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DECIMA FLOTTIGLIA M.A.S.: propaganda per la riscossa (XXI parte) – Gianluca Padovan

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«Io vorrei pure intendere quello che costoro hanno fatto» Niccolò Machiavelli, La Mandragola, 1518
      Ferruccio Ferrini rimesta nel torbido.

Sempre in tema di propaganda presso l’ISEC (Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea – Archivio Fondazione Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea, Sesto San Giovanni) vi è un documento dattiloscritto, non datato, che potrebbe risalire a un momento prossimo alla “memoria” redatta dal Comandante Borghese in data 15 gennaio 1944 (Dichiarazioni Comandante Borghese), riportata nelle parti XIV e XV.

Si tratta del «pro-memoria» che il Capitano di Corvetta Luigi Longanesi Cattani scrive su richiesta del Sottosegretario di Stato per la Marina, Capitano di Vascello Ferruccio Ferrini (1). Certamente Ferrini sta raccogliendo informazioni che gli possano tornare utili contro il Comandante Borghese e per “demolire” la Decima Flottiglia M.A.S.

In ogni caso si evince che il tono della propaganda promossa da Longanesi Cattani non è consono alle aspettative e comunque pone «in cattiva luce la Decima Flotmas presso le Autorità Politiche locali». Ecco la trascrizione integrale del documento (2).

Poi, chiaramente e come per ogni altra parte di questo contributo sulla conoscenza della Storia della Decima Flottiglia M.A.S., ognuno tragga le proprie conclusioni. Ma, attenzione: la Storia è ciò che è stato… non quello che ci piacerebbe possa essere stato. Nemmeno quello che si vuole fare credere che sia stato.

Ci si rende conto che la “storia” corrente demonizzi il periodo in cui si forma e successivamente si sviluppa il Partito Nazionale Fascista e condanni ancor più il periodo della Repubblica Sociale Italiana: proprio quando finalmente si spera di potersi liberare d’una monarchia corrotta e al soldo avversario, d’un apparato burocratico elefantiaco, nonché d’una Banca d’Italia che finalmente si fa diventare statale e non più privata. Ma d’ogni aspetto esistono almeno due facce.

    Per la Storia d’Italia.

Si premette che il generale piemontese Fiorenzo Bava Beccaris, su incarico dei Savoia, represse nel sangue la sommossa popolare milanese del 1898, appoggiando in seguito Benito Mussolini in Parlamento. Poi il regno italico aprì i prodromi della “guerra civile europea” attaccando la Turchia nel 1911: un nemico che viene azzoppato affinché l’Inghilterra lo possa affrontare più agevolmente.

In questo momento storico, ciò che occorre sforzarsi a comprendere, e ad oggi si è ancora ben lungi dall’averlo fatto, è che in Italia molti, moltissimi Italiani a suo tempo si sono sentiti “carne da macello”, usata da una casa Savoia al soldo della Massoneria inglese per attaccare gli ex alleati Austriaci nel 1915 e gli ex alleati Tedeschi nel 1916.

La guerra mondiale, voluta dalla Massoneria non solo inglese, ha avuto come conseguenza anche l’insorgenza comunista (scaturita nel bund ebraico sovietico) che ha cercato di diffondersi nel resto dell’Europa. Di contro, casa Savoia, banchieri e industriali italiani hanno dovuto evitare la rivolta popolare a fine guerra perché vi erano stati troppi morti (mai dichiarati), troppi prigionieri tutti dichiarati disertori dallo stato maggiore sabaudo e una volta rientrati in Patria processati come tali. Troppi civili morti (assolutamente mai dichiarati), troppi invalidi di guerra permanenti, troppa gente che aveva lavorato malpagata e bistrattata nelle industrie di guerra.

Troppi civili s’erano immiseriti a causa della guerra, mentre la casta industriale era decollata facendo strepitosi affari anche con l’avversario (si veda utilmente su EreticaMente: 24 maggio 1915: la tela del ragno).

Se il bund ebraico sovietico creò il comunismo sovietico (che ancora oggi comanda nell’ex URSS), certamente con il concorso non solo della locale massoneria, principalmente il salotto della borghesia ebraica milanese con il concorso di “taluna massoneria” creò a tavolino il fascismo. E questo tenendo conto che in Massoneria chi comanda effettivamente non sono certo i “gentili”, ma gli ebrei, oggi più che mai. Basti vedere chi siano i reali proprietari delle “banche”.

    Fascismo tra realtà e propaganda.

Come s’è già scritto nella parte V: «Per comprendere la Storia è necessario smettere di utilizzare come spauracchio e come “discarica abusiva d’ogni nequizia” il Fascismo. Occorre invece capire fino nei minimi dettagli a chi serviva il Fascismo e a chi il Fascismo obbediva. E quando parlo di Fascismo parlo dei suoi capi, non della massa popolare che seguiva.

Vediamo quindi qualche punto essenziale:
  1. Massoneria, banche e industrie crearono i prodromi del Fascismo con lo scopo di spingere l’Italia nella Prima Guerra Mondiale, per aprire il terzo fronte europeo; il finanziatore di spicco de Il Popolo d’Italia è difatti il banchiere ebreo Giuseppe Toeplitz (vedere utilmente Compagni di Gioco uscito su Ereticamente);
  2. a guerra ultimata il Fascismo in embrione servì (sempre a Massoneria, banche, industrie e Vaticano) come collettore dei militari scontenti per tenerli alla briglia ed utilizzarli contro l’insorgere della piaga comunista; il finanziatore di spicco del Fascio di Combattimento di Milano è l’ebreo Cesare Goldmann della Loggia ambrosiana Eterna Luce;
  3. il Fascismo servì tanto al Re quanto al Vaticano per consolidarsi;
  4. il Fascismo servì soprattutto e innanzitutto alla Massoneria americana per ottenere miliardarie commesse, quale la fornitura di petroli e la possibilità di proseguire la ricerca del minerale liquido in Italia».
 

Il “ventennio” fascista ha comunque visto in Italia lo sviluppo delle scienze e delle arti e, soprattutto, l’arresto dell’insorgenza comunista. Innegabilmente il tutto poteva andare bene perché l’industria, gli industriali e la Massoneria potevano proliferare. Non si faccia l’errore di credere che la legge contro le “società segrete” sia stata promulgata contro la Massoneria in generale: si trattò di una sorta di guerra tra logge e difatti nel Ventennio la Massoneria prosperò. Tutto ciò premesso, il Regno d’Italia e conseguentemente il suo braccio prima e il suo capro espiatorio poi, ovvero il Partito Nazionale Fascista, dovevano mantenere un esercito, una marina e un’aviazione divisi, corrotti, male armati e peggio comandati. A tanta prosopopea bellicosa propalata dalla propaganda fascista faceva riscontro un chiaro e voluto sottosviluppo militare: il fante era e doveva rimanere carne da macello sacrificabile a seconda del volere della massoneria extranazionale.

    Camicie Nere e camicie rosa.

Innegabilmente la “Camicia Nera” ha sortito un effetto coesivo nei confronti di numerose persone d’estrazione sociale e di formazione culturale differente. Motivo, questo, che ha fatto sì che nonostante i “finanziatori-creatori” del Fascismo siano rimasi nell’ombra, nonostante che i “capi-applauditi” del Fascismo abbiano fatto principalmente gli interessi dei primi, una larga schiera d’Italiani da queste prime due entità svincolate, ci ha creduto in questo Fascismo e ha lavorato e si è poi battuta per la Patria italiana, senza risparmio alcuno.

Pertanto, senza incorrere nell’errore di “buttare il bimbo assieme all’acqua sporca”, si considerino positivamente talune conquiste del Fascismo e ci si tolga finalmente dai piedi personaggi che si sono fatti pagare e hanno servito non certo il Popolo Italiano e per null’affatto la Nazione Italiana. E questo cominciando da personaggi da palcoscenico come furono D’Annunzio, quasi tutti i facenti parte del Gran Consiglio del Fascismo, i quali appartenendo alla Massoneria vendettero gli Italiani alla Loggia che più offriva, per concludere con Benito Mussolini, anch’egli massone.

Nella Repubblica Sociale confluirono poi elementi che operarono in modo che vi fossero ritardi e lungaggini, litigi e incomprensioni, nonché veri e propri tradimenti. Per quale motivo poco o nulla si volle fare per la difesa delle terre italiane dall’attacco delle truppe titine?

Un detto vikingo recita: «Non dir bene del giorno finché non è venuta sera; una spada finché non è stata provata; di una ragazza finché non si è sposata; del ghiaccio finché non è stato attraversato; della birra finché non è stata bevuta».

 

Benito Mussolini si fece pescare in riva al lago Lario con la divisa tedesca, con le valigie di chi se la stava dando a gambe, con l’amante sotto braccio, in salvo verso chissà cosa perché il “ridotto valtellinese” era solo un parto della fantasia di quel bellimbusto impomatato di Pavolini. Che dire degli altri “gerarchi” fuggitivi?

Ritengo sia senz’altro meglio spendere il proprio tempo e le proprie energie per ricordare, invece e più utilmente, tutti i Soldati che si batterono veramente (3).

Moltissimi soldati non politicizzati, ma anche molti fascisti convinti, si batterono a difesa del suolo patrio e della cittadinanza italiana anche quando quei vigliacchi di “gerarchi” se la stavano dando a gambe abbandonando il soldato e il civile alle rappresaglie comuniste. E questo accadde soprattutto perché costoro, vigliacchi, non vollero rimanere al loro posto e sacrificare loro stessi nel tentativo di salvaguardare coloro i quali li avevano votati e sostenuti, nonché mantenuti più che lautamente, nel corso del Ventennio.

Tutti i Soldati-Eroi che si batterono al di là d’ogni pensiero politico e partitico e che lo fecero solo perché erano Italiani ed esclusivamente perché la loro Terra era stata invasa dall’angloamericano e dai suoi sottoposti, meritano d’essere ricordati. Meritano che le loro gesta siano ricordate davanti al Fuoco degli Antenati. Il Tempo dev’essere destinato al ricordo di costoro.

Il Tempo, infatti, non dev’essere inutilmente consumato davanti ad una lurida, insipida e menzognera “televisione” con il programma obnubilante di turno e la partita della vergogna che consente ai teleutenti d’identificarsi in un qualche cosa che comunque non gli appartiene (4).

In ultimo devo rilevare come parecchi personaggi dell’odierna e così detta “destra” italiana siano massoni e molti di costoro cerchino di presentare sotto belle vesti il “sovietico di turno” da preferire all’oramai desueto “americano”. Dall’est sono arrivate, a memoria storica, solo le orde dei conquistatori-distruttori, troppo “scarsi” persino per modificare la toponomastica dei luoghi che hanno riarso con il loro passaggio.

Nei secoli passati si diede tutto il sangue per arginare l’orda “unna-mongola-sovietico-bolscevica”. Ed ora, taluni tapini servi di un qualsivoglia “maestro” grembiulato cercano d’irretire i giovani per convincerli che è meglio il sovietico dell’americano.

Tra la peste bubbonica e il vaiolo giammai si scelga! Meglio morire, ma in piedi e con dignità.     Ferruccio Ferrini “aggancia” Luigi Longanesi Cattani.

Tornando nello specifico alle faccende che hanno coinvolto la Decima, ecco che cosa dattiloscrive Luigi Longanesi Cattani su richiesta di Ferrini:

23909 [a matita in alto a destra] copia [timbrato] [Testo del primo foglio]

pro-memoria per l’eccellenza ferrini // 1°) – La sera del 9 settembre, ad una riunione di Ufficiali della X^ Flottiglia Mas, mi dichiarai pronto a continuare la lotta a fianco della Germania alleata, nella X^ Flottiglia Mas di cui facevo parte. Ad una richiesta fatta dal Comandante belloni al Comandante borghese in merito al giuramento, il Comandante borghese rispondeva con la seguente frase: “il giuramento rimane”. // 2°) – Il mattino del 10 settembre fui inviato dal comandante borghese alla residenza di Sua Altezza Reale il Duca di Aosta in Lerici, per provvedere alle pratiche di collegamento con le autorità militari Germaniche che ne eseguivano la occupazione. Successivamente, secondo accordi presi con il comandante borghese e con le Autorità Germaniche, provvedevo, unitamente agli Ufficiali della Casa Reale, al trasporto di alcuni oggetti dell’Altezza Reale il Duca di Aosta presso la residenza dell’Altezza Reale la Duchessa di Aosta in Firenze. Rimasi d’accordo con il Comandante Borghese che ad una sua chiamata mi sarei presentato alla Decima. // 3°) – Giunto a Firenze mi presentavo alla Duchessa di Aosta ed alla Duchessa di Aosta Vedova, mettendomi a Loro disposizione, e successivamente al Comando Militare Germanico in Firenze con il quale presi immediati diretti accordi per alcune necessità delle Case trovando ogni appoggio e le più benevoli accoglienze. // ./.

  23910 [a matita in alto a destra] [Testo del secondo foglio]

- 2 - Al Comando militare Germanico in Firenze comunicai la mia adesione alla Decima Flottiglia Mas che continuava la lotta al loro fianco. // 4°) – Alla proclamazione del carattere Repubblicano assunto dal Fascismo subito dopo la liberazione del duce, comunicai per lettera al Comandante borghese che ero disposto a restare nella Decima soltanto se tale formazione avesse mantenuto un carattere tale da non dover necessariamente appoggiare lo stabilimento di una Repubblica in Italia. Confermai a voce tale mio proponimento quando mi recai alla Decima per accompagnarvi il mio compianto fratello che vi si arruolava quale Capitano nel S. Marco. Specificai al Comandante borghese che era mia ferma intenzione di restare a disposizione delle Altezze Reali le Duchesse di Aosta fino a quando, a giudizio esclusivo delle Altezze Reali stesse, io potessi essere Loro utile, e che consideravo tale mio dovere tanto più preciso quanto più la situazione politica apparisse sfavorevole a Casa Savoia. // 5°) – Il Comandante borghese mi rispose allora circa nei seguenti termini: “Ognuno di noi chiude in una cassaforte le proprie particolari preferenze sulla forma di Governo. Occorre riunire in un solo fascio le forze che intendono continuare la lotta. Soltanto dopo il ristabilimento della pace ciascuno potrà propugnare la forma di Governo (Monarchia o Repubblica- [na] // ./.

23911 [a matita in alto a destra] [Testo del terzo foglio]

- 3 – [Repubblica] na che riterrà più utile al bene della Patria”. Tale discorso, fattomi alla presenza del Comandante arillo, fu ripetuto dal Comandante borghese ad una riunione di Ufficiali alla quale io non partecipai non essendone stato avvisato. Me ne venne fatto un sunto da alcuni Ufficiali che lo commentarono molto favorevolmente (non ricordo ora il nome degli Ufficiali che erano tutti riuniti a mensa). Su questa base assunsi di buon grado l’incarico di aprire a Firenze un Ufficio di reclutamento dato che questo mi consentiva di restare a disposizione delle Altezze Reali. // 6°) – Inizia subito la propaganda sulle basi illustratemi dal Comandante borghese, e da me pienamente accolte e condivise. Nel fare tale propaganda specificai sempre che io personalmente ero monarchico convinto. Al termine di due giorni, al passaggio del Comandante borghese per Firenze, fui avvertito in via del tutto amichevole sia dal Maggiore bardelli, che dal centurione carità, che io, con la mia propaganda, mettevo in cattiva luce la Decima Flotmas presso le Autorità Politiche locali. Avvertii subito il Comandante borghese di questo fatto alla presenza del Maggiore bardelli, e misi immediatamente a sua disposizione il salvacondotto che mi aveva rilasciato (e le credenziali) che // ./.

23912 [a matita in alto a destra] [Testo del quarto foglio]

- 4 – egli ritirò. Provvidi subito ad avvertire le Autorità Germaniche che non facevo più parte della Decima Flotmas, dato che precedentemente mi ero presentato quale facente parte di tale formazione. Feci alle Autorità Germaniche, in tale occasione, una dichiarazione di lealtà personale, specificando però che tale mia dichiarazione non era in alcun modo intesa ad ottenere protezione da parte della Autorità Germaniche verso qualsiasi Autorità Italiana ma voleva essere soltanto una dichiarazione di fedele cameratismo fatta da soldato a soldato, e pregando di non fare uso né politico né propagandistico di tale mia dichiarazione. Comunicai alle Autorità Tedesche quanto avevo già comunicato al Comandante borghese, e cioè che era mia ferma intenzione di restare a disposizione delle Altezze Reali le Duchesse di Aosta fino a quando, a Loro esclusivo giudizio, io potessi Loro apparire utile nella situazione in cui erano venute a trovarsi, e che consideravo tale mio dovere tanto più preciso quanto più la situazione politica appariva sfavorevole a Casa Savoia. Permane in me l’assoluta convinzione di tale dovere. // il capitano di corvetta // f.to (Luigi longanesi cattani)

  Lettera a Benito Mussolini.

