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Una russa a Montparnasse: biografia intellettuale di Maria De Naglowska – 1^ parte – Francesco Innella

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Introduzione

Maria De Naglowska: autonomia e consapevolezza  magico-sessuale della donna

Avventurarsi nel mistero di vita d'una donna, esoterista e libertina, dalla personalità magnetica, vissuta peregrina a cavallo tra il XIX e XX secolo tra Russia, Europa, Alessandria d'Egitto, alla ricerca di una intensa e generatrice femminilità, dell'affermazione di un femminismo intriso di mistero e di esoterismo, che potesse essere rivelatorio dell'occulto, non è cosa da poco. Certo, occorre essere aperti all'ascolto. Francesco Innella, attraverso una prosa limpida e forte d'un sentire profondo, affronta meravigliosamente le varie tappe di vita di questa donna di San Pietroburgo che pagò a caro prezzo le sue idee radicali, libertarie e l'intelligenza acuta e tenace, sopportando una vita di esilii e difficoltà, lei, di famiglia aristocratica, accusata di satanismo e, probabilmente vittima di una fine da deportata. Dotata di un grande potere fascinatorio, Maria De Naglowska ha attaccato con coraggiosa determinazione le convinzioni del suo tempo su argomenti quali sessualità e femminismo, sia in rapporto col magico che con l'esoterico, dando vita ad una dottrina dalle tematiche tutt'altro che semplici, tutte protese al possibile conseguimento di una autonomia magico sessuale della donna, dimostrando la necessarietà della donna per lo sviluppo ideologico dell'uomo, per la sua virilità spirituale e avvicinandosi al culto della Madre-Dio, la Grande Madre. Il perseguimento dell'illuminazione avviene mediante la magia sessuale, il magnetismo sessuale, che permette il superamento dei limiti della coscienza individuale e che è generato attraverso rituali ricchi di simbologie.Francesco Innella non giudica, racconta, illumina la coscienza del lettore. E lo fa in modo talmente naturale e profondo, che il lettore stesso arriva a nutrire per la donna russa sentimenti davvero forti, anche contrastanti, mai però banali o convenzionali.

Muovendosi con maestria e sapienza nel femminismo esoterico di Maria De Naglowska, egli rivela un universo di comportamenti e simbolismi che permettono di comprendere che accettare tendenze contrapposte può essere fondamentale per poter rianimare l'equilibrio, l'armonia del mondo e del sé. Grandi menti del passato hanno cercato di comunicare che il vero è altrove, che la vera esperienza, quella rivelatoria, va al di là del piano fisico, così, rivela Innella, ha fatto anche questa giovane donna russa, sacrificandosi sull'altare della conoscenza, affrontando una vita difficile, soffrendo, esponendosi nel più intimo sentire per comunicare, nel suo ruolo provocatorio di sacerdotessa dell'amore magico/rivelatorio, l'importanza d'essere donna ed essere, in virtù di questo, depositaria di un sapere dell'oltre. Infine, vorrei rimarcare l'alto messaggio che Francesco Innella offre attraverso questo saggio: smettiamo di vedere il male dove non c'è e apriamoci all'ascolto, alla voce profonda che indica la via.

Gaia Ortino Moreschini

Premessa

Il femminismo magico di Maria De Naglowska

Maria De Naglowska ( 1883 – 1936 ) ebbe una certa popolarità nella Parigi degli anni 30. Esoterista, libertina dopo aver attraversato mezza Europa si trasferì in Francia, da Alessandria d’Egitto. Visse nel quartiere di Montparnasse, la sede degli artisti e dei filosofi. In due locali pubblici: la Coupole e la Rotonde diede lezioni di occultismo.Tradusse il testo di Pascal Randolph: “ La magia sessuale “ e fondò una rivista, “La Freccia, organo di azione magica”. Seguace della gnosi, si adoperò per attuare l’avvento del Regno della Madre che espose nel suo testo dal titolo: “Dottrina del Terzo Termine della Trinità”. Il suo fu un femminismo magico, lei era convinta che il futuro della società sarebbe stato assicurato dalla donna, che doveva essere liberata da 5000 anni di patriarcato. Come ha scritto Alexsandrian: “ Maria De Naglowska ha attaccato le convenzioni che paralizzano la destinazione occulta della donna.

Capitolo I

Una giovane aristocratica nella Russia dei progrom

Maria De Naglowska, nacque a San Pietroburgo il 15 agosto 1883. Figlia del generale De Naglowski e di Caterina Kamaroff. Il padre partecipò alla guerra russo – turca degli anni 1875 -1876, insieme al generale Gurco (1). Dopo la vittoriosa campagna contro i turchi ottenne il governatorato della provincia di Kazan (2). Misterioso fu l’assassinio del padre da parte di un nichilista, che lo avvelenò, durante una partita a scacchi. Il termine nichilismo, che secondo alcuni storici veniva utilizzato per indicare gli eretici cristiani fu usato per la prima volta dallo lo scrittore russo Turgenev nel suo romanzo “ Padri e figli “ che definì nichilista il modo di pensare del protagonista, che era in conflitto con i valori ed i principi del padre.” Anche in Dostoewskij si possono definire nichilisti i romanzi “ Delitto e castigo “ del 1863, “ I Demoni “ del 1873 ed“ I fratelli Karamazov” del 1879. Ma la diffusione del termine nella Russia ottocentesca avvenne per opera dell’anarchico Bakunin e ci fu lo spostamento del significato dal suo ambito filosofico e letterario a quello propriamente politico e sociale. Il nichilista era un libero pensatore che demoliva ogni presupposto, ogni pregiudizio e ogni condizione dei valori tradizionali. I nichilisti russi esaltavano il senso della loro individualità, negavano l’ordine costituito,attaccando i valori della religione, della metafisica e della estetica tradizionale. Un vero e proprio manifesto del movimento fu il romanzo di Cernysevskj, “ Che fare”. E la gioventù russa si infiammò dell’opera “ Catechismo di un rivoluzionario” di Necaev. Dopo la morte della madre,avvenuta nel 1895, l’educazione di Maria fu affidata ad una sua zia che la iscrisse al prestigioso Istituto Smolny che fu fondato da Caterina II come scuola per le ragazze di Russia. E fu anche chiamato il collegio delle donzelle aristocratiche.

Maria si distinse per la sua personalità magnetica e uno spiccato senso dell’onore e della dignità, rivelando buone attitudini al comando e allo stesso tempo, un carattere caldo e sensibile. La fanciulla sentiva l’esigenza di espandere la sua personalità, in tutti i campi delle relazioni umane. La scuola nell’impero zarista non era florida, se non in alcuni grandi centri urbani, altrove regnava incontrastato l’analfabetismo. Uomini di pensiero e politici, che si erano proposti di creare una nuova pedagogia, intrapresero viaggi in Svizzera e riportarono in Russia le innovazioni pedagogiche del paese elvetico. Le ragazze appartenenti alla classi aristocratiche, dovevano imparare a leggere e scrivere, ma anche ad usare il fuso, a tendere il filo a fare ogni cosa con regolarità e pulizia. Veniva impartita una severa educazione religiosa, secondo il dettame della chiesa ortodossa. La finalità dell’educazione russa era quella di formare giovinette che avessero una tranquilla e laboriosa vita professionale. Maria fini con successo i suoi studi allo Smolny Intanto il 6 novembre del 1904 gli “zemstvo” a San Pietroburgo, avanzavano delle richieste di riforme allo Zar Nicola II, che accolse parzialmente una bozza di riforma della Costituzione. Questa base di fermenti fece da sfondo alla successiva fiamma rivoluzionaria che in seguito si sarebbe propagata, dopo gli eventi del 22 gennaio 1905, quando una marcia pacifica di 100.000 mila manifestanti, che era guidata dal Pope Gapon, si diresse al palazzo d’inverno a portare una supplica allo zar. I dimostranti furono oggetti di una feroce repressione, che ebbe come risultato circa 150 morti. La “domenica di sangue” così come fu definita ebbe l’effetto di moltiplicare in tutta la Russia gli scioperi ed i disordini. Si costituirono i soviet, che diedero vita ad una escalation di turbolenze e atti terroristici, che si inasprirono alla notizia della sconfitta della flotta russa a Tsushima, nel corso del conflitto con il Giappone .Ma in quel periodo non si verificarono comunque sollevazioni armate, ne rivolte dell’esercito, tranne l’ammutinamento della corazzata Potemkin, che avvenne il 14 giugno a Sebastopoli. Dopo la rivoluzione del 1905, Maria De Naglowska, divenne una assidua frequentatrice dei salotti bohemien della sua città, dove si riunivano pittori, scrittori e musicisti e in questi circoli conobbe e si innamorò follemente del violoncellista ebreo Hopenko, che decise di sposare ed il matrimonio fu mal visto dai suoi parenti, in quando lei era una aristocratica di religione ortodossa e lui un ebreo per questo motivo dovettero lasciare la Russia e partire prima per Berlino e poi per Ginevra, dove si sposarono.

Ma ciò che influenzò negativamente il rapporto tra Maria De Naglowska ed il marito fu il clima antisemita della Russia zarista. Gli ebrei erano giunti nell’impero russo verso la fine del secolo XVIII, a seguito della suddivisione del Regno di Polonia – Lituania e alla conquista del regno tartaro di Crimea. Già agli inizi del XX secolo, gli ebrei dovevano risiedere in maniera forzata nel cosiddetto “ recinto di insediamento ebraico”, che si estendeva da Vilnius a Minsk, fino a lambire le coste del Mar Nero. I cinque milioni di ebrei che si erano insediati in quell’area erano di lingua yiddish. Ad alcuni ebrei fu concesso il privilegio di potersi recare fuori dal recinto per scopi commerciali. Ma nel 1905, dopo una lunga coesistenza pacifica, il fatto che alcuni attentatori di Alessandro II fossero ebrei scatenò una serie di feroci persecuzioni contro di loro. Infatti, il termine russo “pogrom”, letteralmente devastazione, acquisì il suo significato definitivo e ci fu il massacro sanguinoso degli ebrei di Kishinev.Alcuni volantini identificarono gli ebrei con i rivoluzionari marxisti. Maria de Naglowska, ormai esule a Ginevra, insegnava agli emigrati russi, mentre suo marito dava concerti di violoncello. Nacquero i figli Alessandro e Maria, che furono educati secondo la tradizione ebraica. La Naglowska tornò d più volte in patria, e tentò in vano di conciliarsi con la propria famiglia. Il marito partì per la Palestina e la loro relazione ebbe fine. Ci fu la nascita del terzo figlio Andrea. La Naglowska cominciò a proporre le sue idee libertarie sulla stampa svizzera e fu espulsa. Il figlio più grande era partito per la Palestina con il padre, gli altri due furono affidati alla pubblica beneficenza e la donna russa partì per Roma nel 1920.

Note:

1 - Generale russo ( 1828 -1901 ) che si distinse nella guerra russo – turca. Sconfisse Cevet Pascià e battè Sulaiman Pascià, giungendo in vista di Costantinopoli che non occupò per divieto dello Zar. Dopo la guerra fu governatore di Pietroburgo, Varsavia .
2 - Porto della Russia a sinistra del Volga. Capitale del regno omonimo dal 1440 al 1552 fu conquistata da Ivan il terribile e distrutta da Pungacev nel 1174 e dopo ricostruita da Caterina II.

 

Francesco Innella

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Neoliberismo e povertà – Ilaria Bifarini

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Ogni tanto, tra le varie notizie di propaganda che dipingono un paese irreale, in cui un aumento quasi impercettibile del Pil - peraltro stimato- e una diminuzione lievissima del tasso di disoccupazione attualmente alle stelle -perlopiù legata a fattori stagionali- vengono spacciati per crescita, trapela qualche dato reale sullo stato di salute del Paese. Uno di questi è quello divulgato ieri dall’Istat -e precedentemente anche dall’OCSE - sul livello di disuguaglianza interno alla popolazione: mentre una fascia ristretta della popolazione diventa sempre più ricca la schiacciante maggioranza si impoverisce. In un solo anno, dal 2015 al 2016, la percentuale di italiani a rischio povertà o esclusione sociale è passata dal 28,7% al 30%.

Il trend non è solo a livello nazionale, ma rispecchia una tendenza globale in atto già da decenni ed è strettamente collegato alla modello “di sviluppo” neoliberista e alla finanziarizzazione dell’economia ad esso connessa. Se osserviamo i valori relativi al reddito medio del 99% della popolazione più povera e dell’1% più ricco, osserviamo come i primi siano cresciuti fortemente a partire dal dopo guerra fino agli anni 70, contro un ritmo più moderato del secondo gruppo. Improvvisamente il trend si inverte, inizia il rallentamento della ricchezza del 99% più povero (cioè la stragrande maggioranza della popolazione del mondo, cioè noi) a fronte di un’impennata del reddito dell’1% più ricco.

Cosa accade in questi anni? Di certo non è casuale che proprio il 1973, anno della crisi petrolifera e della conseguente stagnazione, segni la data di morte del keynesismo e il trionfo indiscusso della dottrina neoliberista. L’economia reale lascia il passo alla finanza, che diventa sempre più predatoria e totalizzante, l’apertura al commercio mondiale diventa sempre più completa e priva di protezioni statali, l’inflazione e il debito pubblico diventano i nemici giurati mentre l’austerity il nuovo culto. L’indice di Gini, che misura il livello di disuguaglianza all’interno di una popolazione, cresce su scala globale, come riflesso di un modello economico fallimentare e infondato applicato a livello universale. In uno studio effettuato sul caso degli Stati Uniti è stato stimato che una crescita del 2% del Pil comporta una decrescita del reddito del 90% della popolazione.

Siamo dunque di fronte a un modello economico di crescita antisociale in cui all’aumento del reddito globale corrisponde un impoverimento della quasi totalità della popolazione, ad eccezione di una ristretta fascia di élite che si fa sempre più esclusiva.
Basti pensare che nel 2012 metà della ricchezza mondiale era concentrata in soli 64 individui. Oggi la stessa ricchezza è detenuta da un manipolo limitatissimo di otto persone. D’altronde le proiezioni dell’OCSE sul lungo periodo parlano chiaro: saremo sempre più poveri e più diseguali, tanto che da qui a una quarantina d’anni il tasso di disuguaglianza aumenterà del 40%.

La correlazione con il modello economico neoliberista, e in particolare con il mantra dell’austerity, è talmente evidente che persino il Fondo Monetario Internazionale, l’istituzione icona delle politiche neoliberiste, in un suo studio (Neoliberalism Oversold, IMF, 2016) ha dovuto riconoscere la fallacia di questa politica. È stato calcolato che in media un consolidamento del debito pari all’1% del Pil aumenta dello 0,6% il livello di disoccupazione di lungo termine e fa crescere dell’1,5% in cinque anni il tasso di disuguaglianza!

Secondo gli economisti del Fondo monetario, le politiche di austerity non solo, infatti, comportano costi per il welfare, ma danneggiano anche la domanda, aggravando così il problema della disoccupazione, in un circolo vizioso che aumenta la disuguaglianza, nonché la corruzione a essa correlata. Non è infatti difficile comprendere come l’élite di privilegiati eserciti un potere sempre maggiori su una fascia sempre più alta della popolazione a rischio povertà, disposta ad accettare le logiche clientelari per sopravvivere…

Nonostante l’evidenza dimostrata sia dagli studi economici sia dai dati inconfutabili della realtà, gli organismi economici sovranazionali che governano il mondo continuano ad applicare le stesse rovinose politiche economiche, che risultano altamente efficaci e redditizie per quell’1% della popolazione, che pure va sempre più restringendosi e divenendo sempre più élitarista al suo interno. Il paradosso economico è divenuto realtà.

Ilaria Bifarini (http://ilariabifarini.com/)

è nata a Rieti l’1 aprile del 1980 e si è diplomata al Liceo classico “Terenzio Varrone”. Dopo essersi trasferita nel 1999 a Milano, nel 2004 si è laureata col massimo dei voti in Economia della Pubblica amministrazione e delle Organizzazioni internazionali all’Università “Luigi Bocconi” di Milano. In seguito ha frequentato la Scuola Italiana per le Organizzazioni Internazionali di Roma ed il Corso di Liberalismo presso l’Istituto “Luigi Einaudi” di Roma. Ha conseguito inoltre l’abilitazione alla professione di dottoressa commercialista e revisore contabile. Dopo esperienze professionali nel pubblico e nel privato, attraverso un cammino fatto di studio ed introspezione, si è via via discostata dalla formazione prettamente neoliberista derivante dai miei studi. Nel 2017 ha pubblicato il mio primo libro, “Neoliberismo e manipolazione di massa – Storia di una bocconiana redenta”, iniziando ad impegnarmi concretamente nello smascheramento dell’inganno neoliberista. A distanza di un anno è uscito il mio “I coloni dell’austerity. Africa, neoliberismo e migrazioni di massa” (https://www.amazon.it/coloni-dellausterity-Africa-neoliberismo-migrazioni/dp/1980621195/ref=sr_1_2?ie=UTF8&qid=1521981805&sr=8-2&keywords=bifarini), dove porto avanti il cammino di ricerca intrapreso e analizzo le cause dell’attuale fenomeno migratorio attraverso una chiave di lettura inedita e sconosciuta al mainstream. Collabora con varie testate giornalistiche in rete e intervengo a convegni e trasmissioni televisive.

 

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L’omofobia dei diritti omosessuali – Flavia Corso

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La nostra società è fortemente omofoba, ripetono i portavoce dei movimenti LGBT. Si può essere più o meno d'accordo, ma la maggioranza delle persone che combattono per i diritti omosessuali, stentano a riconoscere che proprio nella rivendicazione di questi stessi diritti, si nasconde una forma di omofobia ancora più odiosa di quella che viene comunemente e giustamente criticata. L’omofobia non è affatto solamente quella che a più riprese viene evidenziata e condannata aspramente dalla maggior parte degli intellettuali ed attivisti contemporanei.

No, l’omofobia – quella reale – è una forma ben più subdola di odio nei confronti delle persone omosessuali. Questo odio proviene proprio dai cosiddetti “gay-friendly”, coloro che si autoproclamano sostenitori dei diritti omosessuali, senza però rendersi conto (o forse sì?) che quei diritti che la comunità LGBT rivendica ostinatamente, non hanno in realtà nulla di intrinsecamente omosessuale, ma sono in realtà quei “diritti di libertà” che fanno riferimento alle aspettative e alle aspirazioni tipiche della famiglia eterosessuale tradizionale.

L’omosessuale, per non sentirsi da meno in una società in cui ancora domina l’orientamento eterosessuale, si vede costretto ad abbracciare una visione del mondo che non gli è propria – quella, appunto, eterosessuale: reclamare il diritto di sposarsi e, in particolare, il diritto di avere figli (omogenitorialità), è l’estrema manifestazione di un desiderio inconscio di essere di fatto altro da sé, aspirazione che spinge paradossalmente le persone omosessuali a sentire l’esigenza di scimmiottare il classico modello della famiglia naturale eterosessuale.

Considerato il fatto che non solo gli omosessuali finiscono spesso per essere vittime di discriminazione e bullismo, e che lo Stato ha il dovere di tutelare tutti quei soggetti che corrono un maggior rischio di emarginazione sociale, si può realmente parlare di diritti omosessuali?

Come ha giustamente fatto notare l’avvocato Livio Podrecca, i diritti omosessuali diventano sempre più l’espressione del “diritto di imitare” le coppie eterosessuali. E così, i simpatizzanti LGBT che conducono le battaglie per i diritti civili finiscono per dimenticare che la vera emancipazione non deriva mai dall’emulazione di chi è “già emancipato”, ma deve semmai procedere attraverso la piena accettazione della propria natura, della variante naturale omosessuale in questo caso.

L’omosessuale ha il sacrosanto diritto di essere tale; invece di rivendicare il diritto di sposarsi e di avere dei figli, dovrebbe al contrario esigere che gli venga riconosciuto il diritto di non fare né l’una né l’altra cosa, così come gli suggerisce la natura, e senza che per questo si debba sentire in qualche modo un emarginato.

È proprio da qui che può scaturire un sano e autentico “orgoglio” omosessuale: da una reale e non ipocrita approvazione del proprio orientamento sessuale, tanto nelle sue premesse che nelle sue conclusioni, dall’affermazione del riconoscimento del diritto di non sentirsi eterosessuali di serie b.

Le campagne portate avanti dalla comunità LGBT partono, in sostanza, da un presupposto sbagliato: quello per cui la massima aspirazione di un omosessuale dovrebbe essere quella di assomigliare il più possibile ad un eterosessuale.

Ma non è infondo questa l’apoteosi dell’omofobia vera e propria?

Flavia Corso

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Due poli di telai del Fato: Giza delle Piramidi e Pechino. A cura di Gaetano Barbella (Seconda parte)

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4 Correlazioni delle tre piramidi e la Sfinge col centro urbano di Giza

Al capitolo 1 è stato intravisto nella topografia della mappa delle piramidi in studio una disposizione geometrica che suggerisce l’idea di un certo “varco”, da associarsi appunto al Telaio del Fato del titolo di questo lavoro. E così siamo giunti al punto di verificare questa ipotesi sviluppando una geometria in diretta relazione delle tre piramidi e la Sfinge della piana di di Giza col relativo centro urbano limitrofo, una cosa mai accertata fin’ora. Osservando l’illustr. 1, a prima vista, la geometria in questione mostra effettivamente una chiara correlazione con alcune vie principale del centro urbano di Giza, che a sua volta fa parte della città Il Cairo.

[caption id="attachment_29335" align="aligncenter" width="625"] Illustrazione 1: Mappa della piana di Giza e il centro urbano relativo. Il Pentalfa del potere delle Piramidi. Seguendo le traccie suggerite da alcune vie principali del centro urbano, si profila uno schema che conduce alla definizione geometrica di un pentagono. Di qui l’idea del noto emblema del Pentalpha, antico simbolo esoterico che per gli Egizi raffigurava Horus, figlio di Iside e di Osiride, il Sole.[/caption]

Ma andiamo per gradi per descrivere la procedura eseguita per elaborare il grafico a prova di quanto ho appena detto.

A, B, C e D sono le posizioni delle tre Piramidi e la Sfinge e il punto O è il centro del cerchio passante per le tre Piramidi. Le linee in rosso, azzurro e verde, evidenziano le diverse peculiarità geometriche e prime fra queste le tre vie principali con cui le tre piramidi hanno relazione. Sono appunto queste “vie” a costituire altrettanti ipotetici “tunnel” per l’accesso nei due sensi alle tre piramidi A, B, C e D della Sfinge.

Ecco i vari passaggi punto per punto di ciò che elaborato:

  • Una volta rintracciato il centro O ed eseguito il cerchio passante per A, B e C, si tracciano gli assi (color azzurro) verticale e orizzontale;
  • si traccia il segmento IL passante per O in relazione con la via Ring RD 31 in modo che sia ortogonale alla via Ring RD 75;
  • si traccia il segmento EF passante per O in modo che sia parallela alla via Al Mansoureya Rd;
  • si traccia il segmento IL passante per O ortogonale al segmento EF;
  • si traccia il segmento ST in modo che sia parallela al segmento IL;
  • si traccia il cerchio tangente al segmento ST;
  • si traccia il segmento BT tangente al cerchio interno appena eseguito in precedenza;
  • si traccia il segmento GC tangente al cerchio interno;
  • si traccia il segmento RB (linea verde) tangente al cerchio interno e si riscontra che passa per D, la posizione della Sfinge;
  • si traccia il segmento FA e si riscontra che anche questa linea passa per D, la posizione della Sfinge;
  • si traccia il segmento AQ passante per O (linea gialla);
  • infine si traccia il pentagono MNPLQ, avendo individuato il lato MN lungo la via Ring RD 75, e i punti L e Q.

Col pentagono appena tracciato è in bella mostra il Pentalpha del potere delle tre Piramidi e la Sfinge, che si può considerare al pari di una chiave di acceso al supposto potere. Il Pentalfa è un antico simbolo esoterico che per gli Egizi raffigurava Horus, figlio di Iside e di Osiride, il Sole. Rappresentava la materia prima alchemica, sorgente inesauribile di vita, fuoco sacro, germe universale di tutti gli esseri. Il Pentalpha è un simbolo ideato da Pitagora, dopo che ebbe risolto il problema del segmento aureo, la parte del raggio di in cerchio corrispondente all’alto del decagono in esso inscritto. Il termine significa "cinque alfa", ossia cinque principi. Ai quattro già convalidati da Empedocle (Aria, Acqua, Terra e Fuoco), Pitagora ne aggiunse un quinto ovvero lo spirito. Il Pentagramma era dunque il simbolo dei pitagorici, ed era tracciato con una circonlocuzione che significava un triplice triangolo intrecciato. Veniva usato nella loro corrispondenza a significare “sta bene”. Il P. dei greci significava natura, vita e salute4.

A questo punto, come già supposto, ci si convince che la mappa di Giza possa costituire effettivamente una sorta di “Telaio del Fato” in cui le vie e quant’altro, costituiscano “tunnel” nei due sensi ‒ mettiamo della fisica quantistica5 ‒ per costituire un codice misterioso per l’accesso al presumibile potere celato nelle piramidi e sfinge, A B C e D di Giza. Di qui, portando avanti questa idea, si può concepire un immaginario viaggio in regioni eteriche, campo di ragionamenti metafisici degli alchimisti, facendo capo ad un quadrato magico, quello cosiddetto di Saturno che ha 9 caselle. Ho seguito la via della geometria e perciò continuo in modo matematico, anche se potrei seguire la via alchemica sostituendo il suddetto quadrato con un labirinto magico. In relazione alle piramidi dell’Egitto, secondo Erodoto, fu il faraone Amenemhet (1842-1797 a.C.) che costruì, come tomba, il labirinto egiziano ai piedi della piramide di Hawara.

Ma veniamo al quadrato di Saturno che ha giusto 9 caselle, pari alle fasi che bisogna attuare con un consenso, e in sequenza, per aprire l’ipotetico “varco” del supposto “Telaio del Fato” di Giza.

Se a un quadrato di questo genere si riuniscono con rette i numeri successivi per ordine di grandezza, si ottiene una linea poligonale avente per estremi il numero più basso o più alto, che è  caratteristica del quadrato stesso. Molte volte tali linee sono di disegno elegante e potrebbero servire come aiuto mnemonico per ricordare la formazione del quadrato, la linea poligonale unica nel caso di n=3, è rappresentata nell’illustr. 9. È assai semplice e quindi facile a ritenere, e può essere di giovamento per la costruzione rapida di quadrati di modulo 3 a numero elevati, come pure per quella di quadrati composti.

 

[caption id="attachment_29336" align="aligncenter" width="625"]
Illustrazione 2: Quadrato magico di Saturno.[/caption]

 

 

 

 

 

 

 

La sequenza delle fasi segue il percorso della poligonale segnata in blu, partendo da 1 fino a 9 dell’illustr. 2. Di seguito sono elencate queste fasi.

  • Numero 1: si attua il percorso ST;
  • Numero 2: ‘’ ‘’     ‘’      ‘’       IL;
  • ‘’ 3:  ‘’    ‘’     ‘’      ‘’       NM,
  • ‘’ 4:  ‘’    ‘’     ‘’      ‘’       EF;
  • ‘’ 5:  ‘’    ‘’     ‘’      ‘’       GH;
  • ‘’ 6:  ‘’    ‘’     ‘’      ‘’       GC;
  • ‘’ 7:  ‘’    ‘’     ‘’      ‘’       BT;
  • ‘’ 8:  ‘’    ‘’     ‘’      ‘’       BDR;
  • ‘’ 9:  ‘’    ‘’     ‘’      ‘’

Appena attuato l’ultimo numero, il 9, si apre il varco, per dar corso – mettiamo – ad un certo ipotetico viaggio iniziatico di nuova concezione. Lo scopo non è diverso da quello di un iniziato all’alchimia per perseguire la pietra filosofale.

A questo punto, un film ci da l’abbrivio per traslare il significato riposto nel teorema della mappa delle tre piramidi di Giza che sembra indecifrabile. Questa mappa, col suo intreccio di vie, si può assimilare alle trame del “Telaio del Fato” del film del 2008, Wanted - Scegli il tuo destino (Wanted), diretto da Timur Bekmambetov.

5 Il Telaio del Fato

5.1 Il Film

Il film Wanted - Scegli il tuo destino si incentra sulla storia di un gruppo armato di giustizieri agli ordini del Fato, appartenenti ad una Confraternita  che da secoli protegge l'umanità, annientando il Male e facendo il Bene. Non importa come si svolgono i fatti e se questo intento rispecchia veramente l’ideale scopo di pace nel mondo, mentre in realtà la Confraternita si dimostra invece un’organizzazione di superassassini. Poco o niente conta ai fini del messaggio offerto dalla trama di questo film, mentre risalta il ruolo di un telaio misterioso che sostituisce le capacità divinatorie dei precog della Confraternita, capaci di pre-vedere un omicidio, producendo il nome della vittima e del suo assassino (Minority Report). Si capisce che questo Telaio del Fato si lega alla trama delle vie della mappa delle tre piramidi di Giza, la base operativa del quadrato magico di Saturno dell’illustr. 9. Ma per vederlo legato non è facile capire come rintuzzare l’inganno perpetrato dalla Confraternita che non persegue scopi di pace e fraternità, come suddetto, perché questo conta per indirizzare il destino verso la vita, piuttosto che la morte spirituale. Ma questo  scopo potrà essere perseguito con lo studio di un altro “Telaio del Fato”, quello di una città che è stata annunciata col titolo di questo scritto, cioè Pechino.

Posso anticipare che si tratta di un doppio “Telaio del Fato”, di cui il primo configura l’inganno e ogni sorta di raggiro per illudere, mentre il secondo è l’emblema dell’innocenza innata, capace di rintuzzarla, un certo prezzo per far evolvere l’uomo elevando la sua capacità creativa, la sua forza e carattere. Per capire come, potrà scandalizzare un buon cristiano, ma dal male c’è molto da imparare, per far dire “non tutti i mali vengono per nuocere”. Ed è in questo senso che va interpretata la figura di Wesley Gibson, l’interprete del film in questione, quando conclude alla fine:

«Questo sono io che riprendo il controllo, da Sloan, dalla Confraternita, da Janice, dai rapporti su fatturato, dalle tastiere ergonomiche, dalle fidanzate che mi cornificano e dai migliori amici di merda. Sono io che riprendo il controllo... della mia vita.», una frase che, naturalmente, va presa con le pinze.

Il male di quest’epoca viene da Ahrimane, un’entità che nella storia è stata definita anche con altri nomi, i più famosi dei quali, almeno qui in occidente, sono Mefistofele e Satana. Il nome Ahrimane deriva dalla tradizione Persiana, in cui rappresentava l’oscurità in contrapposizione ad Ahura Mazda, dio delle Luce. Più che l’oscurità, tuttavia, credo sia più corretto dire che Ahrimane rappresenti la Materia, in contrapposizione con lo Spirito.

Dobbiamo anzitutto capire che Ahrimane rappresenta la Materia, per poterci così fare un’idea di quali siano gli inganni e le opportunità che questa entità porta nei destini degli esseri umani. Il tratto caratteristico di entità come Ahrimane è la tendenza a voler far credere all’uomo di essere loro stesse l’unico vero Dio, l’entità principale, l’origine e la causa prima di tutto l’universo. Così, queste entità cercano di orientare la naturale ricerca della verità dell’essere umano verso una direzione a loro propizia. Ahrimane quindi, da buon dio della Materia, ha da secoli instillato nell’essere umano una visione materialistica dell’universo e, di conseguenza, ha orientato in quella direzione le risposte dell’essere umano alle domande fondamentali.

Così il lato della ricerca scientifica secondo la quale risulta normale  cercare nella materia l’origine della vita, è il risvolto caratteriale di Ahrimane.

Anche sul “come” funziona la vita, come per esempio nel tentativo di comprensione delle malattie, si cerca da secoli una risposta di tipo materialistico. Per la mentalità odierna dell’uomo medio è assolutamente normale mettere all’origine di tutto la materia, e quindi anche le malattie non possono che essere causate da cattiva alimentazione, inquinamento, batteri e virus, genetica (intesa ovviamente solo come trasmissione di materiale genetico). Che le malattie possano avere un’origine diversa dalla materia, e una spiegazione più sensata e profonda, è considerata un’eresia da rogo, come ben sa. Per esempio R. Steiner6, del quale sto riportando il suo pensiero su Ahrimane, e altri coraggiosi uomini come lui che sono andati contro corrente.

A ben vedere, tutto il cosiddetto sapere odierno è stato inquinato dal dogma di base che recita: la Materia è l’origine di tutto. E l’influenza di Ahrimane, mascherandosi da scienza oggettiva, da ricercatrice disincantata della verità, ha al contrario nel tempo preso i connotati di una vera e propria fede, di una nuova religione.

Presentato così, però, sembra che Ahrimane abbia soltanto caratteristiche negative, il che non è vero. La conoscenza della materia, la fisica e la chimica, la tavola periodica degli elementi, sono anch’essi frutto dell’influenza di Ahrimane, così come lo è lo sviluppo tecnologico straordinario che abbiamo avuto negli ultimi secoli. Quando si tratta di conoscere e sfruttare la materia inanimata, Ahrimane dà indubbiamente il suo importantissimo contributo.  Quando invece vuole mettersi al primo posto anche in tutto ciò che riguarda la vita, allora perde il suo contatto con la verità, e costringe i suoi seguaci ad infilarsi in quel labirinto di menzogne che è ben noto a chi conosce il mondo. E’ questa la principale tentazione di Ahrimane, ma rappresenta anche la maggior possibilità di evoluzione dell’essere umano. Se saremo capaci, in questi tempi difficili, di mettere ogni cosa al suo posto e di operare il discernimento, allora acquisiremo importanti qualità nella nostra anima e nel nostro spirito. Altrimenti, sarà un’occasione mancata7.

Prova ne è – mettiamo – tutta la tematica in termini geometrici ed altro che ho esibito in questo scritto. Da dove mi viene, se non da entità ahrimaniche?

5.2 Il Telaio del Fato del film

Affascinante e ben realizzato, il Telaio del Fato (illustr. 10) svolge un ruolo fondamentale nella storia del film Wanted- Scegli il tuo destino. La stoffa lavorata viene tessuta con fili perpendicolari tra loro: la trama (verticale) e l'ordito (orizzontale, tessuti a incrocio avanti e dietro). I difetti della tessitura, derivanti da un filo saltato, nel film vengono contati, inseriti in un modello binario che, convertito in testo, contiene una inequivocabile sentenza di morte. Un modo originale e ben riportato nel film per rappresentare il destino.

Per realizzare il Telaio del Fato la produzione del film si è ispirata al lavoro di oltre 300 fabbriche tessili dei dintorni di Praga. I responsabili di lavorazione del Telaio si sono recati presso le fabbriche per osservare modelli, metodi di lavorazione e manifatture delle stoffe, per poi unire tutte queste caratteristiche nel design originale del Telaio del film.

Il macchinario è stato costruito con parti noleggiate e pezzi nuovi, mescolando metallo nero, legno logoro e attrezzi di ottone. Il risultato è stato un look da XX secolo, arricchito con lenti di ingrandimento per ottenere una rifrazione dei raggi solari nelle tavole sottostanti il Telaio.

Altri telai, più piccoli, sono stati realizzati e disseminati nei set utilizzati per la sede della Confraternita. Alcuni sono stati anche posizionati sul soffitto, quasi a simulare originali archi gotici. Il risultato sono dei set particolari, che richiamano alla memoria architetture e atmosfere antiche, quasi da cattedrali o castelli (all'entrata della sede della Confraternita è presente un fossato)8.

6 Il mitico Regno di Shamballa

6.1 Il tunnel “del mondo superno

Dunque, ciò che emerge quasi prepotente dal film Wanted- Scegli il tuo destino,  prima esaminato, non può essere assolutamente sottovalutato. Per giunta è la lezione che ci viene dal male, una necessità da accettare come l’unica medicina per far nascere un “bene, che rende “perfetti”, altrimenti impossibile da trovare tramite il “bambino” innocente in noi, cioè il bene in noi, ma allo stato nascente. Ricordarsi il proverbio, “non tutti i mali vengono per nuocere”.

Ho descritto nei minimi particolari il lato del Telaio del Fato del film Wanted- Scegli il tuo destino sopra esaminato, perché sia evidente quanto esso si dimostri aderente alla realtà, con l’esempio suggerito dal caso della mappa delle tre piramidi di Giza. E se il numero di “Telai” sparsi nel laboratorio del film è un segno da tener da conto, allora si può credere che la nostra Terra sia realmente sede di ipotetici “Telai del Fato” sparsi su tutta la sua superficie, specie attraverso centri urbani e località in genere: un’ipotesi verosimile. È un suggerimento da non sottovalutare.

