “pensare”, attraversante la visione di spazi siderali. Le sue pitture e poesie sono testimonianze di questi percorsi che “parlano” di mondi visionari che sembrano includere la presenza di un occhio invisibile. Questi spazi, popolati di immagini interiori e superiori, sono “fissati” con distacco, oltre l’umano: anticipano il mondo lucido e disincantato con cui guarderà, con gli occhi della riflessione, la realtà del proprio tempo con la sua critica e denuncia alla modernità.

I testi che compongono la raccolta Râaga Blanda sono stati scritti nel periodo compreso fra il 1916 e il 1922. Le poesie incluse nel libro evidenziano diversi elementi di contatto con la letteratura italiana ed europea del periodo, e corrispondono alle fasi della sua produzione poetica, che lo stesso autore definirà. Fra tali relazioni rientrano le acquisizioni iconografiche della cultura ermetico-alchemica che contaminano il testo. Questa cultura non ha avuto in Italia una consapevole lettura, soprattutto delle sue rilevanze sotterranee nell’espressione delle avanguardie, partendo dal Simbolismo per arrivare al Surrealismo. Analogamente non l’ha avuto nei confronti delle dottrine sapienziali, soprattutto orientali.

L’autore, nell’introduzione, scrive che in questa poesia è visibile uno sviluppo che, a parte alcune non rilevanti incidenze futuriste, va dal decadentismo, simbolismo e dall’analogismo fino alla composizione dadaista. In quest’ultima fase viene seguita la tecnica della poesia astratta e della cosiddetta “alchimia delle parole”, in cui le parole sono usate non secondo il loro contenuto oggettivo ma secondo le loro valenze evocative, associate a fonemi inarticolati, che vengono accordate in modo vario. Le reiterazioni di lettere partite da onomatopee futuriste giungono al Dada, attraverso la ritualità ermetica e il libero fonetismo, perdendo la funzione imitativa o allusiva per assumere quella di richiamare un suono intimo, ancestrale. Questo, pur non rimandando più a nulla, può essere avvertito come quotidiano e moderno.
Evola riprende la dimensione simbolista per esprimere una materialità linguistica autonoma: da utilizzare con il suo potere evocativo, attraverso l’orchestrazione dei sensi, emergendo da gruppi d’immagini apparentemente slegate (come nell’alchimia della parola di Rimbaud). Sostituisce l’iniziale astrattismo sentimentale con uno a-passionale. La lirica non deve esprimere più nulla, perché è tutta espressione pura, libertà incondizionata, dominio dei mezzi d’espressione: entra in un’atmosfera assolutamente rarefatta, ossessionante di alogicità e orgasmo interiore. Lo spettatore deve porsi verso la nuova arte con particolare predisposizione d’animo per accoglierne la sinfonia: più che capire o vedere un oggetto o un’idea, dovrà lasciarsi attraversare dai ritmi e dagli accordi. L’autore converte “lo svuotamento... dissacratorio dadaista in un rituale di magia evocativa, rassicurante nei confronti dell’io dell’autore (e quindi del lettore), attraverso la dissoluzione dell’io stesso negli elementi indifferenziati del mondo”.

Le parole, disposte con apparente libertà, vivono in uno spazio determinato da linee convergenti e divergenti, come se fossero cristallizzate dal pensiero. L’immagine può contenere la rivelazione di un mondo nuovo. In questa lirica ogni cosa deve avere un valore simbolico, risolto in un vago senso analogico, strano nelle vicinanze e lontananze, per avvincere misteriosamente e potentemente la sensibilità del lettore, in cui, gradualmente, la natura e l’anima si trasfigurano.

Il “cosiddetto soggetto” si dissolve in infiniti fili di simpatie che tendono a edificare un’atmosfera immaginifica, una trama sempre più fitta, in cui può sorgere “come in un magico miraggio” una nuova esistenza. Una speciale chiaroveggenza ricrea l’alchimia lirica nella dimensione oscura del simbolo. Le possibili illuminazioni propongono un mondo che dilata le possibilità sensoriali e percettive della realtà, fino ai confini estremi del vivibile e dell’oltre. Il suo verso, edificandosi con immagini che richiamano una “musica” interiore, si espande impalpabilmente in coinvolgimenti plurisensoriali. Come accade in talune espressioni della poesia concreto-visuale e fonetica internazionale, specificatamente in quelle di vocazione magico-alchemica e rituale.

La fase “futurista” è espressa dal gruppo delle “poesie di guerra”, che furono escluse da Arte Astratta, probabilmente perché dovevano essere inserite in una raccolta che avrebbe costituito una pubblicazione, mai avvenuta, a cura della Casa editrice futurista di “Poesia”. Queste liriche entreranno in Raaga blanda, il cui titolo, al tempo della stesura delle composizioni poetiche, prevedeva l’aggiunta di mia cattiva sfera, poi cancellata. L’opera mai uscita è annunciata in un articolo su “Roma Futurista”. L’autore stesso aveva già informato Tzara di questa prossima pubblicazione, indicandone un titolo diverso: 8 poemi 8 composizioni. Ma i rapporti fra Evola e Marinetti, con il trascorrere dei mesi, si deteriorarono per l’allontanamento del primo verso gli stilemi futuristi: la divaricazione fu sancita dalla conferenza tenuta da Evola in occasione della mostra collettiva del gruppo dadaista italiano presso la Casa d’arte Bragaglia a Roma (1921). Per questi motivi Evola non entrò a far parte delle pubblicazioni futuriste. Le cinque poesie, che compongono questo momento, ondeggiano dalla rappresentazione dell’ambiente all’azione del combattimento. Possono avere come titolo unificante quello del suo primo componimento: 1917-1918 Zona di guerra – Entrata, considerando lo scenario di esperienze che le unisce strettamente fra di loro. La guerra ha trasformato le dimensioni primarie dell’esperienza, in cui l’ardimento del militarismo futurista s’intreccia a una condizione sentimentale.

La notte e il delirio diventano “presenze” evocative e atmosfere interiori. In I sogni (la prima poesia contenuta in Arte Astratta), è un testo di ascendenza simbolista, da cui riprende un panorama di immagini e motivi, talvolta ricorrenti, che vivono in un scenario notturno e lunare: “Tutti questi strani cristalli neri sperduti nella notte / frammenti caduti di lontani mondi / di immensi mondi / di lontani lontani mondi”. La conclusione della poesia ripete il verso che chiude la prima parte: “Sempre quel gran peso oscuro nel cielo”.

Vitaldo Conte

(Dal testo dell’autore, in AA.VV., Julius Evola / Teoria e Pratica dell’Arte d’Avanguardia, Ed. Mediterranee, Roma 2019, in uscita e disponibile in questi giorni).

L'articolo La poesia di Evola come testo sconfinante – Vitaldo Conte proviene da EreticaMente.

Viewing all 2266 articles
Browse latest View live