Su carta intestata, il 24 gennaio 1944, il Sottosegretario di Stato per la Marina Ferruccio Ferrini trasmette a Benito Mussolini la propria comunicazione accludendo il dattiloscritto del Capitano di Corvetta Luigi Longanesi Cattani, sopra trascritto. Essa recita:

«Duce, / Vi trasmetto, in allegato, un esposto del Comandante di Corvetta LONGANESI, già appartenente alla X^ Flottiglia Mas. / Ritengo che esso contenga elementi utili in relazione alla inchiesta in atto per il noto grave incidente di La Spezia. / E’ ovvio che il Comandante LONGANESI non fa parte della Marina Repubblicana e che ad esso, come a tutti gli Ufficiali nelle sue condizioni, è stato proibito d’indossare la divisa» (5).

Tra i documenti compare anche la comunicazione del Ministro delle Forze Armate repubblicane Rodolfo Graziani a Francesco (Franz) Turchi, Capo della Provincia di La Spezia, e per conoscenza a Benito Mussolini e a Ferruccio Ferrini. Ecco il testo:

«n. 4 Riservato Personale (.) Presi ordini dal Duce vi prego Eccellenza non corrispondere più fondi at decima MAS senza mia personale autorizzazione su precisa specifica impiego di essi volta per volta (.) Pregovi anche precisarmi somme fino ad ora corrisposte (.)» (6).

    L’unico pronto per la battaglia: Battaglione Maestrale-Barbarigo.

Si ricorda che nel novembre del 1943 si era costituito a La Spezia il Battaglione Maestrale, poi inviato in Piemonte e rientrato a La Spezia nel gennaio 1944.

A seguito della ferma decisione di non farsi coinvolgere nelle “manovre” del direttivo della R.S.I., con l’arrivo in caserma in data 9 gennaio del Capitano di Vascello Nicola Bedeschi e del Capitano di Fregata Gaetano Tortora, inviati da Ferrini, soprattutto grazie all’intervento del proprio Comandante, il Maggiore del Genio Navale Umberto Bardelli, il Maestrale è posto sotto inchiesta e in seguito gli è cambiato nome in Battaglione Barbarigo (vedere utilmente la XIII e la XX parte).

Intanto il 22 gennaio 1944 aveva inizio l’Operazione Shingle, ovvero gli angloamericani sbarcavano ad Anzio-Nettuno. Il 19 febbraio il Battaglione Barbarigo riceveva la bandiera da combattimento e il giorno seguente partiva per Roma, entrando in linea a fine del mese.

Rimane chiaro che la documentazione prodotta espone il direttivo della R.S.I. a gravi sospetti. Vi è un unico Battaglione pronto ad andare in linea e questo al di là delle solite e sdrucite storie di una preparazione militare insufficiente dispensate senza considerare che la situazione bellica era decisamente grave. Lo si blocca innanzitutto arrestandone il Comandante, ovvero Junio Valerio Borghese.

Con quanto scritto e presentato fino a questa XXI parte si può tranquillamente affermare che si era certamente costituita la Repubblica Sociale Italiana, ma altrettanto certamente vi erano numerosi individui che con il grado e il potere conferito dalla carica che ricoprivano avevano il chiaro compito di farla “naufragare”.

                  Note   1) Ferruccio Ferrini lo si ritrova nelle seguenti parti: III, X, XIII, XIV, XV, XVII, XVIII, XIX e XX.   2) Si tratta dei documenti n. 23909, 23910, 23911 e 23912 provenienti dall’ISEC, Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea – Archivio Fondazione Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea (Isec), Sesto San Giovanni, Fondo Odoardo Fontanella, b. 48, fasc. 201.   3) A ricordo di coloro che indossarono la “camicia nera” e la portarono con onore e lealtà (a differenza di taluni loro capi) si trascrive il testo di una nota canzone d’epoca, apparsa su La marcia continua:   La canzone strafottente [coro maschile] Le donne non ci vogliono più bene / perché portiamo la camicia nera. / Hanno detto che siamo da galera, / hanno detto che siamo da catene. / L’amore coi fascisti non conviene: / meglio un vigliacco che non ha bandiera, / uno che salverà la pelle intera, / uno che non ha sangue nelle vene! / Ce ne freghiamo. La signora Morte / fa la civetta in mezzo alla battaglia, / si fa baciare solo dai soldati. / Forza, ragazzi, fatele la corte! / Diamole un bacio sotto la mitraglia. / Lasciamo le altre donne agli imboscati. // [coro femminile] Le donne non vi vogliono più bene / perché indossate la camicia nera. / Non crucciatevi, cosa da galera / giudicato fu Cristo e da catene. / A voi fascisti, a voi non si conviene / chi rinnegò la Patria e la Bandiera, / chi si donò al nemico tutta intera / che stoppa ha in capo ed acqua nelle vene! / Voi, che correte il palio della morte, / la Patria onora, e premio alla battaglia / è il mirto che fiorisce pei soldati. / E un cuor di donna vi farà la corte / che v’ha seguito in mezzo alla mitraglia, / un cuore che disprezza gli imboscati. (Ufficio Stampa del Partito Fascista Repubblicano -a cura di-, La marcia continua, Numero unico, 28 Ottobre, s.l. 1944, Ristampa del Centro Studi Propaganda, 2017, p. 49).   4) Purtroppo ancora oggi vi sono individui, a cui gli Dei hanno concesso la possibilità di reincarnarsi in un essere umano, che millantano di avere in famiglia parenti che sono stati Volontari nelle fila della Decima. Costoro, bugiardi e pidocchiosi per natura, all’atto pratico cercano di vivere una sorta di “gloria” riflessa, che rischiari come fuoco fatuo la loro miserabile esistenza di bugiardi e truffatori impenitenti.   5) Si tratta del documento n. 23908 proveniente dall’ISEC, Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea – Archivio Fondazione Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea (Isec), Sesto San Giovanni, Fondo Odoardo Fontanella, b. 48, fasc. 201.   6) Si tratta del documento n. 23917 proveniente dall’ISEC, Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea – Archivio Fondazione Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea (Isec), Sesto San Giovanni, Fondo Odoardo Fontanella, b. 48, fasc. 201.   N.B.: I bolli a corredo provengono da: Archivio di Stato di Milano; Tribunale Militare per la Marina in Milano (Repubblica Sociale Italiana), Procedimenti archiviati. Autorizzazione alla pubblicazione. Registro: AS-MI. Numero di protocollo: 2976/28.13.11/1. Data protocollazione: 29/05/2018. Segnatura: MiBACT|AS-MI|29/05/2018|0002976-P.  

La Filosofia come Rivelazione – La Storia come organismo vivente. Recensione di Aniello Quaranta

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Che sia arduo “fare filosofia” nel XXI secolo, è cosa nota. Da una parte la grandezza abissale dei pensatori che hanno preceduto il nostro secolo rende ogni tentativo di confronto un’impresa di estrema difficoltà; dall’altra, l’innesto stesso del pensiero attuale, imperniato sulla differenziazione e la specializzazione del sapere, introduce un altro elemento scoraggiante per chi tentasse la suddetta impresa. È anche per questo che i tempi recenti hanno prodotto pensatori via via più sottili, ovvero privi di spessore, e hanno contribuito a degradare il filosofo ad opinionista; molti di costoro si riversano nella discussione politica quasi che questa fosse l’unico campo d’azione della speculazione, e in loro, effettivamente, è così. Ma la filosofia è ben altro: essa è amore per il sapere in quanto tale, e perciò non può (e non deve) prescindere da una sostanziale unità della umana conoscenza come presupposto.

[caption id="attachment_24437" align="alignright" width="300"]                               Emanuele Franz[/caption]

È in questo contesto che l’opera del Franz si abbatte come un uragano, soffiando idee impetuose sui lasciti effimeri e inconsistenti della speculazione odierna, sui pensieri deboli, sui non-pensieri e sul relativismo di convenzione. Ciò che colpisce, prima ancora della teoria in sé, è l’atteggiamento con cui l’autore vuole dispensarla: essa cala dall’alto, da una evidente ispirazione sovrarazionale che la affranca dalla necessità ossessiva di giustificazione, essa è una rivelazione che si palesa e che matura la sua validità in virtù della sua sola forza impressiva. E come ogni impressione, si può decidere del suo grado di intensità, non certo discorrere della sua verità - ciò suonerebbe come la domanda “È vero il dolore che sento?” - ossia totalmente priva di significato. Ciò detto, “La Storia come organismo vivente” è un’analisi della rivelazione in quanto postulato e dei corollari che da essa derivano; un’analisi tremendamente pulita e schietta, lucida, a tratti brutale, che raggiunge però vette di rara finezza e conclusioni di portata spaventosa.

Nella storia del pensiero, che lo stesso Franz ripercorre nell’opera, si possono individuare dei motivi portanti – ad esempio l’uomo come misura di tutte le cose del rinascimento, il logos dei greci e così via – che fungono da motore d’avvio per la speculazione; essi sono l’ossatura di tali sistemi di pensiero, ne determinano gli assunti e gli orizzonti, e in definitiva, li delimitano. A ciò si congiunge l’indole del pensatore, che di volta in volta riconosce e si riconosce, se non in un principio, quantomeno nel solco e nelle direttrici di un dato motivo nella sua personale interpretazione – e si hanno allora l’Io Cartesiano, o l’aspirazione scientifica di Kant, o lo spirito assoluto Hegeliano. Tutti costoro, nessuno eccettuato, hanno magnificato una certa assunzione, hanno adottato un punto di vista fondante, hanno riconosciuto, in definitiva, una certa predominanza: Cartesio nel soggetto della conoscenza, Kant nel sistema della conoscenza, Hegel nella manifestazione della conoscenza.  Costoro hanno assegnato un peso diverso alle diverse sfaccettature dell’esistenza; questo fa il filosofo quando costruisce o demolisce valori, questo fa anche Franz, liberandosi della imponderanza e della inconsistenza – che quasi sfocia nell’ignavia - di molti “filosofi” odierni. Egli riconosce con maniera decisa alla Storia – non all’individuo, non al pensiero, né al mondo in quanto tale – il massimo peso. Essa non è oggetto, come per lo storico, non è pluralità di soggetti, come per il senso comune e non è soggetto come lo si intende da quattro secoli a questa parte. Essa è essere vivente, non quanto inerziale divenire, né quanto astratta incarnazione dello spirito, ma come puro e semplice organismo, come entità corporea. E in quanto corporea, la Storia respira e pulsa – in un meccanismo di contrazione ed espansione, dice il Franz – perseguendo un ciclo vitale. Tuttavia, lontana dall’essere un’entità circolare, e perciò chiusa, essa tende al superamento di sé stessa – come ogni altro organismo. Ecco dunque che si schiude una prospettiva nuova nella lettura della Storia e degli eventi: in quanto corpo, ella vive di pulsioni, di istinti, di tensioni; i moti storici ne sono l’esemplificazione. Ogni età viene letta come si farebbe con un essere umano: essa ha una sua infanzia, una sua adolescenza e una sua maturità - con tutte le inflessioni che questo comporta.

In questo percorso Franz incontra e si scontra con diversi pensatori. Trattandosi di consacrati giganti del pensiero, è bene determinare come il confronto si stabilisce e come, eventualmente, si risolve. Avendo individuato nella Storia l’oggetto privilegiato della sua riflessione, egli non può non essere accostato a Hegel. Ma mentre quest’ultimo descrive una creatura assoluta, manifestazione definitiva dello spirito, e perciò portatrice dell’unione indissolubile di reale e razionale, Franz desublima la forma vitale e riconosce nella Storia un organismo vivente, pertanto imperfetto, collocato in uno spettro molto più ampio di cognizioni, in cui figurano l’irrazionalità e il sentimento, finanche la tensione erotica, che egli le attribuisce in uno straordinario balzo di prospettiva. E nonostante ciò egli non giunge mai a negare lo spirito, esaltandolo anzi nel quadro completo delle sue inflessioni; egli non giunge mai a ridurre la Storia ad un singolo, mero, principio di espansione o sopravvivenza: è per questo che un abisso lo separa dal materialismo post-Hegeliano. Ma il vero contendente, che pure fornisce a Franz la sua massima ispirazione, è Nietzsche. Egli ne conserva e ne riprende molti aspetti, non ultimo il dualismo tra Apollineo e Dionisiaco; eppure ne rifiuta categoricamente la tesi dell’eterno ritorno.

Si avverte in tutta la sua drammaticità l’unicità della Storia e la marginalizzazione, in qualche modo, del suo andamento ciclico. Ciò ci conduce inevitabilmente al quesito – La Storia è in grado di conoscere? - se non lo fosse, d’altro canto, come potrebbe superarsi? Se la Storia è organismo vivente, essa è probabilmente anche organismo pensante – e il suo pensare, per quanto anteposto, è pensare privo di soggetto. La sua attività cogitante si pone a prescindere dal soggetto e dai soggetti, è, come definito dall’autore, il Pensiero Esteso. Qui si verifica forse  la rottura più significativa con il pensiero della modernità: Franz giunge alla terrificante – e perciò illuminante – conclusione che il pensiero può fare a meno della diade soggetto-oggetto. Non solo: la dicotomia stessa essere-pensiero, assunta come fatto primitivo e inalienabile dalla modernità, è messa in crisi – e in proposito non possiamo non rammentare come Nietzsche avanzasse il sospetto che in questa dicotomia non vi fosse altro che un enorme malinteso dovuto alla struttura delle lingue indoeuropee, e nulla di più. Ciò che per Hegel si traduceva in un  mero avvicendamento dialettico, chiuso su sé stesso, centrato su sé stesso, diviene qui la complessa attività cogitante del Pensiero Esteso, che è per sua natura aperto e decentrato, pertanto mutevole finanche nel suo scheletro  –  e anche questo, sia detto, discosta il Franz dall’atteggiamento Hegeliano, nell’onesta cognizione che tutto è perfettibile e suscettibile di superamento.

La suddetta opera, in cui mi sono imbattuto quasi per caso, merita, a mio avviso, una lettura e una discussione approfondite, sia per la forza devastante della teoria, sia per l’audacia delle sue conclusioni. Dal canto mio, sono sicuro che qualsiasi speculazione filosofica propriamente detta non potrà prescindere dalla lettura e dal confronto con “La Storia come organismo vivente” - purché, beninteso, essa aspiri a ricoprire il ruolo che spetta alla filosofia, e che Franz ha magistralmente perseguito, di collante universale del sapere.

Aniello Quaranta

Nato a Battipaglia nel 1991, risiede attualmente nel salernitano. Ha conseguito la laurea in Fisica presso l’Università degli Studi di Salerno, dove sta completando i suoi studi di Fisica Teorica.

Esploratori del Continente: Giuseppe Tucci

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“GIUSEPPE TUCCI CI HA SOPRATTUTTO TRASMESSO LA SUA APPASSIONATA ED INTELLIGENTE DIMOSTRAZIONE DELL’UNITÀ CULTURALE DELL’EURASIA, E UNA LUCIDA CONSAPEVOLEZZA DEL FATTO CHE, GIUNTI COME SIAMO AD UN CAPOLINEA DELLA STORIA, ESSA DOV TRADURSI ANCHE IN UNEFFETTIVA UNITÀ GEOPOLITICA (ALESSANDRO GROSSATO, ITALIANI GLOBALI. GIUSEPPE TUCCI, IDEAZIONE”, A. IX, N. 6, NOV-DIC. 2002, P. 306).

Raniero Gnoli, che di Giuseppe Tucci (1894-1984) fu allievo devoto, commemorando il maestro scrisse di lui che l’idea di “una koiné culturale estendentesi dai paesi affacciati sull’Oceano Atlantico fino a quelli lambiti dal mar della Cina lo accompagnò per tutta la vita, tanto che, poco prima di morire, ancora insisteva coi suoi colleghi italiani e stranieri sulla necessità ed importanza di una concezione che non vedesse più Oriente ed Occidente contrapposti l’un l’altro, ma come due realtà complementari ed inseparabili”1. Lo stesso Gnoli ricorda che Tucci considerava le terre del continente eurasiatico come le sole in cui, “per misterioso privilegio o mirabile accadimento del caso, l’uomo elevò le architetture più solenni del pensiero, le fantasie più nobili dell’arte, il lento tessuto della scienza, quei tesori di cui oggi l’umanità tutta partecipa, arricchendoli o corrompendoli”2.