Sin dal passato l’uomo ha cercato di trovare appigli, al limite del razionale, per conoscere “Shamballa” che in sanscrito significa “Terra nascosta” o “Terra occulta9. E’ stato descritto come un luogo protetto dove predominano pace, quiete e felicità incontaminata: un paradiso sulla terra, o forse una Terra Pura. Secondo la tradizione del buddhismo tibetano, “Shamballa” è il nome di un regno mitico e segreto situato a nord dell'India, o a nord della regione himalayana circondata da montagne innevate e percorsa a nord dal fiume Sita (Tarim). Si  capisce che il ricorso a questo mondo nascosto, quasi surreale, è un mio modo per tentare di dimostrare che il mondo di “Shamballa” non è una chimerica speranza dell’uomo, un mito irraggiungibile. Si tratta solo di capire che questo mondo può esistere davvero, ma in forma eterica compenetrato al nostro pianeta Terra. Ne consegue che è l’uomo destinato a prendere coscienza del fatto di poter “varcare” la soglia di questo mondo e questo potrà essere possibile proprio grazie all’esempio dei “Telai del Fato” del film  Wanted- Scegli il tuo destino, a loro volta disseminati sulla crosta terrestre, come già anticipato. E allora così come ci appare il Telaio del Fato, intravisto nella mappa delle tre piramidi di Giza, che graficamente ha dato luogo ad un simbolico Pentalpha da poter essere gestito da un adatto quadrato magico, così potrebbe essere ‒ mettiamo ‒ per altrettante mappe della geografia terrestre, da stimarsi come possibili “varchi” adatti per ogni essere vivente “pronto” per il vagheggiato viaggio verso il “futuro” in “Shamballa”.

Si capisce che non si può entrare in “Shamballa” senza fasi preparatorie preliminari, come del resto insegna l’Opera dell’Alchimia che prevede, appunto, varie fasi, note come “al Nero” (Nigredo), “al Bianco” (Albedo), “al Rosso” (Rubedo). Inizialmente, appena entrati è come uscire dalla fase impura del Nigredo e entrare alla fase dell’Albedo, cioè come entrare solo con la punta del “piede” in Shamballa”. Ma questo non vuol dire che si entra con tutto il “corpo”, cosa diversa, perché è solo un modo per alludere a un certo inizio necessario. In alchimia questa possibilità è suggerita nel libro di Michael Maier, medico, alchimista e musicista tedesco (1568-1629)10, Atalanta fugiens, con l’emblema VIII mostrato con l’illustr. 4. Con questa rappresentazione si ha modo di capire in modo straordinario il processo del “varco” alchemico che preannuncia il raggiungimento della conclusione della Grande Opera, fine che comporta la realizzazione della Pietra Filosofale. Si capisce che si tratta di un “varco” preliminare con il piede dell’armigero (il dio Marte) e successivamente, ad opera alchemica compiuta, con tutto il “corpo” nel “Regno di Shamballa”.

Nell’emblema VIII, immaginato da Maier, che lo titola “Prendi l'uovo e percuotilo con un gladio di fuoco”, si nota chiaramente il destino previsto del contenuto dell’uovo di cui si parla nell’epigramma relativo che dice: “Un augello sta nel mondo superno. E tua sola cura sia cercarne l'uovo. Un molle albume”.

Si comprende che il destino dell’uovo porta al quadrato in alto giusto sullo stesso asse verticale di mezzeria. E poi un lungo percorso lo attende in un tunnel fino in fondo che appena si scorge. Il lungo tunnel, che riprende la connessione con il tunnel della fisica quantistica11, nel quadrato ci riporta alle esperienze di pre-morte, per esempio di persone entrate in coma e poi ritornate in vita.

Nel libro “Viaggi ai confini della vita. Esperienze di pre-morte ed extra-corporee in Oriente e Occidente: un'indagine scientifica”, di Ornella Corazza, Editore: Feltrinelli, se ne parla compiutamente. La parte che più ci interessa, ossia del caso suddetto in merito al tunnel nel quadrato, è riportata in questo capitolo che replico in parte:

« Che cosa accade durante una NDE (iniziali di near-death experience, “esperienza perimortale” - N.d.A.)?

Nell’inverno del 1971 un diciottenne si ritrova in punto di morte a causa del virus dell’“influenza  asiatica”:

Dopo essere stato a letto per un paio di giorni, ho perso conoscenza e mi sono sentito trascinato per un lungo tunnel, alla fine della quale c’era una Luce bianca molto brillante (ma non accecante). L’esperienza era assolutamente sublime, e mi ha infuso sentimenti di pace e gioia indescrivibili, come non li avevo mai provato prima. Quando sono emerso dal tunnel, mi sono trovato alle presenza di un potente Essere spirituale che irraggiava Luce tutto intorno a me. Mi sembrava di essere in un paesaggio meraviglioso, con montagne maestose, ampie valli e foresta. L’entità mi comunicò certe informazioni sulla finalità del mio essere in incarnazione, e parlò di vari eventi futuri della mia vita (molti dei quali sono già accaduti). Con mia delusione mi disse anche che avrei dovuto tornare al mio corpo per realizzare il fine della mia vita – e pochissimo tempo dopo riacquistai gradualmente la coscienza. […] ».

Ritornando al “tunnel” dell’emblema VIII (illustr. 11), è come se avesse inizio dalla base ABCDE (lettere in azzurro) a mo’ di doppio binario su cui è adagiato il tavolino con l’uovo in un equilibrio impossibile da immaginare in pratica. Il disegno che mi è venuto di sviluppare apre il sipario sul tema ermetico. Calore e forza concorrono sul piano orizzontale dell’asse xx per aprire la porta, come se fosse scorrevole e così permettere il varco della luce in relazione alla nascita del Rebis filosofale o Reuccio che era rinchiuso in potenza nell’uovo. La sua gestione vitale era affidata alla Madre che lo teneva in grembo per la gestazione, ma doveva alfine giungere il momento della sua nascita. E si capisce che si tratta dell’uovo della Fenice che poi è il nostro uovo filosofico.

Si riesce a comprendere che l’armigero con la spada, ossia il dio Marte, è in precisa intesa dell’azione del fuoco del dio Vulcano, che gli sta di fronte. Ma Vulcano è presente perché non si scorge una configurazione, attraverso le fiamme, del genere di pareidolia12. Infatti Michael Maier ha tratteggiato fra le fiamme un volto che io ho posto in risalto colorandolo in rosso scuro. Non può che raffigurare Vulcano, ma si tratta di un dio connesso alle idee che dovevano essere in sovrabbondanza in persone quali Michael Maier. Come doveva essere, per esempio, per Leonardo da Vinci, questo per far capire che gli ermetisti sono un vulcano di idee, altrimenti non riuscirebbero a superare le barriere che li ostacolano continuamente lungo il loro procedere, talvolta a tentoni. È qui che va intravisto il vero calore vulcanico; occorre essere inventori di cose nuove, qui sta il segreto dei loro eventuali successi, senza trascurare la tradizione. Ma vediamo ora come spiegare il processo alchemico di cui stiamo parlando, in termini scientifici, cioè che funzione svolgono i due fattori di Forza e Calore che io ho rappresentato con due frecce sul piano dell’asse orizzontale xx. Si comprende che questa rappresentazione, nell’insieme, fa da “valvola” di passaggio della Luce. In più si capisce che l’energia occorrente per questa operazione è della stessa natura della Luce. Perché? Ce lo dice la direttrice rossa lungo la spada che termina in basso sul piede dell’armigero, ossia Marte, che con la punta relativa sfiora la Luce un po’ oltre la linea che diparte da E verso il punto di fuga P. Di qui si può immaginare il genere di “valvola” attraverso la quale passa il flusso della Luce di P, il punto di fuga relativo diretto al “mondo superno” di cui si parla nell’epigramma dell’emblema VIII. È il transistore dell’elettronica che più si presta a far da esempio pratico per questa funzione. In tal modo si perviene alla spiegazione sul potere del “piede”, un fatto importantissimo di questa fase alchemica appena descritta, cioè l’azione dell’Albedo.

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Illustrazione 5: Rubinetto idraulico che simula il funzionamento di un transistor.[/caption]

6.2 Il transistore dell’elettronica

Il transistor più comune, il bipolare Bjt, una tipologia largamente usata, è un dispositivo con tre terminali realizzato da tre strati di semiconduttore alternato. Il funzionamento fa capo a elettroni, lacune, giunzioni e regioni di svuotamento, descrivendo tutto con alcune formule matematiche, corredate da grafici e tabelle. Più semplicemente un transistor è un dispositivo in grado di regolare il flusso di una corrente principale, utilizzando una piccola corrente di controllo.

Del transistor  due sono i punti fondamentali da tener sempre presenti:

- il transistor bipolare è analogo a una specie di rubinetto (illustr. 5);

- è un dispositivo che funziona a corrente.

I terminali del transistor prendono il nome di base, emettitore e collettore. Il terminale chiamato base funziona da “manopola” del rubinetto. Utilizzando l’analogia idraulica, il transistor è un rubinetto comandato non dalla nostra mano, ma da un flusso di acqua che controlla la valvola principale.

Nel transistor reale, una piccola corrente può controllarne una più grande che scorre tra collettore ed emettitore, così da poter comandare dispositivi che richiedono correnti elevate (un po’ come fa il relé) oppure per amplificare segnali deboli.

[caption id="attachment_29340" align="aligncenter" width="625"]
Illustrazione 6: I due tipi di transistor.[/caption]

Se alla base non arriva corrente, è come se il rubinetto fosse chiuso e quindi non circuita corrente tra emettitore e collettore. Non appena una piccola corrente entra nella base (dell’ordine di μA), anche la via principale inizia ad aprirsi: la corrente che circola tra emettitore e collettore è dell’ordine dei mA. Nel transistor bipolare, la corrente della base raggiunge e si unisce la flusso principale13.

Si è capito molto bene che il parallelo del transistore, con il varco della Luce alchemica del Rebis dell’emblema VIII, nel punto di fuga P, è coerente. Infatti è stato appena detto sul conto del transistore «che  una piccola corrente può controllarne una più grande che scorre tra collettore ed emettitore», cioè la corrente del piede di Marte che è piccola in confronto a quella che deve transitare nel punto P.

Per quanto riguarda il lato del Calore di Vulcano il transistore dissipa abbastanza calore nello svolgere la sua funzione, infatti il supporto di questo componente è munito di un adeguato dissipatore, evitando così il suo surriscaldamento che provoca di conseguenza il malfunzionamento o l'arresto.  Secondo i casi, in relazione alla potenza del transistore, i dissipatori sono passivi o attivi. I dissipatori passivi sono costituiti da lamelle in rame o alluminio molto ravvicinate, tenute insieme da una struttura portante, anch'essa in rame e/o alluminio. I dissipatori attivi, invece, dispongono di un corpo dissipante alettato in alluminio o rame, attraverso il quale viene fatto passare un flusso d'aria generato da una ventola, che ne asporta il calore trasferendolo lontano dal componente14.

6.3 Breve conclusione sul tunnel “del mondo superno

Che lezione ci viene dall’aver posto sul piedistallo il potere acquisito dal “piede” attraverso le osservazioni dell’emblema VIII di Atalanta fugiens di M. Maier?

Una delle qualità dell’ermetista è quella di acuire l’osservazione ed è in tal modo che egli riesce a intravedere il “piede” destro dell’armigero con il gladio preso a percuotere l’uovo, che sfiora appena, appena, la via che porta al “tunnel” della rinascita. Ma senza la pazienza, una virtù indispensabile per i ricercatori che vanno avanti, appunto, passo passo e lentamente, non si giunge ad alcun risultato possibile nella Grande Opera. Ecco la virtù riservata appunto esclusivamente alla pazienza, emblema del “piede”, e perciò è degno di essere destinato a concepire in sé l’onore di essere il primo “corpo” a entrare nel “Regno di Shamballa”, una sorta di “primo uomo” tradotto in simbolo. Non è forse il piede a dover sopportare tutto il peso del corpo fin su alla testa?

 

NOTE

4 Fonte: http://numeramente.it/pentalfa.htm

5 L'effetto tunnel è un effetto quanto-meccanico che permette una transizione ad uno stato impedito dalla meccanica classica.

     Nella meccanica classica, la legge di conservazione dell'energia impone che una particella non possa superare un ostacolo (barriera) se non ha l'energia necessaria per farlo. Questo corrisponde al fatto intuitivo che, per far risalire un dislivello ad un corpo, è necessario imprimergli una certa velocità, ovvero cedergli dell'energia.

    La meccanica quantistica, invece, prevede che una particella abbia una probabilità diversa da zero di attraversare spontaneamente una barriera arbitrariamente alta.

  Infatti, applicando i postulati della meccanica quantistica al caso di una barriera di potenziale in una dimensione, si ottiene che la soluzione dell'equazione di Schrödinger all'interno della barriera è rappresentata da una funzione esponenziale decrescente. Dato che le funzioni esponenziali non raggiungono mai il valore di zero, si ottiene che esiste una piccola probabilità che la particella si trovi dall'altra parte della barriera dopo un certo tempo t.

   È interessante notare che, per il principio di indeterminazione di Heisenberg, non è mai possibile osservare una particella mentre attraversa tale barriera, ma solo prima e dopo tale transizione.

   L'effetto tunnel venne utilizzato per la prima volta nel 1928 dal fisico ucraino George Gamow per spiegare il decadimento alfa, nel quale una particella alfa (un nucleo di elio) viene emessa da un nucleo perché riesce a superarne la barriera di potenziale. Successivamente Max Born comprese che l'effetto tunnel non è esclusivo della fisica nucleare, ma si presenta anche in altri fenomeni fisici.

     Sebbene l'effetto tunnel sia estremamente controintuitivo e possa sembrare per alcuni versi paradossale, esiste una enorme quantità di prove sperimentali a sostegno della sua reale esistenza.

    Una delle prove più spettacolari ci è fornita dal nostro Sole e dalle stelle in genere: senza l'effetto tunnel, le temperature presenti nei nuclei delle stelle non sarebbero sufficienti a innescare le reazioni nucleari che costituiscono il “motore” di questi corpi celesti. Fonte: Emil Mezzadona, Enciclopedia della Civiltà Atomica. Vol. II, pag. 61. Edizione Il Saggiatore

6 Rudolf Joseph Lorenz Steiner (27 (o 25) febbraio 1861 - 30 marzo 1925) fu un filosofo austriaco , riformatore sociale , architetto ed esoterista. Steiner ottenne il riconoscimento iniziale alla fine del XIX secolo come critico letterario e pubblicò opere filosofiche tra cui La filosofia della libertà . All'inizio del XX secolo fondò un movimento spirituale esoterico, l' antroposofia , con radici nella filosofia e nella teosofia idealista tedesca ; altre influenze includono la scienza goethiana e il rosacrocianesimo.

7  Fonte: h/ttps://usciredallorrore.wordpress.com/2014/11/24/linfluenza-di-arimane-nei-nostri-tempi/

8 Fonte: http://www.avmagazine.it/articoli/stampa/dvd/227/wanted_index.html

9 Fonte: http://www.larchetipo.com/2010/dic10/esoterismo.pdf

10 Nato a Rendsburg, Holstein, Michael Maier frequentò l'Università di Rostock, nel 1589 quella di Norimberga, dal 1589 al 1591 fu a Padova, nel 1592 all'Università di Francoforte ove conseguì la Laurea in Lettere; nel 1596 all'Università di Bologna e nel 1596 all'Università di Basilea, dove conseguì la Laurea in Medicina e Chimica. Tornò a Rostock per esercitare la professione medica. Nel 1609 divenne medico ordinario e consigliere al servizio di Rodolfo II. Negli anni successivi alla morte di Rodolfo II, visitò più volte l'Inghilterra, conoscendo personalmente il celebre filosofo rosacrociano Robert Fludd.

     La sua opera certamente più famosa è il libro di emblemi Atalanta fugiens pubblicato in latino, nel 1617. In essa sono rappresentate 50 incisioni simboliche, corredate di epigrammi e discorsi, che illustrano le fasi del processo alchemico. Il testo degli epigrammi è proposto anche in forma musicale di fuga (a tre voci). La musica rosacrociana di Maier viene utilizzata nel "Real Ordine degli Antichi Liberi Accettati Muratori". Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Michael_Maier

11 Ibidem cfr. 5.

12 Pareidolia, che viene dal greco, da para (παρά, sopra, al di là, oltre) e eidōlon (εἴδωλον, immagine, forma), è un fenomeno istintivo, cioè la tendenza a vedere forme ed oggetti riconoscibili nelle strutture amorfe che ci circondano. Si chiama anche apofenia, questa tendenza che abbiamo a interconnettere configurazioni di dati casuali (numeri, suoni, immagini) riconducendole a uno schema che ha un senso. La parola rimanda al greco apò (από, via da, lontano, separato) + phàinein (φαίνειν, mostrare, apparire, essere manifesto) ed è stata inventata dal neurologo Klaus Conrad. Il caso più diffuso di apofenia riguarda proprio le immagini.

13 Paolo Aliverti, Elettronica per maker: guida completa.

14 Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Dissipatore_(elettronica)

L'articolo Due poli di telai del Fato: Giza delle Piramidi e Pechino. A cura di Gaetano Barbella (Seconda parte) proviene da EreticaMente.

L’insegnamento speciale del Tögal – IV parte – Luca Violini

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È pertanto importante realizzare, comprendere la Natura. Abbiamo molti metodi nel Sutra e nel Tantra che le persone cercano di praticare per realizzarsi durante il bardo. Ma Sutra e Tantra in particolare cercano di riconoscere la Natura usando la coscienza e le visioni e cercando di creare immagini. Essi utilizzano sempre la coscienza che quindi si sviluppa e non ritorna mai alla Natura, quindi lo Dzogchen dice che quelle non sono pratiche perfette. Dzogchen significa che tutto è come la Natura e noi stiamo cercando di stare nella Natura e non cercando di sviluppare la coscienza ancor più. Ci sono quindi un bel po' di contraddizioni tra i vari punti di vista ma non è necessario parlarne qui. Non significa che non dobbiate praticare Sutra e Tantra, significa semplicemente che i punti di vista sono diversi.

Come sappiamo che il nostro Trekchö è abbastanza stabile per il Tögal?

Prima di tutto fate i preliminari e il rushen, poi usate il metodo per la ricerca della mente, poi informatevi su che cosa sia la Natura, praticatela e cercate di renderla stabile. Quando avrete più esperienza e sarete stabilmente nello Stato Naturale allora sarete pronti ad essere introdotti nella Natura, quel che state facendo. Dopo che sarete stati introdotti e la avrete compresa perfettamente, allora comincerete a capire la Natura e a praticare il Trekchö e potrete usare il Tögal. Altrimenti, se non praticherete lo Stato Naturale ed userete soltanto i metodi del Tögal come il ritiro al buio potrete avere delle visioni ma esse vi condurranno alla distrazione e non saranno parte delle visioni del Tögal. Le visioni del Tögal devono pertanto avere la base della pratica del Trekchö. Senza Trekchö, il Tögal non è Tögal. Un essere ordinario ha ancora delle manifestazioni di fronte alle porte degli occhi. Questa è Natura. Il punto di vista dello Dzogchen dice che non si crea nulla, così un essere ordinario ha delle visioni ma queste non hanno nulla a che fare col Tögal. Quando la base del Trekchöè stabile e voi usate i metodi del Tögal, allora tutte le visioni sono chiamate visioni del Tögal perché siete stabilmente nella Natura e tutte le visioni nascono spontaneamente come illusioni. Lo Dzogchen critica gli stadi di sviluppo e di creazione e la recitazione di tanti mantra o il fare mudra con il corpo in quanto tutti loro sviluppano disturbi del vento e dei pensieri e quindi non potete essere stabilmente nella Natura. Alcuni chiedono che cosa fanno i Dzogchen-pa: se non fate niente con movimenti o mantra o visualizzazione, allora cosa fate? Solo sedere e dormire! Il che significa che voi non fate nulla, solo tenervi nella Natura. Non significa che non dobbiate leggere o recitare mantra o altro, ma per i principianti è meglio cercare di tenersi nella Natura e non dire nulla. Poi quando sarete più avanzati potrete integrare con qualunque altra cosa. Fino ad allora, è meglio non fare niente che potrebbe disturbarvi. Questo è quel che dice. Quindi la prima cosa che dice è secondo i principianti: è meglio non fare niente. A volte dice di fare i preliminari, centomila volte ecc. ma quella è preparazione. Quando cominciate a riconoscere lo Stato Naturale è meglio sedere fermi, quando siete pronti a stabilizzare la Stato Naturale. Altrimenti potreste fare un errore perché lo Dzogchen non dice di continuare semplicemente nel vostro modo normale. Lo Dzogchen non dice questo! L'ho già spiegato, dovete essere abbastanza stabili nella meditazione e comprendere la Natura ed allora potete integrare tutte le pratiche. Fino ad allora è meglio non fare niente con il corpo, voce e mente, altrimenti, se non siete molto stabili, la vostra meditazione non si può sviluppare.

Così fino a qui ho parlato di Tögal e Trekchö e di quale sia il loro scopo, e di saggezza e coscienza. Ho insegnato tutto questo. Ora parlerò di come praticare ed integrare insieme la pratica di Trekchö e Tögal.

Il testo di Lopon Rinpoche passa ad analizzare le pratiche del Thodgal. Siccome le pratiche del Thodgal sono pratiche segrete e molti avrebbero da ridire sul postarle su Facebook rimando chi interessato al testo dell’Ubaldini editore “L’Essenza del cuore del Dharmakaya” di Shardzarinpoche, commentato da Lopon Tenzin Namdak. Qui invece proseguo con delle riflessioni personali sul Thodgal senza accennare minimamente alla pratica. Lopon Tenzin Namdak parla di questo canale che unisce il cuore dove riposa la consapevolezza ai polmoni. Attraverso questo canali i venti vanno e vengono e si attaccano all'energia dello Stato Naturale e ciò produce i pensieri quello che noi comunemente intendiamo per mente. Il punto essenziale dell’insegnamento è che la mente è un fenomeno avventizio ed è l’unione dell’energia del Rigpa e dei venti: la mente la possiamo paragonare a delle nuvole che coprono il sole. Appena le nuvole si dissolvono il sole splende. Proprio per questo carattere della mente di essere l’unione dell’energia del rigpa e dei venti per lo Dzogchen è possibile fare esperienza della natura della mente anche senza ricorrere a pratiche meditative ma anche nella condizione della mente ordinaria . Secondo lo Dzogchen basta non seguire la mente ed essa si dissolverà naturalmente nella sua natura. Per questo pur essendo ampiamente utilizzate, le pratiche di concentrazione come lo Shine i Rushan o i Semdzin della serie Upadesha non sono considerate necessarie per realizzare la natura della mente. Questo è il punto essenziale. Questa Natura della mente inoltre non è una vacuità immota e priva di intelligenza. La natura è un apertura senza confini intelligente e colma di beatitudine, pura energia in movimento: la natura della mente è tutto questo. Vi è un punto molto interessante che Lopon non ha toccato molto e riguarda le arie . Cosa sono i venti o le arie? Non sono certo solo l’aria che respiriamo. L’aria è il mezzo il veicolo di questo vento. Il vento è il Prana in tibetano Il Lung, ciò che compie tutte le azioni. E’ l’energia essenziale, è alla base di tutta l’esistenza e questo prana che si unisce alla consapevolezza è universale sopraindividuale. Certo nel Buddhismo tibetano in senso assoluto non esiste qualcosa di esterno o interno . Per lo Dzogchen tutto è insostanziale ineffabile vuoto (anche se per lo Dzogchen questo vuoto nella natura della mente non è un semplice nulla ma un intelligenza ineffebile in movimento ). Questo in senso assoluto ma in senso relativo nella nostra visione karmica dobbiamo per forza di cose distinguere tra un esterno ed di un interno. Nella dimensione relativa esiste quindi questo prana universale e sopraindividuale che unendosi con l’energia dello stato naturale da vita ai nostri pensieri .Nello yungdrung Bon questo Prana viene distinto in nove forme:

1) Il Prana dello Spazio della natura del Bon. E’ l’essenza che pervade ogni cosa .Sia la materia sia la mente. Questo prana è la qualità aerea dell’essenza che pervade ogni cosa.
2) Il Prana della beatitudine della saggezza primordiale. E’ il vento sottile pieno di Beatitudine che genera saggezza
3) Prana della consapevolezza auto-originata .Questo prana fa si che si manifesti senza sforzo, è l’autoconsapevolezza.
4) Il Prana del cavallo della mente. E’ la forza che anima il flusso e il movimento dei pensieri e alimenta la mente analitica
5) Il Prana della forza del Karma. E’ il prana che ci fa muovere mentre attraversiamo le fasi del passaggio della vita e della morte .E’ particolarmente attivo nella fase del sogno del sonno e del Bardo.
6) Il Prana delle afflizioni mentali grossolane. E’ il vento che trasporta le emozioni più grezze come la rabbia l’avidità e l’orgoglio
7) Il Prana che disturba gli umori del corpo. L’eccesso e la carenza di questo Prana sono la causa diretta degli scompensi e delle malattie del corpo.
8) Il Prana della forza dell’esistenza . Questo Prana riguarda le leggi naturali. E’ ciò che sostiene il Pianeta.
9) Il Prana che distrugge l’era cosmica. E’ ciò che distrugge il pianeta e gli universi.

Nell’ottica Buddhista gli ultimi due Prana sono causati dal karma collettivo ovvero quel Karma che deriva dalle cause e dalle azioni di un gruppo di esseri che per questo motivo hanno la medesima percezione del mondo. Un punto molto interessante è che spesso il Prana viene equiparato ad un cavallo cieco, la mente essendo come un cavaliere zoppo ed i suoi canali sono il sentiero e i Chakra sono le intersezioni. Come il cavallo per sua natura corre all’impazzata lungo i sentieri ben tracciati nella foresta se il cavaliere è incapace di guidarlo così il Prana si muove lungo un sistema di canali energetici che attraversano tutto il corpo di cui i Chakra sono le intersezioni ovvero i punti energetici dove s’incontrano i canali. Quando il cavaliere riesce a fermarlo tutte le visioni si dissolvano nella consapevolezza e tutti i pensieri scompaiono nella natura. Questa è un indicazione che colloca il sentiero ove il cavaliere ferma il cavallo: tutto ciò è importante per il tipo di esperienza dello Stato Naturale che si riesce a vivere.

Luca Violini

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Rosa Genoni, la “sarta artista” pioniera del made in Italy – Emanuele Casalena

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Prefazione

[caption id="attachment_29345" align="alignright" width="300"] Rosa Genoni[/caption]

Il 25 settembre del 2015 si inaugurava a Milano una mostra retrospettiva dedicata a Rosa Genoni nelle sale Liberty di Palazzo Castiglioni. Un omaggio della città Ambrosiana alla stilista che con Lydia De Liguoro aveva creato il made in Italy nel settore moda. Era il 1906 quando la sartina di Tiràn aveva esposto, nello  stand assegnatole, i suoi modelli, aggiudicandosi il “Gran Prix” delle arti decorative nel quadro dell’Expo milanese del Sempione. La cronaca riferisce che la sua vetrina prese fuoco costringendo la modista ad un secondo allestimento,  ricucendo daccapo l’abito La Primavera, ispirato al celebre dipinto pedagogico di Alessandro Botticelli. Gli abiti che le valsero quell’ambito riconoscimento internazionale traevano ispirazione dall’alta sartoria del nostro Rinascimento, in particolare del ‘400, in ragione della supremazia assoluta raggiunta  dalle Signorie  nel campo delle arti, moda compresa. Già ai primi del ‘500 l’haute cuture italiana cedeva alle contaminazioni spagnole, inglesi, poi francesi perdendo via, via  autonomia per scadere nel provincialismo esterofilo.

[caption id="attachment_29346" align="aligncenter" width="622"] Esposizione delle arti decorative, Milano 1906, stand di Rosa Genoni[/caption]

 

 

 

[caption id="attachment_29347" align="alignleft" width="234"] Rosa Genoni, mantello Pisanello, Milano Expo del 1906[/caption]

A sostegno del ruolo di primato che la moda italiana aveva nella seconda metà

[caption id="attachment_29348" align="alignright" width="181"] R. Genoni, La Primavera,Milano Expo 1906[/caption]

del Quattrocento ecco cosa scriveva Leonardo da Vinci, arbiter elegantiae , a proposito del gusto maschile: “Li habiti della figura siano accomodati all’età e al decoro, cioè che ‘l vecchio sia togato, il giovane ornato d’abito che manco occupi il collo da li omeri delle spalle in su, eccetto quelli che fanno professione di religione”.

Quando Leonardo dipinse la prima versione del ritratto di Monna Lisa Gherardini, rimasta celata sotto la Gioconda “ufficiale”, e ricostruita dall’ingegner Pascal Cotte dopo lunghe indagini tecnico-scientifiche, la signora che ci appare è una giovine madonna con indosso abiti di creazione fiorentina d.o.c.g., gigliata anche per l’acconciatura dei sui capelli. Idem si può dire della lunga versione finale, tra l’altro, mai ultimata.                     

Abbiamo aperto questo breve  inciso per spiegare le ragioni storiche che spinsero Rosa Genoni a scavare nel nostro passato per ricucire lo strappo della moda italiana dalle sue tradizioni che pur le avevano permesso di imporsi in tutte le corti d’Europa. La sponda della Storia non poteva essere che il Rinascimento per gettare un ponte fino al Novecento. Un’ operazione di recupero del disegno, di selezione filologica della qualità dei filati, delle tessiture, dei tagli delle stoffe arricchite dall’ arte del ricamo. La scelta, ad esempio, di Botticelli e Pisanello non fu casuale ma prova di studio attento della Storia, metodo appreso nella sua gavetta parigina.

Notate bene che a distanza di decenni, Botticelli è tornato di moda  nelle scelte di alcuni stilisti, tanto da meritare la mostra “Botticelli Reimagined” al Victoria and Albert Museum di Londra nel 2016 con ben 150 opere di reinterpretazione del grande pittore fiorentino. E’ un inno alla Bellezza (50 le sue opere) di un Botticelli reinterpretato. I modi con cui diversi artisti ( D. G. Rossetti, E. Burne-Jones, W. Morris, R. Magritte, E. Schiaparelli, A. Warhol) hanno “rivisitato” il pittore fiorentino sono accattivanti anche nella moda: Dolce & Gabbana si sono ispirati a La nascita di Venere per la collezione primavera/estate del ‘93. L’artista cinese Yin Xin, nel 2008, ha confezionato la Venere botticelliana con capelli corvini ed occhi a mandorla.

 

[caption id="attachment_29349" align="aligncenter" width="620"] la Venere di David La Chapelle, grande fotografo americano.[/caption]

 

Notizie biografiche

Rosa Angela Caterina Genoni nasce in un paesino della Valtellina, Tiràn in dialetto ( Tirano) in provincia di Sondrio, il 15 giugno 1867, l’anno della sfortunata battaglia di Mentana. Famiglia modesta la sua, papà Luigi fa il ciabattino, mamma Anna Margherita Pini la ricamatrice, lei primogenita di 18 figli (ne resteranno 12), con tante bocche da sfamare, viene affidata alla nonna che vive in campagna a Grosio, d’inverno dorme nella stalla perché più calda. A dieci anni, da “piscinina”, la mandano a Milano presso la piccolo sartoria della zia Emilia ad  imparare il mestiere, si porta in dote la III elementare, sa leggere e far di conto, l’era brava a scuola ma solo le prime tre classi erano gratuite.

La città Ambrosiana è la capitale dell’industria, permeabile ai processi di innovazione tecnologica in ogni campo, dai trasporti alla meccanica automobilistica, con un hinterland manifatturiero nel tessile che dà occupazione all’85% delle donne operaie, tra “piscinine”, sarte, ricamatrici, cucitrici e stiratrici. Però le sartorie tagliano e cuciono modelli francesi importati attraverso i figurini dei couturiers parigini senza travasi di cultura nazionale. Rosa è intraprendente per carattere, segue corsi serali per prendersi la V elementare, poi quelli comunali per imparare un po’ di francese. Nel frattempo, come molte sartine, frequentava la casa di Giuseppe Turati e Anna Kuliscioff aderendo politicamente al socialismo riformista ed alla cui ideologia restò saldamente legata. L’obiettivo professionale però è quello di cimentarsi con Parigi così nel 1886 fa tappa a Nizza, la sfida è confezionare un abito da esporre in vetrina, il capo viene acquistato subito in serata, Rosa a diciannove anni diventa premiére dell’atelier, potrà disegnare lei i figurini.

Nel 1887 finalmente sbarca nella Ville lumiére assunta in una sartoria di rue de la Paix dove oltre a perfezionarsi nel disegno come stilista, impara de visu i processi della catena produttiva, dall’ideazione dei modelli al lavoro d’equipe per realizzarli, in più riscontra che les couturiéres non sanno solo eseguire bene il lavoro ma padroneggiano un bagaglio culturale che le guida nella loro professione, ne sanno eccome di Storia dell’Arte e di Storia della Moda. Un anno le basta per tornare  Milano ed essere la stilista della sartoria Bellotti, fioccano i primi consistenti guadagni che le permettono d’ aiutare i fratelli, in particolare Emilio emigrato in Australia e Carlo accusato dell’ omicidio del suo socio. Per quest’ultimo paga la parcella dell’avvocato socialista Alfredo Podreider che diverrà suo amante, poi sposo nel 1924. Dalla loro unione nascerà l’unica amatissima figlia Fanny.

La fine dell’Ottocento coincide col  luccichio della Belle Epoque, la moda francese libera le donne dai mutandoni sotto cumuli di inutili sottovesti, via anche le stecche dai busti e sotto le gonne ridondanti. Sta prendendo sostanza e forma la catarsi femminista della donna, gli abiti ne esaltano l’emancipazione sociale, restano però i ghetti delle classi sociali che Rosa vorrebbe abbattere. Nel 1903 viene promossa Direttrice della Maison Haardt et Fils di Milano, introducendo nella produzione i suoi di modelli oltre a quelli francesi. Ricordandosi di quanto appreso nell’atelier di rue de la Paix come nei suoi numerosi viaggi a Parigi, si convince che le sartine debbono avere un’istruzione adeguata, così, dal 1905, sale in cattedra per insegnare Storia del Costume nella Scuola professionale femminile della Società Umanitaria della quale era socia. In seguito introdurrà nell’ offerta formativa un settore esclusivo dedicato alla sartoria. Sono questi gli anni dell’effettiva nascita del Made in Italy che Rosa propugna con grande energia nazionalista rivendicando l’autonomia della moda italiana da quella francese,  coniugando  creatività al sapere e saper fare italiano. All’Expo milanese, dedicata alla Galleria del Sempione, presenta otto modelli tutti ispirati ai grandi del Rinascimento, da Raffaello a Botticelli, dal Veronese a Mantegna, le spalle del ponte con la grande sartoria italiana del passato che aveva dominato le corti europee, erano gettate, si torna alle matrici venete, fiorentine, milanesi. Tutto nel suo stand è italiano, dai manichini romani, agli abiti, agli accessori fino ai gioielli prodotti dagli allievi orafi della Società Umanitaria. Non solo passato però ma occhio anche alla donna moderna se Rosa mette in mostra la prima gonna pantalone! La stampa internazionale, da Le Figaro a La Prensa argentina, decreta il successo dei modelli proposti per la loro originalità ed attualità, Rosa si aggiudica il 30 novembre il Grand Prix della Giuria Internazionale. Nel 1908 sarà invitata al I Congresso della Donna Italiana in veste di delegata della Società Umanitaria, il suo intervento, applauditissimo, ne consacrò la personalità. Nel suo discorso partendo dalla constatazione di fatto che non esisteva più una moda italiana, ripercorre il passato glorioso del settore al quale ispirarsi innestandovi le grandi professionalità femminili presenti in quest’ arte applicata. Parleremmo oggi di comporre insieme le sinergie presenti per costruire una moda tutta nazionale seguendo però processi industriali. La scuola professionale femminile diventa l’investimento principale per  dare attuazione ad un moda italiana protagonista vincente sui mercati. Non solo parole ma anche divulgazione di idee a mezzo stampa, Rosa le espone sulle riviste più quotate da “La Margherita” al “Marzocco”, da “Vita d’Arte” a “L’Eleganza” ottenendo l’adesione di attrici e nobildonne come Letizia Bonaparte moglie del duca Amedeo d’Aosta e la divina attrice Lyda Borelli ( celebre l’abito indossato Tanagra).

[caption id="attachment_29350" align="aligncenter" width="620"] Lyda Boreli indossa Tanagra di R. Genoni[/caption]

 

Nel 1909 nasce il “ Comitato per una moda di pura arte italiana” presieduto da Giuseppe Visconti di Modrone, gentiluomo della regina Elena, padre del regista Luchino, nonché imprenditore di velluti nel settore tessile, Presidente dell’Inter e creatore di profumi. L’organismo è  patrocinato da Franca Florio, Borsalino, Lanerossi, Jesurum e diversi altri imprenditori.

Nel 1911 il Comitato bandisce sulla rivista senese “Vita d’Arte” il  concorso per un abito da sera. La partecipazione è enorme, di alta qualità, il premio viene assegnato all’artista  di Faenza  Francesco Nonni disegnatore, pittore, incisore e ceramista.

Nello stesso anno con la ricorrenza del cinquantesimo dell’Unità d’Italia, all’Esposizione Internazionale delle industrie e del lavoro di Torino viene allestito un padiglione dedicato tutto alla sartoria nazionale.

All’impegno per una moda italiana Rosa in parallelo mette quello di ardente socialista nel battersi per il miglioramento delle condizioni del lavoro femminile, per il diritto al voto, orario massimo di lavoro di otto ore giornaliere, no al lavoro notturno, congedo retribuito per la maternità, divieto di mansioni pericolose per l’incolumità della persona, avanzamento di carriere, ecc.. Con l’amica  pasionaria Anna Kuliscioff partecipa come delegata al Congresso Internazionale socialista di Zurigo.

Siamo alle soglie della I Guerra mondiale, lo scontro interno al Partito socialista è forte tra interventisti e pacifisti, Mussolini lascia il Partito insieme a componenti anarco-nazionaliste, Rosa s’adopera invece contro l’intervento militare in Libia quanto contro l’ingresso dell’Italia nel conflitto mondiale. La sua residenza milanese si trasforma in sede del Movimento Internazionale per la Pace, spazio di aggregazione quanto megafono  del pacifismo europeo.

Nel 1915 partecipa all’Aja al Congresso Internazione delle donne contro la guerra, invitata dalla futura premio Nobel per la pace Jane Addams fondatrice della Women’s International League for Peace and Freedom che la porta con se all’incontro con il Primo Ministro olandese e il Ministro degli Esteri inglese, invocano un intervento per arrestare il conflitto, durante il quale la Genoni tiene a battesimo l’associazione “Pro Humanitate” rivolta all’assistenza dei prigionieri di guerra.

Gli avvenimenti postbellici si susseguono convulsi, dal biennio rosso alla contemporanea nascita del fascismo fino alla chiamata alla Presidenza del Consiglio di Mussolini nel ’22.

Rosa in questi anni scrive articoli sul giornale “La Difesa dei Lavoratrici”, partecipando al Congresso socialista di Zurigo del 1919.

Nel 1924, di sosta Parigi durante un viaggio in Cornovaglia con la figlia Fanny , avviene l’incontro con la teosofia dell’austriaco Rudolf Steiner di cui segue alcune lectures, restandone profondamente influenzata nel pensiero come nel fare arte, l’antroposofia sarà la sua culla negli  anni del suo ritiro varesino, dopo la perdita del marito e lo scoppio della Guerra.

Nel 1925 muore la sua amica e compagna di battaglie Anna Kuliscioff, insieme al marito mette su un laboratorio da sarta nella sezione femminile del carcere di S, Vittore con annesso asilo nido per le detenute mamme. Sempre in quell’anno esce il primo dei tre volumi ( resterà l’unico) della sua Storia della Moda attraverso i secoli.  Nonostante il suo antifascismo Rosa continuerà a mietere successi nel campo della moda almeno fino alla perdita del coniuge avvenuta nel 1936 a Sanremo. Con l’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale Rosa e Fanny si ritirano dalle scene stabilendosi nella casa di famiglia a Varese dove la Genoni risiederà fino alla data della sua morte il 12 agosto 1954.

 

Lo stile Genoni

Rosa Genoni nel  creare i suoi abiti si ispira  al Neoclassicismo, altro movimento nato in Italia ( Villa Albani-Roma ) ed in principal modo al Rinascimento. Secondo la filosofia che caratterizzava lo stile  Genoni, creare abiti con quei riferimenti storici significava recuperare e salvaguardare il valore della moda italiana conferendole maggiore peso culturale e identità. Sta a  significare che  realizzare manufatti di valore unico ben riconoscibili sul mercato, vuol dire affiancare alla competenza tecnica e produttiva una grande cultura, bisognava saldare le Belle Arti con le arti minori, questa era la chiave per riportare al successo la moda nazionale.

Personalità poliedrica, perciò stesso complessa, Rosa Genoni oltre alla sua unica figlia Fanny partorì così anche il Made in Itay che sembrava riposare, come Euridice, nell’Ade. Dichiarò in proposito «il nostro patrimonio artistico potrebbe servire di modello alle nuove forme di vesti e di acconciature, che così assumerebbero un certo sapore di ricordo classico ed una vaga nobiltà di stile […] Come mai nel nostro paese da più di trent'anni assurto a regime di libertà, in questo rinnovellarsi di vita industriale ed artistica, come mai una moda italiana non esiste ancora?» A lei l’onore di questa creazione di Eva tricolore.

Fu esponente di spicco dell’umanesimo socialista cavalcato anche da Mussolini, lei restò ad aspettare l’alba del sole nascente l’altro colse il fiore della rivoluzione, si persero per strade diverse, opposte, ma un sogno li accumunava, riscattare la serva Italia, di dolore ostello. In questa ricerca di una via nazionale alla moda la Genoni anticipò di anni quel “ritorno all’ordine” del nostro primo dopoguerra, quando tutta l’arte italiana si interrogava sulla sua ricostruzione dalla Metafisica di De Chirico, a Valori Plastici di Broglio, al gruppo Novecento della Sarfatti, in tutto questo c’era amore per la propria Patria al di là delle barricate.

Emanuele Casalena

 

Bibliografia

Gnoli, Sofia. Un secolo di moda italiana. 1900-2000 - Meltemi, 2005.

Raffaella Podreider, Rosa Genoni pioniera della moda italiana, realizzazione di Franco Visintin, associazione Valtellinesi a Milano, 24 novembre 2011.

Paulicelli, Eugenia. La Moda è una cosa seria. Milano Expo 1906 e la Grande Guerra , Deleyva Editore, 2015.

Angela Frattolillo, Rosa Genoni  Pioniera della Moda, 2016 -  Blog Biografie Profili di donne protagoniste del loro tempo..

Milano, Archivio di Stato, Mostra su “ROSA GENONI (1876-1954): UNA DONNA ALLA CONQUISTA DEL ‘900 PER LA MODA, L’INSEGNAMENTO, LA PACE E L’EMANCIPAZIONE “, 2018.

 

 

 

L'articolo Rosa Genoni, la “sarta artista” pioniera del made in Italy – Emanuele Casalena proviene da EreticaMente.

Contro i Galilei! – L’azione di preservazione del Mos Maiorum di Flavio Claudio Giuliano Augusto: principi ispiratori e strategie d’azione – 1^ parte – Tommaso Indelli

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I) La politica di Costantino I verso il Cristianesimo.

Su Flavio Caudio Giuliano (331-363 d. C.), sulla sua biografia e sulle sue imprese militari ci si è già soffermati a suo tempo -in un altro contributo pubblicato in questa sede -pertanto, qui di seguito, ci si concentrerà unicamente sull’esame di alcuni aspetti della sua azione politica, volta a contrastare la diffusione del cristianesimo nell’impero e a favorire la restaurazione della religione dei padri, il cosiddetto “paganesimo”. Si badi che gli appellativi di “pagano” e “politeista” - che pure saranno, convenzionalmente, utilizzati nel corso dell’indagine - per indicare gli appartenenti alla religione ufficiale dell’impero romano, sono assolutamente impropri e fuorvianti, oltre che dispregiativi. L’uso di tale terminologia è frutto della pubblicistica apologetica cristiana del III-IV secolo d. C. e, prima di essa, di quella giudaica (1). Fu proprio la politica di Restauratio religiosa a fare di Giuliano un protagonista indiscusso del IV secolo, procurandogli la fama di “Apostata”, cioè “Rinnegatore della fede”. Quando Giuliano divenne imperatore, nel 361 d. C., l’impero romano era ormai mutato, nelle sue strutture sociali, economiche e amministrative, rispetto all’epoca augustea, e uno dei promotori di tale rinnovamento fu senz’altro Costantino(306-337 d. C.), il primo imperatore cristiano (2). Tuttavia, non è possibile comprendere le scelte attuate, in campo religioso, da Giuliano, se non ci si sofferma un attimo sulla politica costantiniana, grazie alla quale il cristianesimo cessò di essere considerato - da un punto di vista legale e morale - una superstitioillicita e si accinse a diventare religione ufficiale dello stato romano (3). La politica di Costantino a favore del cristianesimo trovò attuazione solo dopoche la battaglia di Ponte Milvio (312 d. C.) - detta anche di Saxa Rubra - sancìla fine del regime tetrachico, consegnando l’intero orbe romano nelle sue mani (4). La “miracolosa” conversione del primo imperatore cristiano -secondo la tradizione - avvenne proprio nell’imminenza di tale battaglia,combattuta il 28 ottobre del 312 d. C., a nord di Roma, contro l’Augusto Massenzio (306-312 d. C.) che, in quell’occasione, trovò la morte (5). Alla vigilia dello scontro, Costantino, a seguito di un sogno o di una visione miracolosa, si sarebbe convertito al cristianesimo:l’apparizione miracolosa o il sogno l’avrebbero spinto ad apporre sugli scudi dei soldati un’insegna con le due lettere iniziali del nome di Cristo in greco - Χ (chi) e Ῥ (rho), Χριστὸς- tra loro intersecate. L’insegna, trasformata più tardi in vessillo, prese il nome ufficiale di Labarum (6). Fosse o meno sinceramente cristiano - problema dibattuto da secoli e, ancora oggi, insoluto - Costantino fu, nel corso della sua vita, un autentico esempio di ipocrisia (7). Nulla della sua esistenza, infatti, rispecchiò i reali principi della religione alla quale aveva aderito. La sua vita familiare, poi, fu un disastro. Nel 326d. C., fece assassinare, a Pola, la moglie Fausta, sorella di Massenzio, e il primogenito, Crispo, avuto da una precedente moglie o concubina, Minervina (†307d. C.), probabilmente di origini galliche. I due furono accusati di incesto, ma, forse, le ragioni dell’uccisione furono politiche. E’ noto, inoltre, che l’imperatore rimandò il suo battesimo fino alla vigilia della morte, nel 337 d. C. (8) All’indomani di Ponte Milvio, nonostante fosse stato, in gioventù, un adepto del culto solare -introdotto ufficialmente, a Roma, dall’imperatore Lucio Domizio Aureliano (270-275 d. C.) - Costantino aveva fatto la sua scelta definitiva a favore del cristianesimo (9).Nel febbraio del 313 d. C., il novello Augusto emanò,a Milano, un editto di tolleranza nei confronti dei cristiani che sospendeva ogni misura persecutoria nei loro confronti, riconoscendo la loro religione come religio licita.

L’editto riconobbe alla Chiesa piena personalità giuridica e stabilì anche la restituzione dei beni, mobili e immobili, confiscati nel corso delle precedenti persecuzioni, creando, così, le premesse per il decollo economico dell’istituzione ecclesiastica (10). Molto si è detto e scritto sull’editto di Costantino e sulla frattura che avrebbe rappresentato, sotto tutti i punti di vista, con la legislazione e la politica dei precedenti imperatori (11). In realtà, questa visione va decisamente ridimensionata perché, se si esclude la grande persecuzione dell’imperatore Diocleziano del 303-304 d. C., molte delle disposizioni di Costantino erano già contenute in due provvedimenti normativi di imperatori precedenti e, cioè, negli editti di Publio Licinio Egnazio Gallieno (253-268d. C) e di Gaio Aurelio Valerio Galerio (305-311d. C), promulgati, rispettivamente, nel 260 e nel 311d. C. (12). Fatte queste considerazioni, bisogna sottolineare che, teoricamente, in virtù dell’editto del 313d. C., il cristianesimo doveva semplicemente godere, nell’impero, degli stessi diritti delle altre confessioni religiose, ma le cose presero una piega diversa, perché Costantino, tra il 316 e il 321d. C., promulgò altre leggi con cui rafforzò la posizione sociale della Chiesa, conferendole particolari privilegi in campo fiscale, economico e giuridico (13). Ad esempio, il clero fu esentato dal pagamento di imposte e dalla giurisdizione ordinaria - rispondendo di eventuali illeciti unicamente di fronte ai tribunali ecclesiastici - i tribunali vescovili furono autorizzati ad emanare sentenze nelle controversie tra laici – episcopalis audientia - fu riconosciuto il diritto delle chiese di ricevere eredità e donazioni, il diritto dei vescovi di servirsi del servizio di posta imperiale - cursus publicus - il giorno di festa cristiano - la domenica-fu riconosciuto come giorno festivo per tutto l’impero e fu attribuita efficacia giuridica alla manumissio in ecclesia, ossia all’affrancamento dei servi effettuato alla presenza del vescovo, di fronte al capitolo sacerdotale (14). Grazie alla politica di tolleranza costantiniana, le città dell’impero diventarono il fulcro dell’organizzazione ecclesiastica, basata sulla diocesi e sulle sue ripartizioni interne, come le parrocchie. La diocesi - che ricalcava, in parte, l’omonima distrettuazione amministrativa imperiale del IV secolo - era l’organizzazione di base per l’inquadramento dei fedeli, per l’amministrazione dei sacramenti e per ogni adempimento liturgico. Il clero era articolato in una gerarchia di uffici: al vertice, il vescovo o arcivescovo – in Oriente, eparca - a seconda che fosse preposto o non ad a una metropoli ecclesiastica – in Oriente, eparchia - ovvero ad una provincia comprensiva di più diocesi suffraganee, subordinate al metropolita. Al di sotto dei vescovi stavano i presbiteri e i diaconi, questi ultimi con funzioni di assistenza ai vescovi e ai presbiteri, e con mansioni di tutela del patrimonio ecclesiastico e di assistenza ai bisognosi. Seguivano i suddiaconi, gli ostiari, gli esorcisti, i lettori e gli accoliti - che appartenevano agli ordini minori - il grado più basso della gerarchia, con compiti di assistenza liturgica degli ordini maggiori. Il conferimento degli ordini spettava al vescovo, che era scelto dal clero della diocesi, escludendo il popolo, che si limitava ad approvare per acclamazione. L’elezione del vescovo era al centro di importanti trattative tra i ceti dirigenti della città e i vertici del potere politico, generalmente l’imperatore o i suoi rappresentanti - come i governatori provinciali - anche perché i vescovi, nel IV secolo, acquisirono, proprio grazie alla legislazione costantiniana, competenze sempre più vaste anche in materia di assistenza sociale a vedove, anziani e orfani, di sorveglianza delle carceri e assistenza ai detenuti e persino in materia di bilancio delle amministrazioni cittadine e di approvvigionamento granario delle popolazioni (15).

Anche nell’esercizio di queste funzioni, l’operato dei vescovi era da esempio per i poteri civili. Una volta eletto, il vescovo suffraganeo era consacrato dal proprio metropolita, mentre il metropolita era consacrato da almeno tre vescovi suffraganei della propria metropoli. Tuttavia, nonostante l’importanza crescente della carica episcopale, fino alla metà del V secolo, l’organizzazione complessiva della Chiesa fu ancora collegiale, ovvero basata sull’accordo dei vescovi, espresso in sede sinodale, mentre il vescovo di Roma - il papa - conservava solo un primato morale, ma non giurisdizionale, conferitogli dal prestigio della sua diocesi che ospitava le reliquie di Pietro e Paolo, principes Apostolorum (16). La Weltanschauung cristiana influenzò ogni aspetto della legislazione costantiniana e non soltanto la normativa esplicitamente riservata alle questioni religiose e alla definizione dei privilegi del clero. Infatti, la nuova fede permeò anche la nuova disciplina dei rapporti giuridici tra soggetti privati, come le relazioni coniugali o genitoriali e le successioni ereditarie. Ad esempio, Costantino impedì il matrimonio dei cattolici con eretici e scismatici e quello tra cristiani ed Ebrei. Da quel momento, inoltre, gli Ebrei non poterono più avere servi o personale di fede cristiana al loro servizio. Gli eretici e gli scismatici furono colpiti anche dalla perdita della testamenti factio attiva e passiva, cioè della capacità di fare testamento o di ereditare, mentre i loro beni furono devoluti al fisco, alla stregua dibona caduca. Il divorzio fu reso più difficile e concesso in caso di grave inadempimento degli obblighi coniugali - divortium ex iusta causa - o in presenza di eventi di forza maggiore o caso fortuito (divortium ex bona gratia). Anche le facoltà giuridiche insite nella patria potestas del pater familias furono progressivamente limitate. Costantino proibì l’omicidio volontario del filiuso del servus- che rientrava nello ius vitae acnecisdel pater - la facoltà di esporre i neonati indesiderati – ius exponendi - e lo ius vendendi - la facoltà del padre di vendere i propri figli - fu limitato ai casi tassativamente previsti dalla legge. Nel campo del diritto penale, la legislazione costantiniana abolì la crocefissione - in omaggio alla passione di Cristo - e la marchiatura a fuoco sul volto, ma inasprì le pene contro i reati “sessuali” o offensivi del pubblico pudore, come l’infedeltà coniugale e l’omosessualità (17). La nuova politica costantiniana di tolleranza favorì anche l’edificazione di nuovi edifici di culto cristiani, di cimiteri e il riadattamento di edifici precedenti - in genere templi - agli usi sacri imposti dalla nuova religione. All’iniziativa edilizia costantiniana è da attribuire la costruzione delle basiliche romane di S. Giovanni in Laterano - a sud est di Roma - di S. Pietro - presso il colle Vaticano, sulla riva destra del Tevere - e di S. Lorenzo al Verano, sulla via Tiburtina. Ad Elena, madre di Costantino, è da attribuire l’edificazione della basilica di S. Croce in Gerusalemme, a Roma, presso il palatium imperiale - detto Sessorianum o Sessorium - e, in Palestina, delle basiliche del Santo Sepolcro, a Gerusalemme, e della Natività, a Betlemme. S. Giovanni e S. Pietro furono, certamente, gli edifici più importanti costruiti grazie al patronato imperiale e destinati, rispettivamente, a cattedrale dell’arcidiocesi romana e a tempio del culto della Chiesa universale. S. Giovanni fu edificato nell’area occupata dagli Horti Laterani che, acquisiti al demanio imperiale, furono destinati ad ospitare la domus Faustae - residenza ufficiale di Fausta, moglie di Costantino - e la caserma degli equites singulares Augusti, cavalieri che costituivano la guardia personale dell’imperatore. Accanto a S. Giovanni furono edificati anche un battistero e un palazzo – patriarchio lateranense – sede ufficiale del papa e degli uffici della curia romana (18). S. Pietro fu edificato sul colle Vaticano, area non urbanizzata e in prevalenza boscosa che ospitava una necropoli cristiana, dove era collocata, fin dal II secolo, un’edicola funeraria che custodiva le spoglie dell’apostolo Pietro, martirizzato - secondo la tradizione agiografica - proprio in quel luogo, nel 67 d.C., sotto il principato di Nerone (54-68 d. C.). Tutte le basiliche costantiniane furono dotate di un ingente patrimonio immobiliare, fonte di rendite sostanziose, pertanto, può sostenersi, senza ombra di dubbio, che la “Roma cristiana” nacque, topograficamente, proprio con Costantino (19).

Note:

1 - Si veda, in proposito, il contributo Giuliano l’Apostata, un rivoluzionario al potere, pubblicato in questo sito.
2 - Costantino era nato in Mesia, a Naisso - attuale Niš, in Serbia - intorno al 270 d. C., ed era figlio, forse illegittimo, di Flavio Costanzo, generale di origine balcanica e, in seguito, imperatore, e di una locandiera, Elena (†336 d. C.), poi venerata come santa dalla Chiesa.
3 - Ufficialmente, ciò avvenne solo nel 380 d.C., con l’emanazione dell’Editto di Tessalonica, ad opera dell’Augusto Flavio Teodosio I (379-395 d. C.).
4 - La tetrarchia era un sistema di governo messo a punto dall’imperatore Gaio Aurelio Valerio Diocleziano (†315 d. C.), tra il 285 e il 293 d. C. Ufficiale della guardia imperiale di origine dalmata - Valerio Diocle - meglio conosciuto col nome di Diocleziano, salì al potere il 20 novembre del 284 d. C. A partire dal 285 d. C., Diocleziano si dedicò al riordinamento amministrativo dell’impero, promuovendo importanti riforme costituzionali come l’istituzione della tetrarchia. Tra il 286 e il 293 d. C., infatti, Diocleziano associò al potere altri quattro imperatori, tutti uomini d’arme provenienti dall’Illirico; a se stesso e a Marco Aurelio Valerio Massimiano riservò il ruolo di Augusto e il governo dell’Oriente e dell’Occidente, agli altri due, Costanzo (†306 d. C.) - detto “Cloro”, cioè “Pallido” - e Galerio (†311 d. C.), il ruolo subordinato di Cesare. Con quattro imperatori ai vertici dello stato, Diocleziano credeva di aver risolto alcuni importanti problemi che affliggevano lo stato romano. Quattro imperatori, infatti, potevano accorrere sulle frontiere minacciate dai “barbari” con più facilità di uno solo e potevano sedare anche eventuali ribellioni locali, senza la necessità di spostare eserciti da un capo all’altro dell’impero. Il ruolo dei Cesari, inoltre, era quello di potenziali successori degli Augusti, perché Diocleziano aveva stabilito che, in caso di morte o abdicazione di un Augusto, il rispettivo Cesare gli subentrava, nominando, a sua volta, un potenziale successore. In tal modo si evitava anche ogni soluzione di continuità nell’avvicendamento al potere imperiale, uno dei maggiori problemi del III secolo. Per questi eventi, L. De Salvo – C. Neri, Storia di Roma.L’età tardo-antica, vol. I, Roma 2010.
5 - Massenzio era il figlio dell’Augusto Massimiano (†310 d. C.), suocero di Costantino e membro della tetrarchia. La guerra civile tra Costantino e Massenzio era esplosa nel 306 d. C. Infatti, nel 303 d. C., dopo la celebrazione dei suoi Vicennalia - anniversario dei vent’anni di regno - Diocleziano decise di abdicare, imponendo questa scelta anche al collega Massimiano. L’abdicazione fu fissata per il primo maggio del 305 d. C. e, secondo gli accordi, subentrarono nel ruolo di Augusti i rispettivi Cesari, Costanzo Cloro, per l’Occidente, e Galerio, per l’Oriente, che, a loro volta, designarono come Cesari, Valerio Severo e Massimino Daia. La situazione presto degenerò e si giunse nuovamente alla guerra civile: il 25 luglio del 306 d. C., infatti, Costanzo morì in Britannia e il figlio, Costantino, fu acclamato Augusto dalle truppe. A Roma, nel frattempo, Massimiano e suo figlio, Massenzio, furono proclamati Augusti il 28 ottobre. Valerio Severo, nel 307 d. C., penetrò in Italia, per domare la ribellione di Massenzio, ma fu sconfitto e ucciso poco tempo dopo. Nel 308 d. C., allora, Diocleziano abbandonò il suo ritiro di Spalato e intervenne nell’assise di Carnuntum, in Pannonia, convocata da Galerio per riportare ordine tra i contendenti. Massimiano e Massenzio furono esclusi da ogni incarico, Galerio e Massimino conservarono il loro ruolo in Oriente, rispettivamente, di Augusto e di Cesare, mentre, in Occidente, furono designati - come Augusto e Cesare - Licinio Liciniano e Costantino: Licinio ottenne l’Italia, l’Africa e la Pannonia e Costantino la Spagna, la Gallia e la Britannia. La guerra civile, però, riesplose e continuò fino al 313 d. C. Massimiano fu soppresso da Costantino nel 310 d. C., probabilmente a Marsiglia, Galerio morì, di morte naturale, nel 311 d. C. Massenzio - che non voleva rinunciare al titolo di Augusto - fu sconfitto nella battaglia di Ponte Milvio da Costantino, il 28 ottobre del 312 d. C., e morì annegato nel Tevere. Massimino Daia morì, nel 313 d. C., ucciso da Licinio. Licinio Liciniano, a sua volta, fu ucciso nel 325 d. C. da Costantino che divenne, così, l’unico imperatore. Per questi eventi, L. De Salvo – C. Neri, cit.
6 - Per la conversione di Ponte Milvio, Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino, a cura di L. Franco, Milano 2009, I, 28-30, Lattanzio, Come muoiono i persecutori, a cura di M. Spinelli, Roma 2005, XLV, 5.
7 - Nonostante ciò, Costantino è venerato, ancora oggi, come santo dalla Chiesa ortodossa.
8 - G. Marasco, Costantino e le uccisioni di Crispo e Fausta, in «Rivista di Filologia e Istruzione Classica», CXXI, (1993). H. A. Pohlsander, Crispus: Brillant Career and tragic End, in «Historia», XXXIII, (1984).
9 - Il culto solare fu introdotto a Roma, ufficialmente, il 25 dicembre del 274 d. C., poi diventato diesnatalis Solis Invicti. Sulla figura di Aureliano e sulla sua politica religiosa, B. M. di Dario, Il Sole Invincibile. Aureliano riformatore politico e religioso, Padova 2002.
10 - Per il testo dell’Editto, Lattanzio, o. c.,XLVIII. Sulla conversione costantiniana al cristianesimo, M. Amerise, Il battesimo di Costantino il Grande. Storia di una scomoda eredità, Stuttgart 2005.
11 - A. Marcone, Pagano e cristiano: vita e mito di Costantino, Roma 2002.
12 - Tra il 303 e il 304, furono emanati - per volontà di Diocleziano - quattro editti con cui, in un crescendo di sanzioni, si imponeva a tutti i cristiani residenti nell’impero, laici ed ecclesiastici, la consegna dei libri, degli arredi sacri e l’abiura, a pena di esili, condanne ai lavori forzati o alla morte. Le chiese cristiane furono distrutte - o convertite in templi pagani - e i cimiteri chiusi. La persecuzione, che infuriò più in Oriente che in Occidente, fece qualche migliaio di vittime. Per il testo dell’editto di Galerio, promulgato a Serdica, attuale Sofia, nell’aprile del 311, Eusebio di Cesarea, Storia cit.,VIII, 17, Lattanzio, o. c., XXXIV, 1-5.
13 - Sull’importanza dell’editto costantiniano, A. Corbin, Storia del Cristianesimo, Milano 2007, M. Guidetti, Costantino e il suo secolo. L’editto di Milano e le religioni, Milano 2013, C. Moreschini, Cristianesimo e Impero, Firenze 1973, E. Percivaldi, Fu vero editto? Costantino e il Cristianesimo tra storia e leggenda, Milano 2012.
14 - Sull’episcopalis audientia, M. R. Cimma, L’episcopalis audientia nelle costituzioni imperiali da Costantino a Giustiniano, Torino 1989. Sui privilegi ecclesiastici, in generale, G. M. Vian, La donazione di Costantino, Bologna 2004.
15 - Sui poteri pubblici dei vescovi nella Tarda Antichità, si veda Codex Iustinianus, recensit P. Krueger, Berolini 1906, I, 3, 28, V, 4, 19.
16 - Per questi aspetti organizzativi della Chiesa del IV secolo, H. Drake, Constantine and the Bishops. The politics of Intollerance, Baltimore-London 2000.
17 - Sulla legislazione costantiniana, A. Guarino, Storia del diritto romano, Napoli 1997.
18 - H. Rahner, Chiesa e struttura politica nel cristianesimo primitivo, Milano 1970.
19 - Per la politica edilizia di Costantino, L. De Salvo – C. Neri, cit.

Tommaso Indelli,

assegnista di Ricerca in Storia Medievale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Salerno.

L'articolo Contro i Galilei! – L’azione di preservazione del Mos Maiorum di Flavio Claudio Giuliano Augusto: principi ispiratori e strategie d’azione – 1^ parte – Tommaso Indelli proviene da EreticaMente.

DECIMA FLOTTIGLIA M.A.S.: propaganda per la riscossa (XXIV parte) – Gianluca Padovan

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«Erede diretta delle glorie dei violatori di porti che stupirono il mondo con le loro gesta nella prima guerra mondiale e dettero alla Marina italiana un primato finora ineguagliato, la Xa Flottiglia M.A.S. ha dimostrato che il seme gettato dagli eroi del passato ha fruttato buona messe»

Decima Flottiglia M.A.S., manifesto (50 x 82 cm, verticale)

 

 

Soldati Volontari e «banditi».

Ciò che è stato scritto in tempo di guerra, ovvero da chi era presente in quello specifico momento, ha un grande valore. Certamente quanto si propone è parte della propaganda della Decima, ma è altresì chiaro che costoro si sono presentati in prima persona Volontari, si sono battuti e molti sono morti.

Come si potrà leggere c’è chi non è morto per mano nemica, ma per mano di traditori che hanno tradito due volte: la prima perché sono passati al nemico, la seconda perché non hanno avuto il coraggio di battersi a viso aperto. Difatti, mai lo si dimentichi, costoro potevano agire perché non portavano divisa né, tantomeno, alcun segno di riconoscimento che li differenziasse a colpo d’occhio dalla popolazione civile in cui si mescolavano.

In questa parte si prosegue quanto cominciato nella XXII e XXIII parte, ovvero l’elencazione dei mezzi d’informazione della Xa Flottiglia M.A.S. Difatti Il Comandante Junio Valerio Borghese sa bene che la propaganda è fondamentale per poter fare affluire sempre nuovi volontari nei reparti e che, visto il clima interno in cui si dibatte la Nazione è fondamentale possedere i propri mezzi d’informazione: giornali, riviste e opuscoli.

 

 

Il Comandante Umberto Bardelli.

Opuscolo stampato il 28 luglio 1944 dalle Edizioni Erre, settimo di una serie di tredici. Composto da Mario Sanvito e R. C., ha 15 pagine di solo testo (12,5 x 17,4 cm) ed è composto da due articoli tratti da Il Pomeriggio del 13 luglio 1944 e da Regime Fascista del giorno seguente. La terza parte è la trascrizione, preceduta da breve commento, della lettera di Elena Zanga spedita a Serena Bardelli, figlia dello scomparso Comandante Bardelli, ucciso in imboscata a Ozegna da “parteggianti” armati (Mario Sanvito ed R. C., Il Comandante Umberto Bardelli, Decima Flottiglia M.A.S., Edizioni Erre, Milano 1944).

 

«Lettera a un bandito».

A proposito della vicenda occorsa al Comandante Umberto Bardelli e ai suoi Volontari, ecco la trascrizione di un chiarissimo documento di un Marò, Mario Tedeschi, pubblicato su Repubblica Fascista del 18 luglio 1944, che successivamente è divenuto un volantino fatto stampare dall’Ufficio Stampa della Decima Flottiglia M.A.S. di Milano, con sede in Piazzale Fiume n. 1. Il titolo è «Lettera a un bandito».

«Il marò allievo ufficiale del Battaglione “Barbarigo” Mario Tedeschi, catturato dai banditi ad Ozegna nell’imboscata in cui fu trucidato il comandante Bardelli con 9 suoi uomini e liberato poi, dopo 8 giorni di prigionia, ha scritto una lettera al capo della banda. Eccone il testo: // Credo, Piero, che non avrei accettato l’invito fattomi di scrivere quanto è passato in questi giorni dall’8 al 15, se al mio ritorno ad Ivrea non avessi veduto le fotografie dei miei compagni caduti nell’imboscata di Ozegna. Il viso sfigurato di Bardelli, morto da eroe; la sua bocca che le mani dei tuoi avevano lasciata spalancata dopo averne strappato i denti d’oro; la figura orrendamente deturpata del povero Fiaschi, ucciso con un colpo a bruciapelo nel cranio mentre già rantolava ferito; quei volti lordati oscenamente di fango; quelle divise lacerate dall’ansia del predone che frugava, hanno rinvigorito, se possibile, il risentimento dell’animo mio. Chi scrive queste righe, e lo riconoscerai dalla firma, è uno che ti ha dimostrato di non aver paura. Non sono quindi le ripetute minacce di morte, di arruolamento al «Battaglione San Pietro», come voi dite, che mi ispirano; ma è la ferita profonda lasciata nell’animo mio dall’aver veduto a quali punti di bassezza possono giungere gli Italiani. Lo slavo che alla sera dell’8, sulla piazza di Pont Canavese, ci prometteva di tagliarci prima il naso, poi le orecchie e, infine, il ventre, è molto superiore a voi che fingeste di trattare con Bardelli per far giungere i rinforzi e circondarci nella piazzetta della Chiesa, dove noi attendevamo con le armi scariche, fiduciosi della vostra parola. Venivamo dal fronte, dove avevamo combattuto non per un partito o per lo straniero, ma per l’Italia, così come voi stessi dite di fare: eppure furono degli Italiani che incolonnarono i 29 prigionieri per le vie di Pont Canavese, così come furono Italiani quelli che accompagnarono la sfilata percuotendoci e sputandoci in viso. È assai poco nobile, credimi, abbandonare all’odio e all’insulto stupido e bestiale di una popolazione accecata, dei soldati che hanno combattuto bene e si sono dovuti arrendere solo perché senza munizioni! Poi tentaste di convincerci a cambiar bandiera: e per sette giorni di fila fu un alternarsi di velate minacce e di botte propagandistiche; di menzogne sull’andamento delle guerra e sul comportamento dei nostri Comandi. Nessuno, del «Barbarigo», ha ceduto. Tu lo sai. Ma parliamo di voi, dei tuoi uomini, che qui si conoscono solo attraverso le voci di due propagande opposte. Il gruppo Piero è così composto: // 1) Una grandissima parte, formata per lo più di renitenti alla leva, che sta sui monti per paura di combattere; costoro, logicamente, non vanno in azione, ma sbrigano i servizi; 2) una parte risultante di individui che non possono scendere in pianura avendo commesso dei reati comuni nel periodo dal 25 luglio ad oggi; 3) una parte minima di individui che formano il nucleo combattente; parte in cui ho trovato qualche raro elemento che vorrei fosse con noi. La proporzione tra i combattenti e gli imboscati e dell’1 a 10. // A questo aggiungi che tutta la massa va avanti per forza d’inerzia, senza che sia possibile applicare una benché minima forma di disciplina. È stato un tuo amico che confessò ad uno di noi: «Se tentiamo di instaurare la disciplina qui restiamo in due». Questo gruppo di persone che financo nel vestire dimostrano la zingaresca essenza della cosa (ho visto uno dei vostri pavoneggiarsi di un berretto da gerarca fascista con su alcune penne rosse) vive distruggendo il patrimonio zootecnico della Valsassina, togliendo ai contadini burro e farina, prendendo (naturalmente in nome dell’Italia) tutto quello che vuole, ovunque lo trovi. E infatti vi vantate di non aver soldi in tasca, pur non mancando di nulla. Con simili combattenti mi diceste di voler rifare l’Italia, ma chiunque ragiona sa benissimo che la pace segnerà lo scioglimento improvviso dei reparti partigiani, dato che il 99% dei componenti altro non attende che quell’ora per tornare a casa, infischiandosene della situazione politica e dell’interesse nazionale. È evidente quindi che voi fate il gioco degli Inglesi, che voi proclamate di voler eliminare come i Tedeschi, e del Comitato di liberazione nazionale, composto di elementi più o meno bastardi che speculano sul momento. A rinforzare la cosa, noto infine che tutti i ribelli che ho incontrato vivono esclusivamente sulla propaganda di radio Londra, la quale li sorregge con menzogne che vengono tranquillamente bevute. Non fummo forse avvisati nel nostro periodo di prigionia che Londra aveva comunicato che Milano era stata violentemente bombardata e che uno sciopero generale era scoppiato a Genova, Milano e Torino? Allontanati da ogni contatto, i tuoi uomini guardano oggi con gli occhi che loro volle dare il nemico: credi, Piero, che questo sia bene per l’Italia? Non si deve forse proprio a questo la tremenda confusione di idee che ho notato fra voi, per cui combattete per Badoglio chiamandolo «bastardo»? Vi dite comunisti ossequiando i preti, vi chiamate liberi affidando il servizio viveri e il controllo dei rifornimenti ad un inglese, proclamate l’uguaglianza lasciando che il Comitato di liberazione vi abbandoni sui monti senza un soldo, appropriandosi dei vari chili di biglietti da mille lanciati dagli aerei, vi dite patrioti terrorizzando le innocue popolazioni con le requisizioni forzate e con i saccheggi. Questa l’impressione fotografica dei ribelli di Val Soana. Del periodo di prigionia non credo sia necessario parlare. È stato un alternarsi continuo di ansie e di calma, durante il quale siamo stati trattati con ipocrita cordialità. Il fatto che ci abbiate costretti in trenta in due stanzette, obbligati a lavare i vostri piatti, promessa ogni giorno la libertà, sono cose trascurabili di fronte al dolore provocato nel vedere quanto in basso sia caduta questa nostra Patria adorata. È per questo che noi, Piero, ci auguriamo di tornare presto al fronte. Ti sia ben chiaro però che mentre dall’imboscata di Ozegna tu non hai guadagnato che i pochi oggetti che avevamo indosso (ci toglieste persino la cinghia dei pantaloni) e il nostro denaro, noi abbiamo riportato il ricordo incancellabile della voce di Barbarigo che grida: «Barbarigo non si arrende! Fuoco!», additandoci così la via della vendetta e dell’onore. // Da Repubblica Fascista del 18-7-44» (già riportata in IV parte).

Un eroe della “X„ Leone Bogani.

Opuscolo stampato nel febbraio 1945 dalle Edizioni Erre, ottavo di una serie di tredici. Ha 22 pagine di solo testo (12,5 x 17,4 cm) ed è composto da più brani, il primo dei quali non reca né titolo né firma.

Sostanzialmente ricorda la cattura a tradimento e l’uccisione del Sotto Tenente di Vascello Leone Bogani a Torriggia, da parte dei soliti “parteggianti”, che non vestono divisa.