 

All’unità spirituale eurasiatica, d’altronde, si richiama quello che ci risulta essere l’ultimo intervento pubblico di Tucci, un’intervista apparsa il 20 ottobre 1983 sulla “Stampa” di Torino. “Io – diceva lo studioso – non parlo mai di Europa e di Asia, ma di Eurasia. Non c’è avvenimento che si verifichi in Cina o in India che non influenzi noi, o viceversa, e così è sempre stato. Il Cristianesimo ha portato delle modifiche nel Buddhismo, il Buddhismo ha influenzato il Cristianesimo, i rispettivi pantheon si sono più o meno percettibilmente modificati”.

 

Dichiarazioni di questo genere, che potremmo tranquillamente definire eurasiatiste, non sono né tardive né rare nell’opera di Tucci. Nel 1977 egli aveva accusato come grave l’errore che si commette allorché si considerano l’Asia e l’Europa come due continenti distinti l’uno dall’altro, poiché “in realtà si deve parlare di un unico continente, l’Eurasiatico: così congiunto nelle sue parti che non è avvenimento di rilievo nell’una che non abbia avuto il suo riflesso nell’altra”3. Nel 1971, commemorando in Campidoglio il fondatore dell’impero persiano, aveva detto che “Asia ed Europa sono un tutto unico, solidale per migrazioni di popoli, vicende di conquiste, avventure di commerci, in una complicità storica che soltanto gli inesperti o gli incolti, i quali pensano tutto il mondo concluso nell’Europa, si ostinano ad ignorare”4. Negli anni Cinquanta aveva contrapposto, alla tesi della “essenziale incomunicabilità dell’Oriente e dell’Occidente”5, l’esistenza della “comunione fiduciosa”6 dei due continenti efficacemente rappresentata dal termine Eurasia.

 

Ma già nel 1942, celebrando presso la Regia Litterarum Universitas Hungarica Francisco-Josephina di Kolozsvár il centenario della morte di Sándor Körösi Csoma (1784-1842), il “padre della tibetologia”, che nove anni prima era stato ufficialmente canonizzato come bodhisattva dall’università giapponese di Taishô, Tucci affermò l’esistenza di “legami misteriosi (…), simpatie arcane” 7 tra il Tibet, l’Ungheria e l’Italia.

   

È vero che in quegli anni Tucci “non aveva ancora maturato la concezione di Eurasia quale unico continente, fluido deposito di una comune humanitas nel corso della storia”8; nondimeno egli aveva già ben definita la propria visione circa i rapporti tra l’Europa e l’Asia e il ruolo centrale che l’Italia vi avrebbe potuto svolgere.

     

***

       

Laureato in Lettere presso l’Università di Roma dopo aver combattuto per quattro anni sui fronti della Grande Guerra, Giuseppe Tucci iniziò la sua carriera di orientalista tra il 1925 e il 1930, quando, incaricato di missione in India, insegnò cinese (oltre che italiano) presso le Università di Shantiniketan e di Calcutta. Nominato Accademico d’Italia nel 1929, nel novembre dell’anno successivo fu chiamato ad occupare la cattedra di Lingua e letteratura cinese all’Orientale di Napoli. Nel novembre 1932 passò alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma, dove fu professore ordinario di Religioni e Filosofia dell’India e dell’Estremo Oriente, finché nel 1969 venne collocato a riposo. Dal 1929 al 1948 compì otto spedizioni scientifiche in Tibet e dal 1950 al 1954 sei in Nepal. Nel 1955 iniziò le campagne archeologiche nella valle dello Swat in Pakistan, nel 1957 quelle in Afghanistan, nel 1959 in Iran.

 

Nel periodo del suo insegnamento in India, Tucci aveva coltivato relazioni personali con Rabindranath Tagore, che gli aveva presentato Gandhi. Inoltre aveva allacciato rapporti con un gruppo di studiosi interessati a collaborare con l’Italia; gravitava intorno a questo gruppo l’ex allievo di Tucci che, una volta diventato professore d’italiano all’università di Calcutta, pubblicò in bengalese una biografia ed una raccolta di discorsi di Mussolini9. Si collocano verosimilmente in quegli anni i primi contatti di Tucci con Subhas Chandra Bose, destinati a svilupparsi in un rapporto di amicizia10 e di collaborazione: nel 1937, in una delle “varie occasioni”11 in cui il patriota bengalese venne ricevuto dal Duce, fu Tucci ad accompagnarlo in udienza12. E sarà l’IsMEO guidato da Tucci ad incoraggiare nel 1942 la traduzione italiana del libro del Netaji, Indian Struggle.

 

In una relazione sulla sua missione in India, inviata il 31 marzo 1931 al ministro degli Esteri Dino Grandi, Tucci propose la fondazione di un istituto culturale finalizzato ad agevolare gli studi dei giovani Indiani in Italia e presso le istituzioni italiane, a promuovere la conoscenza dell’Italia in India, a mettere in contatto studiosi indiani e italiani dagli interessi affini. Mussolini, che già accarezzava l’idea di dar vita ad un istituto per le relazioni italo-indiane, ricevette in udienza il professore maceratese e rimase d’accordo con lui che avrebbe esaminato il suo progetto quando egli fosse ritornato dal viaggio di esplorazione che si accingeva ad intraprendere nel Tibet. Rientrato in Italia nel novembre del 1931, Tucci riuscì a coinvolgere nel suo progetto il presidente dell’Accademia d’Italia, Giovanni Gentile, che nel luglio dell’anno successivo ottenne dal Duce l’approvazione definitiva.

 

Quando l’IsMEO vide ufficialmente la luce, nel febbraio 1933, Giovanni Gentile ne fu il presidente e Tucci uno dei due vicepresidenti (l’altro fu G. Volpi di Misurata). L’evento fu celebrato nel dicembre di quello stesso anno dal geografo Filippo de Filippi nel contesto di un’iniziativa patrocinata dal GUF, la “Settimana romana degli studenti orientali” presenti in Europa. Nella sala Giulio Cesare del Campidoglio si tenne un convegno che raccolse circa cinquecento giovani asiatici e numerosi ambasciatori ed ebbe il suo momento culminante nella mattina del 22 dicembre, quando il Duce pronunciò un discorso al quale risposero una studentessa indiana, uno studente siriano e uno persiano.

 

“Venti secoli or sono – esordì Mussolini – Roma realizzò sulle rive del Mediterraneo una unione dell’occidente con l’oriente che ha avuto il massimo peso nella storia del mondo. E se allora l’occidente fu colonizzato da Roma, con la Siria, l’Egitto, la Persia, il rapporto fu invece di reciproca comprensione creativa”. La civiltà particolaristica e materialistica nata fuori dal Mediterraneo, – proseguì – essendo incapace per sua natura di comprendere l’Asia, ha troncato “ogni vincolo spirituale di collaborazione creativa” con essa e l’ha considerata “solo un mercato di manufatti, una fonte di materie prime”. Ecco perché la nuova Italia, che lotta contro “questa civiltà a base di capitalismo e liberalismo”, si rivolge ai giovani rappresentanti dell’Asia. E concluse: “Come già altre volte, in periodo di crisi mortali, la civiltà del mondo fu salvata dalla collaborazione di Roma e dell’oriente, così oggi, nella crisi di tutto un sistema di istituzioni e di idee che non hanno più anima e vivono come imbalsamate, noi, italiani e fascisti di questo tempo, ci auguriamo di riprendere la comune, millenaria tradizione della nostra collaborazione costruttiva”13.

 

La visione di Mussolini coincideva con quella di Tucci, che due mesi dopo, il 13 febbraio 1934, in una lettura tenuta all’IsMEO, avrebbe auspicato tra l’Europa e l’Asia una collaborazione basata su “una comprensione aperta e franca, scevra di pregiudizi, di malintesi e di sospetti, come fra due persone leali e di carattere”14.

 

Il Duce, da parte sua, riprese l’argomento in un articolo pubblicato sul “Popolo d’Italia” del 18 gennaio 1934 e in un discorso pronunciato due mesi dopo al Teatro Reale dell’Opera di Roma. Esaminando la situazione conflittuale esplosa in Manciuria, Mussolini, liquidata la tesi del “pericolo giallo” come una fantasia, “a condizione che si tenti una ‘mediazione’, non nel senso volgare della parola, fra i due tipi di civiltà”, ribadiva la necessità di “una collaborazione metodica dell’occidente con l’oriente” e di “una più profonda conoscenza reciproca fra le classi universitarie, veicolo e strumento per una intesa migliore fra i popoli”15.

 

Nel 1934 l’Italia, che aveva buone relazioni con la Cina, non era ancora schierata a fianco del Sol Levante; lo stesso Tucci nutriva una certa diffidenza nei confronti della politica di Tokyo, in quanto riteneva che il Giappone progettasse di saldare i popoli dell’Asia in un blocco antieuropeo. Non è dunque affatto fuori luogo pensare che il Duce “avesse rimedi[t]ato da sé il problema del legame tra l’espansionismo giapponese e l’ascesa del nazionalismo asiatico, forse in primo luogo quello indiano, a cui soprattutto pensavano i fondatori dell’IsMEO, nell’ambito della cui attività per statuto il Sol Levante sarebbe dovuto rientrare. D’altro canto sappiamo che Mussolini più o meno attentamente seguiva gli sviluppi della politica e dell’economia nipponica, in particolare dopo la crisi mancese, sicché doveva rendersi conto della tendenza del Sol Levante a presentare se stesso come guida dei popoli asiatici sulla via dell’indipendenza. Per quanto vagamente è dunque verosimile che la sua mente pensasse ad una forma di incontro fra Tokyo e l’Italia”16.

 

D’altronde l’ambasciata giapponese aveva già sollecitato l’instaurazione di scambi culturali tra le università dei due paesi ed anche Giovanni Gentile aveva caldeggiato un accordo per lo scambio di professori e studenti. Verso la metà del 1934 l’IsMEO prese contatto con la Kokusai Bunka Shinkôkai, un’istituzione ufficiale che curava i rapporti culturali del Giappone con l’estero, e Tucci affrontò l’argomento con l’ambasciatore giapponese. In novembre il successore di quest’ultimo, Yotaro Sugimura, parlò sia con Tucci sia con Mussolini, il quale gli indicò lo studioso maceratese, vicepresidente dell’IsMEO, come la personalità incaricata di condurre i negoziati per arrivare all’accordo culturale, che venne stipulato nella primavera del 1935.

 

Nel 1936 l’IsMEO, “pilotato pressoché unicamente da Tucci” 17, funzionava ormai a pieno ritmo. “Fu realizzato il reciproco invio dei conferenzieri con Tokyo; vennero concesse altre borse di studio; inviati bollettini informativi basati su rassegne della stampa asiatica, con regolarità periodica, al ministero degli Esteri, alla presidenza del Consiglio e all’Eiar; fu bandito un concorso a premi su temi di attualità riguardanti i paesi del Medio ed Estremo Oriente (…). Venne ampliata la biblioteca, anche attraverso l’attuazione dell’accordo con la KBS, estesa al bengalese la gamma delle lingue insegnate. Furono anche avviate conversazioni per raggiungere con la Cina un accordo analogo a quello con il Giappone”18.

 

Invitato in Giappone nel novembre del 1936, il professor Tucci vi fu accolto con tutti gli onori dovuti ad una personalità ufficiale: venne ricevuto dal Tennô, parlò alla Camera dei Pari, lesse alla radio un messaggio di Mussolini. Ovviamente promosse varie iniziative d’ordine culturale: in particolare, concluse un accordo per l’insegnamento dell’italiano in un’università nipponica e fondò a Tokyo un istituto di cultura. La visita di Tucci fu ricambiata nel dicembre 1937 da quella di Kishichiro Okura, presidente della Società Amici dell’Italia, che pochi giorni dopo la sigla del Patto Antikomintern lesse nei locali dell’IsMEO un messaggio per il popolo italiano. Tucci, con Gentile e Majoni, fece parte del comitato promotore di una costituenda Società degli Amici del Giappone, che dal gennaio 1941 pubblicò, presso l’Istituto geografico De Agostini, il mensile “Yamato”. Membro del comitato di redazione, Tucci collaborò alla rivista “con pezzi di argomento letterario, religioso o di drammatica attualità, come quello sul sacrificio della guarnigione giapponese ad Attu, che apre il numero del luglio ’43”19. Nel 1943 cessò le pubblicazioni non soltanto “Yamato”, ma anche il bimestrale “Asiatica”, che nel 1936 era subentrato al “Bollettino dell’IsMEO”. Quanto a Tucci, l’aver ricoperto la carica di presidente della Società degli Amici del Giappone gli valse, nella risorta democrazia, un provvedimento di epurazione.

 

Assunta nel 1948 la presidenza dell’IsMEO, Tucci diede vita ad un nuovo bimestrale, “East and West”, al quale collaborarono studiosi di fama mondiale: da Mircea Eliade a Mario Bussagli, da Franz Altheim a Francesco Gabrieli, da Henry Corbin a Julius Evola.

     note     
  1. 1. R. Gnoli, Ricordo di Giuseppe Tucci, IsMeo, Roma 1985, pp. 8-9.
  
  1. R. Gnoli, Ricordo di Giuseppe Tucci, p. 9.
 
  1. G. Tucci, cit. in: Raniero Gnoli, Ricordo di Giuseppe Tucci, cit., p. 9.
 
  1. G. Tucci, Ciro il Grande. Discorso commemorativo tenuto in Campidoglio il 25 maggio 1971, Roma 1971, p. 14.
 
  1. Tucci, Introduzione a: AA. VV., Le civiltà dell’Oriente, Casini, Roma 1956, vol. I, p. xxii.
 
  1. Tucci, Marco Polo, IsMeo, Roma 1954, p. 16.
 
  1. Tucci, Alessandro Csoma de Körös, Eurasia”, a. III, n. 1, genn-marzo 2006, p. 33.
 
  1. F. Palmieri, Introduzione a: Giuseppe Tucci, Sul Giappone. Il Buscidô e altri scritti, Settimo Sigillo, Roma 2006, pp. 12-13.
 
  1. P. N. Roy, Mussolini and the cult of Italian youth, Calcutta s. d. Il libro di Roy è comunque successivo alle biografie mussoliniane di V. V. Tahmankar ( Muslini ani Fachismo, Poona 1927) e di B. M. Sharma (Mussolini, Lucknow 1932).
 
  1. Rievocando l’incontro con Puran Singh, governatore di Pokhara, avvenuto durante il viaggio in Nepal del 1952, Tucci scrive di lui: “è stato l’aiutante del Netaji Subhas Chandra Bose (…) È molto sorpreso di sapere che io fossi amico del grande patriota bengalico e la sua cordialità diventa più calorosa” (Tra giungle e pagode, Newton & Compton, Roma 1979, p. 78).
 
  1. Chandra Bose, La lotta dell’India (1920-1934), Sansoni, Firenze 1942, p. 308.
 
  1. V. Ferretti, op. cit., p. 812. Cfr. R. De Felice, Mussolini il duce. II. Lo Stato totalitario 1936-1940, Einaudi, Torino 1981, p. 447 n.
 
  1. B. Mussolini, Oriente e occidente, in Scritti e discorsi, Hoepli, Milano 1934, VIII, pp. 285-287.
 
  1. Tucci, L’Oriente nella cultura contemporanea, IsMEO, Roma 1934, p. 20.
 
  1. B. Mussolini, Estremo Oriente, in Opera Omnia, XXVI, Firenze 1958, pp. 153-156.
 
  1. V. Ferretti, Politica e cultura: origini e attività dell’IsMeo durante il regime fascista, “Storia contemporanea”, XVII, n. 5, ottobre 1986, pp. 793-794.
 
  1. V. Ferretti, op. cit., p. 802.
 
  1. V. Ferretti, op. cit., p. 801.
  F. Palmieri, Introduzione, cit., p. 27. L’articolo Gli eroi di Attu è riportato nel volume curato da F. Palmieri. Ringraziamo la rivista di geopolitica Eurasia per la collaborazione

Berlusconi ha realizzato il  sessantotto? – Roberto Pecchioli

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Le piccole librerie e i bouquinistes di strada sono preziosi. Da loro si riescono a trovare vecchie edizioni, libri che si credevano esauriti, autori e testi dei piccoli editori, presidio di libertà. Visitando una libreria nel centro storico di una piccola città ci siamo imbattuti in un libriccino di poche pagine scritto nel 2011 dal filosofo e storico dell’arte Mario Perniola, scomparso recentemente. Intrigante il titolo, interessante il testo che si legge d’un fiato: Berlusconi o il ’68 realizzato...