Seguono: leone bogani non è più… firmato in calce «Dal diario di un profugo, 28 Luglio - XXII»; uomini della “x” fra i banditi. “Tu mi fucilerai…” di Giulio Rossi e tratto da Sveglia! del 25 agosto 1944; Leone Bogani comanda il fuoco ai suoi assassini tratto da Regime Fascista del 2 agosto 1944. L’ultimo brano, senza titolo, è la lettera di un’amica che lo commemora tratta «Dal periodico “Ali„ del 3 settembre – XXII» (AA. VV., Un eroe della “X„ Leone Bogani, Decima Flottiglia M.A.S., Edizioni Erre, Milano 1945).

 

«Leone Bogani comanda il fuoco ai suoi assassini».

«decima flottiglia mas – reparto stampa // decima, a noi! // leone bogani comanda il fuoco ai suoi assassini». Questa è l’intestazione del volantino stampato fronte-retro a ricordo dell’episodio che deve rimanere fermamente inciso nella Storia d’Italia.

«Era un nostro amico. Quando, all’8 settembre, si compì l’ignominia d’Italia, egli non attese né un giorno né un’ora. Già tenente d’aviazione, non pensò al titolo di studio ed al grado e, come semplice milite, entrò nella Guardia della Rivoluzione. Poi tornò all’Aeronautica repubblicana, e in quei giorni oscuri di novembre vene da noi (felice di trovare nella redazione di Regime Fascista uno spirito «rivoluzionario e repubblicano»), perché qualcuno intervenisse a far cessare ogni magagna tipo… passato regime e perché gli fosse permesso di affrontare subito il nemico, invasore della sua patria adorata. Questo suo fuoco interiore, questa sua inesausta passione, lo fecero perfino tacciare d’indisciplina, tanto che egli preferì ed ottenne di passare alla Xa Mas, anche con la perdita di un grado, pur di trovarsi in mezzo a quei reparti che già contavano dei combattenti al fronte. E, nel marzo scorso, venne inviato alla scuola sommozzatori e ne uscì giorni fa, fierissimo, come pilota di mezzi d’assalto. I nostri lettori ricorderanno certo il suo nome fra i firmatari di una lettera che pubblicammo a fine giugno, lettera in cui il suo nobile ed altissimo patriottismo si ribadiva una volta ancora. Dal corso, in data 2 maggio, ci scriveva, fra l’altro: «Sto per terminare il corso che mi consacrerà pilota d’assalto. Figurati la mia gioia, dopo tanti mesi di ansiosissima attesa: potrò finalmente affrontare il nemico proprio sul mare, dove è cento volte più forte di noi! Ho tanto desiderio di venire a Cremona; voglio respirare una boccata d’aria veramente pura, come non se ne trova in nessun altro posto; un’aria che ha il magico potere di rinfrancare ed ogni tanto fa bene anche a chi di rinfrancamento non ha bisogno davvero…». Ed il 2 giugno successivo ancora: «… Ieri, in un incidente, abbiamo perduto il nostro comandante, tenente di vascello Domenico Mataluno, puro italiano e convinto fascista. Egli è caduto per insegnarci la manovra esatta per offendere, nel modo più fatale, il nemico. Era ottimo come comandante e come amico. È per noi una perdita gravissima; perché vicino a lui il mio cuore d’italiano palpitava più forte e più appassionatamente che mai. Il grave danno è che le persone migliori muoiono. È divinamente bello dare la vita per l’Italia, ma è anche divinamente bello poter godere, vivi e coscienti, l’attimo dell’immancabile vittoria. Qui noi facciamo continua propaganda e vediamo, con immensa gioia, che qualcuno non troppo fascista, di fronte alla infinita purezza del nostro entusiasmo, muta idea e viene a noi». Terminato il corso, Bogani, giovane ufficiale della classe 1920, fiorentino scanzonato, impulsivo, buono, audace, non ha che un desiderio: mettere a profitto contro le carene nemiche quanto ha appreso nelle dure lezioni pratiche, in tanti mesi. Ma, prima, chiede ai suoi superiori un breve permesso: l’odiato invasore avanza verso nord e la Toscana è minacciata. Già si combatte a sud della sua Firenze. Vuol correre a prendere la famiglia e portarla al sicuro dietro quel confine che la sua fantasia dà ancora per poco tempo alla Repubblica di Mussolini, in attesa del balzo della riscossa. «Voglio – egli dice partendo – che i miei vecchietti vedano sempre garrire il tricolore repubblicano e che possano leggere sui nostri giornali le mie… gesta». È partito ma non è tornato. Il sogno generoso del fanciullone è stato infranto non dall’acciaio e dal piombo del nemico, ma dalla cattiveria e dalla // malvagità di alcuni prezzolati traditori: sorpreso dai banditi presso Torriglia, mentre tornava al Corpo, si difendeva accanitamente per alcune ore, tenendo in scacco i fuorilegge col fuoco tempestivo del suo mitra e con le bombe a mano. Esauriti anche i sette colpi della pistola, era costretto ad arrendersi. Immediatamente giudicato colpevole di patriottismo, di fascismo e di difesa della divisa della Xa Mas, veniva condannato a morte all’unanimità. Che cuore possono avere queste belve, che non hanno sentito la grandezza di quel puro animo di ragazzo coraggioso ed entusiasta? Ma una via di salvezza c’è ancora per Bogani. Rinneghi il Fascismo, getti il distintivo, dichiari di non combattere più contro le bande e contro l’anglosassone e non gli verrà torto un capello. Salvarsi in questo modo equivarrebbe ad uccidersi spiritualmente; del resto, in Bogani, certi sentimenti non hanno mai generato crisi interne o dubbi di sorta: amare l’Italia, difenderla, morire per lei, erano postulati naturali per il suo spirito rettissimo. Il suo «no» è stato secco ed immediato. Ha chiesto un’unica grazia: poter scegliere un «muso non troppo brutto» che eseguisse la condanna e di poter comandare egli stesso il «fuoco». Quindi, il biondo eroe si accostò al muro, volse il viso verso l’arma spianata contro di lui, quasi a voler guardare in volto quella morte che uomini del suo medesimo sangue gli davano, si aperse la camicia sul petto e, nel silenzio assoluto di quel tragico momento, la sua voce si alzò limpida, sicura, squillante, come una diana di riscossa, quasi si trattasse di trascinare un plotone all’attacco: “Duce! Decima! Italia! Fuoco!”… Crivellato dal mitra di un venduto, il corpo del fanciullo Bogani cadde al suolo, mentre si ripeteva fra i colli il suo estremo saluto alla Patria amatissima. Leo, noi di Regime Fascista ti abbiamo ben conosciuto e tu resti uno dei nostri. Non è il momento di parole e di commemorazioni! Sappiamo che ti dispiacerebbe Ma ti promettiamo che sarai nel nostro cuore e che penseremo a te, intensamente, se la Patria non avrà voluto anche noi, il giorno magico, ineffabile della nostra vittoria. Ci dispiace soltanto che tu non abbia sentito il bollettino germanico di ieri: “In Italia, 8300 banditi uccisi e 7500 catturati”. Era dedicato a te!».

Cose Nostre S.A.F. Xa.

Voce del Servizio Ausiliario Femminile Decima, il giornaleCose Nostre S.A.F. Xa nasce con l’intento di essere pubblicato senza scadenza fissa e difatti in prima pagina reca scritto «esce quando esce». All’atto pratico, con ogni probabilità, dovrebbe essere l’unico numero uscito (1).

Il numero del 1° dicembre 1944 è composto da otto pagine e in fondo all’ultima colonna si può leggere: «Responsabile Vol. C.R. Fede Pocek / Stabil. Tipografico S.A.M.E. / Via Settala 22 - Milano» (Servizio Ausiliario Femminile Decima, Cose nostre, Comando S.A.F Xa M.A.S., 1 Dicembre, Milano 1944).

Si tratta di Fede Arnaud Pocek (Venezia 1921 – Roma 1997), iscritta al Partito Fascista, già responsabile del settore sportivo dei G.U.P. (Gruppi Universitari Fascisti), aderisce alla R.S.I. ed è arruolata dal Comandante Borghese in qualità di responsabile e guida del Servizio Ausiliario Femminile della Xa Flottiglia M.A.S. Nel sito Internet dell’Associazione Combattenti Xa Flottiglia MAS si legge: «Fede Arnaud era nella Xa Mas quando il 18 febbraio del ’44, a Cuneo, la banda partigiana di “Mauri” cattura il tenente di vascello Betti, il sottotenente di vascello Cencetti, il guardiamarina Federico Falangola e un marò, tutti del “Maestrale” che sta completando l’addestramento per trasferirsi – cambiando il nome in “Barbarigo” – sul fronte di Nettuno. Al comando è Umberto Bardelli che tenta di evitare lo scontro fratricida per liberare i suoi uomini: accetta la proposta di Fede Arnaud che sola, si avvia alla ricerca dei partigiani. Finalmente, in un paesetto di montagna, incontra una prostituta che accetta di accompagnarla in prossimità della loro base a condizione di non riferire la fonte dell'informazione. Localizzati i partigiani si fa catturare e condotta davanti al loro capo, esegue un perfetto saluto romano. L’uomo è Folco Lulli, un toscano sanguigno, buon attore cinematografico, che aveva lavorato con lei, allora giovane aiuto-regista, prima della guerra. Lulli non è comunista, apprezza il coraggio di Fede Arnaud, accetta il confronto delle opinioni e degli ideali e decide di rilasciare i quattro prigionieri perché raggiungano il fronte con i loro compagni» (http://www.associazionedecimaflottigliamas.it/servizio-ausiliario-femminile.html).

Scrive Roberto Roggero: «Proprio sul fronte di battaglia di Nettuno, con l’agguerrito battaglione “Barbarigo” della X MAS di Valerio Borghese, combattono anche le donne del gruppo “SAF Decima”. Un altro reparto femminile SAF combatte anche sulla costa baltica contro i russi, inserito nei battaglioni “Nebbiogeni”» (Roberto Roggero, Oneri e Onori. Le verità militari e politiche della guerra di Liberazione in Italia, Greco & Greco Editori, Milano 2006, p. 555).

Colpisce un articolo, a pag. 3, perché è intitolato difendete la lira!, a firma tos; un brano è decisamente significativo: «Difendere la lira è difendere la fiducia nello Stato, è difendere la produzione nazionale, è difendere e valorizzare il lavoro (…). È auspicabile che presto, abbandonati i sorpassati principii di una moneta-merce fondata sull’oro, si accolga il criterio della stabilizzazione del potere d’acquisto, sulla base del reddito del lavoro. Si parlerà allora di detronizzazione dell’oro e di moneta sociale» (Servizio Ausiliario Femminile Decima, Cose nostre, Comando S.A.F Xa M.A.S., 1 Dicembre, Milano 1944, p. 3).

Il brano rimanda, automaticamente, alla nazionalizzazione della Banca d’Italia, la quale è privata, nell’intento di toglierle il cosiddetto “diritto di signoraggio” statalizzandola.

 

Sulle imprese della Decima Flottiglia MAS si può consultare il sito dell’Associazione:

associazionedecimaflottigliamas.it

 

 

Note

 

1) Nel catalogo dell’ISEC è indicato come «Numero unico» (Marco Borghi, La stampa della RSI 1943-1945, Fondazione ISEC, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano 2006, p. 31).

Scrive Marino Perissinotto: «Nel marzo del 1944 nasceva con tutti i crismi dell’ufficialità il primo reparto militare femminile della storia d’Italia: il Servizio Ausiliario Femminile della Decima Flottiglia MAS, precedendo di pochi giorni la costituzione dell’analoga struttura organizzata dal Partito Fascista Repubblicano. Elitario ed autonomo, il SAF X^ formò con quattro corsi un numero limitato di volontarie. Donne in grigioverde, e donne marinaio, dunque. A costituirlo materialmente, ed a dirigerlo, fu Fede Arnaud, una giovane donna volitiva; ed il suo era un progetto, forse definito solo per linee di massima, che andava oltre alla guerra in corso, oltre al semplice vestire l’uniforme. Per dirla con parole dei nostri giorni, un “progetto donna”. A questo punto, non sorprenderà il lettore scoprire che le allieve della Scuola SAF si formavano attraverso assemblee aperte, che vi s’insegnava a svolgere qualsiasi mansione con pari dignità ed impegno, che si rifiutavano galloni ed onori. Più notevole il fatto che ad inventare questo Servizio Ausiliario furono donne giovanissime, poco più che ventenni; con risultati stimati ottimi anche dal fraterno rivale Servizio del Partito» (Marino Perissinotto, Il servizio ausiliario femminile della Decima Flottiglia MAS 1944-1945, Ermanno Albertelli Editore, Parma 2003, p. 9). Inoltre: «Negli ultimi giorni di guerra le Volontarie aggregate ai reparti del 1° Gruppo di Combattimento, in retroguardia durante la ritirata dal fronte del Senio, condivisero i rischi e le privazioni dei commilitoni maschi, ed anche la sorte di prigioniere delle forze armate alleate, che riconobbero loro lo status di militari» (Ibidem, p. 40).

 

 

N.B.: I bolli a corredo provengono da: Archivio di Stato di Milano; Tribunale Militare per la Marina in Milano (Repubblica Sociale Italiana), Procedimenti archiviati. Autorizzazione alla pubblicazione. Registro: AS-MI. Numero di protocollo: 2976/28.13.11/1. Data protocollazione: 29/05/2018. Segnatura: MiBACT|AS-MI|29/05/2018|0002976-P.

 

 

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Dal sangue sbagliato – Michela Zanarella ©

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Voglio vedere le vene

resuscitare dal sangue sbagliato

sporcato dal nero di una vita terrena

che mi ha fatto scivolare

sui vetri delle cose

fino a piegare la pelle ai fantasmi

nella solitudine di un tempo

che mi ha rubato la luce

obbligandomi a contare

le costole al silenzio.

Voglio vedere se giunte le mani

e imparando ad amare il dolore

riesco a invertire i rami dell’anima

e a vedermi terra

che raccomanda al sole di non mancare

 

Michela Zanarella ©

L'articolo Dal sangue sbagliato – Michela Zanarella © proviene da EreticaMente.

“Stalin per mille anni” a cura di Angelo Spaziano

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Nacque il 21 dicembre 1879, solstizio d’inverno, a Gori, un desolato villaggio della caucasica Georgia, e subito le sue origini sfumarono nel mito. Al proposito si sono evocate persino lontane similitudini con antichi personaggi legati alle guerre giudaiche condotte contro Roma sotto Adriano. Oppure con leggendari ribelli in lotta coi cosacchi del Don. Chi lo dice figlio di un prelato, chi di un esploratore, chi invece mormora sia frutto di una “liaison dangereuse” della madre, Ekaterina Geladze, con un conte. Insomma, In quel giorno si festeggia il sole che, terminata la parabola discendente, comincia di nuovo il lento viaggio di risalita sulla linea dell’orizzonte e a volte il destino può anche essere, se non determinato, di certo influenzato da questi, chiamiamoli così…"fausti” presagi. Fatto è che “da grande” l’uomo di Gori sarebbe stato osannato come il “Sole dei popoli”.  Insomma, anche la Russia ha avuto il suo “Roi Soleil”. Ma la luce che per un trentennio circa avrebbe illuminato quello smisurato, invivibile pachiderma situato a cavallo del Circolo Polare Artico ebbe le fosche tonalità vermiglie del sangue. Il sangue di milioni di poveracci che, loro malgrado, sarebbero finiti con l’essere stritolati nell’infernale tritacarne della falcemartello. E, Josif Vissarionovich Dzugasvili, soprannominato “Stalin” (“uomo di ferro”), proprio come un’affilatissima spada d’acciaio, insieme ai suoi compagni di lotta, i “bolscevichi”, avrebbe reciso senza pietà, con un taglio netto, il collo alla millenaria Russia zarista, completando l’opera iniziata nel lontano 1917 dal suo predecessore, Vladimir Ilic Ulianov, detto “Lenin”. E pensare che Josif Vissarionovich da ragazzo prometteva bene. Infatti amava molto leggere, e a scuola divenne subito il primo della classe. Il suo talento gli spalancò presto le porte del seminario di Tbilisi, dove studiò in un convitto superando difficoltà di ogni genere. Tanto per cominciare, lui, georgiano doc, dovette obtorto collo imparare a leggere e parlare correntemente in russo. L’ambiente poi…i ragazzi erano malnutriti e maltrattati, ammassati in trenta per volta negli angusti, sporchi dormitori, continuamente sorvegliati in un’atmosfera cupa, spiati da monaci-aguzzini pronti a frugare nelle loro tasche e a denunciare anche la minima infrazione. Ma lui non fece una grinza e il suo impegno risultò tale da essere mandato in premio a Roma a studiare dai gesuiti. Approdò pure ad Ancona, dove trovò lavoro come portiere di notte nell’albergo “Roma e Pace”. Poi fece tappa a Venezia intenzionato a fare il campanaro. Tornato in patria, cantò persino nel coro della chiesa.

Ma qualcosa nella sua vita deve essere andato storto (o dritto, a seconda dei punti di vista…), tanto da indurlo a intraprendere la carriera politica. Un’attività che a quell'epoca in Russia era sinonimo di sovversione e clandestinità. Cosa che lo portò anche a percorrere i sentieri del banditismo. E fu così che in quelle famose dieci giornate che nell'ottobre 1917 scossero un mondo già di per sé sconvolto dalla Grande Guerra, un gruppo di sognatori assai determinati, guidati dall’ideologo Lenin, strapparono la Russia dal suo secolare sonno di torpore e arretratezza proiettandola bruscamente nei turbine del “secolo breve”. Un secolo breve ma feroce come solo la storia sa esserlo quando ci si mette. Morto Lenin, nel fatidico 1939, il “Sole dei popoli”, ritenuto da molti anche la reincarnazione di Aleksandr Nevskij e Dimitri Donskoij, si strinse in un promettente abbraccio con l’“altro Sole”, lo “Schwarzesonne”, il “Sole Nero” della croce uncinata. Un’alleanza mirata a fronteggiare le armate delle plutocrazie usuraie internazionali, avide di risorse, di commerci e guadagni a discapito dell’umanità.

A simboleggiare l’autentico significato di quella provvidenziale alleanza fu la breve frase pronunciata dal dittatore georgiano il 29 novembre 1939, appena giunta l’eco delle prime raffiche di mitra del secondo conflitto mondiale: <Non è stata la Germania ad attaccare la Francia e l’Inghilterra. Sono state l’Inghilterra e la Francia ad attaccare la Germania>. Poteva essere l’alba di una nuova era per il genere umano. L’annuncio di un radioso futuro per i popoli della terra. La promessa di tempi di splendore e di grandezza per la nostra Europa e per il mondo tutto. Un mondo finalmente libero dal tarlo dell’usura e dello sfruttamento. Si sa come andò a finire. Il risveglio fu brusco e traumatico. Il Sole Nero tradì, si lanciò improvvidamente all’attacco del Sole Rosso, determinando l’autoannientamento. Per l’URSS fu la “Sveshennaya Vojna” (“guerra santa”). Per la Germania fu un tragico errore e per l’Europa intera l’inizio della fine. Una fine segnata dal vittorioso sferragliare dei cingoli dell’eresia materialista sulle fumanti rovine della Cancelleria dei Reich.

Vincenzo Cialini, nel suo pregevole “Stalin per mille anni”, fa il verso al Degrelle di “Hitler per mille anni”. Egli nel suo agile e sintetico ciclostilato prefato da Mario Michele Merlino ha tracciato una versione alquanto insolita del feroce boss dell’Unione Sovietica. Una versione, diciamo così, inaspettatamente umana e contrassegnata da sorprendenti empiti religiosi e devozionali frutto di uno smisurato amore per la sua Grande Madre Russia. Un amore che, con Mosca assediata e in procinto di cadere preda delle armate naziste, indusse lui, feroce sterminapreti, a chiedere l’intercessione della madonna di Kazan, mandando un aereo con la sua venerabile immagine a sorvolare la città in pericolo. Nel suo ritratto però, seppur lodevole e pieno di inedite e preziose informazioni, Cialini sorvola sulle stragi indiscriminate dei kulaki, sulle deportazioni di interi popoli, sui Gulag del Magadan e della Kolyma, sull’inumano esperimento di Nazino, sulla feroce soppressione del movimento anarchico della Machnovscina, sull’Holodomor ucraino e sulla grande carestia degli anni Trenta. Ne viene fuori il cammeo di un uomo che, pur tra i tanti errori e le efferatezze commesse ma taciute nel libro in esame, per arrivare a fare qualcosa di buono ha dovuto lottare con le unghie e con i denti. In primo luogo contro il più acerrimo nemico della Russia, che a quanto è dato capire dall’opera di Cialini non erano gli zar, bensì l’ebraismo internazionale e la finanza mondiale ad esso asservita. Poiché se è vero che la pistola fumante che ha inferto il colpo mortale all’Impero zarista era in mano a Lenin, ebreo da parte di madre, ed ai suoi bolscevichi, il complotto che ha preparato l’evento era stato finanziato dai banchieri israeliti Kuhn Loeb & Co, da Jacob Schiff, da Max Breitung, e Guggenheim. La base organizzativa del colpo di stato invece fu fornita da un altro “genio del male”, un avanzo da galera e giudeo pure lui, rispondente al nome di Levi Davidovich Bronstein, “russizzato” in Trozkij.

Menscevico nel primo atto della rivoluzione, Trozkij, col classico salto della quaglia, passò disinvoltamente tra le fila dei bolscevichi e da quel momento in poi per la Russia millenaria non ci fu scampo. Ma - perfida eterogenesi dei fini! - non ci fu più scampo neppure per Trozkij (colpito a martellate dal suo giardiniere a Città del Messico) né per i sanguinari “gerarchi” rossi che avevano danzato sui poveri resti martoriati di Ekaterinburg. I più noti li conosciamo: Kamenev (Rosenfeld), Zinoviev (Apfelbaum), Martov (Zederbaum ), Dan (Gurevich), Axelrod (Orthodox). Anch’essi, caso strano, tutti ebrei, e tutti, poco per volta, fatti fuori da quel gran figlio di buona donna che Cialini nel suo lavoro ci fa diventare quasi simpatico. Il primo ad essere asfaltato fu Trozkij, che, manco a dirlo, “allergico” ad ogni idea di Patria e di Nazione, intendeva diffondere la rivoluzione bolscevica nel mondo intero, teorizzando una sorta di “pancomunismo” work in progress.

Una cosa assolutamente inconcepibile per un rude caucasico, recalcitrante all’idea di annacquare la purezza rivoluzionaria con poco graditi “esotismi” occidentaleggianti ed incline piuttosto verso una sorta di “panslavismo” genuinamente russo. Cosa che al coriaceo georgiano riuscì in pieno. Tanto che da quel giorno in poi gli ebrei sarebbero stati banditi da Mosca e relegati in un’apposita area riservata esclusivamente a loro. Era nata la Repubblica degli Ebrei, con capitale Birobidzan. Una piatta porzione di taiga relegata a un tiro di schioppo da Vladivostok. Più o meno una succursale della Siberia. Naturalmente il sionismo se la legò al dito e in quel giorno fatale del 5 marzo 1953, l’uomo di Gori, vittima di un ictus, fu lasciato per ore agonizzante sul pavimento del suo studio, assassinato, si ipotizza, da un’eccessiva dose di Warfarin, potente farmaco anticoagulante. Erano gli effetti della celebre “congiura dei medici”. Ebrei pure loro naturalmente…

Il resto è anch’esso storia, ormai. Il nuovo boss del Cremlino, Krusciov, per rendersi presentabile, denunciò il tiranno georgiano davanti all’opinione pubblica mondiale addossandogli tutte le atrocità possibili e immaginabili. Tuttavia l’Unione Sovietica, ormai assurta al ruolo di potenza atomica ma preda dei Piani Quinquennali e della miseria generalizzata, non divenne certo il paradiso in terra. Anzi. La patria di Nicola e Alessandra si chiuse ulteriormente a bozzolo su se stessa alzando, tra lei e il mondo, muri e campi minati, creandosi - altro paradosso della storia - un “Contro-Lebensraum” verso il suo versante ovest. Ne fecero le spese per primi gli ungheresi nel 1956 e poi i berlinesi nel 1961 e Praga nel 1968. Il tiranno era morto ma il sole non sorgeva più ad est.

Angelo Spaziano

 

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Una russa a Montparnasse: biografia intellettuale di Maria De Naglowska – 2^ parte – Francesco Innella

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Capitolo II

Maria De Naglowska adepta della setta dei Khilysti?

Controversa è l’ipotesi se Maria De Naglowska abbia potuto conoscere Rasputin ed essere entrata nella setta dei Khlysty. Prove evidenti di questo contatto non sono emerse nelle sue diverse biografie. Allo stesso modo, l’esoterista avrebbe potuto incontrare, un altro personaggio che si aggirava in Russia, prima della rivoluzione d’Ottobre: Gurdjieff,. Una cosa è certa che quando la Nostra era una giovane aristocratica, legata agli ambienti più libertari della sua città, contemporaneamente, il “ monaco pazzo”frequentava, dal 1905, i salotti bene di Pietroburgo e forse allora che ci fu la loro conoscenza? Nel libro di Robert K. Massie dal titolo:” Nicola ed Alessandro”, c’è una accurata descrizione dell’ingresso di Rasputin nei salotti pietroburghesi.“Gregorio Rasputin aveva poco più di trent’anni quando nel 1905, comparve per la prima volta nei salotti eleganti di Pietroburgo. Muscoloso e largo di spalle, portava camiciotti da contadino ed ampi calzoni infilati in grossi stivali. Aveva le mani sporche, la barba arruffata. I lunghi capelli unti gli pendevano sulle spalle, in ciocche sottili. Emanava un odore forte ed acre. Ma per i suoi fedeli, nulla di tutto questo aveva importanza. Le donne che lo trovavano disgustoso scoprirono poi che il rozzo e puzzolente contadino costituiva un affascinante diversivo, rispetto ai nobili ed agli ufficiali impomatati. Altri sostenevano che il suo aspetto rude era un segno di spiritualità: egli era un uomo di Dio. Gli occhi erano la caratteristica più straordinaria di Rasputin: di un pallido grigio azzurro, avevano una straordinaria lucentezza,erano penetranti e carezzevoli insieme, remoti ed ardenti. Il principe Felice Jusopov, che più tardi avrebbe assassinato Rasputin, era andato da lui, dichiarando con disinvoltura di essere ammalato per conoscere meglio i suoi metodi di guaritore.”“ Lo starec ( uomo di Dio ) mi fece coricare su un divano, fissandomi con intensità, mi fece scorrere con delicatezza una mano sul petto, sul collo e sulla testa; dopo si mise in ginocchio, e mi posò le mani sulla fronte, mormorando una preghiera. Il suo viso era così vicino al mio, che riuscivo a vederne soltanto gli occhi. Aveva uno straordinario potere ipnotico. Ebbi la sensazione di una specie di forza attiva, che emanasse calore, come una corrente calda in tutto il mio essere. Il mio corpo divenne insensibile; non potevo più parlare. Vedevo soltanto gli occhi scintillanti di Rasputin: due raggi di luce fosforescente, fusi in un gran cerchio luminoso. Capii che stavo cadendo in balia di quel l’uomo malvagio; e sentii agitarsi in me la volontà di resistere alla sua forza ipnotica. Ma non riuscii a muovermi finché egli non mi ordinò di alzarmi.” E sempre nel 1905 ci fu l’ingresso di Rasputni alla corte dello Zar, che avvenne per mezzo della granduchessa Milita. E da allora in poi ciò che avvenne è ormai noto ai lettori e alle gentili lettrici, da non dover essere ripetuto in questo saggio.

Rasputin arrivato alla maggiore età, intraprese l’attività del padre ed all’età di 33 anni, incontrò un seminarista del monastero di Verkhorture che lo introdusse alla setta dei Khlysty. Egli ne rimase stregato, fu attratto dalla combinazione tra misticismo e sessualità e propagandò la dottrina della setta a Pietroburgo , nel 1905. Certamente la Naglowska avrebbe potuto essere in contatto con la setta, forse ha potuto assistere ai suoi riti, ma nessun riferimento è riportato nei suoi scritti , ne tanto meno nei fantasiosi rituali che lei elaborò nella Parigi degli anni 30. Per cui l’ipotesi di coinvolgimento con la setta gnostica è del tutto arbitraria. Il settarismo in Russia si sviluppò insieme al persistente paganesimo che aveva radici molto antiche e radicate. La scrittrice Edvige Toepliz Mrozowska (1), lo descrisse nel suo testo: ”Sine Ira- Nel paese dell’ URSS così descrive il fenomeno: “Si deve tuttavia aggiungere che il fenomeno del settarismo si ricollega a quello del persistente paganesimo russo. Infatti pochissime sette russe sono ispirate da principi religiosi o filosofici o morali elevati. I settari nella maggior parte dei casi, si staccano dalla ortodossia per pratiche superstiziose e spesso mostruose. Alle sette russe non hanno aderito mai uomini di classi colte, se si eccettuano i visionari e i degenerati. La setta toltstoiana era la sola che, illuminata da una grande luce e da aspirazioni morali, fosse rimasta immune da brutture rituali, attirando nella sua orbita elementi intellettuali.

Gli aderenti detti “Tolstojovcy” osservavano scrupolosamente il primo comandamento imposto dal “ Vecchio” della pianura sarmata: la castità obbligatoria fino al momento del matrimonio. Nell’epoca rivoluzionaria un certo Schmidt tentò di creare una nuova setta, la setta dei “ Flagellatori” che si reclutavano prevalentemente fra artisti e studenti, bramosi più di sensazioni perverse ( lo Schmidt si fingeva donna e si travestiva con abiti femminili ) che nono di conforto religioso. Un breve processo intentato contro i membri di questa setta finì con la donna dello Schmidt alla fucilazione e dei suoi complici a ventenni di reclusione” Khlysty era una setta gnostica, fondata nel XVII secolo da un contadino di Kastroma. Loro ritenevano che il peccato era l’unica via per la salvezza: solo dopo il peccato ed accettandone passivamente i desideri, l’uomo poteva essere sinceramente pentito e poteva ambire di risalire il cielo .Inoltre il sesso doveva essere praticato fuori dal matrimonio – un vincolo considerato un’offesa allo Spirito Santo – e senza generare figli ( c’erano cerimonie per abortire all’occorrenza ). Gli adepti della setta erano all’interno di quella che era la credenza gnostica dualista, che aveva lo scopo di liberare l’uomo dai vincoli della materia, ritenuta una prigione dell’anima che anelava a risalire a Dio.

Lo scrittore Ossendowsky riportò una descrizione del rito di Khlysti (2):
“Una volta cacciando nel governatorato di Novgrod, nelle foreste presso la stazione di Lubar, abitavo nel piccolo villaggio di Marjino. Non lontano da questo c’era il possedimento dei principi Golitzir i più grandi aristocratici della Russia, discendenti dei Rurik. Una sera il padrone della capanna da me abitata, un certo Basilio Antonin, mi sussurrò misteriosamente all’orecchio: - Non vorrebbe assistere al radienje funzione divina dei Khlyst ? - Sapevo che i Khlyst erano dei settari e che i loro radienje, o misteri religiosi, si distinguevano per una barba ria straordinaria. Mosso dalla curiosità accettai dunque senz’altro. Erano già le nove di sera e cadeva una scura notte autunnale. Usciti di casa, ci siamo diretti verso il possedimento principesco. Il mio padrone mi introdusse in un dei grandi fabbricati che circondavano il cortile. In un grande salone, illuminato soltanto da sette grosse candele di cera accesi nei diversi suoi angoli, regnava la penombra. Faceva caldo e si soffocava, perché vi si accalcavano non meno di ottanta persone, uomini e donne, maturi o ancora completamente giovani. In fondo al salone c’era una tavola, coperta da una tovaglia bianca. Ho osservato un’immagine santa completamente annerita dal tempo, una grande pila d’acqua santa ed un grosso librone rilegato in legno. Sulla tavola non era accesa che una sola candela. Presso la tavola, che fungeva evidentemente da altare, stava un forte contadino dai lunghi capelli neri, cinti sulla fronte da una stretta cinghia e dalla barba curata diligentemente. Quando la folla si mise in ordine e tacquero gli echi dei passi e dei sussurri, il forte contadino, dopo aver letto nel grosso libro qualche testo in slavo antico, cominciò a fare sulla fronte e sul petto i segni della croce, inginocchiandosi e inchinandosi ogni volta fino a terra. Osservavo che i suoi movimenti diventavano sempre più impetuosi e rapidi, e che gli occhi dei presenti si fissavano con tensione, come ossessi su questo “ sacerdote”: Finalmente questi, messosi dritto in piedi e gridando “Pregate e fate delle offerte “ Afferrò da un mucchio di bastoni trovatisi nell’angolo della sala, una lunga verga – in russo kylyst e da qui il nome della setta e cominciò a flagellarsi il dorso e la testa. Quando la verga tagliò, fischiando, alcune volte l’aria, mi ricordai i misteri sanguinosi dei dervisci che avevo visto in Turchia e in Crimea. Il sacerdote getto in tanto via il camiciotto e la camicia , denudandosi fino alla cintola. La flagellazione colla verga si intensificò, diventando sempre più rapida e forte. Tutto il suo dorso era incrociato da righe rosse,quando, quando ne sprizzò fuori il sangue, colando giù in un tenuissimo rigagnolo. Ed allora tutta la folla, il mio padrone compreso, si gettarono sulle verghe .Si fecero sentire i fischi dei forti ed elastici bastoni, il pesante respiro dei convenuti, i gemiti. I presenti cominciarono a gettare via da sé i vestiti per portare la loro mortificazione all’apice. Il sacerdote invece,battendosi sempre colla verga, cominciò a girare attorno a sé sopra un piede ed a saltare. Alcuni dei presenti si misero ad imitarlo,qualche minuto più tardi tutta la folla si trovò in un movimento pazzesco, battendosi a vicenda con dei bastoni, balbettando e gridando qualche cosa con dei gemiti angosciosi. Alcuni caddero presto, cadde anche il sacerdote, altri invece saltavano ancora calpestando con i loro piedi i giacenti. L’aria era satura del vapore delle esalazioni dei corpi stanchi e sudati, dell’odore di scarpe e biancheria sporca. Qualcuno cominciò a spegnere i lumi, e quando non restò che quello sopra l’altare non riuscivo a scorgere che un mucchio di corpi umani,maschi e femmine uno sopra l’altro, spossati, sanguinanti, mezzi morti.”

Note:

1 - Edvige Toeplitz Morowska. Sine Ira. Mondatori, Milano, pag 59-61;

2 - Ossendowski ‹ossendòfsk'i›, Ferdynand Antoni. - Scrittore polacco (Witebsk1878 - Żółwin 1945). Dalle sue esperienze di viaggio in Siberia e nell'Estremo Oriente trasse argomento per numerose opere didattico-narrative (Przez kraj ludzi zwierząt i bogów "Attraverso il paese degli uomini, delle bestie e degli dei", 1923;Od szczytu do otchłani "Dalla vetta all'abisso", 1925; Pod smaganiem Samumu"Sotto le sferzate del Samum", 1926; ecc.), che gli procurarono grande successo di pubblico. Anche il libro Lenin (1930) fu tradotto in molte lingue.

 

Francesco Innella

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Il mito di Narciso, paradigma dell’era post-moderna – Federica Francesconi

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Se c’è un mito che rappresenta bene la deriva autarchica dell’età post-moderna, questo è quello di Narciso, l’eterno giovane che vive della sua sola immagine riflessa, senza curarsi di ciò che gli sta attorno. Ogni aspetto dell’attuale vita politica, sociale e culturale ha un qualcosa che richiama il narcisismo patologico, dallo scollamento di gran parte della classe dei governanti dai reali bisogni della gente, spregiativamente chiamato il popolino fannullone, alla una figura ambigua dell’intellettuale contemporaneo, che oggi, anziché denunciare le contraddizioni del post-moderno, se ne fa promotore e strenuo difensore. Se nell’antichità era Prometeo l’eroe ribelle che rubava il fuoco agli dèi per donarlo, in un estremo gesto di sacrificio, all’umanità facendola così balzare in avanti verso la civiltà vera e propria, oggi, in assenza di eroi generosi, l’unica figura in cui potrebbero identificarsi istituzioni nazionali e sovrannazionali, comunità, gruppi e singoli individui, è quella di Narciso, che non combatte contro gli dèi, contro la falsa morale o contro il fanatismo religioso, ma vive di passività, di autocompiacimento e di subordinazione a una visione che rispecchia la sua falsa perfezione. Il Narciso post-moderno è incapace di pensare.