La tesi dell’intellettuale astigiano è che il Cavaliere sarebbe la prova del successo della rivoluzione antropologica innescata dalle idee, parigine e californiane, del 1968. Strano davvero che le posizioni eterodosse di pochi pensatori considerati reazionari, insieme con voci potenti ma isolate tacciate di “rossobrunismo” (Costanzo Preve) vengano in qualche modo accolte, o almeno rivisitate, da un figura come quella di Perniola. Già estremista di sinistra, vicino all’Internazionale Situazionista in gioventù sino all’amicizia personale con Guy Debord, successivamente storico e filosofo dell’arte su posizioni assai critiche della post modernità, nemico del “pensiero debole”, protagonista di accese polemiche con Gianni Vattimo, presenta una tesi sorprendente e non priva di un certo fascino. Il cavaliere di Arcore sarebbe, nella visione dell’allievo di Luigi Pareyson, colui che ha realizzato quanto il Sessantotto aveva sostenuto.

Da insider del movimento (Perniola nacque nel 1941 e cominciò a intervenire nel dibattito culturale a metà degli anni 60) egli scorge nella figura di Berlusconi “quella volontà di potenza, quel trionfalismo farneticante, quella estrema volontà di destabilizzare tutta la società di cui il Sessantotto fu pervaso. Fine del lavoro e della famiglia, descolarizzazione, distruzione dell’università, deregolamentazione della sessualità, contro-cultura, e discredito delle competenze mediche e crollo delle strutture sanitarie, ostilità nei confronti delle istituzioni giudiziarie considerate come repressive, vitalismo giovanilistico, trionfo della comunicazione massmediatica, oblio della storie e presentismo spontaneistico, tutto ciò è ormai diventato realtà.”

Parole di condanna del 68 che suonano strane, in bocca al vecchio situazionista diventato professore di estetica, simili a quelle esposte ne L’ arte espansa, in cui sostiene che “la dimensione dell’arte si è ampliata enormemente. Ogni cosa può essere trasformata in arte, anche senza che il suo autore ne sappia nulla. Ma chi ha la legittimità e l’autorevolezza per operare tale metamorfosi?” Un lessico vicino a quello di un conservatore che guarda con un certo orrore allo slogan centrale del 68 “l’immaginazione al potere”. Resta in lui il riflesso pavloviano che ha percorso l’intera sinistra italiana dal 1994, la demonizzazione dell’avversario, cui vengono attribuiti tutti i mali del presente.

No, Berlusconi non ha affatto realizzato il Sessantotto, ma senza dubbio ne è un prodotto. Il rovesciamento di tutti i valori è un elemento della distruzione creatrice intuita da Schumpeter come motore del capitalismo; il 68, nato rivoluzionario, è stato poi assorbito da una nuova ideologia, l’individualismo libertario progressista. Come intuisce Perniola, ad un’economia e a un etica fondate sul lavoro succede un mondo basato sulle relazioni sociali, in cui le qualità richieste sono l’adattabilità, la flessibilità, la polivalenza, dunque il cinismo e l’indifferentismo morale. L’uomo del post 68 è uno Zelig che “muta d’accento e di pensier” a seconda degli interlocutori, delle situazioni, delle convenienze. Ha un rapporto speciale con l’intrattenimento e non tollera divieti (c’est interdit d’interdire). La figura di Berlusconi può essere paradigmatica di un certo modo di stare al mondo, ma non è che un effetto di un’esplosione generale di cui lo stesso Perniola, che sembra deprecarne gli esiti, fu attivo promotore.

La nostra posizione è diversa. Il 68 fu una rivoluzione in interiore homine che ha totalmente decostruito la società europea e occidentale, i cui frutti avvelenati si possono sintetizzare in dieci punti brillantemente teorizzati da Marcello Veneziani. Secondo il pensatore pugliese, il Sessantotto fu sfascista, parricida, infantile, arrogante, estremista, tossico, conformista, riduttivo, neo bigotto, smisurato. Distruttore, poiché lasciò l’ebbrezza di abbattere, rifiutare. Non per caso, si chiamò contestazione globale. Fu parricida, poiché la rivolta designò un nemico assoluto, il Padre. Quel parricidio fu destituente, poiché ridusse in cenere ogni autorità ed autorevolezza. Fu infantile in quanto scatenò nelle masse una perdurante sindrome di Peter Pan: nessuna volontà di crescere, l’irresponsabilità al potere quanto l’immaginazione. Senza padri, i figli permanenti costruirono la società senza figli, attraverso la denatalità, l’aborto, il disprezzo per la vecchiaia, il giovanilismo obbligato e ridicolo.

Fu anche arrogante, il 68, con l’ignoranza, il dilettantismo elevato a merito, la destituzione dei doveri a favore dei diritti, l’abolizione dei limiti. Ovvia la deriva estremista, che condusse alla stagione della violenza e del terrorismo, della glorificazione di ogni rivolta, a cominciare dalla rivoluzione cinese, dai miti di Che Guevara e dei vietcong (“Vietcong vince perché spara!”). Tossico lo fu certamente, tanto in senso figurato, quanto nel generalizzare – non di rado esaltare – l’uso di droghe e sostanze psicoattive, in cui la cultura radicale, il filone hippy incontrò l’onda permissiva, dionisiaca, orgiastica di sesso, droga e rock and roll. Ma fu anche conformista, nel senso che spense le idee di ieri per trovarsi al servizio del nuovo Signore anti borghese, anti popolare ma globalista e privatizzatore. La vecchia tradizione fu cancellata, riducendo tutti a gaudenti seriali, consumatori, spostati, senza famiglia.

Fu riduttivo nel senso che tutto venne circoscritto all’attualità, ad un presente lineare, un mondo di rimozioni successive sull’altare dell’attimo. Dalla modernità si transitò all’odiernità. Il bigottismo sessantottino di ritorno è assai bizzarro. Dalla libertà senza freni al politicamente corretto, alla polizia del pensiero, alla ribellione contro le parole. Dai vecchi ai nuovi parrucconi, ai quali, fallita la rivoluzione proletaria, è rimasta quella lessicale. Infine, Veneziani parla di smisuratezza; il 68 fu l’apologia dello sconfinamento. Di luoghi, sessi, popoli. Bombardati gli argini, fatta saltare ogni diga, il fiume ha travolto ogni cosa. Quel che è rimasto è un immenso ammasso di detriti irriconoscibili.

Se paragoniamo le conclusioni di Perniola e quelle di Veneziani, sovrapponendole come impronte digitali, ci stupiamo di constatare, al di là della diversità dei linguaggi, non poche analogie. L’espediente in fondo ingenuo del filosofo ex sessantottino divenuto cultore dell’estetica è quello di considerare una persona fisica considerata nemica delle proprie idee, Silvio Berlusconi, come l’incarnazione dei mali di una visione del mondo criticata dopo averla non solo condivisa, bensì attivamente promossa. Berlusconi è il prodotto- uno dei tanti- di un mondo che ha tutti i difetti smascherati da Veneziani, ma è solo un lato di una figura geometrica ben più complessa.

Il suo capitalismo felice, in fondo ancora legato al lavoro, aspira al consenso, alla legittimità, come osservarono Boltanski e Chiapello nel sottolineare l’unica vera differenza del nuovo capitalismo dalle mafie, ma non ha senso alcuno affermare che Berlusconi avrebbe “portato a termine un progetto di destrutturazione della famiglia “. Troppa grazia. Da Sigmund Freud al suo coerente epigono Wilhelm Reich ai professori di Francoforte, passando per le varie fasi della rivoluzione sessuale e del femminismo, ben altre sono le responsabilità. Alla TV di cui Silvio è un dominus si può rimproverare di essere stata corriva, cattiva maestra, o, seguendo Perniola, addirittura “cattiva madre”, ma non ha fatto che seguire la corrente, rafforzandola, peggiorandone il corso; certo non l’ha creata.

Quanto alla scuola o all’Università, le sue riforme sono state talmente numerose da rendere difficile persino citarle. Se Tullio De Mauro, insigne italianista divenuto ministro di un governo di sinistra, dovette riconoscere l’impressionante analfabetismo funzionale di milioni di italiani, anche diplomati e laureati, la colpa è del 68 e dei suoi numerosissimi falsi maestri, non del povero Silvio con le sue tre I, inglese, internet, impresa. Mezzi, non scopi al servizio della globalizzazione e di un capitalismo di cui neppure Perniola sembra cogliere del tutto la portata totalizzante.

Ciononostante, egli ci affida una riflessione capitale, non ancora adeguatamente sviluppata: lo smantellamento della scuola e dell’università hanno una motivazione epocale: “l’esistenza della borghesia non serve più al capitalismo, il quale oggi trova nella classe media un ostacolo all’espansione straripante del modello neo liberistico. “Azzerando ogni possibilità di ascesa socio economica, anche attraverso la svalorizzazione dei titoli di studio, con lauree e promozioni di massa, diventate obiettivi dell’azienda-scuola, non ci sono più ostacoli nell’assegnare cattedre, uffici, impieghi apicali e incarichi di potere ai più incompetenti, ignoranti e corrotti. In questo senso, tutti, in Occidente hanno fatto la loro parte. Berlusconi la sua, con l’aggravante, certo, di aver promesso un’equivoca “rivoluzione liberale” che ha realizzato solo nei tanti elementi deteriori e nel disprezzo ostentato per la cultura in cui tuttavia, la sua finta destra è in buona compagnia. Dal 68 e per vari motivi, conta solo la specializzazione tecnica, il resto è dilettantismo, come lamenta il maturo critico d’arte Perniola, molto diverso dal giovane situazionista di mezzo secolo prima.

Chi semina vento, raccoglie tempesta e certo non la può attribuire a un avversario politico dai pochissimi meriti, ma che non ha avuto né la forza, né il tempo e tantomeno la volontà di esercitare un potere distruttivo come dipinto dal quadro del pamphlet. Anche l’ottimismo da imbonitore un po’ texano e molto “ganassa” di Berlusconi viene considerato come prova a suo carico. La verità è che ne è pervasa l’intera società dello spettacolo in cui siamo immersi- un amico e sodale di Guy Debord dovrebbe insegnarlo. Lo stesso innegabile disprezzo berlusconiano per la cultura ha ascendenti antichi, da rintracciare nell’universo politico ideale vicino al primo Perniola. Pensiamo allo spontaneismo anti educativo di un Jean Jacques Rousseau, al suo pernicioso mito del buon selvaggio, a certi giacobini convinti che “la rivoluzione non ha bisogno di sapienti”, alle correnti più estreme del primo 68, come il Movimento del 22 Marzo, sino alla rivoluzione culturale cinese, che si svolse negli stessi anni dell’esplosione sessantottina in Occidente, tesa a cancellare i principi bimillenari del confucianesimo.

Se al seguito dell’immaginazione è andata al potere l’ignoranza, la responsabilità non è di Arcore, ma dell’entusiastica accoglienza dei principi teorizzati nella stagione degli anni 60 e 70. Del 1979 è La condizione post moderna di Lyotard, una sorta di presa d’atto dell’esaurimento di una civiltà diventata ripetizione, divagazione sul tema, manierismo. Di quello stesso periodo è il sorgere del “pensiero debole” attorno a Gianni Vattimo, altro allievo di Pareyson. Vattimo ha permesso il transito della cultura italiana dal relativismo ad un compiuto nichilismo, con l’aggravante che il pensiero cosiddetto debole è negatore della verità in nome di una verità rovesciata più alta e onnicomprensiva, ovvero l’assenza di verità. Nessuna civiltà si regge su anti principi. Pensiamo ai danni dell’anti psichiatria (anch’essa figlia dell’incontro tra il 68 e alcuni filoni marxisti).

La perdita più grave dell’ultimo mezzo secolo è stata l’assenza dell’idea di qualità. Riducendo ogni cosa alla dimensione orizzontale, quantitativa, si è disprezzata l’eccellenza, la profondità, l’elevazione, quelle che Evola chiamava linee di vetta. L’autorevolezza della conoscenza, della cui perdita sente nostalgia l’ultimo Perniola, è stata revocata in dubbio proprio da quel sessantottismo volgarizzato, sciatto, che cammina in ciabatte ed è il segno della repubblica anarcoide della quantità su cui il liberalcapitalismo ha costruito il proprio dominio. Berlusconi non c’entra nulla, purtroppo. Magari potessimo imputare a un solo uomo, o a un’unica corrente politica o culturale la decadenza in cui siamo immersi.

I canali della comunicazione globale, lo spiega Perniola, sono stati efficacemente descritti già dai filosofi Stoici, per i quali stolto è colui che cambia opinione da un momento all’altro, incapace di stare fermo, corre a precipizio verso il primo obiettivo che incontra, salvo pentirsi con facilitò di quanto fatto e cambiare improvvisamente direzione. Incapace di ascolto, inetto a elaborare valutazioni stabili e compiere scelte definitive. Sembra un affresco della società liquida, che non è un invenzione di Bauman, ma un’efficace definizione. L’attacco al 68 non poteva essere più devastante, tenuto conto delle virtù accolte nel pantheon di Mario Perniola, l’inclinazione razionale per il logos, la decenza, la socievolezza, il pudore, l’autodominio.

Ricordate le quattro virtù cardinali della tradizione cristiana, prudenza, fortezza, giustizia e temperanza? Parole diverse per esprimere concetti analoghi. Il Sessantotto ad una mente non ottenebrata doveva far presagire dall’inizio gli effetti che oggi scontiamo nella loro interezza: mancanza di qualità, nessun senso del limite, vittoria dell’ignoranza, un’immaginazione soggettiva priva di freni che è andata al potere senza sapere che farsene se non abusarne, cortocircuito delle virtù antiche, che anche il nostro filosofo (parzialmente) pentito mostra di rimpiangere, non sostituite da un nuovo sistema di valori diverso dal pensiero debole nichilista.

Caro filosofo illustre, esteta e critico insigne, colto, fine e brillante, non si attacchi a Berlusconi, un effetto tra i tanti di un tempo volgare, per nascondere le sue sconfitte. Del senno di poi sono piene le fosse, piange sul latte versato, ma è tra i molti che hanno acceso e alimentato la fiamma sotto il bollitore. Silvio, il pessimo Silvio, è soltanto un comodo capro espiatorio, uno specchio della cattiva coscienza di due generazioni italiane. Ne serviranno altrettante, e forse non saranno sufficienti, per cancellare il Sessantotto. Per disarcionare il Cavaliere è bastato manipolare lo spread.

ROBERTO PECCHIOLI

Black Guardian – Il Signore della Soglia – Stefano Mayorca

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Penetrare all'interno del grande tempio dei Misteri significa intraprendere un viaggio ai limiti del consueto e superare il confine tra Luce e Ombra. La metafora appena espressa è rinvenibile in forma di leggenda ed è presente in numerosi miti e racconti, solo all'apparenza fantastici. In realtà, sotto la scorza che ne suggella il mistero e dietro il segreto impenetrabile che li riveste, si cela l'Arcano Ermetico. Arcano rappresentato dalla figura del Grande Custode e iniziatore (nella sua accezione più luminosa), che cercheremo di rendere meno remota e inaccessibile attraverso questo articolo.

Molti sono i miti cavallereschi che narrano di un cavaliere intrepido che deve sconfiggere un terribile drago il quale sputa fuoco e tenta in ogni modo di annichilire il coraggioso eroe. In tale ambito può essere collocata la temibile figura di Cerbero, il cane infero o guardiano del regno oscuro, che vietava ai morti di oltrepassare il confine dell'eterna notte e allo stesso tempo impediva ai vivi di penetrare nel regno delle ombre. Esiodo, nella sua opera Teogonia, lo descrive in questo modo:

"Il prodigioso indicibile Cerbero, carnivoro dell'Ade, cane dalla bronzea voce, dalle cinquanta teste, impudente e vigoroso". Solo Ercole, Orfèo ed Enea ardirono penetrare nel buio territorio ed affrontarlo. Tutti e tre iniziati ai Misteri.

Sia il dragone che il cane infernale incarnano il Guardiano della Soglia. Cerbero in particolare può essere assimilato sia al dio egizio Anubi dalla testa di sciacallo, signore dell’Oltretomba, che ad Ecate, una delle tre divinità legate a Selene, la dea lunare. Anche il racconto di San Michele che trafigge il drago, così come quello di San Giorgio, rivelano aspetti connessi con il Signore Occulto, il Custode. San Michele Arcangelo, riconducibile ad Apollo, dio solare apportatore di Luce, fa parte degli archetipi ancestrali che contrastano (con la fonte luminosa che da essi scaturisce) le energie ottenebranti e pesanti di ordine terrigeno. L'Oroboros, il Serpente simbolo dell'astrale, configura proprio questo. Ciò vuol dire che il Guardiano della Soglia è negativo? No di certo, o almeno solo in parte e verso coloro che sono impreparati e tuttavia cercano di risvegliarlo.

SIR E.B. LYTTON ADEPTO E SCRITTORE

Nell'ormai celebre romanzo Zanoni, scritto dall'iniziato Edward Bulwer Lytton, che apparve nell'indimenticabile rivista il Mondo Secreto (da secrezione) dell'Aureo Maestro Giuliano Kremmerz, editata nel 1897 (i fascicoli originali sono stati raccolti in due volumi pubblicati dalle Edizioni Rebis di Viareggio nel 1982), viene tratteggiata l'esperienza di un neofita che tenta di entrare in contatto con questa "entità" eterna e immutabile. L'articolo, che si occupava del romanzo in questione, era a firma del serio ermetista Pietro Bornia e successivamente divenne un volume intitolato appunto Il Guardiano della Soglia.

"Nelle lampade del Rosicruciano il fuoco è il principio puro ed elementare. Accendi le lampade mentre apri il vaso che contiene l'elisir e la luce attirerà verso di te quegli esseri pei quali ella è vita. Diffida della paura. La paura è nemica mortale della scienza".

Quest'ultima frase non era sufficiente a spiegare le fasi preliminari della grande operazione. Forse il maestro aveva lasciato di proposito quell'indizio? Il giovane scorse le pagine ma ciò che appariva ai suoi occhi era indecifrabile poi, ad un tratto, il senso si fece più chiaro grazie ad un ulteriore passaggio:

"Allorquando il discepolo sarà stato iniziato e preparato in tal modo, apra la finestra, accenda le lampade e si bagni le tempie coll'elisir. Ma si guardi bene dal bere lo spirito volatile ed igneo. Gustarne prima che le inalazioni ripetute abbiano gradualmente abituato il corpo al liquido estatico sarebbe esporsi alla morte, anziché procurarsi la vita".

Di nuovo le cifre mutavano ed egli non fu in grado di procedere oltre. Si guardò attorno, la Luna illuminava debolmente la stanza e i suoi raggi penetravano attraverso la finestra che aveva appena aperto. Quindi dispose le nove lampade attorno alla stanza e le accese. Una fiamma azzurro-argentea si promanava da queste producendo un chiarore abbagliante che poco a poco si attenuò. Una strana nebulosità di colore grigio si sprigionò riempiendo l'ambiente e l'apprendista avvertì un gelo mortale. Presentendo il pericolo imminente, tentò di raggiungere i vasi di cristallo contenenti l'elisir mentre le membra si stavano irrigidendo. Aspirò avidamente e si bagnò le tempie. Un senso di forza e di vigore sconosciuti lo pervasero dissolvendo il terribile torpore. In seguito, rimase fermo ad aspettare e vide delle strane figure materializzarsi (elementali ed elementini). Queste, simili nel contorno a delle sagome umane, erano esangui e i loro corpi apparivano trasparenti. Si allungavano e ripiegavano ricordando le spire di un serpente e pian piano si sollevarono, seguendo il medesimo ordine che avevano tenuto durante la loro materializzazione. Lentamente uscirono dalla finestra e si dissolsero lasciando posto ad un'oscura presenza che atterrì il giovane, spegnendo in lui l'entusiasmo che in precedenza lo animava. Ora aveva una vaga sensazione di paura. Finalmente riuscì a scorgere chiaramente l'ombra, si trattava di una testa velata di nero. Tutto al suo passaggio sembrava sbiadire, le luci delle lampade tremolavano e il suo sguardo era insostenibile. Strisciava, simile ad un gigantesco rettile. Infine si sistemò sulla tavola dove era posato il volume contenente formule magiche e geroglifici. Fissò a lungo colui che incautamente e incoscientemente lo aveva evocato e che tremava in preda ad un terrore profondo e abissale. Ma entriamo nel vivo della storia. Il futuro mago che aveva già superato con un certo successo parte dell'addestramento occulto, viene lasciato solo dal suo Maestro che consegna nelle sue mani la chiave del laboratorio segreto (sarebbe meglio dire il Tempio o forse il gabinetto alchemico), raccomandandosi di non penetrarvi. La tentazione è forte e l'iniziando, ancora soggetto alla corrente profana e non ancora maturo sul piano operativo, decide di entrare convinto di possedere i requisiti adatti per tentare la prova e consultare i preziosi quanto riservati manoscritti in esso contenuti. L'attenzione di quest'ultimo viene catturata da un libro che, al contrario degli altri, è rimasto aperto e indica un punto specifico del testo magico. Nonostante le parole del Maestro:

"S'avvicina ormai l'ora in cui potrai oltrepassare la grande ed invincibile barriera, l'ora in cui potrai prepararti gradatamente ad affrontare il terribile Guardiano della Soglia. Continua i tuoi lavori, continua a domare l'impazienza ch'ai di conoscere gli effetti prima delle cause…",

il neofita si avvicina al volume e legge alcune istruzioni cifrate, simboli che riesce a decifrare grazie agli insegnamenti ricevuti. Sempre più in preda all'orgoglio legge le prime frasi racchiuse nello scritto e crede di averne carpito il senso più riposto che spiega in tal modo: "Bere a lunghi sorsi la vita interna è vedere la vita superiore: vivere a dispetto del tempo è vivere la vita universale. Colui il quale scopre l'elisir, scopre ch'è nello spazio, perché lo spirito che vivifica il corpo fortifica i sensi. Nel principio elementare della luce v'è attrazione. Quindi, comunicando con l'anima dell'apprendista, pronunciò queste parole:

"Tu sei entrato nella regione illimitata. Io sono il Guardiano della Soglia. Che vuoi da me? Non rispondi? Hai forse paura di me? E che, non son' io l'amor tuo? Non è per me, ch'hai rinunziato alle gioie della tua specie? Vorresti forse la sapienza? Io possiedo la sapienza d'innumeri secoli! Baciami, mio mortale amante".

Il mago neofita cadde svenuto in terra. La prova era fallita e la fiducia del maestro tradita. Abbiamo esposto con parole nostre (escluso il corsivo) e rispettando i contenuti, questo brano del romanzo di Edward Bulwer Lytton. Si tratta di un racconto fantastico? Assolutamente no, infatti, l'autore, (che era un Adepto), ha descritto con artifici tecnici e romanzeschi una realtà iniziatica di grande valore e profonda conoscenza ermetica. Ciò che ci preme sottolineare è l'atteggiamento irresponsabile dell'apprendista, dettato dall'orgoglio e dalla presunzione. Ciò spiega perché questo Custode può essere tenebroso e oscuro se destato prematuramente e, al contrario, luminoso e paterno quando evocato in armonia con la propria preparazione ed evoluzione interiore. Il dominio (non l'eliminazione) sulle passioni terrene è indispensabile per progredire e tentare di scalare le impervie vie dell'ignoto.

- Stefano Mayorca - Riproduzione Riservata

L’Insegnamento speciale del Tögal – II parte – Luca Violini

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Quando comprendiamo che tutto inizia dalla Natura ma ancora seguiamo gli oggetti come se fossero qualcosa di concreto: noi tutti lo sappiamo, ma guardiamo l'origine, dov'è l'origine? La Natura, così ora è trovare la vera origine. È come guardare nell'acqua e vederci riflesse cose piacevoli - qualunque cosa vediamo è tutta acqua. Allo stesso modo, qualsiasi cosa vediamo, siano cose buone o cattive, tutto risale alla stessa Natura. Dobbiamo saperlo. Non è facile crederlo, ma questa è la Natura. Noi pensiamo che tutto sia assolutamente vero (reale), il che significa che abbiamo seguito il lato oggettivo per troppo tempo, senza mai rivolgerci all'origine. Non è sufficiente semplicemente voltarsi indietro e vedere l'origine, dobbiamo praticare sempre più, allora le visioni, le luci e la saggezza diventeranno più concrete, più affidabili. Di solito pensiamo che un qualcosa sia illusione ma in realtà, se guardiamo indietro all'origine, non c'è nulla. La Base è la Natura della Mente. La mente è influenzata dall'ignoranza, l'ignoranza ha creato le cinque coscienze velenose e noi le seguiamo sempre più e sviluppiamo corpo, voce e mente. È difficile dirlo direttamente. Sembra come un riflesso nell'acqua, ma non c'è nessuno che sta guardando, è tutto un riflesso. Non pensate a proposito di noi che guardiamo, pensate all'acqua e ai riflessi, essi non sono separati. Noi pensiamo "io" e facciamo una separazione, ma pensiamo all'inseparabilità di acqua e riflessi. Allo stesso modo, noi siamo nella Natura, ma non lo vediamo, non lo crediamo. Tutto funziona bene, ma sono ancora bei riflessi - noi abbiamo fatto un mucchio di pratica. Abbiamo seguito la nostra condizione per un tempo troppo lungo, così se bevete un po' di vino, questo vi rende allegri. Lo abbiamo imparato e praticato per lungo tempo. Secondo il testo, tornare alla vera origine non significa che non esiste, ma piuttosto che è necessario guardare al fondamento dal quale provengono tutte le cose, come uno scienziato che cerchi di trovare a cosa somiglia un buco nero.

Questa non è solo una storiella, ma se voi praticate la vostra pratica avanza voi raggiungete lo scopo finale e il vostro corpo materiale può sparire nella Natura Vuota - questo è il risultato. Questo mostra come evidenza. Ma non si fa il corpo d'arcobaleno per mostrarlo ai media. Se non usate altri metodi, è l'evidenza della pratica, dell'origine. Alcuni possono dubitare perché non abbiamo un'ottima spiegazione, ma se qualcuno pratica e scompare ma lascia dietro di sé i vestiti, la casa, ecc. allora altri diffidano: "Com'è che il suo corpo se n'è andato e gli abiti, e la casa, ecc. sono rimasti?". Ogni coscienza ha due coscienza -l'attaccamento e la visione. Dal lato dalla visione, pare che le cose siano inerentemente esistenti. Molte coscienze non si attaccano, solo una in particolare, se si attacca allora conduce alle cinque coscienze velenose. Le altre coscienze sono molto gentili come uno specchio, che non si attacca e non percepisce niente, qualunque riflesso venga. In generale, si hanno visioni comuni e private. Per esempio, la visione comune, tutti gli umani vedono case e possono dire "Sì, c'è una casa": ma la visioni individuale non è la stessa. Casa è una definizione molto generale, alcune di loro sono brutte, altre vanno bene. Come in un ristorante, uno dice che il cibo è buono e gli altri non sono d'accordo. Questa è la visione privata e comune. Se si fa il corpo d'arcobaleno, la propria visione privata scompare ma la visione comune non è propria, e quindi è lasciata indietro.

Come possiamo vedere la visione comune?

Tutti gli umani hanno una causa comune e sono creati dall'orgoglio. Questa è l'origine della visione comune, la stessa struttura, quindi tutti gli umani possono vedersi l'un l'altro, vedere case, ecc. Gli animali hanno lo stesso principio, essi possono vedere l'erba come cibo, ma noi non possiamo vederla come cibo. Ci sono cinque veleni e ciascuno ha una diversa qualità e un diverso risultato. Anche il corpo ha una visione privata e una visione comune: tutti possono vedere il corpo, ma alcuni pensano che sia buono altri che non lo sia. Diciamo che un animale e un umano vengano insieme a bere acqua, qualcosa è comune ma il lato individuale è diverso e noi abbiamo nomi diversi, alcuni la chiamano eau, altri la chiamano chu, ecc. Cercate di esprimere tutto dalla Natura e quella è solo una cosa individuale, morte e nascita e morte, quella è solo l'origine temporanea. A volte nei testi si dice che il Samsara e Nirvana hanno una sola origine, ma questa è solo un'origine temporanea e non è possibile trovare quella assoluta. Così, stiamo cercando di spiegare com'è cominciato il samsara.

Se otteniamo il corpo d'arcobaleno, se scompariamo per tutti allora è una visione comune?

Chi scompare non ha una visione ordinaria. Noi possiamo solo vedere che scompare ma non vediamo come o perché e non abbiamo spiegazione. Forse sappiamo soltanto che era un praticante Dzogchen ma non è possibile vedere la sua conoscenza senza esperienza. Dunque, questa è la parte su come sia la Natura e come appaiano Samsara e Nirvana. Come distinguere coscienza e saggezza Ci sono due parti:

● come distinguerle tra loro ● come integrarle insieme e perché appaiono diverse e vanno separatamente

Per la pratica e la spiegazione del Tögal è molto importante distinguere tra coscienza e saggezza. Dove dimora la coscienza? Dove dimora la saggezza? In quale parte del corpo? Il testo dice che la coscienza principalmente dimora e si integra col corpo intero ma in particolare nel canale collegato ai polmoni, al vento. Questo canale dai polmoni è pieno di vento ed è l'origine della funzione respiratoria. Nel contempo poiché il canale è pieno di vento e funzionante, è collegato al cuore. Il cuore è il luogo dove principalmente risiede la coscienza. Questo è un po' diverso. I testi di solito dicono che è collegata col cuore ma la coscienza mentale è collegata al cervello. L'idea è che il canale si colleghi col cuore e il cuore stesso sia la dimora principale della coscienza e il vento la muova e la scuota, di modo che la coscienza è collegata col vento. Vento sottilissimo e coscienza profonda. Questa connessione si sviluppa nelle otto coscienze e nelle cinquantuno coscienze sottili. Questo vento è come un cavallo cieco, qui c'è questo esempio, all'interno del canale la coscienza stessa è come uno zoppo che non riesce a camminare. Lo zoppo guida il cavallo e il cavallo porta l'uomo ed insieme possono andare avanti. Ci sono molte descrizioni della cosa e nella nostra tradizione lung-ta, cavallo del vento e bandierine di preghiera sono connesse sia con l'interno sia con l’esterno.

Nei testi più antichi di Dzogchen non viene fatta una descrizione della base primordiale. Una descrizione fisica dello Stato Primordiale verrà menzionata in certi testi che appariranno X- XI secolo dove la base viene descritta come un vaso al cui interno splende l'intelletto e la sua energia è la luce splendente all'interno del vaso, il quale non conosce vecchiaia ed è chiamato perciò il Giovane, corpo simile ad vaso. Pertanto, nell'Upadesha il Dhatmakaya non viene considerato senza forma ed inaccessibile ma una precisa forma e collocazione. Nello Dzogchen però soprattutto quello Nyngmapa la saggezza e le mente hanno differenti funzioni. Lo Dzogchen considera la mente come un aggregato di fattori mentali che hanno una percezione dualistica in relazione al proprio oggetto. La mente pertanto è la radice del mondo fenomenico. Lo Yeshe non è un aggregato è non composto. E' un intelletto che non percepisce alcun falso oggetto ed è libera da qualsiasi dicotomia.

Questa radicale diversità tra Yeshe e Mente ha portato lo Dzogchen a collocare l’Yeshe nel cuore e la mente nei polmoni. Questa idea venne ritenuta particolarmente ripugnante dai saggi delle altre scuole. Uno studioso tibetano che non amava molto lo Dzogchen trovò talmente ripugnante l'idea che vi possa essere un essere senziente tra i polmoni e un Buddha nel cuore da definirla peggiore della tesi propugnante dai Jonagpa. Rigettando che una simile idea avesse un origine Buddhista si chiese se questa idea non provenisse dai Bonpo (cosa che sicuramente è così). Il punto importante è che di fatto lo Dzogchen parla e descrive come se coesistessero di fatto all'interno di noi due esseri. Lo Dzogchen permette al Buddha di emergere. La spiegazione di Lopon al riguardo è molto interessante e lascia aperto un spazio molto interessante. Il secondo essere e cioè la mente in realtà è frutto dell'incontro dell'energia del rigpa e i venti. La mente nasce da questo incontro tra i venti e il Yeshe, ed a seconda di come circolano all'interno del corpo il rigpa pur continuado a mantenere un seme di purezza vestirà una veste più rozza producendo il mondo. In altre parole il samsara in fondo è dovuto in buona sostanza a un disordine energetico. Non è un caso se molti Semdzin lavorano con i tre canali a cui sono associati: la chiarezza il vuoto e il piacere. La cosa molto interessante è che la mente è il frutto di questi venti cosmici che provengono dall'esterno (ecco perchè questo canale è posto tra il cuore e i polmoni) e il rigpa. Un idea sicuramente ben poco Buddhista.