Egli si accontenta di spiegazioni posticce, di specchi artificiosi costruiti ad hoc per narcotizzare la sua coscienza e renderlo apatico rispetto ai problemi del presente; è altresì incapace di ribellarsi, impegnato com’è a contemplare una falsa immagine della realtà, presentata dai costruttori di specchi come quella migliore possibile; infine è incapace di nutrire passioni forti e sincere, slanci ideali, poiché gli è stato inculcato dai costrutti di specchi orwelliani che scopo dell’essere umano è solo quello godere del presente. Narciso è il politico ammanicato con il potere deviato, teso a contemplare la propria immagine di forgiatore di destini altrui, nell’illusoria convinzione che lui sa qual è il bene e qual è il male, senza però ricorrere a un briciolo di etica che possa orientare le sue discutibili scelte. I sostenitori del paradigma neoliberista rientrano sicuramente nella descrizione di sopra. Essi sono devoti servitori dell’economia finanziaria, che tiene in ostaggio popoli, nazioni e interi continenti, economia che ha fatto della crescita infinita e del consumismo indotto i dogmi intoccabili della sua religione idolatrica, nella pretesa antiscientifica e insieme antiumanistica che il mercato è capace di autoregolarsi. In questa prospettiva fuorviante l’etica è concepita come una pregiudiziale da cestinare. E la politica, che fine ha fatto in questo scenario desolante? Essa è ormai scomparsa, condizionata e soggiogata com’è dai poteri economici. La politica è stata fagocitata da un sistema finanziario che non tollera l’esistenza di zone franche, di campi neutrali dove il mercato rischia di essere contrapposto all’etica. Ed è per questo motivo che i diritti sociali, un tempo garantiti e per di più considerati un vanto per le socialdemocrazie, sono sempre più declassati a oneri, a spesa passiva che ricade sulle spalle di uno stato che non vuole mettere in discussione i principi ingiusti su cui si fonda la distribuzione della ricchezza. Ecco quindi che lo Stato sociale diventa assistenzialismo, e che i fruitori dei diritti sociali passano per parassiti. Lo Stato non è più concepito dalle èlite al potere come il garante dei diritti sociali ma come un ente di beneficienza e, come tale, può anche rifiutarsi di assistere le fasce deboli della cittadinanza. Si tratta di un capolavoro, di un canone inverso di cui gli autori sono i tecnocrati, longa manus negli apparati statali della finanza disumana. Parole d’ordine come pareggio di bilancio, eccedenza passiva, circolo virtuoso dell’economia di mercato, sono diventati dei mantra da sciorinare ogni volta che un prometeo sopravvissuto all’azione livellatrice del Pensiero unico ne mette a nudo l’inconsistenza e la disumanità.

Occorre affermare la superiorità del mercato in ogni interstizio dell’esistente in cui può nascondersi un granello di eticità e di umanità. Una volta neutralizzata la politica, il secondo obiettivo che negli ultimi 50 anni il narcisismo finanziario ha perseguito è il soggiogamento della classe degli intellettuali in cambio di privilegi e visibilità. Oggi la maggior parte degli intellettuali, salvo qualche eccezione eccellente, è vincolata al sistema finanziario e a quello politico subordinato al primo, da un rapporto di do ut des, un doppio legame, questo, che ha comportato il superamento del ruolo dell’intellettuale come denunciatore delle storture e degli scompensi prodotti dal sistema. L’intellettuale post-moderno è generalmente una macchietta di se stesso, un Narciso ante litteram, che non vuole e non sa più farsi portavoce di visioni altre rispetto a quelle sistemiche. Anzi, è lui stesso il protagonista principale del processo di omologazione in atto che aspira a ridurre l’umanità a una massa informe ed acritica, con la connivenza di una classe politica del tutto succube ai predoni finanziari. Il narcisi della cultura non hanno protestato nemmeno quando in una quindicina d’anni, in seguito allo sgretolamento del pubblico a tutto vantaggio del privato, gli apprendisti stregoni della finanza hanno trasformato le arti liberali in beni da vendere al miglior offerente, sancendo così la fine dell’indipendenza della cultura da poteri terzi. E così le università, da luoghi del sapere e della formazione di teste pensanti, sono scadute a livello di agenzie per il mercato del lavoro, laboratori sperimentali di inoculazione dei germi patogeni del Pensiero unico. D’altra parte, legando indissolubilmente il ruolo dell’intellettuale alla (sub)cultura dello spettacolo, si è creata una nuova categoria di narcisi, il cui reale valore o estro artistico dipende dagli indici di ascolto. Il consenso creato ad arte per condizionare milioni di spettatori è forse l’arma più micidiale che i poteri forti hanno forgiato. In questo fenomeno, inutile nasconderlo, gli intellettuali organici al sistema giocano un ruolo decisivo.

Politici e intellettuali sono oggi delle variabili dipendenti dell’economia, che aspira a tecnicizzare funzioni che, seppure screditate dalla corruzione, mantenevano un minimo di indipendenza e di umanità. I narcisi patologici che non cercano la verità, che non sanno amare, incapaci di avere un rigurgito etico, sono le pedine perfette di chi vuole cancellare le vere dimensioni dell’Essere, che non sono certo l’economia finanziaria e la tecnica asservita al mercato, prodotti avariati di un’umanità che ha perso la sua Stella Polare. Che fare dunque? A parere di chi scrive occorre innanzitutto recuperare la neutralità della politica e della cultura, ambiti della vita civile ormai quasi interamente inghiottiti dalle logiche della finanza. Ciò significa che lo Stato deve recuperare il suo ruolo di mediatore tra il pubblico e il privato, allo scopo di correggere gli eccessi di una dimensione, quella dell’economia, che non è più al servizio delle persone ma narcisisticamente solo di se stessa. Per fare ciò occorre sostituire la logica utilitaristica con la logica dell’umanesimo (non certo quello sbandierato da una certa sinistra ipocrita). Alla domanda “è utile?” o “è vantaggioso?” occorre dare precedenza al principio della dignità. Se un provvedimento, una legge, un prodotto culturale non è dignitoso per le persone, non ci sono appigli di sorta che possano giustificarlo. La perdita del senso della giustizia sociale non è affatto irreversibile, come qualche cattivo samaritano vuol far credere. Certo, fin quando politici ed intellettuali seguiranno come automi il canto delle sirene finanziarie, non potrà esserci alcun cambiamento di paradigma. Per questo motivo una condizione essenziale per il recupero dell’indipendenza della politica dalla finanza è la messa in discussione dei postulati su cui si fonda il paradigma neoliberista. Per far inceppare il sistema non bastano critiche blande o l’idea semplicistica che il neoliberismo, purificato dai suoi eccessi, possa essere compatibile con la dignità della persona, poiché esso è stato creato proprio al fine di calpestare le dignità. Mezzo secolo di fallimenti economicistici non hanno insegnato nulla? Le democrazie occidentali, o quel che rimane di esse, continuano imperterrite a scandire lo slogan del paradigma neoliberista nella sua versione moderata. Tuttavia, per usare una metafora, il vino, anche quando è annacquato, sempre vino rimane. Il veleno è veleno, anche se iniettato a piccole dosi non mortali. Il paradigma neoliberista ha fatto dell’intoccabilità del libero mercato una vera e propria idolatria e, come in tutti i culti idolatrici che si rispettino, ha allevato una genia di sacerdoti, politici ed intellettuali, a cui ha affidato il compito di convincere le persone ad assoggettarglisi. Come uscire dall’impasse idolatrico? Il punto di partenza è sempre lo strappo del velo di apocalittica memoria: strappare il velo significa rendere manifesto ciò che è ancora occultato. Nel caso del neoliberismo bisogna rendere manifesta la sua incompatibilità con la dignità dell’essere umano. Per tale motivo l’intellettuale in questo periodo di crisi può svolgere una funzione preziosissima, quella cioè di smascherare la bontà di un sistema che sta causando più morti della I e della II Guerra mondiale messe insieme. In quest’ottica rivelatrice non c’è posto per narcisi patologici: ogni intellettuale che si rispetti, a parere di chi scrive, non può non essere contro il sistema disumano. Se, invece, come oggi accade spesso, l’intellettuale è ricoperto di onori dal sistema che dovrebbe combattere, non è più tale ma un fenomeno da circo.

E allora, una volta riappropriatosi della sua funzione naturale, l’intellettuale può diventare un novello Prometeo, che non ha esitato a disubbidire agli dèi pur di migliorare la condizione dell’umanità, preda del freddo e delle belve feroci. Essere dei prometei del XXI secolo significa non avere paura della punizione che gli dèi tecnocrati potrebbero infliggere per aver messo in discussione il paradigma neoliberista. Sopportare le ripercussioni negative che implica attaccare il sistema ingiusto è per uomini eroici, non certo per ominicchi da avanspettacolo. Con il furto del fuoco agli dèi tecnocrati, che hanno potere di vita e di morte su miliardi di persone, l’intellettuale prometeico può riconsegnare la loro vita a se stessi e renderla così autonoma dall’arbitrio dei potenti. Certo, questo è un gesto eroico che chiama in causa doti quali il coraggio, l’abnegazione e

[caption id="attachment_29410" align="alignright" width="200"] Federica Francesconi[/caption]

l’amore per la verità. Tuttavia, è proprio il rischio che fa di noi degli esseri semidivini. Chi non rischia non vive, è chi non rischia non andrà mai oltre le nebbie dell’Avalon tecnocratica spacciata per Eden terreno, né tantomeno potrà tirare fuori altri dalla coltre dell’ideologia pervasiva del neoliberismo. Ma attenzione: vivere, rischiare, significa esistere, come diceva Heidegger. Esistere è essere gettati o gettarsi nella vita? Certamente non è essere gettati passivamente nel mare del caos, tra i flutti di onde che non possiamo governare. Gettarsi è tutt’altra cosa: è riappropriarsi del logos, della propria capacità di pensare il presente, e quindi di muovere delle critiche per cambiarlo. Oggi a dominare sul logos è polemos, sotto forma di guerra civile, di guerre umanitarie, di attacco alle identica nazionali, di esibizionismo umanitario di piazza, di contrapposizione fasulle tra categorie, di criminalizzazione di chi non si sottomette al Pensiero unico, e di tutto ciò che lede il diritto delle persone e dei popoli a sopravvivere. E’ la parola, quella vera, liberata da vincoli di potere, la sola in grado di spezzare le catene che schiavizzano miliardi di esseri umani a ideologie distruttive che non li rappresentano. La scoperta del logos nella seconda metà del I millennio a.C. è stato l’atto fondatore dell’Occidente, il momento in cui esso ha avuto coscienza di se stesso. Per liberare l’Occidente dalle sue aporie, di cui la dittatura finanziaria è probabilmente la più macroscopica, l’unica via perseguibile è ritornare al Logos, alla parola potentemente critica, sovversiva e rigenerante. Il logos è al tempo stesso pensiero e parola, cioè vibrazione che trasforma il presente. E’ il logos ciò che accomuna tutti gli esseri umani e, per questo motivo, è l’unica facoltà in grado di sconfiggere gli idoli post-moderni.

Federica Francesconi

è un'insegnante, scrittrice e blogger. Si occupa di esoterismo, Tradizione e di filosofia. Indaga le contraddizioni dell'epoca post-moderna con un occhio di riguardo agli aspetti occulti del mondialismo e con un approccio esoterico.

L'articolo Il mito di Narciso, paradigma dell’era post-moderna – Federica Francesconi proviene da EreticaMente.

Neapolis: i miti e le origini – Luigi Angelino

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L' origine di un'antica città, perfino quando ci sono precise testimonianze storiche che ne attestano la fondazione, sono sempre intrise di miti e di leggende affascinanti, che stimolano l'immaginario collettivo e di cui non è possibile stabilirne la veridicità.

Per quanto riguarda i miti che circondano l'origine di Napoli, due fattori hanno giocato un ruolo predominante: la scarsità di reperti archeologici che si riferiscono alla sua fondazione e l'acclamata bellezza dei luoghi. Ciò ha favorito il tramandarsi della leggenda sulla sirena Partenope che, secondo la tradizione, sarebbe sfuggita dalla patria greca ed avrebbe trovato sepoltura nel Golfo di Napoli. Nel XII canto dell'Odissea si narra che Ulisse, nonostante fosse stato avverito dalla maga Circe, volle per forza ascoltare il canto delle sirene, ma prese adeguate precauzioni. Ordinò ai suoi uomini di mettere dei tappi di cera alle orecchie in modo che non ascoltassero, mentre lui si fece legare all'albero della nave, vietando ai suoi uomini di slegarlo, qualsiasi cosa avesse detto. La leggenda narra che le sirene rimasero oltremodo deluse e si suicidarono, in quanto non erano immortali: Leucosia fu cullata dalle onde, fino alla zona a sud di Salerno, dando il nome all'odierna punta Licosa; Ligea trovò la sua ultima dimora nel golfo di Santa Eufemia in Calabria, mentre Partenope fu trasportata dalle correnti marine sugli scogli di Megaride, dove ora si trova il Castel dell'Ovo.

Ma cerchiamo di fare chiarezza su questo passato misterioso di una delle città più famose del mondo. Nell'area napoletana sono state rinvenute molteplici tracce che attestano il culto nei confronti della sirena Partenope, la cui effigie risulta presente su antiche monete d'argento. Gli storici antichi che si sono interessati delle origini della città, tra cui emerge Strabone, pur cercando di conciliare mitologia e realtà, sono concordi sulla derivazione greca della città e precisamente identificano i suoi fondatori come provenienti dall'isola di Rodi. Secondo le teorie più accreditate, alcuni coloni greci verso il IX sec. a.C., giunsero sulle spiagge del litorale e fondarono un porto sull'isolotto di Megaride, sul quale oggi sorge il Castel dell'Ovo, e popolarono un piccolo abitato sull'attuale collina di Pizzofalcone, in collegamento con il porto sottostante mediante impervi sentieri ricavati nella roccia. Successivamente, quando tra il VII e il VI sec. a.C., Cuma estese il proprio dominio su tutto il golfo, la colonia fu completamente modificata, pur partendo dal sito iniziale. A tal proposito gli storici parlano di rifondazione media o rifondazione cumana. Probabilmente la rifondazione avvenne, a seguito dell'instaurazione della Tirannide di Aristodemo, alla fine del VI sec. a.C. e all'espulsione forzata di alcuni oligarchi da Cuma che vollero fondare una città uguale alla madrepatria. Neapolis, pertanto, rappresentò l'unico caso del mondo greco, in cui una città fu fondata nello stesso territorio della madrepatria, appunto la “metropolis” Cuma.

La città si estendeva nella zona che è attuamente compresa tra le attuali chiese di Sant'Aniello a Costantinopoli (Piazza Cavour), dei SS. Apostoli (San Lorenzo) e di Santa Maria Egiziaca (Forcella). In realtà la “nuova città” non inglobò subito il precedente insediamento urbano, ma sorse a circa 2 km di distanza da esso, per motivi di carattere logistico e per favorire le relazioni economiche e commerciali.

Nel contesto geopolitico della Campania preromana, le condizioni morfologiche del luogo, che comprendevano un promontorio circondato dal mare e separato da un pronunciato vallone dal territorio sottostante, rappresentavano un'ottima difesa contro gli attacchi che venivano dal mare e dall'entroterra, soprattutto da parte degli Etruschi, che in quel periodo erano i principali rivali dei coloni greci e che questi ultimi denominavano “Tirrenoi” (da cui deriva appunto l'appellativo di “mar Tirreno”). L' autonomia della colonia cumana fu molto spesso minacciata dalle continue lotte che le varie etnie ingaggiavano per ottenere la supremazia delle coste. Neapolis, comunque, si assicurò un rapporto privilegiato con l'Atene di Pericle, conqustando un ruolo egemone non solo nell'area osco-campana, ma nell'intero bacino internazionale del Mediterraneo. Lo storico Strabone attesta a Napoli una marcata influenza ateniese, riferendo dell'arrivo del celebre ammiraglio Diotimo, che raggiunse la città con la sua considerevole flotta, allo scopo di popolarla di coloni attici, calcidesi di Eubea e pithecusani, potenziandone il corpo civico e militare. Neapolis, inoltre, cementò i rapporti con Elea (l'attuale Ascea, in provincia di Salerno), sede della più importante scuola filosofica del tempo, patria di Parmenide e di Zenone, i primi teorici della metafisica dell' “essere”.

Altre interpretazioni storiche affermano che una svolta decisiva si ebbe quando nel 474 a.C., Gerone, tiranno di Siracusa, sconfisse gli Etruschi, inaugurando un periodo di stabilità e di pace ai coloni greci dell'intera Italia meridionale. Ciò fu la premessa per la fondazione di una nuova città: i coloni abbandonarono il vecchio insediamento sul colle, che non permetteva ulteriori accrescimenti, e fondarono “Napoli” su un altopiano non molto distante dal precedente luogo, corrispondente più o meno alla zona delle attuali cliniche universitarie. Allora questa zona si affacciava su una vasta spiaggia, elemento importantissimo per gli abitanti dell'antica Napoli, la cui attività principale consisteva nel commercio. Il nome “Neapolis” le fu attribuito per distinguerla appunto dalla vecchia “Palepolis”. La “Nuova città” si sviluppò molto di più dell'antico insediamento, anche grazie ai rapporti che i suoi abitanti riuscirono a stabilire con le altre città del Mediterraneo, facendo si che divenisse in breve tempo un fiorente centro di scambi. Le felici condizioni del sito ed un continuo aumento dei suoi abitanti la resero in breve tempo il centro più importante della costa campana, attirando nuovi cittadini anche dall'entroterra.

Successivamente, la bellezza dei luoghi, il clima mite e la facilità dei collegamenti, furono tutti elementi che attirarono l'interesse dei Romani, che, non a caso, denominarono l'area geografica “Campania felix”. Nel corso della seconda guerra sannitica, nella seconda metà del IV sec. a.C., Napoli strinse alleanza con i Sanniti e i Tarantini contro Roma, che aveva però già conquistato Capua. Nel 326 a.C., la città fu assediata dall'esercito romano guidato dal console Publilio Filone, e i Neapolitani si arresero dopo un lungo assedio, ma anche grazie ad uno stratagemma, che permise ai cittadini di etnia greca, più propensi ad un accordo con i Romani, di allontanare preventivamente gli alleati Sanniti, più ostili all'invasore. Roma lasciò alla Napoli conquistata un ampio margine di autonomie, consentendole di conservare costumi e lingua di origine greca, stringendo il cosiddetto “foedus Neapolitanum”. Quando nel 211 a.C., l'importante città di Capua fu punita dai Romani, per la sua alleanza con Annibale di Cartagine, il ruolo di egemonia di Napoli nell'area campana si consolidò ancora di più. Verso la metà del I sec. a.C., a Napoli cominciarono a formarsi notevoli corporazioni ed importanti scuole culturali, come quella del filosofo epicureo Sirone, dove studiarono anche Virgilio ed Orazio. Quando nel 49 a.C. scoppiò il sanguinoso conflitto tra Cesare e Pompeo, la città si schierò dalla parte del perdente e ne ebbe ripercussioni negative. Ma la nemesi storica fece si che, proprio da Neapolis, partisse la congiura per uccidere Cesare (vi sono testimonianze storiche che attestano che Cassio sia partito dal litorale napoletano, per compiere il famosissimo omicidio).

Nei primi due secoli dell'impero, i Romani vi fondarono le proprie residenze estive, che erano denominate “villae otii”: personaggi come Pollio Felice, Vedio Pollione e lo stesso Virgilio vi costruirono ville sontuose, contribuendo alla trasformazione degli usi e dei costumi degli abitanti di Neapolis. A Virgilio si deve l'attribuzione dell'appellativo “Pauseleipon” (dal greco, luogo che dà tregua al dolore) alla zona nord del golfo di Napoli, dove attualmente sorge appunto il quartiere di Posillipo, uno dei più panoramici e pittoreschi della metropoli. In epoca romana, quindi, la città assunse una dimensione considerevole, divenendo un importante centro culturale ed intellettuale, nonché luogo di residenza per aristocratici, a differenza della vocazione commerciale che aveva caratterizzato il precedente periodo greco. Napoli, in qualità di città “più greca dell'occidente”, fu scelta dall'imperatore Cesare Ottaviano Augusto, come “custode della cultura ellenica”, designandola come sede dei giochi isolimpici, sul modello dell'Olimpia greca. In tale contesto, la cancelleria imperiale favorì importanti ristrutturazioni ed innovazioni dell'area urbana, soprattutto con la costruzione di nuovi impianti sportivi. A seguito della tragica eruzione del 79 d.C., che distrusse le importanti città di Pompei, Ercolano, Stabia ed Oplonti, verso Napoli confluì un gran numero di profughi provenienti dalle zone colpite dal cataclisma.

Con l'avvento del Cristianesimo, arrivarono a Napoli numerose comunità dalle grandi metropoli del medio oriente, come Alessandria d'Egitto, Antiochia ed Efeso. Il primo vescovo napoletano fu Aspreno, secondo la leggenda ordinato dallo stesso San Pietro e poi canonizzato come santo. Successivamente, per la mancanza di “martiri” acclarati napoletani, si sceglierà come patrono della città, San Gennaro, vescovo di Benevento, decapitato nella vicina Puteoli (Pozzuoli) nel 305 d.C.. E' giusto ricordare che anche nella città campana numerose sono state le leggende formatesi intorno alla figura di Costantino, soprattutto in relazione alla fondazione di alcune chiese, come quella di San Giovanni Maggiore e di San Gregorio Armeno. In realtà si tratta solo di credenze popolari, in quanto Costantino non fu mai realmente cristiano, tollerando la religione cristiana soltanto per motivi di opportunità politica.

Nel periodo del crollo dell'impero romano d'occidente, il destino di Napoli è legato a quello di Roma: le popolazioni barbariche, che continuamente invadevano le fertili campagne meridionali, costringevano gli abitanti ad una costante politica di difesa. Nel 459 Napoli fu violentemente attaccata, ma non espugnata dai Vandali di Genserico, grazie anche alle nuovi fortificazioni sollecitate da Valentiniano III. Una terribile sciagura si abbattè nell'area campana nel 472, quando un'enorme eruzione del Vesuvio emise una tale quantità di cenere da destare preoccupazione in tutta l'Europa e perfino a Costantinopoli. Ed è emblematico che l'atto finale dell'impero romano d'occidente si sia consumato proprio a Napoli: nel 476, l'ultimo imperatore, Romolo Augstolo, fu deposto e poi fatto imprigionare da Odoacre, proprio presso castel dell'Ovo, in quel tempo villa romana fortificata. La deposizione del giovane Romolo Augustolo da parte del generale barbaro Odoacre segna, per convenzione, la fine dell'epoca antica e l'inizio del Medio-evo. Si tratta, in realtà, di una mera convenzione, in quanto già le strutture proprie dell'impero romano erano state sostituite da alcune istituzioni cristiane, come le diocesi, che in realtà supplivano al vuoto politico della decadente società del tempo. Lo stesso vescovo di Roma, assunto a “primate” della Chiesa d'Occidente, sarà definito da molti storici come “il fantasma dell'imperatore romano”. E vi è un'altra importante considerazione da aggiungere: formalmente l'Impero Romano d'occidente non è mai caduto. Nessun riconoscimento ufficiale Odoacre ricevette dall'imperatore romano d'oriente, e, successivemente, alcuni sovrani barbari governeranno in nome di quest'ultimo. Si dovrà arrivare all'800, con l'incoronazione di Carlo Magno, a capo del “Sacro Romano Impero”, per avere una parziale quanto effimera riunificazione dell'Europa occidentale. Come dirà Voltaire nel XVIII secolo, riferendosi alle conquiste di Carlo Magno, “non era né un impero, né romano, e per niente sacro”.

La città di Napoli, nei successivi circa sei secoli di dominio bizantino, conoscendo un fenomeno molto diffuso nel primo periodo dell'era cristiana, caratterizzato da generalizzata decadenza e da continue crisi economiche, subì un progressivo ridimensionamento, in quanto molti luoghi poco sicuri militarmente furono abbandonati dalla popolazione che si rifugiò all'interno delle mura, con conseguente degrado del territorio circostante.

Bibliografia di riferimento:

 - ALAIMO Giovanni, Origine di Partenope, vol.VIII, Napoli 2011, Edizioni del Delfino;
- CAPASSO Bartolommeo, Napoli greco-romana, ristampa dell'antica edizione del 1905, Napoli 1987, Edizione Berisio.
- DI MAURO Leonardo, VITOLO Gianni, Breve storia di Napoli, Napoli 2006, Edizione Pacini.
- HEATHER Peter, La caduta dell'impero romano, tradotto da S. Cherchi, Milano 2006, Ed. Garzanti.
- GHIRELLI Antonio, Storia di Napoli, Torino 2016, Einaudi editore.
- OMERO, Odissea, tradotta da Ettore ROMAGNOLI, Ravenna 2010, Edizioni ITACA;
- WILSON Peter H., Il Sacro Romano Impero, London 2006, Edizioni Penguin.

 

Luigi Angelino

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Due poli di telai del Fato: Giza delle Piramidi e Pechino. A cura di Gaetano Barbella (Terza parte)

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7 I due “Telai del Fato” della mappa di Pechino (Cina)

È necessario che ora ripeta ciò che ho scritto iniziando il capitolo 6.1 della seconda parte, perché si ha modo di capirlo appieno con delle prove.

Ho scritto:

«...E se il numero di “Telai” sparsi nel laboratorio del film è un segno da tener da conto, allora si può credere che la nostra Terra sia realmente sede di ipotetici “Telai del Fato” sparsi su tutta la sua superficie, specie attraverso centri urbani e località in genere: un’ipotesi verosimile...»

[caption id="attachment_29469" align="aligncenter" width="625"] Illustrazione 1: Immaginario “telaio del fato” della mappa di Pechino (Cina) rivolta al Sud.[/caption]

Ecco, ora ho modo di mostrare due “Telai del Fato” che permettono di mostrare «la lezione che ci viene dal male, una necessità da accettare come l’unica medicina per far nascere un “bene, che rende “perfetti”, altrimenti impossibile da trovare tramite il “bambino” innocente in noi, cioè il bene , ma allo stato nascente. Ricordarsi il proverbio, “non tutti i mali vengono per nuocere” (ma è ciò che ho detto in precedenza alla frase suddetta). Non aggiungo altro perché la lezione emergerà dai seguenti due immaginari “Telaio del Fato” della mappa di Pechino (Cina) cui seguiranno miei commenti.

Con l’immaginario “telaio del fato” mappale di Pechino (Illustr. 1), una configurazione allegorica, si entra nei meandri della virtualità, della macchinazione che sta dietro le quinte della mente umana. Per eseguirlo, come si riscontra, mi ha aiutato la configurazione della mappa, fra strade ed altro del centro urbano. E si capisce che è in tal modo che si delinea l’ipotetico “telaio del fato”, come è stato per Giza delle tre piramidi e la sfinge.

Quando eseguii questo disegno, non mi fu tanto difficile portarlo a termine, perché fu come se i fatti dello scenario mi riguardassero personalmente, tanto da riflettervici. Questo al punto che fui portato a commentarla con i seguenti versi che fluivano dalla mia mente alla meno peggio, non essendo particolarmente versato nella poesia.

Scenari di una mente turbinosa

Un incipriato vanesio Cavaliere:
lo tradiscono due nei sul viso.
Con la realtà virtuale
or si diletta, che portento.
Gli sembra sano l'arto leso,
e rinnovato, il calor del corpo.
E, a coronar le sue delizie,
una regale dormiente
il suo bacio attende.

Ma il ragazzo in lui non sembra dar ascolto.

Vaghi ricordi d'innocenza mestizia:
trasognate incerte gioie d'un giocar.
Costruir giunche con fragili legni,
e poi... sospinger mollemente.
Pareva d'esser in lontano mar, felice,
e pesci qua e là, ma il tempo
il tempo, non era in lui.

 

Si capisce che «il ragazzo in lui» sono io, come del resto ho anche detto all’inizio che «i fatti dello scenario mi riguardavano personalmente, tanto da riflettervici».

Occorre dire, a questo punto, che prima di aver scritto i suddetti versi avevo eseguito la configurazione allegorica di Pechino mappale a rovescio che mostro di seguito con l’illustr. 2 (in realtà è nella giusta direzione poiché di norma è secondo il Nord, mentre l’altra precedente è al contrario).

[caption id="attachment_29470" align="aligncenter" width="625"]
Illustrazione 2: Immaginario “telaio del fato” della mappa di Pechino (Cina) rivolta al Nord.[/caption]

Ora si comprende l’arcano descritto nei versi suddetti: quando feci il secondo disegno relativo e la descrizione in versi che vi attenevano, dovetti ammettere che dovevo essere io a impersonare le due realtà che avevo concepito. Come spiegare questa significativa aderenza, chissà di una occulta interiorità che in questa circostanza si rivelava tanto forte? Riconosco comunque il mio carattere mite e riservato che si riscontra con molta aderenza nel ragazzo preso per il gioco con “la giunca”. Fatto è che la prima configurazione in relazione alla prima, lascia intendere il pericolo che l’uomo corre nel lasciarsi prendere da desideri morbosi, e che ad un certo stadio sembrano che possano portare a conseguenze irreparabili. Tuttavia questo pericolo in prospettiva ha un limite, perché grazie al fanciullo del secondo scenario, difficile da distogliere e dunque incorruttibile,  l’uomo ha sempre il modo per salvarsi.

Mi sovviene la trama del film Matrix15 del 1999 che è molto aderente alla rappresentazione scenica offerta dall’allegoria del “vanesio Cavaliere” con “due nei sul viso” di Pechino mappale.

Il protagonista del film Matrix, Neo scopre di essere vittima di un programma al quale è collegato e nel quale, fino a quel momento, ha inconsapevolmente vissuto. Morfeo è la persona che libera Neo dal programma. Poi Morfeo spiegherà a Neo che i terminali ai quali era collegato erano quelli che proiettavano l’intorno della sua vita virtuale e glielo dimostrerà portandolo in altre realtà virtuali per mostrargli come la realtà si possa creare. Nella realtà virtuale l’unico ed ultimo fattore che resta vigente per ricordarci che si tratta di una realtà simulata, è la coscienza, cioè la consapevolezza della virtualità della situazione in cui siamo immersi.

[caption id="attachment_29471" align="aligncenter" width="625"]
Illustrazione 3: Scena del film Matrix. Dialogo tra Morpheus e Neo.[/caption]

8 Dialogo tra Morpheus e Neo nel film Matrix (1999)

 

Neo (toccando una poltrona): “Questo non è reale?”

Morpheus: “Che vuol dire reale? Dammi una definizione di reale. Se ti riferisci a quello che percepiamo, a quello che possiamo odorare, toccare e vedere, quel reale sono semplici segnali elettrici interpretati dal cervello.

Questo è il mondo che tu conosci (Morpheus accende un televisore e mostra immagini del nostro mondo): il mondo com'era alla fine del XX secolo e che ora esiste solo in quanto parte di una neurosimulazione interattiva che noi chiamiamo Matrix. Sei vissuto in un mondo fittizio, Neo. Questo è il mondo che esiste oggi (Morpheus mostra le immagini di città distrutte, oscurate da una spessa coltre di nubi). Benvenuto nella tua desertica, nuova realtà.

...

Un corpo umano genera più bioelettricità di una batteria da 120 volt ed emette oltre 6 milioni di calorie. Sfruttando contemporaneamente queste due fonti le macchine si assicurarono a tempo indefinito tutta l'energia di cui avevano bisogno. Ci sono campi, campi sterminati, dove gli esseri umani non nascono, vengono coltivati. A lungo non ho voluto crederci, poi ho visto quei campi con i miei occhi, ho visto macchine liquefare i morti affinché nutrissero i vivi per via endovenosa. Dinanzi a quello spettacolo, potendo constatare la loro limpida raccapricciante precisione, mi è balzata agli occhi l'evidenza della verità. Che cosa è Matrix? È controllo. Matrix è un mondo creato al computer per tenerci sotto controllo al fine di convertire l'essere umano in questa (Morpheus mostra una pila).”

Neo: “No! non è possibile! Io non ci credo!”

Morpheus: “Non ho detto che sarebbe stato facile: ho detto che ti offrivo la verità.”

Il film Matrix ci invita a riflettere su due questioni, la prima quella sollevata da Morpheus nel suddetto dialogo, ossia come si possa essere sotto controllo di Matrix, al fine di convertire l'essere umano in un alieno. Ma questo controllo appartiene alla fantascienza, tuttavia è vero anche che dal punto di vista della realtà sulla corsa evolutiva della scienza delle concezioni virtuali si pongono non poche domande. «Cosa accadrebbe alle nostre vite se potessimo raggiungere un grado di simulazione del reale così perfetto da non poter più distinguere fra realtà e mondo virtuale. L’imitazione del reale è una vecchia sfida dell’uomo che fin dall’antichità ha sempre cercato di riprodurla e di inventare tecniche sempre più perfette che consentissero di creare delle copie o delle interpretazioni dello stesso. Sembra dunque lecito chiedersi cosa succederebbe se la tecnologia potesse in un futuro non troppo lontano sui sensi per condizionare la nostra percezione del reale. Inizieremmo a confondere la realtà reale con quella virtuale? O semplicemente scopriremmo che non esiste una vita reale, ma esistono solo delle simulazioni?»16.

Di qui il ricongiungimento con il tema di Ahrimane sviluppato nel capitolo 5 dove si parla del film Wanted - Scegli il tuo destino. Si tratta di capire bene quale sia l’ideale di Ahrimane, secondo il pensiero di R. Steiner dopo aver fissato il suo intento con la forma fisica materiale. Il perdurare di tale forma statica gli permetterebbe di realizzare, appunto, il suo fine: l’umanità distaccata per sempre dai mondi spirituali e conducente un’esistenza perpetua nel mondo dei sensi. Ecco il senso della morte ahrimanica: morte spirituale. In relazione alla morte fisica Ahrimane ha come contropartita la generazione e la nascita, cioè ciò che a lui interessa è che la forma del discendente sia in tutto uguale a quella dell’ascendente. E fa sorgere la forza  dell’ereditarietà, della trasmissione della forza fisica. In questa sfera di attività parallela a quella in cui si vive, la Terra materiale è la prima realizzazione parziale del regno ahrimanico. Ahrimane è però costantemente attivo. Trasporta nel suo regno le forme che ruba alla vita eterna, le fissa nella morte e prepara i prototipi di nuove esistenze materiali, la sfera delle tenebre, dove ogni forma di esistenza tende a irrigidirsi, a condensarsi.

Ahrimane, come abbiamo visto, ha fatto sorgere nell’uomo il pensiero concettuale con il preciso intento di trasformarlo in un suo strumento finalistico. Il concetto ahrimanico è un’immagine vuota della realtà; sorge così quel concetto superastratto che è la causalità. Ed è in questa sfera che Matrix del film suddetto opera con le sue simulazioni.

 

9 L’uovo del “Mondo Superno” alchemico e la geometria  del “Bene” della “Perfezione”

9.1 Introduzione alla “Città proibita”

[caption id="attachment_29472" align="aligncenter" width="625"]
Illustrazione 4: Immaginario “telaio del fato” della mappa di Pechino (Cina) rivolta al Sud. La città proibita.[/caption]

Con l’illustr. 4 ripropongo l’immaginario “telaio del fato” della mappa di Pechino (Cina) rivolta al Sud, mostrato nel capitolo precedente. Qui è posta in evidenza (in azzurro) l’area della cosiddetta “Città Proibita” (S, ZǐjìnchéngP, letteralmente “Purpurea città proibita”), che fu il palazzo imperiale delle dinastie Ming e Qing. Essa si trova nel centro di Pechino, la capitale cinese. Per quasi 500 anni, ha servito come abitazione degli imperatori e delle loro famiglie, così come centro cerimoniale e politico del governo cinese. Più da vicino mostro il relativo ingrandimento con l’illustr. 5, per far vedere nel dettaglio come è composta, con la nomenclatura delle varie parti:

[caption id="attachment_29473" align="aligncenter" width="625"]
Illustrazione 5: Pianta della “Città Proibita” di Pechino. (Tratto da Wikipedia)[/caption]

    • Porta Meridiana [A]
    • Porta Divina Potenza [B]
    • Porta Gloriosa dell'Ovest [C]
    • Porta Gloriosa dell'Est [D]
    • Torri angolari [E]
    • Porta della Suprema Armonia [F]
    • Palazzo della Suprema Armonia [G]
    • Palazzo dell'Eminenza Militare [H]
    • Palazzo della Gloria Letteraria [I]
    • I tre luoghi del sud [K]
    • Palazzo della Purezza Celeste [L]
    • Giardino Imperiale [M]
    • Palazzo dell'Educazione Mentale [N]
    • Palazzo della Tranquilla Longevità [O]

La linea tratteggiata divide approssimativamente la corte interna (nord) con l'esterna (sud).

Sin d’ora, osservando la pianta della ”Città Proibita” di Pechino, si intravede la prima risposta al tema di questo capitolo, che è il “bene” della “perfezione”, che poi farò vedere in termini geometrici. Vediamo in particolare che alcuni palazzi e porte di accesso si legano all’ARMONIA e queste valgono come segni simbolici rassicuranti. Ma poi passando la pianta al vaglio della geometria avremo la prova che i costruttori della “Città Proibita” non furono da meno di quelli delle tre piramidi di Giza, per legare il Tutto architettonico all’Uovo alchemico del “Mondo Superno”, esaminato con l’apporto dell’alchimista Michael Maier (illustr. 11). Notare che non si tratta di un mondo legato alla “pietra”, come fu quello della piramidi di Giza, ma di un mondo legato al “legno”, perché la reggia degli antichi imperatori della Cina è tutta fatta con questo materiale. Nel 1987 la Città Proibita è stata inserita nell'elenco dei Patrimoni dell'umanità dell'UNESCO, che la riconosce come la più grande collezione di antiche strutture in legno che si sia conservato fino ai giorni nostri.

L'aggettivo “Proibita” deriva dal fatto che, a parte i membri della casa imperiale, nessuno vi poteva entrare senza l'esplicito permesso dell'Imperatore. Talvolta nel passato veniva chiamato anche “Palazzo d'Inverno”.