Luca Violini

La costellazione del Cigno riflessa nella svastica della Rosa Camuna (3^ parte) – Gaetano Barbella

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5 La via polare dei cigni

“Si vede che io, in fatto di divinazione, vi sembro molto meno dei cigni, i quali, quando sentono che devono morire, pur cantando anche prima, in quel momento tuttavia cantano i loro canti più lunghi e più belli, pieni di gioia, perché stanno per andarsene presso quel dio del quale sono ministri (Apollon). Invece gli uomini, per la paura che hanno della morte, dicono menzogne perfino sui cigni, e sostengono che essi, cantando il loro canto di morte, cantano per dolore. E non riflettono sul fatto che nessun altro uccello canta quando abbia fame e freddo e lo affligga qualche altro dolore, nemmeno lo stesso usignolo né la rondine né l’upupa, i quali si dice che cantino per sfogare il loro dolore. Ma a me pare che né questi uccelli, né i cigni cantino per sfogare il loro dolore. Anzi, credo che i cigni, poiché sono sacri ad Apollo, sono indovini; e avendo la visione dei beni dell’Ade, nel giorno della loro morte cantano e si rallegrano più che nel tempo passato. Ora, anch’io mi ritengo compagno dei cigni nel loro servizio, e sacro al medesimo dio, e ritengo di aver avuto dal dio il dono della divinazione non meno di essi, e quindi non dover andarmene da questa vita più tristemente di loro”.

(Platone: Il canto dei cigni (Fedone 84 e, 85 b)

Platone esalta il canto dei cigni più lunghi e più belli, pieni di gioia, perché stanno per andarsene presso quel dio del quale sono ministri (Apollon), ma non sono diversi i guerrieri con casco raggiato, doga e scudo che sembrano danzare, effigiati sulla roccia della Valcamonica. Infatti così ho detto al capitolo 7.3, e poi ho soggiunto: Questo richiama alla mente l’atto finale della vita sulla Terra, che l’antropologo Carlos Castaneda definiva “l’ultima danza del guerriero”, metafora indicante l’impeccabilità o l’eroismo di guerrieri di una società primitiva (gli Yaqui del Messico) nel loro ultimo atto prima di lasciare questo lato della realtà. Se l’ultima danza o la caduta finale di un armato dell’età del Ferro costituiva la scena culminante di un’esistenza mitico-eroica sulla Terra, ci sembra sin troppo ovvio che dovesse essere relazionata a un simbolo nobile e trascendentale… come la Rosa Camuna.

Non erano parole mie, in verità, ma di uno scrittore citato nell’occasione… Ed ora un altro scrittore, Antonio Bonifacio, mi suggerisce con un suo articolo, il tema esatto sul Cigno che tanto si associa, come ho posto in evidenza, ai “guerrieri” danzanti della Valcamonica.

A proposito della migrazione a Nord dei cigni, dice Antonio Bonifacio, citato in precedenza, nel suo articolo “La via polare dei cigni. I destrieri di Apollo tra preistoria e Roma augustea” (1° parte)14 <non possono dimenticarsi le parole di Socrate ricordate all’esordio (l’introduzione di questo capitolo tratto da Platone, Il canto dei cigni… Ndr): “in quel momento tuttavia cantano i loro canti più lunghi e più belli, pieni di gioia, perché stanno per andarsene presso quel dio del quale sono ministri (Apollon)”.

La favola dei Cigni selvatici di Andersen, esprime “poeticamente” questo passaggio senza perdere alcunché dell’allusività simbolica del tema. In particolare una frase messa in bocca alle creature-cigno, appare quasi un viatico per comunicare nel migliore dei modi i contenuti del passaggio tra questi due mondi: “…Voliamo come cigni, mentre il sole splende alto nel cielo (…) Noi non abitiamo qui, una terra bella come questa si stende dall’altra parte del mare”.

Questi cigni migratori, emblemi del collegamento tra uno sconosciuto aldilà, identificato nel paese degli Iperborei, e il mondo degli uomini, intessono profondamente il sentire dei popoli del nord, al punto che la tradizione edilizia della Frisia (la regione geografica che dall’Olanda fino Danimarca si affaccia sul mare del Nord) annovera, nel suo patrimonio architettonico, magnifiche case di legno, ove le travi portanti del tetto della facciata d’ingresso compongono la sagoma stilizzata del volatile e per ciò questo lembo terra è considerata (una delle) la patria d’origine dell’Apollo-sciamano.

E’ questo un deciso richiamo alla natura trasfigurante della creatura alata e alla sua origine, immaginata in una remota terra polare allora abitabile, identificata dagli antichi con Thule, nome che ha un’evidente assonanza con altre consimili terre poste all’estremo nord di altre tradizioni e altresì con la Tula celeste (vocabolo sanscrito), ovvero la Bilancia, l’asterismo polare in cui gli antichi riunivano in un’unica immagine le due costellazioni circumpolari dell’Orsa.

L’isola di Helioxoia/Helgoland (in realtà un minuscolo arcipelago) toponimo, quest’ultimo, che significa “isola sacra”, è stata considerata dallo scienziato e teologo Osvald Spanuth come il lembo superstite dell’antica terra atlantidea, che egli propone di identificare con una propaggine della remota Thule.

In questo luogo simbolico, immaginario e reale insieme, considerato come l’ingresso al mondo dei morti, sarebbe stato collocato un tempio circo lare dedicato ad Apollo. Difatti questa isola piccolissima avrebbe costituito il nodo sacrale del culto dell’Apollo iperboreo e da questo luogo sembrerebbe provenire l’ambra, il celestiale prodotto resinoso degli alberi delle terre nordiche, circonfuso dell’arcano potere risanatore e ristoratore, proprio della sua meta geografica collocazione.

Questo frammento polverizzato di terraferma è riconoscibile, sia pure indirettamente, nella narrazione di Andersen (ma non solo, anche i fratelli Grimm e il poeta irlandese Yeats citano l’evento migratorio dei volatili nelle loro raccolte di racconti e la loro sosta sullo scoglio) ed effettivamente esso rappresenta il punto di riposo degli immensi stormi di cigni migratori in viaggio verso il più remoto nord.

Da queste lontane terre, secondo Spanuth, sarebbero sciamati quei popoli del mare immortalati dalle istoriazioni del sito egizio di Medineth Habu, in quei pannelli dove si celebra la vittoria di Ramsete III su questi invasori. Proprio il confronto comparativo tra questo materiale documentario e reperti dell’età del bronzo rinvenuti in Europa settentrionale avrebbe evidenziato delle similitudini significative. Tra gli altri spiccano le navi con la prua e poppa a forma di “ testa di cigno”, inequivocabile richiamo all’avita patria iperborea di questi combattenti. >

6 Lo sciamano del mondo arcaico in relazione con lo sciamano camuno

Desta interesse l’articolo di Antonio Bonifacio in parte ripreso in precedenza, ma relativo ad una seconda parte15, ai fini di poter tratteggiare intimamente la figura dello sciamano preistorico della Valcamonica, rappresentato dall’illustr. 9 del capitolo 3 e da me supposto in stretto legame con la statua-menhir Ossimo 15 dell’illustr. 11, ancora del capitolo 3.

< In questa seconda parte ‒ dice Antonio Bonifacio ‒  la nostra esposizione prende i binari di una trattazione vera e propria e principia con una riflessione che scaturisce dalla meditazione su reperti che si collocano al fondo di un abisso temporale, provenendo da un mondo davvero ormai lontanissimo dal nostro.

Di questo mondo radicalmente “religioso” il riconosciuto protagonista è lo sciamano. Questa è una figura particolarmente longeva nel contesto del panorama storico religioso universale e oggi ne scorgiamo pienamente i tratti anche in epoche davvero immerse nelle nebbie del tempo, dove, fino a pochi decenni fa, non ci saremmo certo attesi di trovarlo.

Infatti, se già la tradizione etnologica ed etnografica ce ne offriva testimonianza in ere comunque lontane, un ulteriore salto nel passato è stato oggi compiuto collocando la sua figura direttamente nel paleolitico superiore, come dimostrano gli studi e le scoperte più recenti che continuano a retrodatare la sua presenza nel mondo. (cfr. sul tema complessivo dell’arcaicità dello shamano il fondamentale volume di Jean Clottes e David LewisWilliams, Les chamans dans la préistoire).

Com’è noto il tratto distintivo del suo operare si concreta nell’estasi, in cui l’anima (comunque la si voglia intendere) distaccata dal corpo, si reca in prossimità dell’albero del mondo e li sale e/o discende nelle regioni celesti o in quelle infere, a seconda dei compiti (sempre pericolosi) che questo viaggiatore animico si è assunto presso la comunità in cui agisce.

Questo albero traduce simbolicamente la Via Lattea, ovvero la Galassia. Percorrendo, estaticamente, le “stazioni” dell’uno (l’albero), per analogia simbolica è come se si percorresse l’Altro (la via della Galassia fino al polo celeste).

Di uno dei suoi compiti prioritari ci offre testimonianza esemplificativa Eliade che ne scrive: “I Goldi, i Dolgan e i Tungusi affermano che, prima della nascita, le anime dei bambini sostano come piccoli uccellini sui rami dell’Albero Cosmico e gli sciamani salgono a prenderle. Questo aneddoto mitologico non è riportato soltanto in Asia centrale settentrionale: è narrato, ad esempio, in Africa e Indonesia” (M. Eliade: 1974, 509-510).

         

7 L’azione sciamanica in relazione al potere arcaico del segno del Cigno

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       Illustrazione 1: Costellazione del Cigno.[/caption]

Facendo seguito al capitolo precedente, Antonio Bonifacio poi si dedica all’esaltazione della costellazione del Cigno della quale oggi si è svuotata dei suoi contenuti arcaici eccetto il nome. La descrizione che ne fa è davvero attrattiva, piena di fascino poetico.

< Si tratta di un peculiare asterismo ben visibile alle nostre latitudini volgendo lo sguardo verso lo zenit del cielo nelle serate estive. Qui, insieme ad altre significative stelle, brilla il Cigno, una caratteristica costellazione a forma di croce. Questo gruppo di astri era indicato nell’Ellade arcaica con il nome di Ornis, “uccello”, ciò fino a quanto Eratostene qualificò più precisamente questo asterismo attribuendogli il nome specifico di Cigno (illustr. 1). Una costellazione che contiene bellissimi astri e che ha la sua stella di più forte magnitudine in Deneb (22° stella più luminosa del cielo). Essa, come si vedrà, è stata oggetto di una prolungata attenzione mitologica e sarà in qualche modo protagonista delle successive riflessioni.

Il Cigno, com’è noto dalla densità delle sue presenze mitologiche, è un volatile di ragguardevole complessità simbolica, diffusamente presente nella simbologia delle religioni arcaiche, ma anche in quelle storiche. E’ noto il suo carattere di volatile migratore che percorre annualmente le rotte congiungenti il nord e il sud del mondo. A questi uccelli si associavano altre varie specie e più specificamente oche e anatre selvatiche che, proprio per il loro identico comportamento migratorio, ricevettero anch’esse in tempi arcaici identica attenzione mitologica. Questi stormi, una volta composti da un numero sterminato di esemplari, formavano vere e proprie scie bianche nel cielo a volte di tale uniforme spessore da velarlo quasi completamente.

All’uomo di allora, questo meraviglioso e ininterrotto corteo celeste che percorreva i cieli come un candido fiume, congiungendo, con precisa periodicità, l’ineffabile Nord iperboreo con il Sud, accompagnato da una coltre fittissima di piume, abbondante come neve, apparve evidentemente come l’omologia più pregnante del fiume uranico che fungeva da mediatore di mondi.

Si parla, nella circostanza, dell’arco luminoso della Galassia che abbracciava i due emisferi congiungendo, senza soluzione di continuità, la grande Croce del Sud, con quella del Nord e che, intersecando l’eclittica in precisi momenti solari dell’anno, realizzava quel peculiare implesso armillare, che gli studi del

duo de Santillana-von Dechend, hanno mostrato come un mitologema costante, incastonato nelle mitologie conosciute e fonte di una retrostante rituaria salvifica di stupefacente complessità.

Le vie dei cieli erano tutt’altro che perennemente disponibili e perché le si potesse percorrere era necessario che varie “porte” fossero aperte. >

E qui Antonio Bonifacio si lega all’opera esoterica dello sciamano che ne deve tenere conto nelle sue estasi al riparo nella sua grotta in cui era durante la vita di allora.

< Lo sciamano, per conseguenza delle sue capacità di conduzione dell’anima, era in grado di porsi in interiore omologia con le geometrie spaziali suggerite dall’osservazione del cielo, sperimentando l’esistenza “di quel cielo interiore che ci portiamo dentro”, che è la fonte di ogni omologia.

Possiamo immaginare che egli, come già detto, si appoggiasse visionariamente a un albero specifico, considerato l’albero del mondo, trasposizione dell’albero della galassia, e ne percorresse il tronco contrassegnato da 7 o 9 tacche, come se queste rappresentassero le porte dei cieli di un mondo spirituale essenzialmente geocentrico.

Ma 17.000 anni fa accadeva qualcosa di estremamente significativo, di cui tra poco si dirà. All’epoca, infatti [...], un astro contrassegnava, con un certo margine di approssimazione il punto polare del cielo, il perno della macina del mondo. Si tratta appunto della già citata Deneb (coda di gallina secondo la lingua araba) che rappresenta l’occhio del Cigno in alcune mappe, e la coda del Cigno in altre. Essa, con lo scorrere delle ere, pur rimanendo circumpolare alle alte latitudini, perse il suo ruolo e altre stelle (a volte) la sostituirono, ma per ciò che c’interessa evidenziare essa all’epoca rappresentava la meta ultima di ogni viaggio celeste: da qui la sua assoluta importanza nei secoli.

Per effetto del lento vorticare della ruota celeste su sé stessa, l’asse terrestre, proiettato idealmente in cielo, forma, in un arco di tempo ben conosciuto già dall’antichità, un caratteristico cono spazio-temporale, rappresentante quel fenomeno astronomico denominato precessione degli equinozi. Precessione perché il movimento apparente delle stelle e quindi delle costellazioni è contro-solare.

In periodi di tempo assai vasti, questa ideale matita cosmica, che traccia un’ideale circonferenza ondulata nei cieli (per effetto del moto di nutazione) incontra una stella visibile dalla terra. Questa diverrà la polare di un’epoca, il segno identificativo del polo celeste. Odiernamente il polo poco si discosta dall’ultimo astro della coda dell’Orsa minore, che è la più luminosa dell’asterismo.

Questo astro, rimarcherà la posizione polare ancora per centinaia di anni e, naturalmente, dopo il periodo di ulteriore ravvicinamento odierno, se ne discosterà poi progressivamente nei millenni a venire.

Deneb e il Cigno non smisero però, alle alte latitudini, di partecipare alla qualità spirituale delle Imperiture, continuando comunque a esercitare in ogni caso la loro attrazione nella mentalità dei popoli. La costellazione era, infatti, collocata in un punto altrettanto significativo dell’immaginario simbolico, visto che era posta nella prossimità del suo grembo oscuro, il punto denominato dall’astronomia moderna Grande Fenditura del Cigno, la dove, come due fiumi celesti si dipartono due divaricazioni luminose, che si ricongiungono in prossimità della costellazione dello Scorpione.

Nelle religioni storiche traspare in diverse occasioni la circostanza che il raggiungere la stella polare rappresenti il compiuto decondizionamento per sfuggire agli effetti della “ruota degli inganni”, […] [detto in precedenza che] si è tentato di evidenziare. >

 

8 La profezia dell’inevitabile

< Se a un certo punto non avesse incrociato sulla sua rotta l’America, certamente avrebbe portato il suo equipaggio alla morte. Invece, alle due del mattino del 12 ottobre 1492, Rodrigo de Tiana, l’uomo in vedetta della Pinta, una delle tre caravelle che facevano parte della spedizione, aguzzando gli occhi verso occidente, cioè verso il punto ove stava per scendere sotto l’orizzonte la luminosa stella Deneb, intravide nel fioco chiarore lunare una remota lingua di terra, gridò a voce altissima «Tierra! Tierra!» e chiese la ricompensa che era stata promessa a chi per primo avesse avvistato l’India. Gli indigeni che alle prime luci  dell’alba scorsero le tre navi di Colombo si misero a correre da una capanna all’altra, gridando a loro volta: « venite, venite a vedere gli uomini che arrivano dal cielo”».

«Non portano armi e ne ignorano l’esistenza», osservò poi Colombo, «perché, quando ho mostrato loro delle spade, le hanno afferrate per la lama e si sono feriti per ignoranza». Il grande capitano insistette perché gli indigeni fossero trattati «amorosamente», ma gli affari erano affari, e ben presto molti di loro si ritrovarono in catene a bordo delle tre navi che facevano ritorno nel Vecchio Mondo. >

(Timothy Ferris. Da:  L'avventura dell'universo. Da Aristotele alla teoria dei quanti e oltre: una storia senza fine . Editore: Castelvecchi. 30 ottobre 2013)

Colombo e il suo equipaggio, non erano degli extraterrestri, quando sbarcarono sulla riva che credevano del continente asiatico, ma agli indigeni locali, per certi versi, sembrò che lo fossero, intravedendo in loro dei divini scesi dal cielo. Scandalizza pensarlo traslando il concetto a tante ipotesi in merito, specie nell’epoca attuale?

[caption id="attachment_29052" align="aligncenter" width="625"]
Illustrazione 2: La Nebulosa Nord America (anche nota con le sigle NGC 7000 e C 20) situata nella costellazione del Cigno.[/caption]

Forse per quegli indigeni fu il segno da sempre cercato dagli scribi e farisei attorno alla figura di un Maestro, Gesù Nazareno, il quale mostrò loro invece il “segno di Giona”. Quegli indigeni erano simili ai semplici innocenti additati come esempio dal Maestro, non conoscendo il male causato dalla lama della spada di Colombo. E così, ahimé, furono proprio loro a pagarne il prezzo di un riscatto dei mali dell’animo di Colombo e i suoi marinai, con la deportazione. E le navi spagnole, e poi di altre nazioni europee, si potrebbero paragonare alla balena che ospitò, per tre giorni e tre notti, il profeta Giona dell’evangelico “segno”. E tutto questo più in generale, nel segno dei naviganti attraverso le stelle, che fu per Colombo la stella Deneb, ma “al suo tramonto”. Che presagire attraverso i segni allora, sull’altra “America” della costellazione del Cigno, nota come la Nebulosa del Nord America (illustr. 2) molto prossima alla stella Deneb? Una certa “nuvolaglia” che si può legare a due realtà, quella degli astronomi e l’altra degli alchimisti, entrambi continuamente presi a “esplorare” appunto “nebulose” appena “accessibili” con i loro telescopi e mentali. Ma se così fosse, quale il prezzo della “profezia dell’inevitabile” legata al segno del “tramonto della stella Deneb”, come fu per la scoperta dell’America… dello “sbaglio” di Cristoforo Colombo della storia? Ma ironia della sorte c’è contesa fra i due, poiché uno ignora l’altro senza tregua, come a immaginare un’impresa impossibile da attuare a causa del disaccordo. Non è questo un ostacolo da superare, almeno secondo le concezioni alchemiche?16 Ma forse un segno ce lo mostra la Nebulosa del Nord America, la sua forma molto somigliante all’omonimo Nord America terrestre da cui prese il nome, come a indicare una certa “Tierra” da “avvistare”…

“…Voliamo come cigni, mentre il sole splende alto nel cielo (…) Noi non abitiamo qui, una terra bella come questa si stende dall’altra parte del mare”, riecheggia la frase messa in bocca alle creature-cigno di Andersen, citata nel capitolo 5.

Brescia,  20 giugno 2018   NOTE 14 Fonte: http://www.immagineperduta.it/la-via-polare-dei-cigni-destrieri-apollo-preistoria-roma-augustea-1-parte/ 15 Fonte: http://www.immagineperduta.it/la-via-polare-dei-cigni-destrieri-apollo-preistoria-roma-augustea-2-parte/

16 L’alchimista deve riuscire ad amalgamare e fondere insieme Spirito e Corpo, realizzando la conciliatio oppositorum, non potendo rinunciare né all’uno né all’altro. Gli opposti devono prima lottare, divorarsi ed uccidersi a vicenda, perché la loro unione possa realizzarsi. Questa operazione ha due aspetti, quello del costringere la terra corporea e pesante (degli astronomi – mettiamo) ad elevarsi verso le regioni dello Spirito e quello consistente nell’obbligare lo Spirito (degli alchimisti) ad abbandonare i “cieli filosofici”, ove può spaziare liberamente, costringendolo a discendere nelle regioni più pesanti e condizionate dai vincoli terrestri perché possa vivificare rivitalizzare e “rendere consapevole” il corpo.

  Nota: Parti delle immagini delle incisioni rupestri della Valcamonica sono state tratte dal libro Capo di Ponte e le incisioni rupestri camune. Edizione Guide Grafo/11 - Brescia

Vaccino L119 e fine della Matrix – F. Gregg Meagher

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Una delle cose forse più ironiche in riguardo a VACCINO L119 è che, in contraddizione totale del suo compito, come un cancro fatale nella MANTRIX (MATRIX BREVETTATA COME “UMANITA’”) ha provocato nel sistema immunitario naturale dell ‘uomo’ (come percezione mentale che è) l’arma di difesa dell’ Essere Stesso nella sua forma fisica (corpo) che confronta le reazioni avverse del “VACCINO L119) fino a penetrare la ‘Mente Umana’ e i suoi istinti per la sopravvivenza, la preservazione e la difesa del suo mondo percepito o interpretato ed oltre, internamente alla sua vera e infinita Esistenza Naturale o Spirituale.

Con questa dichiarazione, di sicuro, ci sarà una reazione avversa nella mente programmata e umana che fluirà fino alla maggior parte del cosiddetto gregge che viene fraudolentemente usato per la spaccio delle droghe nominate ‘vaccini’ o ‘farmaci’. Come sarà possibile che uno (io) parli dell’umanità intera, di oltre sette miliardi, come una semplice massa di carne infettata (un gregge) con un virus, che resta semplicemente nella categoria bioinformatica che produce una pura percezione mentale che è “l’uomo” stesso?

Un virus che ha solo una cura attraverso la disintossicazione del corpo fisico o ologramma e della camera (forse meglio laboratorio sperimentale e occulto), metodicamente costruita attraverso secoli e generazioni passate all’interno della ‘Mente Universale ed Infinità dell’Essere’. Una cura che è ben conosciuta a livello mondiale, dove l’intelletto umano ha raggiunto un punto in cui i muri sono più sottili e viene percepita la potenzialità del risveglio ed un’ uscita dalla programmazione che imprigiona ogni forma fisica ed ogni forma (corpo) che, nella sua verità, è l’Abito dell’Essere Stesso e non dell ‘uomo’ (umano, persona) inesistente.

VACCINO L119 ha i suoi ambienti precisi in cui è stato fabbricato per vivere e funzionare nel controllo degli abitanti e delle forme della vita all’interno di una vera ed indiscutibilmente operativa “MATRIX”. E’ qui dove esiste il fallimento degli scienziati, della religione, della politica e del commercio coinvolti con la distribuzione del VACCINO 119 come meccanismo di morte che infetta ogni organo dell’umanità e la dimensione conosciuta come “il fisico”.

Il motivo per questo fallimento? I produttori del VACCINO 119, anche se consapevoli dell’ esistenza oltre i muri e i confini della “MATRIX”, non hanno mai preso seriamente in considerazione la presenza della stessa in modi concreti, nel loro regno sotto il loro potere.

Forse, per chi legge questo articolo, a questo punto potrebbe sembrare una novella della finzione e della fantascienza, ma non è cosi. Sarà meglio quindi che entro nella realtà e nel vero DNA di cosa sto dicendo. In breve, sto parlando della fede comune di quasi sette miliardi di esseri che credono di essere ‘umani’, ma nello stesso momento e per la maggior parte, accettano anche l’esistenza delle loro fibre Spirituali o relative a una Divinità con diversi nomi di diversi “Dei”. Negli ultimi 20 anni più o meno la scienza, ai livelli più alti della fama, ha dichiarato che (in breve) in tutti gli anni in quale la scienza ha provato a dimostrare che tutto era fisico che invece hanno dimostrato l’esistenza di quell’aspetto della Vita e delll’Esistenza, definendola “Spiritualità”. Qui anche entra molto la scienza del “Quantum” e non solo. Mettendo le cose in termini semplice: l’Anima esiste ed è reale e presente.

Ma ora dobbiamo parlare di Quest’Anima cosi piccola in confronto a un semplice minuscolo corpo. Come è possibile che anche una quantità diciamo della misura di una nanoparticella della Divinità, possa essere cosi limitata ed insignificante in un corpo diciamo “umano”? L’unica risposta è che ciò non è possibile!

E’ qui che entra il VACCINO L119: una prevenzione contro la Verità e la Conoscenza del Se’, da parte degli “umani”; una salvaguardia contro un risveglio e cura del cancro e virus bioinformatico fabbricato e brevettato come “Uomo” e un tentativo di salvare la MATRIX stessa trasformando il DNA di tutto ciò che esiste all’interno ed è sotto il potere e il controllo dei Maestri che gestiscono, da secoli e generazioni, i suoi ambienti e i suoi abitanti. Ma per farlo? Era critico e assolutamente necessario creare un vaccino che rubi il diritto di pensiero e tutti i Diritti Naturali e Umani ancora esistenti nell’Aria, all’interno della MATRIX.

Ringrazio molto EreticaMente e i suoi fondatori, ecc. per la pubblicazione degli articoli o meglio le dichiarazioni che batto digitalmente in un tentativo di risvegliare almeno gli abitanti in questa parte della MATRIX in Italia. E in questa conversazione voglio saltare avanti molto veloce nei confronti di VACCINO L119 prima che i suoi effetti programmati, entrino nella profondità del cosiddetto “Gregge” dei Maestri intorno di questa formula profondamente alchimista nel sottofondo di tutto ciò che sta succedendo sia psicologicamente, neuropsicologicamente, geneticamente, politicamente, teologicamente e nelle “menti” infinite delle cellule della società, in famiglia, nella comunità locale e a livello nazionale, fino a scopo mondiale e l’umanità intera.

Cosa sanno questi Maestri della scienza ed architettura della MATRIX che l’uomo stesso fino ai suoi geni di filosofia e storia non hanno, o almeno sembra, raggiunto nel database della loro conoscenza e comprensione?

Non sanno la Verità della Realtà in cui la MATRIX era costruita e va mantenuta in vita come una esistenza virtuale e mentalmente percepita e che tiene in ostaggio la forma fisica stessa come una dimensione (di cui ne esistono 10 secondo agli esperti famosi). E cos’ è questa “Verità”? Questa “Realtà”?

Esiste solo una risposta a queste domande! L’inesistenza dell “uomo” (umano, persona) se non è che accettiamo che esiste nella mente un ambiente che è stato costruito con i materiali e le sostanze puramente relativi e composti della percezione.

Il PCervello: il più miracoloso computer che esiste! Ora oltre 22 nazioni, con il denaro principalmente dei Bilderberg, stanno da anni costruendo un “cervello” artificiale per gestire questo Mondo a chi permettono di rimanere nella loro forma fisica. Ma in fine, il “cervello fisico” è solo un PC! Un computer molto personale, ma simile a tutti gli altri cervelli contenuti nei robot (corpi fisici) o manichini in cui è stato fabbricato, ormai da secoli e generazioni programmate e gestite, una vera MATRIX o meglio MAN-TRICKS. Una rete che sembra infinita, ma anche una rete che è semplicemente gestita da un programma unico nominato “Umanità”. E cos’è questa “Umanità”? Indiscutibilmente e puo’ essere dimostrato in modi innegabili, “Umanità” è la “MATRIX” e non è di fatto lontano della famosa film “MATRIX” che ancora gira il mondo sugli schermi di Tv o dei computer, ecc.

Ma come è possibile che esista quest’Umanità fabbricata ad uno scopo cosi grande e vasto? Saltiamo i genocidi, chi è stato torturato fino alla morte, bruciato vivo o crocifisso, in manicomi e con lobotomie forzate e arriviamo a questi tempi più recenti, con una versione di controlli mentali molto più avanzata, ma sempre fondata sulla conoscenza della mente universale (fisico) storica e l’obbiettivo di dominare Questa Forma Fisica della Divinità o Spiritualità, come uno preferisce, conosciuto dall ‘uomo’ nella sua conoscenza programmata, come il ‘Fisico’. Il Santo Obbiettivo nominato e ben conosciuto da raggiungere da parte del “Nuovo Ordine Mondiale” meglio conosciuto dalla Massoneria e i Bilderberg come “Il Nuovo Regno di Lucifero”!

Muovendo velocemente e passando da un tempo nel passato, quando è stato preso controllo della mente degli Esseri e delle Forme Vere qui nel Giardino, su questo pianeta chiamato Terra, le cose sono diventate facili. Un manuale completo: tutti convinti che la Divinità e/o la Spiritualità non era presente qui nella Sua Forma Fisica e rimasto solo nel corpo (Forma Fisica) solo qualche minuscolo ed insignificante base e “Anima”; prima della nascità che “uomo” non esisteva e che L’Essere Stessa come il Vero Spirito e proprietario del suo abito “corpo fisico” era insignificante e che lo stesso miracolosamente si trasforma in un “umano” quando esce dall’ utero della Mamma. E puf! Non c’è più quest’Essere! Ovviamente non era difficile convincere questi nuovi arrivi, siccome l’unica alternativa era la morte dolorosissima e l’eliminazione dalla Vita Fisica.

Seguendo la programmazione: Oggi come oggi il mondo governativo continua con l’aborto legalizzato sulla pretesa che per 9 mesi nell’utero della Madre un bambino non è un “Bambino Umano”. E cosi la vendita di organi,i sapori per le bibite e snack, il trucco per le donne e ormai anche maschili va avanti forte, insieme con i ‘vaccini’, ecc. ecc. ecc.! E di sicuro non è un omicidio neanche perchè non è un ‘uomo’ (umano, persona)! Ma qui esistono i problemi gravi a livello legale delle nazioni e i governi che dicono le cose vanno cosi. In questo mondo è successo e succede e continuerà a succedere che, per emergenza, durante i 9 mesi (documentati casi anche intorno di 3 o meno di 4 mesi della gravidanza) che L’Essere è rimosso dalla sua mamma. Ringraziando di cuore i medici, pediatri, le infermiere e la tecnologia, questi Esseri continuano ad evolvere perfettamente normali e crescono come qualsiasi altro bambino/a. E qui non è il problema di sicuro! Ma! Questi ‘non umani’ (siccome non hanno passati i 9 mesi nella Mamma) sono presi in ostaggio, come qualsiasi altro/a bambino/a che esce dalla Mamma ai 9 mesi e sono registrati come ‘Umani” (uomo, persona, azione della borsa della MAN-TRICKS). E’ qui il problema! Perché? Semplicemente perché: se sono ‘umani’ a 3 o 4 mesi come quando un altro raggiunge il 9 mesi piena o vicina come il tempo stabilito per la gravidanza > l’aborto è di fatto “omicidio”! La precedenza legale è stato stabilita molte volte e da molto tempo. Umano a 3 o 4 mesi definisce che il feto è di fatto indiscutiblemente ‘umano’! Ma non possono mai accettare questo e cosi?

Ritorniamo all’inizio e passiamo i 9 mesi della gravidanza accettando noi loro definizione del “umano” e cosi chiediamo come mai fanno una certificato della nascita umana a una bambino che esce fuori dalla Mamma a 3 o 4 mesi. Saranno interessanti le diverse risposte. E andiamo più nella profondità del discorso chiedendo chi erano e chi sono tutti i Bambini che sono usciti da una Mamma, quando sono ancora all’interno della Mamma? Finora e dopo una vita chiedendo questa stessa domanda a preti e vescovi, il Vaticano, diversi governi e anche le Nazioni Uniti, è stato raggiunto un accordo comune per cui siamo “Esseri Viventi” altrimenti non siamo mai usciti fuori dalla Mamma vivi. L’ “Essere” stato raggiunto, siccome nei vocabolari mondiali, non c’è altra parola oltre di ‘feto’ che non combacia bene durante il viaggio e l’evoluzione del periodo di 9 mesi.

Ora saltiamo avanti di nuovo velocemente e arriviamo con il fatto che: Oltre al fatto che l’evoluzione di Questo Essere Vivente continua, non cambia proprio nulla passando questa tenda sottile e uscendo fuori dalla piscina. I geni hanno trovato tutto per negare questo FATTO, ma si sono sempre tirati indietro. Ora che siamo nati gli stessi “Esseri Viventi” che eravamo nella Mamma, uno si deve chiedere “Ma come e quando sono diventato “Uomo” (umano, persona)?

E qui Bill Gates sarà molto contento! La MENTESOFT è una window alla dimensione della MATRIX (MAN-TRICKS) viene installato in questo miracoloso Personal Computer, il cervello attraverso uploading di un programma nel database che costruisce un’ ambiente in cui il ‘video gioco’ (UMANITA’) puo’ essere installato ogni volta che un Essere esce dalla Mamma. E cosi “Questo è tuo Dio cattivo se non segui le istruzioni nella programmazione! Questi sono i tuoi libri che puoi leggere! E devi rispettare i tuoi genitori, gli insegnanti e le guide informatiche (già programmati) e abbiamo inventato un ‘governo’ che dirà tutto ciò che puoi o non puoi fare da qui in poi!” “Tu sei umano e non provare a dimenticare questo mai!”