9.2 L’Armonia l’attributo della perfezione

Si passa la pianta della “Città Proibita” al vaglio della geometria, come previsto. Tralascio di farlo con la pianta dell’illustr. 6 perché non corrisponde alla realtà e preferisco farlo con quella tratta da Google Map che, ovviamente, invece è corretta. Con l’illustr. 18, espongo la prima rappresentazione geometrica che ho eseguito e fa vedere come si delinea l’“uovo” del “mondo superno” dell’emblema VIII  dell’Atalanta fugiens di Michael Maier, mostrato con l’illustr. 4 (capitolo 14.1) della seconda parte.

[caption id="attachment_29474" align="aligncenter" width="625"]
Illustrazione 6: Pianta della “Città Proibita” di Pechino. (Google Map). L’“uovo” del “mondo superno” di Michael Maier.[/caption]

Con A, B, C e D sono indicati i limiti assiali della “Città Proibita”, e con l’illustr. 6 seguente, viene spiegata la geometria che qui si delinea, su cui si basa, appunto, l’“uovo filosofico” che farà nascere “l’augello” di Maier (L’“Araba Fenice”) dell’ARMONIA. Per questa ragione è una geometria aurea in cui si delinea un triangolo isoscele che ha la sagoma della piramide cheopiana, cioè è conformata all’insegna della sezione aurea.

[caption id="attachment_29475" align="aligncenter" width="625"] Illustrazione 7: Pianta della “Città Proibita” di Pechino. (Google Map). La piramide cheopiana della sezione aurea.[/caption]

Questa condizione è dimostrata graficamente esaminando l’illustr.  7 tramite il rettangolo OEFD. La procedura in merito è la seguente:

  • Si traccia il quadrato OCHG delineando il lato GH, di cui G appartiene al cerchio tangente ai due lati obliqui del triangolo ABC (che ha la sagoma della piramide cheopiana);
  • si traccia il lato DF del rettangolo OCFD, di cui D appartiene all’ellisse ABCD (l’“uovo filosofico”);
  • si traccia il segmento IL in modo da dividere a metà il quadrato OEFD;
  • si punta il compasso in L e si traccia l’arco di cerchio GF: questa è la prova che il rettangolo OEFD è aureo, cioè è relativo alla geometria della sezione aurea.

Ed ora resta da capire a che implicazione porta la prova della sezione aurea che ha comportato dimostrare che il triangolo ABC è analogo a quello della piramide di Cheope. In particolare interessa capire bene la possibile relazione con il fine dell’ARMONIA, che è il miglior modo assoluto per pervenire al “bene” e, conseguentemente, il fine della “perfezione”. E questo per aver superato la “prova del fuoco”, rintuzzando l’azione nefasta dell’impatto con la sfinge, il coniglio e altri animali tentatori del “Telaio del Fato” di Pechino, dell’illustr. 1. Il mio disegno dell’illustr. 7 lo suggerisce chiaramente con la geometria della Piramide  di Cheope, cioè col punto G che appartiene al cerchio che vi è tangente. G indica che è stata valicata la Porta della suprema armonia, da considerare come segno tangibile che vi consegue. Averla superata, così come è visibile con l’emblema VIII di Michael Maier dell’illustr. 4 (capitolo 14.1) della seconda parte, col piede dell’armigero, ossia di Marte, ci permette di immaginare la sfolgorante bellezza dell’Araba Fenice, “l’augello del mondo superno” maierino, appunto.

 

 

La Dea Amaterasu nello Shinto giapponese,

la Porta della Suprema Armonia

[caption id="attachment_29476" align="aligncenter" width="625"]
Illustrazione 8: Stampa giapponese che ritrae Amaterasu mentre esce dalla caverna e torna ad illuminare la terra. (da Wikipedia)[/caption]

Secondo lo Shintoismo (il cui significato è “la via degli dei”), la religione originaria giapponese, Amaterasu è la Grande Dea Madre Sole, madre di tutti gli dei e non c’è una figura maschile di uguale rango al suo fianco. Da lei discende la famiglia imperiale giapponese e il Giappone stesso. E’ un culto antico di migliaia d’anni, quasi una forma di animismo che celebra la natura e la presenza della divinità in tutte le forme viventi collegate ad essa.

Viene considerata di sesso femminile anche se non è possibile vederla.

Amaterasu (Luce dei Cieli) Omikami: Omi=Suprema, kami=divinità, è una dea solare, è espressione di luce. E’ simboleggiata e rappresentata da uno specchio poiché è così luminosa e brillante da non poter essere guardata a occhio nudo.

Amaterasu  inventa l’arte della tessitura e vive in un’enorme sala colma di telai dove tesse le stoffe meravigliose che servono da modello per i kimono (secondo la tradizione i colori delle stoffe sono fonte di vita).

Un giorno, il suo distruttivo fratello Susanowo invade la sala della tessitura e la devasta scatenando una tempesta.

Addolorata la Dea si rinchiude in una caverna e ci rimane per giorni facendo piombare il mondo nell’oscurità. La data in cui viene festeggiata l’uscita di Amaterasu dalla caverna è il 21 dicembre, solstizio d’inverno, con chiari riferimenti astronomici. Amaterasu entra ed esce dalla caverna e dopo la sua terza nascita crea il Giappone.

La caverna (vulva grotta) è simbolo complementare, vale a dire che funge da ponte tra due realtà, due dimensioni; ci fu un tempo in cui la verità era la via: quando gli abitanti della terra erano Dei. Via via che l’umanità perse coscienza di sé la verità si ritirò nell’oscurità della caverna, al centro della montagna (questo è uno dei significati del mito di Amaterasu) e il mondo di fuori divenne quello interno: tutto si capovolse, ciò che prima era manifesto divenne celato e ciò che prima era superno divenne infero.

La via che viene percorsa durante le tre rinascite iniziatiche è una via che collega l’Alto al Basso: asse verticale è tripartito: sole-montagna-caverna.

Amaterasu non è visibile, perché è la rappresentazione del Sole Nero, il centro galattico dell’universo che è Madre. Per poter essere vista dalla sua discendenza imperiale, Amaterasu consegna al capostipite uno specchio attraverso il quale poterla ammirare. Lo specchio è custodito e protetto rigorosamente nel Naiku di Ise-shi, inaccessibile a chiunque tranne alla famiglia imperiale.

Nei secoli II e I a.C. il Giappone fiorì come una federazione di numerose comunità molte delle quali governate da donne che detenevano un solido e indiscusso potere. Il buddismo fu introdotto solo nel 300 d.C., fino a quel momento solo “la via degli dei” shin-to era riconosciuta dal popolo17.

 

NOTE

15 Matrix (The Matrix) è un film di fantascienza del 1999 scritto e diretto da Larry e Andy    Wachowski. Ha vinto numerosi premi, tra cui 4 Oscar. Il titolo deriva dal termine latino matrix (generatrice/matrice), che a sua volta ha dato origine al vocabolo inglese matrix, ovvero “matrice di numeri”, un elemento di tipo tabellare derivante da strutture matematiche, molto utilizzato in informatica per associare dati, o sistemi di dati, tra loro. In questo caso, la matrice rappresenta una sorta di cyberspazio o realtà simulata creata dalle macchine. Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Matrix

16 Tratto da: MIMESI E APPRENDIMENTO VIRTUALE di Andrea Alì – Abstract. Bollettino Itals Anno 12, numero 54 - Giugno 2014

17 Fonte:   https://devanavision.it/articoli/le-dee-tessitrici-e-larte-di-tessere-come-atto-di-creazione-della-realta/

L'articolo Due poli di telai del Fato: Giza delle Piramidi e Pechino. A cura di Gaetano Barbella (Terza parte) proviene da EreticaMente.

IL DELTA DEL DANUBIO o la sacralità del fiume – Stefano Arcella

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Per gli Antichi i fiumi avevano una loro sacralità; per essi si celebravano rituali, si svolgevano feste religiose con specifiche ricorrenze calendariali. Dal Tiberinus Pater degli antichi Romani, al dio Nilo degli Egizi, ai fiumi della Mesopotamia per i Babilonesi, al Gange che tuttora per gli Indù è un fiume sacro, sempre i grandi corsi d’acqua sono profondamente connessi alle antiche religioni e tuttora è loro tributato un culto specifico. Il sacer comprendeva tutto ciò che non era ordinario, sia in senso benefico sia sotto l'aspetto pericoloso. Il fiume con la sua acqua offre la vita, col suo patrimonio ittico dà il cibo; con le sue piene può essere distruttivo, ma anche apportatore di fertilità per la terra. Il fiume è vita e morto, dissoluzione e rinascita, distruzione e fecondità.

Il Delta, in quest’ambiente sacrale, ha una sua forza evocativa e simbolica; rimanda al numero tre che in tutte le antiche tradizioni religiose ha un significato particolare (i tre mondi; i tre elementi costituitivi dell’uomo; la Trinità sacra presso i popoli e le tradizioni d’Oriente e d’Occidente). Il Delta è anche riconducibile, per la sua particolare forma che richiama il delta dell’alfabeto greco antico, alla Tetraktis pitagorica (1+2+3+4=10) Esso è la proiezione geografica di un archetipo, inteso come “forza formante”. Occorre, però, vivere nel paesaggio di un grande fiume, respirare l’aria e l’atmosfera sottile del suo delta, osservarne la flora e la fauna, sentire l’energia del luogo, per intuire perché gli Antichi parlassero della sacralità dei fiumi. Diversamente, essa si riduce a una nozione storica e teorica, a un concetto astratto, cerebrale.

Sono stato sul delta del Danubio ed è stata un’esperienza unica, per la particolarità del paesaggio e soprattutto dell’atmosfera, dell’aura di quei luoghi. Qui si ha l’impressione che il tempo sia sospeso, che si viva in una dimensione lontana dal mondo ordinario e soprattutto dalla vita della metropoli. A Tulcea, all’inizio del delta, ci s’imbarca per attraversare settantaquattro kilometri di fiume; il canale di Sulina, uno dei tre bracci del delta, è largo 70 metri e in certi punti anche di più: uno spettacolo naturale di vastità e di potenza. Cominci ad avvertire la forza, la fluenza, la grandezza del fiume. Si giunge a Sulina, un villaggio di circa tremila abitanti cui si arriva solo via fiume. Non esistono strade, né quindi trasporto via terra. E questa è la prima particolarità. Nel villaggio s’incontrano poche auto, ci si muove a piedi o in bicicletta. L’inquinamento acustico è inesistente così come non esiste l’inquinamento ambientale, in un ambiente dominato dalla ricchissima e variegata flora danubiana. Ho praticato la concentrazione e ho subito notato l’apporto propizio dell’ambiente; ho praticato l’auto trattamento Reiki ed ho percepito nettamente tutta la particolare intensità della fluenza dell’Energia universale. L’abbondanza e la scorrevolezza del fiume, l’intensità dell’elemento fluido e umido si avverte nell’aria. Questo paesaggio, per la sua tranquillità e la sua “aura” fresca e vitale, è particolarmente propizio per le pratiche di concentrazione e meditazione. Se poi vai in un luogo del genere con chi conosce bene la storia del suo popolo e della sua terra ed è sensibile alle sfumature del paesaggio, sei più facilitato ad armonizzarti con il Genius loci. Mi sono poi calato nella storia e nella cultura del luogo.

La chiesa ortodossa di Sulina

A Sulina ho visitato la chiesa ortodossa; il silenzio che vibra in questa come in altre chiese ortodosse ha una solennità particolare, profonda, toccante. E’ difficile renderla in parole; è un silenzio che puoi ascoltare, sentire e comprendere solo nella calma della mente, unificando il tuo silenzio con quello dell’ambiente. E’ un silenzio di tono mistico, che dona il senso della ieraticità trascendente. L’atmosfera energetica della chiesa ti sollecita e t’invita al raccoglimento. Mi soffermo. Affiora uno stato di quiete e di pace. I dipinti dell’arte religiosa esprimono il senso della divinità cosmica, del Signore Universale, il Pantocràtor, che domina, col suo volto austero, la volta della cupola. La Madre divina col Bambino e le figure complementari degli Arcangeli Michele e Gabriele (costanti in tutta l’arte religiosa ortodossa) segnano inconfondibilmente l’immaginario religioso del luogo.

Gli Arcangeli comunicano il senso di una combattività mistica; la spada di Michele è il simbolo della Volontà combattiva dell’uomo per superare ed elevare se stesso, ma è anche la rappresentazione simbolica di una Forza cosmica sovrasensibile. Queste immagini e queste icone mi fanno ricordare alcune pagine delle conferenze di Rudolf Steiner in cui è evidenziata la dimensione spiccatamente cosmica che distingue la concezione del Divino nei paesi di tradizione ortodossa nell’Europa orientale. Sono le pagine in cui parla della “missione di Michele”. E’ un tratto distintivo che ho colto già altrove, in monasteri e chiese di ben più alto rilievo artistico e religioso, come nei monasteri delle Meteore in Grecia, o in quelli della Romania nord-orientale, in Bucovina, a Voronet (chiamato, non a caso, “la Cappella Sistina dell’Europa orientale”)e a Gura Humorului. In quest’universo simbolico, incontro anche il crocifisso, ma non ha la centralità e la priorità che assume nel cattolicesimo occidentale. Esso è “anche” presente, e in quel’“anche” sta tutta la differenza con una religione, sempre cristiana ma incentrata sulla preminenza della Divinità cosmica, il Pantocràtor. Poi la mia attenzione si è concentrata sulla natura e sul paesaggio, oltre – ben oltre – il piccolo centro abitato.

La prima escursione: il faro e l’"isola degli uccelli"

Abbiamo fatto la prima escursione in barca verso il Faro del Delta e “l’isola degli uccelli”. Il fiume scorre tranquillo intorno a noi nella sua maestosa grandezza. Un vecchio faro abbandonato all’incrocio con un canale secondario, e poi il nuovo Faro, più moderno, quasi alla foce del fiume, segna in modo caratteristico il paesaggio del Delta verso la foce. La scogliera separa il Danubio dal Mar Nero e qui, avvicinandoci silenziosamente alla riva di scogli, notiamo e ammiriamo una colonia di pellicani, dal portamento molto regale. Fin quando siamo stati sul fiume, l’acqua scorreva placida. Usciti sul mar Nero, si nota subito la differenza di moto ondoso: ci siamo imbattuti in acque agitate. Soffro il mal di mare, tanto più che siamo su una semplice barca a motore. Chiudo gli occhi, mi stacco dalle impressioni del mondo esterno e dalla vista delle onde; mi raccolgo e mi concentro. Entro nel silenzio mentale. Supero la sofferenza. Poi, di fronte a noi escursionisti, compare, in tutta la sua bellezza, lo spettacolo dell’”isola degli uccelli” che si è formata solo da pochi anni, per effetto dell’accumulazione di terriccio portato a mare dal Danubio.

Migliaia di uccelli (pellicani, cormorani, gabbiani e tante altre specie) che convivono pacificamente sulla stessa lingua di terra e che hanno fatto di quest’isola la loro residenza: uno scenario di armonia e di grande freschezza. Non a caso, questo paesaggio del Delta danubiano è patrimonio UNESCO e comprende molte specie di uccelli, alcune delle quali sono rare. Intanto il sole sta tramontando e riflette la sua luce tenue sulle acque; sembra voler indugiare a donarci la bellezza della sua luce rarefatta. L’intreccio fra la luminosità del tramonto e i versi degli uccelli, gli stormi che volteggiano intorno alla barca: tutto ciò dona al paesaggio un’inconfondibile e peculiare suggestività. Il ritorno a Sulina avviene attraverso una serie di canali in un paesaggio paludoso, per poi ritrovarci al vecchio faro, all’incrocio col canale di Sulina.

Testimonianze dell’epoca comunista

Lungo il Danubio, notiamo molteplici fabbricati abbandonati; sono le vecchie fabbriche dell’industria statale al tempo del regime comunista di Ceausescu ed anche un albergo, molto frequentato al tempo del comunismo, che ora è abbandonato e diroccato. La vegetazione danubiana sta avvolgendo lentamente questi edifici, quasi a farli scomparire dalla memoria storica. Questa nazione non ha ancora maturato il concetto di “archeologia industriale” e della funzione che questi siti, opportunamente restaurati e riqualificati, potrebbe avere non solo per uno specifico tipo di turismo, ma anche e soprattutto come momento di formazione didattica per gli studenti delle scuole, attraverso programmi di visite guidate per conoscere dal vivo le testimonianze storiche dell’epoca industriale, con le fabbriche di Stato del regime comunista. Si ha netta l’impressione di un passaggio brusco, traumatico dal vecchio al nuovo ordinamento politico, dal rigido sistema statalizzato comunista a quello del liberismo selvaggio, coi suoi infausti squilibri. Invece di salvare gli aspetti positivi del vecchio sistema in un quadro politico diverso, si è buttato “il bambino insieme all’acqua sporca”, come suol dirsi in questi casi. Uno spettacolo di decadenza e di abbandono che dovrebbe far riflettere sulle difficoltà di una bella Nazione, quella rumena, che è entrata in modo caotico e disordinato nell’era del liberismo, senza salvaguardare le risorse strategiche nazionali, ora nelle mani di compagnie straniere.

Una vicenda analoga, in proporzione, con quella della dissoluzione dell’URSS, ma con una differenza fondamentale. La Romania non ha trovato il suo Putin, non ha avuto un leader capace di salvare la sovranità nazionale e affermarla rispetto alle bramosie dei gruppi economici privati, soprattutto stranieri. Un leader è l’espressione sintetica, individualizzata, di un sostrato politico-culturale, di un fermento che in Romania non c’è stato. Caduto il comunismo, la resa al liberismo selvaggio e al capitale straniero è stata totale. Eppure in questa nazione sussistono il retaggio romano, il substrato dacico, e la magia di un paesaggio misterioso con le sue foreste a volte dall’aspetto stregonico. Vi sono popoli che non hanno ancora espresso la pienezza delle loro possibilità. Per dirla con Steiner, vi sono Arcangeli, anime di popoli, che non hanno ancora estrinsecato tutte le loro capacità. Sono convinto che il popolo rumeno rientri in questa tipologia. E sono possibilista in positivo per il suo futuro.

La seconda escursione: la riserva naturale di Letea

Abbiamo svolto una seconda escursione, in parte sul fiume, poi sulla terra, fra le campagne adiacenti al Delta. Lo spettacolo dei fiori che sbocciano sull’acqua, del fango che si trasforma in bellezza, lascia intuire il miracolo e il mistero della natura e comunica un messaggio di positiva trasformazione anche per l’uomo. La vegetazione acquatica lungo i piccoli canali del Delta è un panorama variegato e affascinante, di rara bellezza: un’esperienza inconsueta, difficilmente ripetibile, a meno di non voler tornare in questi luoghi. E ci tornerei volentieri, poiché questa natura esercita su di me un misterioso richiamo. Nella campagna, oltre i canali, incontriamo un villaggio ove vivono soltanto otto persone e vi sono molte case contadine vuote, abbandonate. Nella pianura oltre il villaggio, si ammirano i cavalli selvaggi, che vivono liberi; sono pochi esemplari ma ancora vi sono. Improvvisamente, ti ritrovi in un’altra epoca della storia, in una dimensione di vita selvaggia e di natura incontaminata. Queste terre – penso – erano quasi sul Limes dell’Impero romano, dopo la conquista di Traiano, al confine coi popoli nomadi della Sarmatia e di altre terre vicine.

La riserva di Letea - che è la meta della nostra escursione - presenta alberi secolari, una vegetazione fitta e uno strano spettacolo quasi lunare, di una pianura di dune di sabbia chiara che in un tempo remoto– ci spiega la guida-era il fondo del mare, perché qui un tempo era tutto sommerso dalle acque.

Sulla spiaggia del Mar Nero

Sono stato sulla spiaggia del Mar Nero, una spiaggia soffice, con un fondale del mare basso e l’acqua tiepida e calma; sembra l’acqua di un grande lago. La gente è tranquilla, la musica in sottofondo. Per me è l’ambiente ideale per fare un bagno e prendere un po’ di sole, a volte offuscato da nuvole di passaggio provenienti da est. Accanto allo stabilimento balneare ben organizzato, ti trovi improvvisamente accanto un bufalo che placidamente siede sulla riva, assieme alla bufala e al bufalino. Nell’aria volteggiano i corvi, numerosi sulla costa del mar Nero. E poiché il bufalo ha una fisionomia molo simile a un toro, mi ritrovo a stare in un paesaggio mitriaco. Sembra proprio che io me lo sia chiamato. Più indietro, all'inizio dello stabilimento, incontro un cavallo che mangia l’erba e sembra un cavallo selvatico, timido e poco incline a stare in confidenza con gli uomini.

Il rientro a Tulcea

A Bulina si mangia ottimamente, si gusta molto pesce, anche assortito con le tagliatelle. ”Scalau con tagliatelle” è il mio piatto preferito. Il personale è gentile, anche se l’ultimo giorno ritarda il servizio di colazione per farti capire – con un linguaggio non-verbale tipicamente rumeno – che non devi dimenticare la mancia al personale. Tutto il mondo è paese, è proprio il caso di dire. Regalo la mancia con piacere, perché in quest’albergo e in questo villaggio sono stato molto bene. Il rientro a Tulcea avviene ripercorrendo a ritroso il Danubio che continua a suscitare la mia meraviglia per la sua vastità. E’ davvero una Potenza della natura e si sente, si avverte un quid misterioso, invisibile. Una forza sottile che si cela dietro i fenomeni della natura. Parafrasando i Latini, vien voglia di dire: “Danubius Pater”. Verrò di nuovo a incontrarti, come un figlio devoto.

 

Stefano Arcella

 

 

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Il Tempio di Cargnacco – Emanuele Casalena

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[caption id="attachment_29540" align="alignright" width="261"] Igino Giacomo Della Mea. Tempio di Cargnacco, 1955[/caption]

Classe 1907, come mio padre, Igino Giacomo Della Mea era un furlan di Raccolana frazione di Chiusaforte (UD) piccolo Comune sulla strozzatura della valle del fiume Fella. Primogenito di numerosa nidiata (sei figli) di Giovanni e Lucia Marcon non ebbe un’ adolescenza rock, casette anguste per quella famiglia, bȇz pochi nelle tasche di quel capomastro poi la sua prematura morte  (1923), quand’era magazziniere impiegato nella ditta di legnami dei fratelli Piussi a Udine dove aveva trovato un lavoro sicuro col piede in guerra dell’Italia. Giacomo così mollò le sudate carte dopo tre anni all’I.T. pareggiato di Tolmezzo per mettersi a faticare  prendendo posto e mansioni del padre nella ditta. D’altronde le bocche aperte del nido erano tante, dovere del maggiore   sostenere la famiglia come un telamone.. Appassionato d’ arte fin da frutat, amante delle montagne della Carnia, il ragazzo si cimentava con pennelli e petule, entrambi strumenti buoni per salire o scendere adagio dentro se stessi, in armonia col suo carattere schivo, poche ciacole, molti fatti. Scalare la vita con ramponi e chiodi per trovare la via guadagnando la vetta, l’apprese alla scuola di vita del gruppo di rocciatori dello Jôf Fuârt montagna delle Alpi Giulie (2.666 m s.l.m.). Siamo negli anni ’20 , il verbo dell’arte è: ritornare all’ordine, la rossa Margherita Sarfatti, col suo Novecento, preme sull’acceleratore  dopo il coma etilico delle avanguardie. Anche la pittura di Giacomo è figurativa, da montanaro realista, di discreta fattura tecnica per un autodidatta, dove la figura umana è centrale secondo tradizione dell’Ottocento veneziano, ma lo sono anche i suoi paesaggi solidi, racconto dei luoghi natii, con una predilezione per le opere ingegnate dall’uomo. In questo periodo ha la febbre dei colori come il coetaneo Ernesto Mitri pittore, decoratore, e l’amico Fred Pittino.  Nel 1925 si dedica un autoritratto pensieroso, a Roma noi diremmo un po’ ‘ngrugnato, cui seguiranno altre buone prove da cavalletto esposte sia alla  I che alla II Biennale udinese con carezze della critica locale scritte da Arturo Manzano impiegato alla Provincia di Udine, ma appassionato di giornalismo. Divenne critico d’arte di punta nel panorama friulano del dopoguerra, lui stesso pittore fai da te, nel ramo non fu eccelso ma narratore di quel paesaggio agreste della sua Regione, reso con tocchi grassi, rapidi senza i preliminari del disegno, tra impressionismo e scapigliatura lombarda.

[caption id="attachment_29541" align="alignright" width="245"] Igino Giacomo Della Mea, Autoritratto, 1925[/caption]

Tra il 1925 ed il ’35 la passione artistica di Giacomo è concentrata solo sulla pittura, è presente in sequenza dal ’31 al ‘36 alle Esposizioni del Sindacato fascista degli artisti della Venezia Giulia e Trieste ( una punta di nero) riscuotendo un discreto consenso. La passione per il disegno ( ripresa dal papà Giovanni) e la tavolozza lo guidano a conseguire la maturità artistica nel 1933 a Venezia, cioè a 26 anni, con l’encomio del poeta Diego Valeri in Commissione d’esami, Della Mea, ventiseienne, si era presentato da privatista. Unica possibilità per lui che doveva trabajar per buttar fuori dal nido i suoi fratelli e insegnar loro a volare. S’era arrangiato a più non posso, non solo i legnami dei fratelli Piussi, ma era in cattedra alla scuola serale d’arti e mestieri “Giovanni da  Udine”, insegnava disegno , cercando di ritagliarsi un tempo per dipingere, un tempo per studiare e un tempo per l’ozono di montagna. Forse proprio quelle rocce silenti, cattedrali gotiche della paziente natura lo spinsero a deviare per l’uscita: Architettura. La Facoltà era fresca degli anni ’30, un parto assai complesso uscire col forcipe dalle Scuole di Architettura delle Belle Arti, assumere dignità universitaria. Giacomo si iscrisse nel ’39  allo IUAV della Serenissima quando i venti di guerra soffiavano sull’Europa continentale mentre l’Italia, come nel ’15, timida aspettava se mettere il piedino o meno nella bufera del conflitto. Tempo di sedersi sullo sgabello al tavolo di disegno che la Patria, nel’40, lo chiama e lui risponde: presente! Parte come ufficiale, avendo fatto il Corso AUC nel ’35, due stellette pentalfa sul bavero, aveva il grado di tenente, fu assegnato al battaglione Val Natisone degli Alpini, comandato prima in Albania poi in quella Grecia che segnò un passo falso strategico dell’Italia sia con l’alleato tedesco che con la Nazione ellenica. Lui s’era comunque distinto per competenza e valore su entrambi i fronti guadagnandosi, per meriti militari, una bella croce di guerra. Tanto bravo come ufficiale da essere spedito in sequenza sul fronte russo nel ‘42 con la mitica Brigata Alpina Julia, nella Divisione c’era l’8° Reggimento ( per lui il battaglione “Tolmezzo”) ci si aspettava di portare la penna sulle montagne del Caucaso, macché fu solo steppa non proprio l’habitat naturale per il corpo degli Alpini, fu una disfatta con la tragica ritirata, il reggimento lasciò sulla neve 2.577 alpini oltre ai dispersi, guadagnandosi una seconda medaglia d’oro al valor militare. Tornato in Patria sano e salvo nel ‘43 ma pieno di cicatrici dentro, l’8° Reggimento fu impiegato dalla RSI sul fronte jugoslavo per arginare l’aggressione titina alle “terre redente”, Della Mea scelse invece la lotta partigiana arruolandosi nelle famose Brigate Osoppo-Friuli (chi legge, lo so già, storcerà il naso). Molte le componenti di questa sua scelta, dal mazzo scegliamo l’asso di cuori perché Giacomo era un cattolico praticante (sembra una bestemmia adesso) non era stato un fideista del fascismo in virtù della sua profonda adesione ai valori cristiani, nel caos tenne la barra sulla posizione della Chiesa friulana, le Osoppo erano nate nella sede del Seminario Arcivescovile di Udine alla vigilia di Natale del ’43. Ne facevano parte soprattutto i cattolici raccogliendo l’adesione dei cani sciolti liberali o socialisti, erano formazioni autonome dalle Brigate Garibaldi d’ ideologia comunista, filo titine, con le quali entrarono in aperto contrasto già nel ‘44 come testimonia l’eccidio gappista di Porzȗs dell’anno seguente, fu strage di osovani compresi il comandante Francesco De Gregori (zio omonimo del compagno cantautore) e Guido Pasolini ( fratello del compagno P.P. Pasolini). Giacomo fu un grande combattente a prescindere dalle ciacole di schieramento, forse fu anche quel nome mitico della piccola fiera Osoppo ad inquadrarlo nella resistenza contro i tedeschi. Alla fine della guerra, riprese i suoi studi veneziani, se ne andava a Venezia in bicicletta (!) per sostenere gli esami quasi avvolto dai rotoli dei disegni. Si laureò nel ’46 discutendo la tesi “ Progetto di un grande fabbricato ad uso abitazioni signorili, in condominio,(concetto delle ville sovrapposte) da costruirsi al Lido di Venezia”. Di seguito si iscrisse all’Albo dell’Ordine degli Architetti di Udine tuffandosi anima e corpo nella libera professione per vent’anni. Il suo primo studio era nel capoluogo friulano in via Gorghi al civico 8.

La committenza era soprattutto ecclesiastica, partì con un primo progetto del ‘47, su incarico di don Emilio de Roja, per la scuola professionale al Villaggio S. Domenico conosciuto anche come “Repubblica di S. Domenico” a Udine, Faȗla rurale nata nel ‘31 con 19 casette ultrapopolari e sviluppatasi poi come quartiere di periferia. L’intervento consistette nell’ampliamento del complesso che ospitava le scuole elementari, struttura strategica del villaggio per formare lavoratori disoccupati in cerca d’un impiego.

Sempre nel 1947  don Carlo Caneva gli affidò il progetto per il tempio di Cargnacco, cuore di questa nostra trattazione, perché unico monumento italiano dedicato ai caduti e dispersi nella campagna di Russia.

Gli attori del Tempio Nazionale “Madonna del Conforto” furono tre don Carlo Caneva, Giacomo Della Mea e il senatore della Repubblica Amor Tartufoli.

Don Carlo era stato cappellano militare sia in Albania che in Grecia, poi nel ’42 fu mandato in Russia al seguito della 5^ sezione Sanità della Tridentina inquadrata nelle truppe dell’ARMIR schierate lungo il Don. A gennaio del ’43 le truppe sovietiche riuscirono a sfondare le linee e l’esercito italiano ripiegò per evitare d’essere accerchiato, ma nella battaglia di Warwarowka il sacerdote venne catturato. Seguiranno tre anni di prigionia peggiore della morte, fin quando verrà liberato nel ’46 decimo anniversario della sua ordinazione sacerdotale. Per il coraggio dimostrato gli verrà consegnata la medaglia d’argento al valor militare, ma le inaudite sofferenze patite, i commilitoni morti, l’angoscia dei tanti dispersi restarono stimmate aperte. Fu così che nominato cappellano curato di Cargnacco senti il dovere morale di erigere un monumento ai caduti, ai desaparecidos italiani nella campagna di Russia, un tempio dedicato solo a loro perché non se ne smorzasse il ricordo.

Amor Tartufoli, classe 1896, era marchigiano d’ Ascoli Piceno, padre di un alpino della “Cuneense” caduto in Russia. Dal ‘48 eletto senatore in quota DC dalla I fino alla IV Legislatura compresa, industriale nel ramo dell’elettronica, fu “il politico” cerniera per la realizzazione del Tempio come documentano le sue relata al Presidente della Repubblica.

La posa della prima pietra del tempio è datata 9 ottobre 1949, l’inaugurazione dell’opera monumentale avvenne l’11 settembre 1955, dopo molte interruzioni legate alla penuria di fondi ma andò avanti soprattutto con l’apporto decisivo di tutte le Divisioni degli Alpini, in particolar modo della Julia.

E’ a pianta basilicale lunga 51 m e larga 22, in facciata raggiunge l’altezza di 25 m., l’architettura di riferimento è romana per l’uso in facciata di archi a tutto sesto disposti su tre registri paralleli e il motivo dei mattoni rossi spogli lavorati a faccia vista. Anche l’interno vede l’utilizzo delle volte a botte per ogni campata scandita da archi a sesto pieno. Il presbiterio, come nel Romanico, è rialzato rispetto al piano della navata e termina con un grande abside decorata da una Pietà . Secondo tradizione appunto romanica  il tempio presenta, sotto l’area presbiteriale, una cripta  con al centro il sarcofago per raccogliere i resti di un milite ignoto dell’ARMIR, restituiti dalla Russia solo nel 1991. Un vasto piazzale precede il sagrato del tempio, con al centro l’antenna portante della bandiera nazionale con a terra i nomi delle divisioni e delle battaglie della campagna di Russia. Altre 14 antenne perimetrano lo spazio, una per ciascuna Divisione dell’ARMIR.

La facciata è monumentale, presenta un avancorpo con tre accessi architravati, incorniciati dal marmo, ai registri superiori si ripete il motivo di tre grandi arcate a tutto sesto su due file sovrapposte e parallele, a coronamento terminale lo spazio dei campanili è segnato da sei archi, con rapporto ½ rispetto a quelli sottostanti. Due orologi sono posti sulle torri arretrate, segnano l’ora in Italia e in Russia secondo il fuso orario. Lassù in alto svetta una croce illuminata visibile a grande distanza, segno tangibile di un tempio della memoria condivisa, tanto vero questo che sulla facciata sono allocate le lettere  che compongono la parola PACE.

Torniamo alla cripta, illuminata da una cupola, spazio di sacralità della memoria, riposo delle ossa dei caduti, in continuità architettonica con la navata per l’ apertura vestibolare dal presbiterio. Scendiamo le scale, vorremmo che i passi non avessero rumore, anche il battito d’ali d’una falena sarebbe di troppo, c’è il silenzio dovuto al valore eroico dei nostri fratelli, ci sovvengono alla mente gli ultimi versi di “In morte del fratello Giovanni” di Ugo Foscolo:

straniere genti, l’ossa mie rendete

allora al petto della madre mesta.

La madre è la vecchia Italia che aspetta, sfogliamo i 24 leggii con scritti i nomi di 100.000 soldati caduti o dispersi  in Russia, di molti ancora  “CI RESTA IL NOME”.

 

[caption id="attachment_29542" align="alignleft" width="150"] Interno della navata del Tempio di Cargnacco[/caption]

[caption id="attachment_29543" align="alignright" width="150"] Cripta del Tempio[/caption]

Giacomo Della Mea ci lasciò nel fatidico maggio del 1968, aveva solo 61 anni di vita scritta come un romanzo. Enorme il suo lavoro di architetto (14 chiese realizzate, scuole, collegi, caserme e strade) affiancato ad impegno politico ( fu Consigliere provinciale) ed umanitario.

Una volta tanto i vinti rendono il dovuto omaggio a un vincitore forte come la roccia della Carnia.

 

Emanuele Casalena

Bibliografia:

Giacomo Della Mea: architettura sacra 1948-1968, a cura di G. Della Longa e B. Fiorini, Pasian di Prato, Lithostampa, 2013.

Gabriella Bucco, Della Mea Giacomo, Dizionario Biografico dei Friulani.

SIUSA (Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche), Della Mea Giacomo, scheda a cura di Santoboni Paolo con integrazione successiva di Valentin Paola.

Paolo Medeossi, L’architetto delle chiese che amava le montagne, Il Messaggero Veneto,27 dicembre 2012.

Wikipedia, Giacomo Della Mea.

Gabriella Bucco, Caneva Carlo, sacerdote,cappellano militare,Dizionario Biografico dei Friulani.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Los Von Rom – Enrico Marino

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Il progetto austriaco per la “dopplestaatsbruggherschaft”, cioè la doppia cittadinanza austriaca e italiana, per i cittadini dell’Alto Adige di lingua tedesca e ladina, ha infiammato il dibattito politico dei primi giorni d’estate.

Contro tale ipotesi si sono già espressi il capo dello Stato e i partiti di opposizione, sia di destra che di sinistra, perché si riaprirebbe il tema dell’identità dell’Alto Adige con tutti gli strascichi dell’irredentismo sudtirolese.

Dopo la Prima guerra mondiale il Trattato di Saint-Germain aveva assegnato all'Italia il Trentino-Alto Adige che, seppur geograficamente incardinato nella penisola italiana, era popolato in prevalenza da abitanti di lingua tedesca. Il governo fascista adottò una serie di misure volte alla nazionalizzazione della popolazione, vietando l'uso della lingua tedesca in pubblico, adottando l'italianizzazione dei cognomi, puntando sulla politica demografica, culminata nelle opzioni in Alto Adige che videro l'adesione massiccia della popolazione di lingua tedesca al trasferimento nel Reich. Alla caduta del Fascismo, il Trentino e l'Alto Adige vennero occupati dalle truppe tedesche e molti altoatesini e trentini si arruolarono in due reparti al servizio della Wehrmacht, il SS-Polizeiregiment "Bozen" e il Corpo di Sicurezza trentino.

Dopo la fine della guerra la popolazione di lingua tedesca, ladina e in parte quella trentina, sperò di essere riannessa all'Austria. Vennero raccolte ben 155.000 firme, sottoposte al governo austriaco, che spingeva per un referendum. Scartata questa ipotesi, con il benestare degli Alleati, si giunse ad un accordo fra l'Italia e l'Austria che venne accluso al trattato di pace italiano del 10 febbraio 1947 come un libero impegno assunto dall'Italia nei confronti dell’Austria che ne richiedeva una garanzia internazionale per l’attuazione.

Il trattato venne implementato dall'Italia, che ripristinò l'uso ufficiale del tedesco, il suo insegnamento, la parità delle lingue italiana e tedesca negli uffici pubblici e nei documenti ufficiali nonché nella denominazione topografica bilingue, il diritto di ristabilire i cognomi tedeschi che erano stati italianizzati, l'uguaglianza di diritti per ciò che concerne l'ammissione nelle pubbliche amministrazioni e permise il ritorno degli optanti. Insomma, l’Italia adottò nei confronti dell’Alto Adige una politica di concessioni e certamente la situazione degli altoatesini non può essere descritta come quella di una popolazione sottoposta al giogo di un conquistatore straniero.

Tuttavia, in alcuni ambienti austriaci e tirolesi non vi era intenzione di riconoscere l'assegnazione del Trentino-Alto Adige all'Italia ribadita dal trattato, sottolineando i "diritti inalienabili dell'Austria sul Tirolo meridionale”. E a nulla sono valsi, nel corso degli anni, gli aiuti economici e le condizioni di speciale favore fiscale praticati dall’Italia in quelle terre nè il riconoscimento per l'esercizio di un potere legislativo ed esecutivo regionale autonomo, anzi, i cittadini di lingua tedesca quanto maggiore è stata la libertà loro concessa, tanto più ne hanno usato e abusato, tutte le autonomie loro accordate, con la volontà di creare una collaborazione, sono divenute altrettante armi che essi hanno rivolto contro l’Italia e, a poco a poco, nell'ambito della legalità e della libertà concesse agli alto-atesini, la situazione degli italiani in Alto Adige è divenuta in molti casi insostenibile.

Per questo non ispirano alcuna simpatia le posizioni più volte espresse da una pasionaria come Eva Klotz che, riconoscendosi nella comunità germanofona, ne desidera l'autodeterminazione, nonché la secessione del Südtirol dall'Italia e la sua annessione all'Austria e per questo si batte da anni con la Süd-Tiroler Freiheit, da lei fondata, con la quale ha ideato di mettere ad ogni valico (su strada o sentiero di montagna) un cartello che recita: “Süd-Tirol ist nicht Italien!” ovvero tradotto in italiano, “L'Alto Adige non è Italia”.

E tuttavia, occorre riconoscere che gli altoatesini di lingua tedesca non sono italiani. Chiunque abbia avuto l’occasione di recarsi in Alto Adige avrà notato la diversità, la peculiarità e la tipicità di quei luoghi, la loro uniformità e la loro caratterizzazione nonchè gli abitanti con i loro abbigliamenti, i loro cibi e i loro usi assolutamente organici a una tradizione, a una cultura e a una coesione sociale profondamente vissute, con coerenza, con attaccamento, con orgoglio e con determinazione. E poi la loro lingua fortemente difesa e rivendicata come fattore identitario nel sottolineare e nell’attribuirsi una alterità rispetto all’Italia e all’italianità.

Perciò, proprio mentre l’opposizione attacca il governo lamentando il poco vigore mostrato nel contrastare l’iniziativa austriaca, occorre sottolineare lo stridente contrasto tra le affermazioni della sinistra, la sua propaganda e le sue suggestioni, rispetto ai dati ineludibili della realtà. In cento anni dall’annessione di quelle terre, l’Italia e i suoi governi (per lo più democratici e progressisti) non sono riusciti a “integrare” quella piccola comunità autoctona, peraltro europea e cristiana, portatrice di valori e di fondamenta culturali condivise. In cento anni, quelle popolazioni sono divenute italiane solo teoricamente e forzatamente. In cento anni, abbiamo avuto “cittadini” che solo formalmente, per le evidenze di un semplice e insignificante documento, risultavano italiani senza sentirsi italiani e pur essendo tutt’altro. Una dimostrazione di quanto possa valere la cittadinanza certificata da un pezzo di carta, che i progressisti avrebbero voluto concedere a tutti, magari con soli 5 anni di scolarizzazione, modificando la natura profonda degli individui e pensando di estendere a tutto il Paese un principio che ha fallito dove di fatto è stato applicato fino a oggi. In effetti, l’Alto Adige è la dimostrazione più evidente di come lo ius soli, la cittadinanza acquisita da chiunque nasca sul territorio italiano, sia una pura esaltazione ideologica destinata al fallimento nel momento in cui le ragioni del sangue si scontrano e prevalgono su quelle della carta bollata e sulle infatuazioni universaliste, umanitarie e cosmopolite. E se cento anni di convivenza non hanno eliminato certe spinte identitarie in una popolazione europea e, di fatto, affine a noi, come avrebbero potuto 5 anni di superficiale infarinatura scolastica radicare l’italianità, far acquisire una cittadinanza consapevole e vissuta, in popolazioni a noi del tutto estranee, arabe e africane, musulmane o portatrici di usanze ancestrali e tribali, ovvero di pratiche e riti spesso sconfinanti nella manifesta superstizione?

Solo l’indecenza propagandistica delle sinistre, dei cattolici progressisti e dell’immonda Emma Bonino possono continuare a cercare di propinarci la bellezza e i vantaggi dell’immigrazione, dell’accoglienza e dell’integrazione di clandestini di tutte le razze.

Ma se a costoro il popolo italiano ha già manifestato tutto il proprio disprezzo, per quanto riguarda gli altoatesini ancora si impone una risposta formale e definitiva.

L’ordinamento italiano prevede la possibilità di avere una doppia cittadinanza. L’art. 11 della L. 91/1992 stabilisce che: “Il cittadino che possiede, acquista o riacquista una cittadinanza straniera conserva quella italiana, ma può ad essa rinunciare qualora risieda o stabilisca la residenza all’estero“.

Questa disposizione permette agli italiani emigrati all’estero di poter mantenere la cittadinanza italiana pur avendo acquistato volontariamente la cittadinanza dello Stato in cui risiedono.

Non è consentito il possesso di una doppia (o plurima) cittadinanza se vi sono norme internazionali pattizie o norme statali straniere che lo vietino. L’art. 26, c. 3 fa salve, in via generale, “le diverse disposizioni previste da accordi internazionali“. Viene così affermata la loro prevalenza sulla disciplina interna.

Ma, come si vede, tutto è regolato da semplici disposizioni di legge ordinaria che, come tali, possono essere facilmente modificate. E allora, poiché non è ipotizzabile rimettere in discussione quei confini che sono costati tanti sacrifici, tanto eroismo e tanto sangue, si può, invece, modificare la disciplina della doppia cittadinanza in un senso restrittivo, prevedendo la revoca di quella italiana nel caso di acquisto di una cittadinanza estera e salva la concessione di deroghe sulla base di una decisione dello Stato.

Privati della cittadinanza e degli annessi diritti politici, gli altoatesini in Italia risulterebbero, in tal modo, dei semplici residenti austriaci con proprietà immobiliari nel Paese ma con prerogative ridotte e le stesse ampie concessioni fornite dall’Italia a quella Regione potrebbero essere ridimensionate.

Può apparire come un provvedimento coercitivo, ma si può fare volendo.

E d’altro canto, se la cittadinanza italiana è vissuta come una forzatura e un peso è appropriato sgravarsene, ma rinunziando in tutto a quello che essa comporta.

Enrico Marino

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Contro i Galilei! La svolta politica di Flavio Claudio Giuliano: aspetti dottrinali – 2^ parte – Tommaso Indelli

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II) La svolta politica di Flavio Claudio Giuliano. Aspetti dottrinali.

Nel novembre del 361 d. C., diventato imperatore, Giuliano dispose l’immediata riapertura dei templi e la ripresa dei sacrifici, proibiti,tra il 341 e il 346 d. C., da Costanzo II (†361 d. C.),dando alla politica religiosa dell’impero un indirizzo totalmente diverso da quello costantiniano (1). Come è noto, la scelta filopagana dell’Augusto, fu determinata da un duplice ordine di motivi. Il primo era l’istinto di rivalsa contro la sua stessa famiglia - i Costantinidi- e il clero, considerati responsabili dell’assassinio dei suoi parenti, all’indomani della morte di Costantino, nel 337 d. C. Infatti, nel settembre di quell’anno, i figli di Costantino - Costanzo II, Costante e Costantino II - ordinarono il massacro dei loro cugini e zii, tra i quali era anche il padre di Giuliano che, assieme al fratellastro, Flavio Costanzo Gallo (†354 d. C.) (2), fu inviato a domicilio coatto in Cappadocia, nella villa imperiale di Macellum, sotto stretta sorveglianza e per lungo tempo. Il secondo motivo era la profonda convinzione – maturata attraverso lo studio dei classici della filosofia e della letteratura greco-romana – che solo il culto tradizionale dello stato romano, fondato sul Mos Maiorum - il rispetto della tradizione – potesse assicurare la pax deorum, cioè la benevolenza degli dei e, quindi, perpetuare la grandezza di Roma. Tra i “maestri” di paganesimo di Giuliano bisogna ricordare il retore Libanio di Antiochia (†393d. C.) e il filosofo Massimo di Efeso (†372d. C.) e, soprattutto, Plotino di Licopoli (†270 d. C.), fondatore del neoplatonismo, la visione innovativa del pensiero di Platone (†347 a. C.), elaborata ad Alessandria d’Egitto dal filosofo e dai suoi discepoli, Porfirio di Tiro (†305 d. C.) e Giamblicodi Calcide (†330 d. C.) (3). Dall’alto della sua preparazione culturale e filosofica, quindi, Giuliano tentò di dare alla sua politica di Restauratio religiosa non solo un taglio giuridico-amministrativo, ma anche uno spessore ideologico, grazie al supporto della filosofia neoplatonica - di cui era seguace - e di offrire una visione il più possibile unitaria dell’universo teologico pagano. Questa sistemazione teorica del complesso delle credenze, dei rituali e dei simboli del politeismo greco-romano fu da Giuliano realizzata nella sua vasta opera letteraria in prosa e versi che fa di lui un imperatore del tutto particolare, animato da profondi interessi culturali. La produzione letteraria di Giuliano, tutta in greco, abbraccia i più diversi stili e generi letterari, dal trattato filosofico a quello retorico, dalla satira all’inno filosofico, dal panegirico al testo polemico, alla lettera. Giuliano fu, infatti, scrittore infaticabile e prolifico e, tra le sue opere, bisogna senz’altro ricordare le “Epistole”, le “Orazioni”, “I Cesari”, “L’Odiatore della barba” e “Contro i Galilei”.Tra le cosiddette “Orazioni”, sono da ricordarne due - conosciute anche come “Inni” – che furono dedicate ad argomenti religiosi: “A Helios re”e “Alla Madre degli dei”, in cui Giuliano ripercorse il mito delle due divinità reinterpretato, però, in chiave allegorica (4). Cibele venne identificata dall’imperatore con la Provvidenza - Legge universale che presiede ai cicli cosmici e alla vita degli dei e degli uomini - mentre il suo amante, Attis, fu identificato con Helios, il Principio supremo della realtà. Nell’inno in onore di Helios, Giuliano, con profonda commozione, celebrò il Principio cosmico generatore dell’Universo e degli stessi dei olimpici. Si tratta di un’opera molto complessa che rappresenta la trasposizione, nella veste di una composizione retorica, della complessa teologia giulianea.

Il Sole-Helios, associato ad Apollo e a Mitra (5) - con i quali era da Giuliano identificato - rappresentava la trasposizione, sul piano fisico-astronomico, di quel Principio primo ineffabile e metafisico di cui parlavano i neoplatonici - il Sommo Bene - e da cui derivavano, per successive emanazioni discendenti, tanto le ipostasi spirituali del cosmo, quanto la realtà materiale ed umana (6). Le singole divinità, per Giuliano, non erano altro che espressioni e manifestazioni di Helios che agiva sul cosmo e sugli stessi dei, di cui era signore, attraverso energie spirituali. Attraverso i singoli dei - secondo l’imperatore e in una prospettiva enoteista - era il medesimo Helios ad agire nel cosmo, assumendo funzioni diverse: legislatore e sovrano, nel ruolo di Zeus, di artista e poeta, nel ruolo di Hermes, di condottiero, nel ruolo di Ares, di guaritore, nel ruolo di Asclepio (7). La molteplicità delle divinità del pantheon imperiale era ricondotta, dalla teologia di Giuliano, ad unità. Sia chiaro, però, che l’enoteismo che permeava tutto il pensiero dell’Augusto era espressione di una “tendenza” dottrinale e teologica molto diffusa - tra III e IV secolo d. C. - in tutto l’impero. L’ enoteismo - dal greco εἶς, ἑνός, uno, e ϑεός, dio - pur non negando l’esistenza di più divinità, si basava sull’adorazione di una sola, di cui le altre non erano che particolari manifestazioni. Ben prima di Giuliano, nel III secolo, la politica di enoteismo religioso era stata già promossa dall’imperatore di origini illiriche Lucio Domizio Aureliano, con l’istituzione del culto del Sol Invictus, di cui si è già detto. “I Cesari” sono un’operetta satirica - conosciuta anche col titolo di “Simposio” o “Saturnali” - in cui Giuliano passava in rassegna l’operato di tutti gli imperatori romani suoi predecessori, immaginando un banchetto voluto da Romolo-Quirino, sull’Olimpo, in occasione della festa dei Saturnali, durante il quale si discuteva su chi fosse stato il migliore di essi. Al banchetto era invitato a partecipare, su invito di Eracle, anche Alessandro il Macedone (†323 a. C.) (8). Dopo aver presentato e passato in rassegna virtù e vizi dei vari imperatori, a partire da Giulio Cesare (†44 a. C.), la palma della vittoria era assegnata a Marco Aurelio (†180 d. C.), ovvero all’imperatore filosofo del secondo secolo, seguace dello stoicismo e duro persecutore dei cristiani, immaginato, da Giuliano, come un vero e proprio archetipo politico di cui ripercorrere le orme (9). Marco Aurelio risultava vincitore perché - a detta anche degli altri partecipanti alla “gara” - le sue gesta erano imitazione di quelle degli dei e, pertanto, più degne di un dio che di un comune mortale. Marco Aurelio era considerato da Giuliano un imperatore immune da ogni difetto morale, quasi una divinità, se si esclude l’amore eccessivo per la moglie, Faustina (†176 d. C.) e per il figlio, Commodo (†192 d. C.), poi divenuto imperatore e distintosi per un governo tirannico (10). Dall’opera, invece, usciva molto male la figura di Costantino - zio di Giuliano e primo imperatore cristiano - e, in questo ruolo, sprezzante del culto degli dei, responsabile di impietas e associato, tra tutti gli imperatori in gara, alla dea Lussuria e a Gesù (†30 d. C. ca.), da cui si lasciava sedurre con le sue promesse di perdono e impunità per i suoi orribili crimini. Marco Aurelio, invece, era associato alle divinità di Giove e Crono che, chiaramente, simboleggiavano la sovranità, mentre l’associazione di Costantino alla Lussuria era, forse, imputabile alla sua movimentata vita matrimoniale contrassegnata - come si è detto - dall’uxoricidio di Fausta e dall’uccisione del figlio Crispo (11). L’opera satirica “L’Odiatore della barba” - nota anche come “Discorso agli Antiocheni” - fu composta nel 363 d. C.e indirizzata da Giuliano agli Antiocheni, responsabili di aver deriso l’aspetto barbuto dell’imperatore, poco adatto - secondo i canoni dell’epoca - ad un sovrano, ma, piuttosto, ad un filosofo o a un monaco cristiano! L’opera, di carattere satirico, vedeva Giuliano delineare, autobiograficamente, la propria personalità morale, ricorrendo all’espediente di far proprie tutte le contumelie che il popolo di Antiochia gli rivolgeva, fingendo di rivolgersi ad un interlocutore immaginario (12). “Contro i Galilei” - senz’altro l’opera più importante di Giuliano, se si guarda alla prospettiva di Restauratio religiosa che guidò la sua azione di governo- è, invece,un vero e proprio J’accuse contro l’ipocrisia e la “follia” cristiana. Il trattato - scritto tra il 362 e il 363d. C., ad Antiochia, durante la preparazione della sfortunata spedizione contro i Persiani - non è pervenuto in originale, ma è ricostruibile dalla confutazione che ne fece, nel suo Contra Iulianum, il patriarca di Alessandria, Cirillo (412-444d. C.), che - sia detto per inciso - fu anche il responsabile - quantomeno sul piano morale - dell’uccisione della filosofa neoplatonica Ipazia, figlia del matematico Teone (†405 d. C.). L’assassinio avvenne ad Alessandria, nel 415 d. C., ad opera di alcuni monaci egiziani e della plebe alessandrina da loro fomentata, con l’avallo del patriarca (13). Scritto in greco, “Contro i Galilei”risente, certamente, delle letture del princeps, tra cui non mancarono alcuni “classici” del pensiero pagano e della polemica anticristiana, come il “Discorso veritiero” di Celso († 180d. C.), uno dei primi pamphlet organici scritti da un pagano contro i cristiani, in difesa del culto di stato e del Mos Maiorum (14). Molti degli argomenti invocati da Giuliano contro i cristiani, infatti, sembrano ricalcati da Celso, come il rifiuto immotivato di prestare servizio militare e di rivestire cariche pubbliche, con i connessi obblighi, l’accusa di essere dei sovvertitori politici dell’impero e degli ignoranti, data l’estrazione sociale infima degli appartenenti alla setta, o l’accusa di operare falsi miracoli, in realtà frutto di conoscenze magiche. All’influenza di Celso, poi, è da aggiungere quella del filosofo neoplatonico Porfirio di Tiro e del suo trattato, in 15 libri, “Contro i Cristiani”, sicuramente letto e apprezzato da Giuliano (15).

Inoltre, è del tutto evidente che, nell’opera di Restauratio, Giuliano poté avvalersi del contributo di amici e collaboratori fedeli e ideologicamente motivati che appoggiarono la sua politica e, spesso, ne furono anche gli ispiratori (16). Si rammenti Saturnino Secondo Sallustio - o Salustio - forse di origine gallica, prefetto del pretorio d’Oriente (361-367d. C.) che, alla morte di Giuliano, fu anche acclamato imperatore, ma declinò l’offerta delle truppe, per l’età avanzata (17). Sallustio - cui Giuliano dedicò l’Orazione “A Helios re” - si rivelò un funzionario scrupoloso ed efficiente, ma anche valido studioso e filosofo. Fu autore di un’opera scritta in greco, “Sugli dei e il Mondo”, pervasa di spunti neoplatonici, in cui sintetizzava - sotto il profilo etico, cosmologico e teologico - le idee ispiratrici del paganesimo giulianeo. L’opera di Sallustio può essere definita, a buon diritto, il “catechismo ufficiale” della restaurazione religiosa di Giuliano (18). Colpisce il lettore che Giuliano, in tutta la sua vasta produzione letteraria, definisca generalmente i cristiani con l’appellativo di “Galilei” che, alla sua epoca, era passato in disuso. Tale appellativo - già adoperato, nel II secolo, dal filosofo stoico Epitteto (†125d. C.) - aveva una duplice valenza, sia dispregiativa, sul modello dell’appellativo di “pagani” - campagnoli, rustici, villani - utilizzato dai cristiani per indicare i seguaci dell’antica religio, sia geografica (19). L’appellativo di Galilei, infatti, derivava dall’omonima regione palestinese, ubicata a nord della Giudea propriamente detta e di Gerusalemme, dove si trovava Nazareth, il villaggio da cui proveniva la famiglia di Gesù, nato invece - come è noto - a Betlemme, in Giudea. Insistere sull’origine specifica, dal punto di vista geografico, della fede cristiana e dei suoi primi adepti, significava, per Giuliano - in aderenza alle sue convinzioni in materia religiosa - sottolineare la specificità etnica del cristianesimo, circoscrivendo il fenomeno religioso a una specifica provincia dell’impero romano e ad uno specifico contesto etnico-culturale, decisamente povero, popolato da contadini, artigiani e pescatori, e da cui mai nulla di buono o di grande - secondo la prospettiva giulianea - era pervenuto. Tuttavia, Galilei non fu l’unico appellativo riservato da Giuliano ai cristiani, che vennero definiti dall’imperatore anche empi, atei, folli e, persino, apostati. In particolare, l’accusa di “follia” rivolta ai Galilei derivava senz’altro dall’incomprensibilità - per Giuliano - di molti dogmi della fede cristiana, non spiegabili, secondo l’imperatore, razionalmente (20). Partendo da una posizione neoplatonica ed enoteista, nel “Contro i Galilei”Giuliano riteneva gli dei greco-romani e delle singole stirpi ricomprese nell’impero - Dei etnarchi - specifici di una particolare civiltà e di un particolare έθνος. Nella categoria degli Dei etnarchi - secondo Giuliano - rientravano anche le divinità tradizionali del pantheon greco-romano, il Dio dei Giudei e lo stesso Dio cristiano! Ma l’universalità ed esclusivismo del Dio cristiano rendeva molto difficile, se non impossibile, l’intento giulianeo di cooptazione nella categoria anzidetta. Gli Dei etnarchi, comunque, rappresentavano, secondo la teologia giulianea, l’esito di un processo epifanico e cosmogonico di generazione progressiva che, partendo dal Principio unico generatore dell’universo - Dio, l’Uno - entità assolutamente trascendente, assimilato anche ad Helios-Apollo-Mitra, degradava verso il basso, per successive e progressive emanazioni teofaniche - Intelletto Universale, Anima Universale, Dei Etnarchi - per giungere ai demoni, alle anime individuali, alla Materia e, quindi, a tutto il genere umano. In questo processo teofanico, i demoni - entità spirituali per nulla assimilabili ai diavoli cristiani - svolgevano la funzione importantissima di elemento di congiunzione tra gli spiriti individuali - vere e proprie scintille divine immanenti nella materia corporea, ma dotate di vita propria - e gli Dei Etnarchi, da cui la scala ascendente dell’essere risaliva, grado dopo grado, verso il Principio primo generatore del tutto. Nel sistema teologico elaborato dall’imperatore, oltre ai demoni, svolgevano un’importante funzione di intermediazione, tra umanità e dei olimpici, gli eroi o semidei, frutto del congiungimento, secondo gli antichi miti greco-romani, di una divinità e di un mortale, e tra i quali Giuliano amava soprattutto Eracle e Dionisio. Essi erano, per Giuliano - che ne interpretava, allegoricamente, i miti - due semidei dispensatori di civiltà al genere umano, attraverso il conferimento - sotto la guida di Atena Pronoia (La Provvidente) - della sovranità politica e delle leggi l’uno, e della vite e del vino l’altro. A queste due divinità l’Augusto - in quanto intermediario tra Helios e gli uomini - fu più volte assimilato dalla pubblicistica del tempo, soprattutto dall’oratore e filosofo Temistio di Paflagonia (†388 d. C.) (21). Gli Dei Etnarchi, secondo Giuliano, erano anche le divinità che imprimevano i caratteri fondamentali agli stessi popoli ricompresi nell’impero - e a cui erano preposti - così che ogni specifica etnia si caratterizzava per proprie specificità spirituali, ma anche linguistiche e, più in generale, culturali. Insomma, le caratteristiche dei singoli dei si proiettavano e si riverberavano su quelle dei singoli popoli, compreso il Dio dei Giudei! La particolarità del Dio cristiano, invece, era la sua assolutezza, il fatto di non avere alcuna specifica etnia di riferimento, ma, assimilando tutti nella sua Chiesa, pretendeva di cancellare ogni differenza tra i culti e, quindi, tra i popoli (22)! Il paganesimo giulianeo risultava intensamente permeato di filosofia neoplatonica e non era assimilabile tout court all’antico culto di stato greco-romano o alle concezioni diffuse tra il volgo pagano. Non a caso, il pensiero dell’Augusto tendeva a spiritualizzare le singole divinità tradizionali del pantheon classico - Giove, Minerva, Marte - sostenendo come i simulacri che li raffiguravano non erano altro che simboli, che trasmettevano una realtà ineffabile, più profonda, fatta di numina, ossia di “potenze” non circoscrivibili nel marmo o nella pietra. L’immagine della divinità nel tempio - e il relativo culto - non erano altro che mezzi umani per avvicinarsi ad una realtà superiore che non circoscrivevano, né limitavano. Lo stesso Helios non si identificava con l’astro solare, poiché Helios non era che il simbolo e l’immagine visibile del Principio primo, da cui - come i raggi e il calore che promanano dal sole - discendevano giustizia e benessere per il mondo (23). Giuliano, inoltre, favoriva il sincretismo tra divinità differenti dell’antico pantheon. Infatti, Apollo era assimilato al Sole - come Mitra d’altronde - e gli antichi miti erano da considerarsi allegorie e costruzioni concettuali, cui i poeti più antichi avevano fatto ricorso per spiegare forze naturali altrimenti inspiegabili e, tuttavia, realmente esistenti.

Così, per l’Augusto, il mito acquisiva una dimensione educativa e nobilitava l’uomo (24). Ogni religione - sosteneva Giuliano, ragionando da romano - era espressione del Mos Maiorum, ovvero del complesso delle tradizioni degli antenati e delle singole stirpi che popolavano l’impero e, dunque, non si poteva pretendere di abolirla - come suggerivano i cristiani - senza profanare l’eredità dei padri e degli antiqui ac boni mores (25). Gli dei andavano onorati per la prosperità dello stato, con la celebrazione dei riti e delle antiche preghiere, e attraverso le pratiche teurgiche, cioè attraverso l’attuazione di un insieme di “tecniche magiche” - molto diffuse nei circoli neoplatonici o tra gli adepti dei culti misterici - che, attraverso l’esecuzione di complessi rituali verbali e gestuali, avevano la finalità di imbrigliare l’energia divina in un essere umano, realizzando una sorta di osmosi tra spirito e materia, o nel simulacro della divinità che, animandosi, dispensava miracoli o responsi (26). Il cristianesimo, quindi, per il suo proselitismo universalistico e la sua intolleranza monoteista verso ogni altra forma di culto, appariva a Giuliano come una fede spregevole e socialmente sovversiva degli equilibri interni alle varie etnie dell’impero (27). I cristiani, con il loro disprezzo per ogni culto e tradizione etnica, in nome di un malsano proselitismo cosmopolita che pretendeva di azzerare tradizioni secolari, apparivano come una sorta di animale polimorfo - ibrido - oltre che socialmente pericoloso, che andava se non distrutto, quantomeno messo in condizione di non nuocere. La mancata venerazione degli dei - come voleva la propaganda cristiana - avrebbe causato la fine della pax deorum - del favore divino per l’impero - e, con esso, la fine di Roma. Inoltre, il culto tradizionale degli dei, proprio perché basato sulla venerazione di più divinità, senza alcuna pretesa di esclusivismo cultuale, si prestava certamente meglio del rigido monoteismo abramitico a governare un impero da sempre multietnico e multireligioso. L’attaccamento alla tradizione e al culto dei padri spinse l’imperatore a simpatizzare persino col giudaismo, da lui considerato religione etnica - per l’antichità del culto e delle Scritture ebraiche - e per l’attaccamento dei Giudei - avversari dei cristiani - alle tradizioni dei patriarchi Abramo e Isacco. La logica che presiedeva alla politica dell’imperatore era chiara: favorire il giudaismo significava contrapporre ai cristiani un monoteismo più antico, più nobile e prestigioso, ma anche caratterizzato da alcune affinità con la religione pagana, come i sacrifici e i templi. Inoltre, ciò che colpiva Giuliano del giudaismo era anche la natura etnica - avversa a forme di proselitismo universalistico - in cui rinveniva un’altra forte affinità col paganesimo (28). L’imperatore aveva senz’altro ragione nel constatare che il cristianesimo nacque, fin dalle origini, come “eresia” del giudaismo, religione caratterizzata da una precisa identificazione etnica e da scarsa vocazione proselitistica. Basti pensare al fatto che l’identità ebraica - secondo i precetti talmudico-rabbinici - fu - ed è determinata - innanzitutto, dal “sangue”, dalla discendenza biologica in linea matrilineare - in base al noto principio mater certa, paternumquam - e non dalla semplice adesione ad una pratica cultuale. Ovviamente, nella storia del “popolo eletto”, non mancarono casi di conversione di “gentili” al giudaismo, quello che mancò, invece, fu un’attività proselitistica organizzata e metodica, rinvenibile, invece, nella storia degli altri due monoteismi abramitici, cristianesimo ed islàm.

D’altronde, un’intensa attività proselitistica avrebbe potuto rivelarsi un danno per una stirpe che mirava alla preservazione della propria identità etnoculturale, soprattutto tra le comunità della Diaspora che vivevano a contatto con genti straniere ed ostili, praticando, pertanto, una ferrea endogamia etnica (29). Giuliano, inoltre, non esitò a ritorcere contro i cristiani l’accusa di apostasia che gli veniva rivolta, appellandoli come apostati del giudaismo, poiché i Galilei avevano rinnegato le prescrizioni della legislazione mosaica e anche gli insegnamento del Maestro, che non si era mai proclamato figlio di Dio - come asserivano tutti i Vangeli - escluso Giovanni (30). Il disprezzo dei Galilei per tutte le altre fedi, per le tradizioni di tutti i popoli dell’impero e l’alta considerazione riservata solo alle proprie verità - tra l’altro considerate da Giuliano “follia” - ne faceva degli apostati dell’umanità, rinnegatori dell’intero genere umano. L’apostasia - quella vera - era, per Giuliano, il vizio d’origine del cristianesimo (31). Se il giudizio di Giuliano sui seguaci degli insegnamenti di Gesù non era benevolo, non lo era neanche quello sul loro stesso Maestro, poiché non rinveniva - nella storia di Gesù - nulla di divino, né di eccezionale ed esaltante, vedendo in lui solo un falegname della Galilea, iniziato alle arti magiche da qualche Egiziano, morto crocefisso in quanto ribelle all’impero (32). In omaggio al dio giudaico che, come le altre divinità, Giuliano comprendeva nella categoria delle divinità etnarchiche, l’imperatore promosse la ricostruzione del tempio di Gerusalemme - distrutto, nel 70 d. C., dal generale Tito Flavio Vespasiano (†81d. C.)- oltre che per smentire la profezia, fatta da Cristo, sulla sua distruzione (33). Probabilmente, il progetto di Giuliano prevedeva di ricostruire, col tempo, l’intera città di Gerusalemme, ma l’iniziativa - affidata all’architetto Alipio di Antiochia - non fu portata a termine a causa di alcuni terremoti che devastarono la Palestina (34). Giuliano, d’altronde, conosceva bene tanto le Scritture giudaico-cristiane che l’evoluzione storica dell’“eresia” cristiana. Egli sapeva che il cristianesimo, benché “eresia” giudaica - Gesù e i suoi discepoli erano Giudei - già a partire dal I secolo d. C. aveva mostrato, con la predicazione di Saulo di Tarso (†67d. C.), una precocissima evoluzione in senso universalistico, rompendo definitivamente i suoi rapporti col giudaismo (35). Com’è noto, Saulo - meglio conosciuto come Paolo - era nato in Cilicia (Asia Minore) ed era un giudeo della Diaspora, appartenente alla tribù di Beniamino (36). Fariseo e cittadino romano, per meriti sconosciuti - da cui il nome Paolo - iniziò il suo apostolato dopo la misteriosa conversione avvenuta presso Damasco, in Siria, dove si stava dirigendo per perseguitare i cristiani su ordine del sinedrio di Gerusalemme. Giudeo non palestinese, con forte propensione al cosmopolitismo, dopo aver constatato lo scarso successo del proselitismo cristiano tra gli Ebrei, Saulo pensò di rivolgersi ai “gentili”, cioè ai pagani.

Con acume intellettuale e senso pragmatico, Saulo svalutò, teologicamente, il significato salvifico della Torah mosaica e delle pratiche cultuali tradizionali - circoncisione, Tempio, festività - considerandole superate dal Vangelo di Gesù, trasformando, così, il cristianesimo in una religione a vocazione universale (37). Il cristianesimo, allora, perse progressivamente la sua connotazione etnica e si affermò come vera e propria religione salvifica, aperta a chiunque volesse aderirvi, a prescindere dalle sue origini. Da quel momento, l’appartenenza al cristianesimo - a differenza del giudaismo - non fu determinata da fattori genetici o etnici, ma dal battesimo, che è il rito di iniziazione della Chiesa cristiana fin dai tempi più antichi (38). La predicazione paolina scatenò persecuzioni da parte dei Giudei e determinò profonde lacerazioni nella Chiesa. Saulo fu avversato dagli apostoli e dai discepoli di Gesù di origine giudaica - guidati da Giacomo “il Minore” (†62d. C.) - che non intendevano abbandonare le usanze ebraiche, anzi volevano imporle anche ai “gentili” convertiti alla nuova religione (39). Il conflitto tra le due fazioni si concluse, apparentemente, nel 49 d. C., con la convocazione del concilio di Gerusalemme, in cui fu adottata una soluzione di compromesso tra le posizioni di Saulo e di Giacomo (40). I gentili convertiti al cristianesimo dovevano astenersi dall’osservanza della Legge mosaica tranne che su alcuni punti: astensione dalla fornicazione, dai sacrifici pagani, dal sangue e dalla carne di carogne, o di animali soffocati e sacrificati agli idoli (41). Nonostante il compromesso raggiunto, comunità giudaico-cristiane, come gli Ebioniti, osservanti degli antichi precetti mosaici - che imponevano anche ai neoconvertiti pagani - continuarono a sopravvivere fino al IV secolo (42). La simpatia di Giuliano per i Giudei era, però, funzionale alla polemica contro il cristianesimo e, in ogni caso, non si spinse mai oltre determinati limiti, e non gli impedì di esprimere perplessità sul Dio degli Ebrei, e sulle sue pretese di esclusività cultuale, anche perché il Dio ebraico era anche quello dei cristiani, almeno in base a quanto questi ultimi asserivano. Giuliano, ad esempio, considerò impossibile la creazione del mondo e della materia dal nulla - ex nihilo - secondo quanto sostenevano le Sacre Scritture, perché ciò contrastava fortemente con gli insegnamenti platonici cui aderiva e che presupponevano la co-eternità della materia con il Principio primo che, secondo l’Augusto, si sarebbe limitato ad agire sulla materia solo come “Demiurgo”, senza crearla. Il Demiurgo che, platonicamente, si limitava a modellare il mondo, sull’esempio offerto dalle idee, immanenti nel Principio primo della realtà, e costituenti gli archetipi eterni degli enti mortali, era da identificare, secondo il pensiero teologico giulianeo, con Zeus-Giove, quindi con lo stesso Helios, di cui Giove non era altro che un’epifania. Il Demiurgo non creava, come il Dio cristiano, dal nulla, ma modellava, secondo le idee, dando così forma al mondo, un sostrato materiale che era preesistente al mondo stesso. Giuliano ironizzò anche su alcune rappresentazioni di Dio nelle Sacre Scritture ebraiche, dove la divinità era descritta con passioni e pulsioni umane, spesso negative - rabbia, gelosia - ed evidenziò, più di una volta, le incongruenze letterarie contenute nei sacri testi, di cui aveva buona conoscenza (43). Infatti, argomentava l’imperatore, se le Scritture fossero state rivelate veramente da Dio agli uomini - come asserivano gli Ebrei - avrebbero dovuto essere quantomeno esenti da tali storture (44). Giuliano riteneva, inoltre, assolutamente fuorviante l’idea che il Dio ebraico potesse essere considerato il Dio di tutti gli uomini, poiché aveva espressamente eletto un solo popolo come suo prescelto, tra i tanti, facendogli addirittura dono della Legge mosaica.

Secondo il Mos Maiorum, infatti, ogni etnia aveva i suoi dei, dai quali traeva caratteri e qualità (45). L’attaccamento di Giuliano ai culti tradizionali dello stato romano derivava anche dalla sua alta e personale concezione dell’ufficio e del ruolo pubblico dell’imperatore, all’interno dellaRes publica, come emerge dalla “Lettera a Temistio”, scritta intorno al 361d. C., in cui l’Augusto, rispondendo al retore e filosofo greco, che domandava un incarico a corte, sosteneva la necessità, per il sovrano, di essere platonicamente superiore ai suoi sudditi da un punto di vista morale, cioè simile agli dei ma, allo stesso tempo, subordinato alle leggi (46). A Temistio che, pur esaltando il ruolo del governante-filosofo di ascendenza platonica, ne ribadiva la superiorità alla legge e la possibilità di poterla mutare a piacimento, Giuliano rispose che il vero ruolo del saggio governante era quello di guardiano delle leggi e, quindi, ad esse sottoposto, come tutti gli altri sudditi (47). La sottomissione alla legge del sovrano era l’unico antidoto a debolezza e imperfezione intrinseche alla natura umana e, quindi, l’unica garanzia di sopravvivenza di una comunità politica all’insegna di una convivenza civile e l’unica forma di approssimazione possibile al governo ideale in un mondo imperfetto. Rispettare la legge, e sottomettervisi, era anche il miglior modo di onorare gli dei - sottolineava Giuliano - da cui tutte le leggi promanavano. Nella medesima Lettera, prendendo posizione contro chi sosteneva la necessità, per il filosofo, di non partecipare alla vita pubblica, Giuliano ribadì - pur tra alcuni dubbi - il dovere di tale partecipazione e, al di là di ogni ottusa dogmaticità, considerò anche il ruolo che, nel governo degli stati, rivestono la fortuna e il caso responsabili, talvolta, della rovina di uomini saggi (48). Chi era preposto a funzioni pubbliche - sosteneva Giuliano - doveva essere in grado di contenere, disciplinare la componente irrazionale e ferina dell’essere umano, subordinando tutto alla ragione, unica facoltà in grado di produrre buone leggi, adatte a tutelare il pubblico interesse. L’imitazione della divinità - “Ομοίωσις Θεώ - fu una costante di tutto il pensiero politico di Giuliano e rappresentò lo strumento con cui innalzare, al di sopra dei comuni mortali, la figura dell’imperatore – Βασιλεύς φιλόσοφος -esaltandone la dignità della funzione e mettendone in luce il ruolo evergetico, se non soteriologico, cioè il dovere pubblico di migliorare la vita dei sudditi, sforzandosi, come un dio, di diffondere nel mondo la felicità (49). Si tratta di una visione del ruolo della massima autorità della Res publica perfettamente coincidente con l’archetipo politico che Giuliano aveva scelto per sé, ossia l’imperatore filosofo Marco Aurelio, che l’Augusto elogiò, come si è detto, ne “I Cesari”. Le idee espresse da Giuliano a Temistio, lungi dall’essere una mera dichiarazione d’intenti, trovarono sempre attuazione nella sua azione politica, al di là del tentativo di Restauratio religiosa. Giuliano fu un sovrano sempre rispettoso della legalità costituzionale, del senato e delle istituzioni della Res publica, persino nella forma, non volle mai farsi chiamare imperator, ma princeps - primo cittadino - e, salvo che in rari casi imposti dal cerimoniale, disdegnò persino gli ornamenti imperiali: diadema, porpora e scettro. Fu sempre contrario ad una visione dinastica dell’ufficio imperiale - a prescindere dal fatto che non ebbe figli - perché tale visione era pericolosa per la stabilità delle istituzioni, ritenendo che la scelta dell’imperatore dovesse cadere, sempre, sul “migliore” e non essere affidata alla semplice discendenza biologica (50).

Note:

1 - Sugli editti di Costanzo II,Codex Theodosianus, ediderunt Th. Mommsen et P. Mayer, Berlin 1905, XVI, 10, 2 e 4.Sulla legislazione antipagana di Costanzo II, P. O. Cuneo, La legislazione di Costantino II, Costanzo II e Costante (337-361), Milano 1997.
2 - Gallo fu poi fatto uccidere dall’imperatore Costanzo II (337-361 d. C.), nel 354 d. C., a Pola, dopo essere stato accusato di sedizione e lesa maestà.
3 - Il carattere “sincretico” del pensiero giulianeo è stato sottolineato, con forza, dalla studiosa greca Polymnia Athanassiadi-Fowden. L’opera della Athanassiadi-Fowden - Julian and Hellenism. An Intellectual Biography - pubblicata nel 1981, si concentrava, soprattutto, sulla ricostruzione degli aspetti intellettuali della personalità di Giuliano, attraverso l’analisi della sua sterminata produzione letteraria, senza considerare, però, gli elementi propagandistici ed apologetici delle sue pagine autobiografiche che - secondo la storica - risentivano di un tentativo di autorappresentazione inevitabilmente unilaterale e poco obiettivo. La Fowdenri dimensionò il carattere di originalità della filosofia e del sistema teologico elaborato dall’imperatore, sottolineandone il richiamo al neoplatonismo di Plotino e Giamblico, che Giuliano non avrebbe fatto altro che assimilare, elaborando un modello proprio, ma privo di elementi di originalità e funzionale soltanto ai suoi scopi politici. P. Athanassiadi-Fowden, Giuliano. Ultimo degli imperatori pagani, Genova 1994.
4 - Sull’interpretazione allegorica degli antichi miti, N. Turchi, Le religioni misteriosofiche del mondo antico, Genova 1987.
5 - Il culto di Mitra incominciò a diffondersi nella società romana, soprattutto tra l’esercito, a partire dal II secolo. La divinità era anche associata al Sole e ad Apollo ed era originaria della Persia. Infatti, Mitra non era altro che uno degli Amesha Spenta - “Santi immortali” - creature angeliche che sostenevano il dio della religione mazdaica – Ahura Mazdā- personificazione del principio metafisico del bene, nella lotta cosmica contro la divinità del male, Ahriman o Angra Mainyu. Ben presto, per ragioni sconosciute, Mitra assunse il rango di divinità autonoma con un proprio culto religioso, in genere praticato in strutture ipogee, i mitrei. Il culto prevedeva sette gradi di iniziazione - corrispondenti ai sette pianeti – e non ha lasciato tracce scritte, perciò è difficilmente ricostruibile con esattezza. In genere, la divinità presiedeva ai giuramenti e a tutto ciò che comportava assunzioni di obblighi morali o giuridici e veniva raffigurata con abbigliamento militare, probabilmente in riferimento alla sua militia al servizio del principio del Bene contro Ahriman, e ciò spiegherebbe anche la sua diffusione tra l’esercito. Nel IV secolo, con la progressiva diffusione del cristianesimo e la messa fuori legge dei culti non cristiani anche il mitraismo iniziò una progressiva decadenza che si concluse con la sua scomparsa nel V secolo. Si trattava, inoltre, di un culto salvifico che assicurava beatitudine ed immortalità ai suoi adepti, tra i cui riti vi era, senz’altro, la tauroctonia. Sul culto mitraico, N. Burrascano, I misteri di Mithra, Genova, 1979.
6 - A. D. Nock, La conversione. Società e religione nel mondo antico, Bari 1974.
7 - F. Cumont, Le religioni orientali nel paganesimo romano, Roma 1990.
8 - Simposio. I Cesari, a cura di R. Sardiello, Galatina (Lecce) 2000, 317 b-d.
9 - L’imperatore fu autore, come Giuliano, di un’opera filosofica, redatta in greco e in dodici libri, dal titolo “Pensieri” o “A se stesso”.
10 - Simposio cit., 317 b-d e 328 b-d.
11 - Ne “I Cesari”, molto positivo era anche il giudizio di Giuliano su Aureliano, il primo imperatore ad introdurre, ufficialmente, a Roma, il culto di Helios e su Diocleziano, considerato esempio di oμόνοια, cioè di concordia politica. Su Aureliano, Simposio cit., 314 a. Su Diocleziano, Simposio cit., 315 b. Su Costantino, M. Amerise, La figura di Costantino nei Caesares di Giuliano l’Apostata, in ‹‹Rivista storica dell’antichità››, XXII, (2002).
12 - Per il testo del “Misopogon”, si veda Giuliano Imperatore, Alla Madre degli Dei e altri discorsi, a cura di J. Fontaine, C. Prato e A. Marcone, Milano, 1987. Per un’antologia delle opere di Giuliano (senza le Lettere), Flavio Claudio Giuliano, Uomini e dei. Le opere dell’imperatore che difese la tradizione di Roma, a cura di C. Mutti, Roma 2004. Per le “Lettere” si veda, M. Caltabiano, L’ “epistolario” di Giuliano Imperatore, saggio storico, traduzione, note e testo in appendice, Napoli 1991.
13 - Su Ipazia, S. Ronchey, Ipazia. La vera storia, Roma 2011. Per l’opera antigiulianea di Cirillo, A. Capone, Estratti del Contra Iulianum di Cirillo di Alessandria nel Codex Athos Xeropotamou 256, in Auctores Nostri, 2, Bari 2005.
14 - Di Celso non si conosce né l’origine, né alcun altro dettaglio biografico. La ricostruzione dell’opera di Celso, non pervenuta direttamente, è frutto della confutazione che ne fece Origene di Alessandria (†253), nel suo Contra Celsum. L. Rougier, La sovversione cristiana e la reazione pagana sotto l’impero romano, Roma 1992.
15 - Per l’opera di Celso, Celso, Contro i Cristiani, a cura di S. Rizzo, Milano 2006. Per l’opera di Porfirio, Porfirio di Tiro, Contro i Cristiani, a cura di G. Muscolino, Milano 2009. Su Porfirio, si veda anche più sopra.
16 - Sui collaboratori di Giuliano, si veda il nostro già citato contributo, Giuliano l’Apostata, un rivoluzionario al potere, pubblicato in questo sito.
17 - La perizia amministrativa di Sallustio, la sua professionalità e moderazione gli consentirono di conservare la prefettura pretoriana anche dopo la morte di Giuliano, fino al 367 d. C. - data della sua probabile morte - sotto imperatori cristiani come Valentiniano (364-375 d. C.) e Valente (364-378 d. C.).
18 - Si veda sul punto, Sallustio, Sugli dei e il mondo, a cura di R. Di Giuseppe, Milano 2000.
19 - Per una ricostruzione esaustiva del sistema teologico giulianeo, N. Gatta, Giuliano imperatore. Un asceta dell’idea di stato, Padova 1995.
20 - Sul punto, R. Scicolone, Le accezioni dell’appellativo “Galilei” in Giuliano, in «Aevum», LVI, (1982). Si ricordi, inoltre, che i cristiani avevano cominciato ad essere chiamati così - e non più Galilei o Nazareni - proprio dai pagani, ad Antiochia, come riferisce il Nuovo Testamento. Sul punto, Atti degli Apostoli, 11,26.
21 - R. Chiaradonna, La Lettera a Temistio di Giuliano Imperatore e il dibattito filosofico nel IV secolo, in A. Marcone (a cura di), L’imperatore Giuliano. Realtà storica e rappresentazione, Milano 2015.
22 - H. Corbin, Il paradosso del monoteismo, Casale Monferrato 1986.
23 - Sul significato più profondo dei numina divini, J. Evola, Ricognizioni. Uomini e Problemi, Roma 1974.
24 - Sallustio, o. c., 3.0P.
25 - Sulla polemicagiulianea contro i cristiani, E. Wipszycka, Storia della Chiesa nella Tarda Antichità, Milano, 2000.
26 - Sulle pratiche teurgiche, E. R. Dodds. I greci e l'irrazionale. Milano 2009.
27 - Discorso contro i Galilei, in Giuliano l’Apostata. Saggio critico con le operette politiche e satiriche tradotte e commentate, a cura di A. Rostagni, Torino 1920, 306b,
28 - Ivi, 306b, 354b, 358d.
29 - Per questi aspetti dell’identità ebraica, A. Salvioli, Israele, Storia dell’oggi. Paesi, protagonisti, questioni, Roma 1992.
30 - Discorso contro i Galilei, 327a-b.
31 - Ivi, 207.
32 - Ivi,327a-b. Giuliano, rispetto a Porfirio di Tiro, non fece alcuna distinzione tra i Galilei e il loro maestro, Gesù. Al contrario, Porfirio condannò i cristiani, ma ritenne Gesù persona religiosissima e gradita persino agli dei! Sul punto, Porfirio di Tiro, Contro i Cristiani cit.
33 - Vangelo secondo Luca, 21, 8-24, Vangelo secondo Matteo, 24, 2.
34 - Ammiano Marcellino, o. c., XXIII, 1, 3. Ammiano, in verità, descrive fenomeni paranormali, difficilmente qualificabili come semplici terremoti.
35 - Discorso contro i Galilei cit., 201-220. L’universalismo cristiano e la sua ansia da proselitismo rendono comprensibili, ancora oggi, certi atteggiamenti di Santa Romana Chiesa in materia di controllo dei flussi migratori, in direzione dell’Europa. L’attuale pontificato, su tale argomento, non ha fatto altro che condurre all’esasperazione atteggiamenti e prese di posizione dogmatiche che, però, costituiscono, ab origine, la vera essenza della religione cristiana.
36 - La Diaspora fu, letteralmente, la “dispersione” degli Ebrei nei paesi prospicienti il Mediterraneo - e non solo - soprattutto in conseguenza della distruzione di Gerusalemme e del tempio, ad opera dei Romani, al termine della guerra giudaica del 66-70 d. C. La dispersione si aggravò dopo la ribellione del 132-135 d. C., spietatamente repressa dai Romani, che proibirono ai Giudei persino di risiedere a Gerusalemme, dove fu impiantata una colonia col nome di Aelia Capitolina. In realtà, la Diaspora era iniziata molto prima di questi fatti - nel primo millennio a. C. - all’indomani della conquista della Palestina e della deportazione delle tribù di Israele operate dagli Assiri, nel 722 a. C., e dai Babilonesi, nel 587 a. C. Per una biografia dell’”Apostolo delle genti”, R. Fabris, Paolo di Tarso, Roma 2008. C. Riccardo, Paolo: l'ebreo che fondò il cristianesimo, Milano 1999.
37 - Per questi aspetti del paolinismo, M. Pacilio, L’invasione. Prodromi di una eliminazione etnica, Padova 2017.
38 - Cristiani non si nasce, dunque, ma si diventa, perché l’appartenenza a Cristo non si identifica con l’identità etnica del singolo fedele che è determinata dalle leggi civili. Da aggiungere che, nella gran parte dei casi, ancora oggi, l’identità etnica è una qualifica che, per il milesChristi, conta certamente meno della sua appartenenza religiosa. Sotto questo aspetto, il cristianesimo si presenta molto più simile all’islàm che al giudaismo da cui, storicamente, deriva. Anche nell’islàm, infatti, l’appartenenza alla Umma - la Comunità dei credenti - prevale necessariamente sulle origini nazionali dei fedeli. Su questi aspetti dell’islàm, F. Cardini, Europa e Islam. Storia di un malinteso, Bari 2008.
39 - Sulla figura di Giacomo, detto “il fratello di Gesù”, W. G. Kummel, Introduction to the New Testament, London 1975.
40 - Per questi eventi, AA. VV., Cristianesimo, a cura di G. Filoramo, Roma-Bari 2000.
41 - Atti degli Apostoli, 15, 28-29.
42 - Il nome “Ebioniti” deriva, probabilmente, da Ebione, fondatore della setta o, più realisticamente, dall’ebraico 'ebhyonīm, “poveri", appellativo che va inteso non tanto in senso economico-sociale, quanto spirituale. Sul giudeocristianesimo, produttore anche di un’abbondante letteratura apocrifa, I Vangeli apocrifi, a cura di M. Craveri, Torino, 1990, P. Siniscalco, Il cammino di Cristo nell’Impero romano, Roma-Bari, 1983.
43 - Discorso contro i Galilei cit., 191-192.
44 - Ivi, 181-188.
45 - Ivi, 180.Per il carattere etnico dell’antica religio greco-romana, P. Veyne, La società romana, Roma-Bari 1990, e dello stesso Autore, La vita privata nell’impero romano, Roma-Bari 2000.
46 - Giuliano Imperatore, Epistola a Temistio, a cura di C. Prato e A. Fornaro, Lecce 1984, 253 a-b. Il filosofo e retore Temistio pur entrando a far parte - a quanto sembra - del consiliumdegli amici di Giuliano, non rivestì mai, durante il suo governo, incarichi pubblici.
47 - R. Chiaradonna, cit.
48 - Per queste tesi di Giuliano,R. Chiaradonna, cit.
49 - Simposiocit., 334a.
50 - A. Wallace-Hadrill, CivilisPrinceps: Between Citizen and King, in «Journal of Roman Studies», LXXII, (1982).

Tommaso Indelli,
assegnista di Ricerca in Storia Medievale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Salerno.

 

L'articolo Contro i Galilei! La svolta politica di Flavio Claudio Giuliano: aspetti dottrinali – 2^ parte – Tommaso Indelli proviene da EreticaMente.

Foa ed il crollo sinistro del monopolio del Quarto Potere – Federica Francesconi

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Partiamo da un dato incontrovertibile: tutti i gruppi dominanti, per poter preservare se stessi in seno alla società, devono dotarsi di strutture e di potere dalle quali si irradia il loro controllo sulla massa che governano o che aspirano a governare. Questo è un meccanismo che onestamente non può essere scardinato, a meno che non ci si isoli in un mondo ideale, in un Iperurianio platonico dominato dalle essenze delle cose, e dove quindi il potere concreto non ha alcun ragion d’essere. Ora, sono proprio i centri nevralgici da cui promana il potere sensu stricto a rappresentare presso l’opinione pubblica il gruppo dominante. Maggiore è il potere decisionale che un centro nevralgico incarna maggiore è il controllo che un gruppo dominante esercita sui governati. Come un gruppo dominante esercita il suo ascendente sulle masse? Semplicemente costruendo dei miti e una simbolica che lo legittima e attraverso cui condizionare i governati, specie se non allineati con la visione politica che esso esprime. Non è necessario che un gruppo dominante sia al governo per controllare i cittadini, è sufficiente che esso controlliuno o più centri nevralgici per tenerli in scacco. Ho fatto questa premessa per far comprendere meglio la questione dell’occupazione della RAI da parte di un gruppo dominante, di cui ora mi accingo a parlare.

Negli ultimi 25 anni il centro-destra prima, ma ancor più il centro-sinistra, hanno occupato materialmente il servizio pubblico radiotelevisivo, per poter propagandare ai cittadini rimasti ancorati al vecchia visione politica veicolata dal Pentapartito, i cambiamenti di paradigma avvenuti sia a livello nazionale che a livello internazionale. Oltre ad inserire nei posti-chiave della RAI una schiera di giornalisti servili, dirigenti accondiscendenti e uomini e donne di spettacolo politicamente schierati, per fare propaganda hanno creato ex novo una mitologia e dei simboli in cui il popolo italiano poteva identificarsi. Berlusconi lanciò il miti dell’uomo che si fa da sé, dell’imprenditoria sana e dello scollamento del mondo politico dalle istanze del tessuto industriale del Paese. Il centro-sinistra optò per il mito del progresso e delle riforme a esso ispirate, salvo poi degenerare in un partito che sacrifica i diritti dei cittadini alla sua distorta visione progressista. Negli ultimi 10 anni il mito del progresso è poi ulteriormente degenerato in un vero e proprio paradigma ideologico costituito da teoremi artificiosi e del tutto scevri dalla realtà di un paese, l’Italia, che da potenza economica di serie A è scivolata in serie B, e il cui Stato sociale è stato smantellato a suon di “ce lo chiede l’Europa”. Quali sono questi teoremi – meglio sarebbe definirli ricatti – partoriti da una falsa e distorta idea di progresso? Innanzitutto quello del neoliberismo, presentato come il miglior sistema economico. Poi l’europeismo, scaduto ormai in un vero e proprio culto fanatico, che in Italia ha una nutrita casta di sacerdoti. Infine l’immigrazionismo, cioè l’accoglienza incondizionata dello straniero. Ora, per poter veicolare questi miti occorre avere al proprio servizio una potente rete mediatica attraverso cui indottrinare i cittadini e persuaderli così abbracciare la mitologia del progresso. A questo scopo, oltre alla carta stampata – settore in cui il centro-sinistra ha sempre detenuto il monopolio - è stata occupata la RAI, da dei partiti, si badi bene, sfiduciati e delegittimati dall’elettorato.

Penso che la resistenza dei membri dei partiti di minoranza dell’organo di Vigilanza RAI alla nomina di Foa sia da inquadrare nella lotta che il centro-sinistra sta portando avanti per mantenere il controllo sui centri di potere ridotti a sue enclavi. Uno di questi è la RAI, ma anche gli atenei, gli enti di ricerca, la stessa scuola dell’obbligo, centri nevralgici da cui parte l’addomesticamento dei cittadini e il loro ammorbamento con il mito del progresso.  Se una minoranza della Vigilanza della RAI ha bocciato la nomina di Foa è perché avere un giornalista competente, lucido, oggettivo, alla guida di un servizio pubblico è un rischio che alcuni gruppi di potere non sono disposti a correre. Il rischio è che la mitologia del progresso, già intaccata dal responso elettorale, venga ulteriormente demistificata da un cambio di linea all’interno del CdA del servizio pubblico.C'è da proseguire il lavoro di indottrinamento degli italiani a base di europeismo, neoliberismo, immigrazionismo, ciarpame pseudoculturale e programmi di intrattenimento con nani e ballerine. L’identità di un popolo si cancella primariamente con una propaganda subdola e sotterranea, mirante a omologare e spazzare via ogni rigurgito patriottico. La sinistra (ma chiamarla sinistra è un insulto per la vera sinistra, morta 30 anni fa), non ne vuole sapere di cedere il monopolio dell'informazione, della formazione universitaria e della cultura, quasi tutta politicamente schierata. È grazie a tale monopolio che mantiene il 15% dei voti degli italiani, diversamente si sarebbe eclissata da tempo.

Di cosa hanno paura la sinistra e la destra berlusconiana? Naturalmente di essere smascherate per quel che sono, partiti filosistema nemici del popolo italiano. Ora, questa loro natura, fintantoché hanno il controllo dell'informazione, in parte resta nascosta. L'informazione della stampa e quella del servizio pubblico radiotelevisivo ha il compito di obnubilare la vista degli italiani attraverso il bombardamento quotidiano di false notizie, teoremi ideologici, con lo scopo di farli sentire in colpa perché non sono abbastanza filoeuropei, neoliberisti, accoglienti verso i clandestini ecc. È chiaro che quando questo meccanismo rischia di incepparsi se un outsider come Foa diventa presidente della RAI, i partiti filosistema corrono ai ripari facendo comunella. Si dice che quando la nave affonda i topi scappano, ma nel caso dei partiti filosistema, essi si asserragliano nella stiva nella speranza di avere il controllo della nave. Speriamo che, metaforicamente parlando, ad affondo avvenuto i topi rimangano in stiva.

Federica Francesconi

è un'insegnante, scrittrice e blogger. Si occupa di esoterismo, Tradizione e di filosofia. Indaga le contraddizioni dell'epoca post-moderna con un occhio di riguardo agli aspetti occulti del mondialismo e con un approccio esoterico.

L'articolo Foa ed il crollo sinistro del monopolio del Quarto Potere – Federica Francesconi proviene da EreticaMente.

DECIMA FLOTTIGLIA M.A.S.: propaganda per la riscossa (XXV parte) – Gianluca Padovan

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«Fascio eletto di spiriti eroici la Xa Flottiglia M.A.S. è rimasta fedele al suo motto: PER L’ONORE E LA BANDIERA»

X M.A.S., manifesto (50 x 82 cm verticale)

 

 

 

Grida di riscossa.

In questo contributo si conclude quanto cominciato nella XXII, XXIII e XXIV parte, ovvero la trattazione inerente i mezzi d’informazione della Xa Flottiglia M.A.S.

La propaganda, arma necessaria alla difesa del Paese, è stata ben gestita dall’apposito Ufficio della Decima. Come s’è già detto, la propaganda era indispensabile per fare affluire sempre nuovi volontari nei reparti, chiedere fondi ai cittadini per le armi e spiegare che cosa realmente stesse succedendo in Italia.

Quasi sempre riuscendoci, la propaganda della Decima cercherà in ogni modo di sottrarsi tanto alla censura della R.S.I. quanto a quella dell’alleato germanico da cui direttamente dipendeva.

 

 

Reggimento “S. Marco„.

Opuscolo non datato, con la copertina rossa (17 x 24 cm), dove nella prima campeggia la classica colonna rostrata romana di repubblicana memoria (Xa, Reggimento “S. Marco„, Stabilimento Industriale Tipografico, La Spezia s.d.).

Internamente ha 12 pagine ed è composto dei soli testi di undici canzoni. Due sono dedicate ai massoni Mameli e Garibaldi. Per quanto possa apparire “strano”, ancora oggi vi sono dei pigri benpensanti che negano l’evidenza dei fatti, cioè che i moti rivoluzionari ottocenteschi vennero diretti da massoni e tra le figure di spicco abbiamo proprio l’abigeo Garibaldi e il filoinglese Mazzini (1).

 

-Inno alla XA Flottiglia MAS,

-Inno di Mameli,

-Inno di Garibaldi,

-Inno Reggimento S. Marco (vecchio),

-Inno a S. Marco (nuovo),

-Giovinezza,

-All’armi siam fascisti,

-Giovani fascisti,

-Battaglioni “M”,

-La canzone dei sommergibili,

-Inno a Roma.

Inno alla XA Flottiglia MAS

Quando pareva vinta Roma antica

sorse l’invitta X.a Legione

vinse sul campo il barbaro nemico

Roma riebbe pace e onore.

 

Quando l’ignobil 8 di Settembre

abbandonò la Patria al traditore

sorse dal mar la Decima Flottiglia

e prese le armi al grido: «per l’onore».

 

Decima Flottiglia nostra

che beffasti l’Inghilterra

vittoriosa ad Alessandria

Malta, Suda e Gibilterra.

vittoriosa già sul mare

ora pure sulla terra

vincerai!

 

Navi d’Italia che ci foste tolte

non in battaglia ma col tradimento

nostri fratelli prigionieri o morti

noi vi facciamo questo giuramento:

 

Noi vi giuriamo che ritorneremo

Là dove Iddio volle il tricolore

Noi vi giuriamo che combatteremo

fin quando avremo pace con onore.

 

Decima Flottiglia nostra

che beffasti l’Inghilterra

vittoriosa ad Alessandria

Malta, Suda e Gibilterra.

vittoriosa già sul mare

ora pure sulla terra

vincerai!

 

 

Le nostre canzoni.

Opuscolo non datato di 32 pagine, composto di solo testo (12 x 16,8 cm). Il disegno in prima di copertina è firmato «D. Fontana». Contiene i testi di ventinove canzoni, tra cui figura anche Inno alla Xa Mas; l’ultima è La sagra di Giarabub (Xa Flottiglia MAS, Le nostre canzoni, s.d.).

Giarabùb (Al-Giaghbūd) è un’oasi della Libia nord orientale e uno dei suoi capisaldi principali è la Ridotta Marcucci. Nel giugno del 1940 il presidio composto da soldati italiani e libici comandati dal Maggiore (poi Tenete Colonnello) Salvatore Castagna è attaccato e assediato da truppe angloaustraliane. Il Comandante è ferito e preso prigioniero il giorno 21 marzo 1941 «e, subito dopo la cattura, è interrogato da un Generale australiano il quale, attraverso l’interprete, gli esprime tutta la sua ammirazione per la strenua resistenza opposta dal presidio. Dato che gli altri capisaldi resistono ancora, manifesta il desiderio di trattare la resa ma l’italiano risponde di aver giurato di resistere fino all’ultimo uomo e quindi non può accettare l’offerta» (Raffaele Girlando, Giarabùb immagini e commenti storici, Italia Editrice New, Foggia 2008, p. 15). Gli ultimi capisaldi combattono per tre giorni ancora e «gli ultimi scontri all’arma bianca sono animati dal Capitano Della Valle, dal Capitano Ercolini e dal Tenente Catania; questi ultimi due Ufficiali ammainano il tricolore e lo fanno a pezzi così da metterlo più facilmente in salvo. Giarabùb si arrende, infine, il 24 marzo 1941» (Ivi).

Si tenga sempre ben presente che il Soldato Italiano è stato tradito dai così detti “ufficiali superiori” o meglio da uno “stato maggiore” sempre ben distante dal fronte e spesso mai distante da Roma, corrotto e legato a filo doppio alla massoneria inglese e americana. Nonostante tutto il Soldato Italiano si è battuto con valore e con onore in ogni situazione. Anche e soprattutto quando gli era rimasto da difendere il solo Onore di Soldato e di Cittadino Italiano.

Salvatore Castagna così si esprime a proposito della correttezza delle informazioni: «Per la parte che mi riguarda direttamente, cioè la difesa di Giarabub, alcuni scrittori hanno cavallerescamente ammesso che, nell’ultimo periodo d’assedio (12 dicembre 1940 – 21 marzo 1941) reparti australiani effettuavano violenti infruttuosi attacchi intesi a sopraffare la resistenza dell’oasi. Altri, invece, fanno un breve cenno alle operazioni svolte in quel settore, asserendo che le forze australiane si limitarono a costituire un cerchio attorno alla guarnigione» (Salvatore Castagna, La difesa di Giarabub, Longanesi & C., Milano 1967, p. 13). Inoltre, proseguendo nella descrizione delle operazioni, conclude: «Con questo ho voluto dimostrare l’inesattezza di alcune asserzioni nemiche, secondo le quali gli italiani non riuscirono mai ad agire in quel settore. Quel che per i neozelandesi rappresentava un fatto sbalorditivo, per gli italiani era una normale missione» (Ibidem, p. 17).

 

 

Xa Inno del San Marco.

Opuscolo contenente lo spartito musicale di un’unica canzone, l’Inno del San Marco per l’appunto; ha 8 pagine (22,5 x 27,5 cm) (Decima Flottiglia M.A.S., Inno del San Marco, s.d.). A corredo si presenta il dettaglio d’una foto datata 11 luglio 1944 dove vi sono le truppe della Divisione San Marco a Grafenwöhr (Germania) (tratta da: Giorgio Pisanò, Gli ultimi in grigioverde, Vol. Secondo, Edizioni FPE, Milano 1967, p. 661).

 

Barbarigo Xa Flottiglia MAS.

Il sottotitolo recita: «Giornale di guerra de Barbarigo - Fronte di Nettuno». Il primo numero esce il 1° aprile 1944 ed è composto da due fogli (quattro facciate 22 x 32,5 cm). Nella prima pagina un unico articolo così comincia: «i primi / Sulle linee della I Compagnia è rimasta una croce su un mucchio di terra rossa italiana. Sono i due morti che non si sono potuti portare indietro, quelli presi da una granata nella buca e che sono rimasti sulla linea a fare buona guardia» (Battaglione Barbarigo, Barbarigo Xa Flottiglia MAS, s.d., p. 1).

 

Franchigia NP.

Giornale del Gruppo Nuotatori Paracadutisti della Xa Flottiglia M.A.S. Il primo e unico numero esce il 30 agosto 1944 ed è composto da due fogli (quattro facciate, 22 x 32,5 cm). In ogni caso la dicitura sotto il titolo ci tiene a specificare: «esce quando esce» e in alto a destra: «Numero unico per uso interno». L’articolo Ennepì millenovecentoquarantaquattro così comincia: «Fuori di retorica: qui si rifà la spina dorsale della Nazione; e se il compito si stima troppo arduo, per le nostre capacità, vi rispondo: abbiamo le spalle larghe e non rigettiamo una, nemmeno una, delle responsabilità che ci vengono da tale impegno» (Gruppo Nuotatori Paracadutisti, Franchigia NP, Numero unico, 30 Agosto, 1944, p. 1).

Al centro e in fondo, sempre alla prima pagina, si legge la trascrizione di un telegramma: «Da ufficio stampa decima a redazione “franchigia„ P. da C. 767 / concediamo nulla osta pubblicazione “franchigia„ sicuri che codeste colonne fedelmente rispecchieranno vita goliardica et carattere virile et coraggio provato degli np. Alt. / pasca piredda responsabile».

E questa è la sottoriportata risposta: «Da redazione “Franchigia„ a Ufficio Stampa Xa / Lieti nulla osta concesso, prova Vs / superiore comprensione, sentitamente ringraziamo promettendo abituale noncuranza Vs direttive, Alt / La Redazione» (Ivi).

Nel catalogo dell’ISEC è indicato come «Numero unico per uso interno» (Marco Borghi, La stampa della RSI 1943-1945, Fondazione ISEC, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano 2006 p. 38).

 

 

Cucaracia.

“Foglio” dei Marò della II Compagnia del Battaglione Sagittario, Xa Flottiglia M.A.S., costituito nel 1944. Si tratta del primo numero, ciclostilato, così specificato: «esce come e quando ci pare // N° 1 P;d.C. 845 – 10/12/44 XXIII° // redazione chi lo sa dove»; è composto da un foglio (due facciate) (II Compagnia Battaglione Sagittario, Cucaracia, Xa Flottiglia M.A.S., N. 1, 10 Dicembre, 1944, p. 1).

Il Sagittario, originato dalla compagnia Mai Morti di Trieste, è inquadrato nella Divisione Xa e successivamente viene trasferito a Solcano per essere impiegato contro il IX Corpus jugoslavo.

 

 

Il Risoluto

Il Battaglione Costiero Risoluti, costituito a Genova nel 1944 come Reparto Autonomo, aveva il compito della difesa costiera in Liguria. Pubblicava un proprio “foglio d’arma”: «Quindicinale del gruppo “Risoluti”. Foglio interno dei “Risoluti” della X flottiglia Mas. Tener duro e Picchiar sodo. Genova, Tipografia SA Ed. “Il Lavoro”, 1944-1945. Direttore Giorgio Melloni. Quindicinale» (Marco Borghi, La stampa della RSI 1943-1945, op. cit., p. 56). La citata pubblicazione dà come luogo di conservazione la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.

 

 

Quelli della Xa Flottiglia MAS

Giornale della Xa Flottiglia M.A.S. di stanza a Fiume. Il primo numero esce nel gennaio 1945 ed è composto da due fogli (quattro facciate, 22 x 32,5 cm). Il sottotitolo recita: «dove non basta il numero basterà l’impeto». Nella prima pagina c’è la Presentazione: «Finalmente!!! Però è stata una cosa terribile, venire alla luce. Non avete un’idea di quello che fu fatto perché non nascessi. Ma in barba a tutti gli strilli e gli spintoni, eccomi qua! Certo, non sono gran cosa. Sono un giornaletto un po’ racchio e patito, ma sfido io, con quel parto laborioso! Il guaio è che temo di rimanere figlio unico! Pazienza! Purché almeno io l’abbia spuntata. In ogni modo son felice d’aver visto la luce, per la soddisfazione di coloro che m’hanno concepito, e che nelle mie pagine hanno espresso sentimenti e punti di vista, non per la vanità di sentirsi scrittori ma per far conoscere il loro modo di vivere e di pensare, infondendo, se è possibile, il loro coraggio ai pavidi, la loro fede agli increduli» (Xa Flottiglia MAS, Quelli della Xa Flottiglia MAS, N. 1, Gennaio, Fiume 1940, p. 1).

 

Agendina del Marò.

Un discorso a parte lo merita questa particolare agenda creata appositamente per i Marò della Xa Flottiglia M.A.S. In prima pagina c’è scritto: «Xa / 1945 agenda per il marò de la decima flottiglia mas» (Xa 1945 Agenda per il Marò de la Decima Flottiglia MAS, 1945, p. 1). Con ogni probabilità è stato stampato alla fine del 1944.

Segue il calendario dell’anno 1945 su due pagine.

L’agenda contiene alcune parti di testo che servono anche e soprattutto come “prontuario informativo” per chiarire al soldato nazionale innanzitutto che cosa sia lo Stato per il quale combatte. Compaiono domande e consone risposte, come ad esempio «Cos’è lo Stato?», seguita da «Che cos’è la repubblica? La repubblica è quella forma statale in base alla quale il governo dello Stato è retto dal popolo, direttamente e per mezzo dei suoi rappresentanti».

Altre sono, ad esempio, le seguenti: «Perché è nata la Repubblica Italiana?», «Perché alla repubblica italiana è stato attribuito l’appellativo di sociale?», «Che cos’è la X Flottiglia Mas?», «Chi è il Comandante della Xa Flottiglia Mas?».

Successivamente si hanno informazioni a carattere storico per chiarire chi siano le persone alle quali si sono intitolate alcune Unità, oppure perché talune portino il nome che le identifica. Abbiamo, ad esempio: «colleoni / Bartolomeo Colleoni fu uno dei più insigni condottieri italiani. Egli militò successivamente sotto Braccio da Montone, Muzio Attendolo Sforza, il Gattamelata ed infine Francesco Sforza. Si distinse in maniera particolare nella terza fase della guerra tra Venezia e Milano. Nato nel 1400 la morte lo raggiunse nel 1467, quando divenuto ormai celebre in tutta l’Europa, era da vari anni capo delle forze della Repubblica di Venezia. Colleoni fu anche il nome di un incrociatore della nostra Marina appartenente alla classe “condottieri”. // Attualmente reca questo nome un gruppo d’artiglieria della decima Flottiglia Mas che prese parte con il Battaglione Barbarigo alla difesa di Roma» (Ibidem, pp. 51-52).

«lupo / È il nome di una torpediniera che nelle acque di Candia affrontò una formazione di 3 incrociatori nemici, riuscendo a portarsi a brevissima distanza e ad affondare col siluro una di queste. / Attualmente sta a designare il Battaglione secondogenito della Decima Flottiglia Mas. [etc.]» (Ibidem, p. 53).

«castagnacci / Al nome di questo eroico marinaio imolatosi nel corso dell’attuale conflitto, s’intitola un Battaglione della Decima, formato di equipaggi di M.A.S.» (Ibidem, p. 57).

Le pagine sono “allietate” da vignette umoristiche a colori.

 

 

Note

 

1) Libri sull’argomento ve ne sono parecchi. Uno per tutti, da prendere comunque con le dovute cautele: Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, BUR, Milano 2011.

N.B.: I bolli a corredo provengono da: Archivio di Stato di Milano; Tribunale Militare per la Marina in Milano (Repubblica Sociale Italiana), Procedimenti archiviati. Autorizzazione alla pubblicazione. Registro: AS-MI. Numero di protocollo: 2976/28.13.11/1. Data protocollazione: 29/05/2018. Segnatura: MiBACT|AS-MI|29/05/2018|0002976-P.

 

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