Interessante è che nelle “Scritture Originali” che sono state man-ipolate in modo occulto e comodo per governare tutti gli ‘umani’ programmati e mentalmente percepiti “umani” è scritto che, più o meno, verrà un giorno in cui “l’uomo” si risveglia e scopre la Verità e strappa in pezzi vivi i religiosi, ecc. distruggendo ogni artefatto, ecc. indicativo alla religione. E questo è interessante perché pochi anni fa una sede segreta di un certo gruppo occulto che governa il mondo, veniva penetrata e alcuni documenti venivano trafugati permanentemente. In uno di questi documenti veniva dichiarato che l’unica paura e preoccupazione che questi poteri hanno è che ‘uomo’ si risvegli. > Fatti reali!

Ora ritorniamo alle reazioni avverse del VACCINO 219 e il confronto ora in progresso sull’inesistenza del diritto o l’autorità per un individuo o un’ entità/gruppo (governo) di governare qualsiasi altro. Ogni giorno molti percepiti umani e genitori stanno risvegliando alla verità e la realtà su i vaccini che sono parte del inventario del VACCINO L119 e sta diventando molto ovvio i veleni come adiuvanti della politica, il settore della salute, gli ordini e gli albi, le associazioni e cosi avanti.

VACCINO L119 sarà la fine della MATRIX in cui è stato fabbricato? E’ una fine come nel film MATRIX o del Truman Show?

Credo di si! Gregg F. Gregg Meagher

Posso essere contattato personalmente via eMail: f.gregg.meagher@gmail.com e visitare il sito web delle conferenze all'indirizzo https://liferegenerationproject.org Inoltre, sono su Facebook all'indirizzo www.facebook.com/valleyimagna


La Donna e l’Iniziazione – Emirene Armentano

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Scrive Giustiniano Lebano (1831-1910)[1], maestro di Giuliano Kremmerz, nel capitolo V° intitolato “I misteri della verginità” di un manoscritto inedito dedicato alle antiche iniziazioni “Un fatto speciale caratterizza l’iniziazione data ai Romani da Numa [2], è l’importanza tipica data alla donna, sull’esempio degli Egiziani che adoravano la divinità suprema sotto il nome di Iside”. Nelle iniziazioni dell’antica Grecia sono le baccanti che rubano il segreto iniziatico a Iacco che a Roma prenderà il nome di Bacco:

…e Numa domanderà le sue ispirazioni alla saggia e discreta Egeria [3] la dea del mistero e della solitudine. Ciò che deve assicurare l’avvenire di Roma è il culto della patria e della famiglia. Numa l’ha compreso ed egli impara da Egeria come si onora la madre degli dei. Gli innalza un tempio sferico sotto la cupola della quale brucia un fuoco che non deve estinguersi mai. Questo fuoco è custodito da quattro vergini che si chiameranno vestali e che saranno circondate da onori straordinari se esse sono fedeli, punite con rigore eccezionale se esse mancano alla loro promessa. La tradizione magica di tutte le epoche accenna alla verginità come a qualche cosa di soprannaturale e di divino. La donna non è più la schiava orientale, è la divinità domestica”.

Continua Giustiniano Lebano nell’opera su citata: “La prima conseguenza del peccato di Eva, è la morte di Abele. Separando l’amore dall’intelligenza, Eva l’ha separato dalla forza, divenuta cieca ed assoggettata alle cupidigie terrestri diviene gelosa dell’amore e lo uccide. Poi i figli di Caino perpetuano il delitto del loro Padre. Essi mettono al mondo delle figlie fatalmente belle, delle figlie senza amore, nate per la dannazione degli angeli e per lo scandalo dei discendenti di Seth”.

Citando le due tradizioni classiche, quella romana e quella ebraica, Lebano mette in evidenza due tratti comuni alle antiche civiltà: il ruolo predominante della donna nel contesto sacro della famiglia, un ambito che con lo scorrere del tempo si è gradualmente degradato e nei tempi moderni si è fatalmente vanificato dando luogo ad un tipo di famiglia che ha perso totalmente i valori fondamentali del sacro e dell’amore. Il ruolo della donna non deve essere catalogato secondo l’epoca in cui essa vive; questo è un errore di base sul quale tenteremo di fare luce per quanto ci sia concesso di farlo.

La donna per sua natura è l’essere che nell’ordine universale ha un ruolo molto preciso cosi come ogni essere vivente in ogni sua forma ha un suo ruolo molto preciso e direi fondamentale per l’equilibrio cosmico. Ebbene, questo ruolo è quello del silenzio e del raccoglimento del suo segreto che accoglie la vita e la rende adatta a questa realtà nella quale sta per calarsi. Questo, diciamo cosi, “contenitore della vita” che solo la donna può avere, le dà inevitabilmente le qualità di interscambio con una realtà non più fisica che renderà la sua natura sensibile atta ad accogliere la scintilla divina. Questo compito la porta inevitabilmente a essere più riflessiva, attenta e aperta alle influenze di un mondo sconosciuto ai più ma nello stesso tempo le dà la possibilità, attraverso l’attenta osservazione di quello che le succede, di essere il tramite tra il mondo invisibile e visibile, rendendo quest’ultimo partecipe della completezza dell’opera divina.

Poter cogliere dentro di sé la parte invisibile dell’essere è una dote poco capita e valutata. Questa possibilità le dà i mezzi di una creazione fisica e palese a tutti ma le può aprire anche la possibilità di una creazione che vada al di là del mondo sensibile, essendo allo stesso tempo ragione e possibilità effettiva dell’essere creato e non più soltanto ricettacolo passivo. Che questo processo non venga inteso e che oggi la donna abbia dato ali a una esistenza basata soprattutto sugli interessi legati al mondo materiale, è un dato di fatto e questo comportamento le allontanerà sempre di più dalla loro vera natura e dalla loro vera ragione di esistere. Sicuramente questo comportamento va a discapito di un equilibrio che si è spezzato, basato sulla inconsistenza di una competizione inutile con l’altro sesso senza capire il loro posto privilegiatissimo nello scenario universale. L’errore sta nel fatto di prendere in considerazione soltanto questo modello di esistenza senza intuire il perché siamo qua, qual è il nostro compito e ruolo in tutto questo e principalmente come possiamo, attraverso le possibilità che ci sono state date, andare oltre la realtà fisica e immedesimarci con la nostra vera origine.

E come non ricordare in un testo dedicato alla donna la sua importanza nell’amore? E qui occorre essere molto chiari perché sul tema dell’amore la confusione nel mondo moderno è grande. Senza voler ricorrere alle sublimi parole di Platone quando ricorda la differenza tra l’amore “pandemio”, cioè volgare, che induce ad amare i corpi piuttosto che le anime, e l’amore “uranio”, ovvero celeste, differenza che potrebbe indurre a diverse considerazioni, occorre pensare nella “giusta misura”: noi siamo fatti di corpo e di spirito e non si può amare solo con l’uno o con l’altro, senza correre il rischio di cadere in un bieco materialismo o in un astratto misticismo. La donna faccia attenzione al silenzio e all’accoglienza del mistero che avviene NATURALMENTE dentro di sé e capirà la sua vera natura.

Note: 1 - Giustiniano Lebano nacque a Napoli il 14 Maggio del 1832. Fin dai primi anni mostrò ingegno svegliatissimo e grande inclinazione agli studi letterari. Fu affidato perciò alle cure dei più valorosi e rinomati insegnanti. Studiò il diritto civile col celebre Roberto Savarese, il diritto penale col consigliere Caracciolo, il diritto canonico e il diritto di natura e delle genti col canonico Soltuerio e con don Vincenzo Balzano, vicario dell’Arcivescovado. Aveva appena 21 anni, quando, abilitato agl’esami dal canonico Apuzzo, conseguì la laurea in Giurisprudenza. Cominciò subito ad esercitare l’avvocatura con felice successo. E nello stesso tempo insegnava privatamente diritto civile e canonico e pubblicava opere scientifiche e letterarie che levavano gran rumore per le discussioni a cui davan luogo. Nel luglio del 1854 fu iscritto nell’albo dei procuratori della Corte d’Appello. Il giovane Lebano, allievo d’insegnanti quasi tutti preti e gesuiti, avrebbe dovuto avere idee naturalmente assai retrograde. Pure, fosse l’educazione paterna, fosse il grande acume con cui aveva studiato i classici, fosse, che è più, l’elevatezza dei suoi sentimenti, non tardò ad iscriversi alla società segreta Giovine Italia, della quale divenne in breve tempo un adepto così prezioso ed importante che d’un tratto fu innalzato alla carica di Gran Maestro del Rito Egiziano, il cui precipuo intento era non pure l’indipendenza e l’unità della patria, ma anche la caduta del potere temporale dei papi. L’opera sua di cospiratore fu efficacissima fino al 1870. Si narrano varii aneddoti caratteristici circa i mezzi, dei quali si serviva sia nella propaganda delle idee liberali, sia nell’eludere la severa vigilanza della polizia. Ne ricordo uno assai curioso. Nel 1852 si pubblicava a Napoli il “Cattolico”, giornale diretto da preti. Ebbene – chi lo crederebbe? - proprio su quel giornale Giustiniano Lebano stampava prose e poesie, che mentre sembravano ispirare a sentimenti borbonici e clericali, per chi sapeva leggere sotto il velame delli versi strani, celavano le idee più ribelli, le accuse più atroci e terribili contro il dispotismo. E quei preti baggei non ne capivano un frullo, con gran gusto del Lebano e de li altri patrioti come Vanni e Fucci. Sennonché i cento occhi di Argo della polizia riuscirono a scoprire nel Lebano ciò che ai preti del “Cattolico” era sfuggito. E lo spiavano di continuo seguendo ogni suo passo. Ma egli seppe accoccarla anche ai suoi segugi. Avvertito che sarebbe stato arrestato da un momento all’altro, andò a cercar rifugio in un monastero, il cui padre guardiano, che era suo intimo amico e che nutriva sentimenti liberali al par di lui, gli fece radere i baffi e indossare le lane di S. Francesco. Un commissario di polizia andò una sera dal padre guardiano, e questi gli presentò il Lebano non ricordo sotto qual nome di frate. Giustiniano Lebano si divertì un mondo col commissario, che andava appunto in cerca di lui e che di lui parlò per l’intera serata, giurando e spergiurando che presto avrebbe avuto fra le sue unghie un essere così pericoloso. Il girono dopo il finto frate con una bisaccia addosso varcò i confini del Regno e, non molestato, riparò a Torino, portando seco una copiosa corrispondenza ai patrioti ivi esulati. Durante la sua dimora in Piemonte ebbe occasione di conoscere gli uomini più illustri del nostro risorgimento. Ritornato a Napoli nel 1860, riprese l’esercizio dell’avvocatura. Il Ministro Raffaele Conforti, che molto lo stimava, lo nominò subito deputato della commissione filantropica dell’esercito garibaldino. Compiuto scrupolosamente quest’incarico, altri importanti ed onorevoli ufficii egli ebbe dallo stesso ministro Pisanelli, come quelle di membro della Commissione per la compilazione delle liste elettorali, di deputato per gli alloggi dell’esercito italiano, ecc. Anche il Municipio di Napoli volle attestargli la sua fiducia nominandolo presidente del Comitato che colle rendite del comune distribuiva beni ai poveri della città per rendere men cruda la loro miseria, che in quell’anno era grandissima. Per queste ed altre benemerenze, il Lebano ottenne vari titoli onorifici. Nel 1868, perduti tre figli, assalito da una indicibile tristezza, si ritirò in una villa presso Torre del Greco. La moglie Verginia per tale irreparabile perdita, fu presa d’alienazione mentale, e si fece a consagrare alle fiamme, titoli di rendita, oggetti d’oro, documenti di famiglia e politici. Il famigerato brigante Pilone, che faceva delle continue scorrerie per quei d’intorni, tentava di catturarlo. Il governo mandò al Lebano due guardie che scongiurarono il pericolo. Le opere di beneficenza di Giustiniano Lebano sono innumerevoli. Nel 1870 una grande carestia affliggeva i campagnoli di Torre del Greco. Il Lebano dal novembre al maggio anticipò ai suoi coloni oltre seicento quintali di farina e mille quintali di granturco. Diede loro anche trecento quintali di zolfo per le viti. In quel medesimo anno, comperata una proprietà a Torre Annunziata, per dar lavoro agl’operai disoccupati, mise su uno studio di commercio Ciò che più gli fa onore è la fondazione di tre ospizi pei poveri, di due orfanotrofi e di due istituti per fanciulle, uno a Sorrento e un altro a Palma Campania. Specie a quest’ultimo egli consacra tutte le sue cure e dà gran parte delle sue sostanze. Largamente munifico, è benedetto da tutti i sofferenti, che ricorrono a lui o per consigli o per aiuti. Nelle ultime elezioni amministrative fu eletto consigliere, e poi assessore del comune. Non è a dire lo zelo ch’egli pone nel disimpegno dell’officio suo. Giustiniano Lebano sembra più giovane di molti giovani d’oggi. Ha fede invitta nelle magnanime idee di umanità e di progresso. E questa fede gli perpetua la gioventù. Dal suo volto roseo e ancor fresco spira una simpatia fascinatrice, un’aura di sconfinata dolcezza. Egli vivrà ancora molti anni, perché ha forse un’alta missione da compiere. Studia e scrive sempre. Interroga le pagine polverose dei più antichi scrittori, i quali nella solitudine della sua villa, posta alle falde del Vesuvio, sulla via che da Torre Annunziata mena a Boscotrecase, lo incoraggiano a perseverare a far bene. Checché gliene avvenga. Innanzi a Giustiniano Lebano in tempi di egoismo cinico e ributtante, quali sono i nostri, chiunque serba un culto per la virtù deve riverentemente inchinarsi. Egli è il più grande filantropo di Torre Annunziata e sto, per dire, di altrove. Ed io che ho avuto l’inestimabile fortuna di conoscerlo sono orgoglioso di dirmi suo sincero e caldo ammiratore.” (Rivista “L’Irno” 1901). Ulteriori notizie sulla vita di Sairtis trapelano da varie riviste tra cui “Politica Romana”, da cui sappiamo che egli fu dignitario della massoneria ufficiale del Grande Oriente, della Società Teosofica, del Rito di Memphis di Pessina e poi dei riti egiziani unificati da Garibaldi. Molti sostengono che durante il suo soggiorno in Piemonte il Lebano abbia stretto contatti con il conte bolognese Livio Zambeccari (1802-1862) che fu cospiratore del primo Risorgimento, colonnello garibaldino e principe di Rosacroce del Rito scozzese, e che l’8 Ottobre del 1859, con altri sette fratelli massoni costituì la Gran Loggia Ausonia. Lebano certamente fece parte, assieme al barone Spedalieri e a Pasquale de Servis allora ex sottoufficiale del genio Borbonico, di un circolo martinista operante a Napoli sin dalla fine del settecento in stretti rapporti con la Società Magnetica di Avignone facente riferimento ad Eliphas Levi. Il Lebano, nome iniziatico Sairtis, incontrò i maestri più in vista del suo tempo quali lo scrittore Edward Lytton durante un soggiorno a Londra nel 1850. In seguito la famosa fondatrice della Società Teosofica Melena Petrovna Blavatsky volle incontrarlo soggiornando per circa tre mesi all’hotel Vesuvio di Torre del Greco.

2 - Numa Pompilio (715-673 a.C.) è stato il secondo re di Roma e diede a Roma tutte le leggi civili e religiose;

3 - La ninfa Egeria, una divinità che si occultava sulle rive del Tevere, dettò a Numa tutte le leggi sacre che governarono i romani per oltre un millennio. Numa, più che ottantenne, si unì spiritualmente a Egeria e ne fece la sua sposa.

  Emirene Armentano Sestito  

Un ringraziamento particolare all'autrice del presente saggio ed alla Fratellanza Ermetica - Delegazione Latino - Americana (http://www.fratellanzahermetica.org/) per la preziosa collaborazione.

DECIMA FLOTTIGLIA M.A.S.: propaganda per la riscossa (XXII parte) – Gianluca Padovan

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«Segreto del successo: la serietà, il valore, la dedizione assoluta alla Patria, degli uomini della Xa, dei marinai volontari per i mezzi d’assalto»

Junio Valerio Borghese, La Xa Flottiglia MAS

Propaganda!

Il Comandante Junio Valerio Borghese sa bene che la propaganda è fondamentale per poter fare affluire sempre nuovi volontari nei reparti della Xa Flottiglia M.A.S. È altresì necessario avere dei propri mezzi d’informazione, come possono essere i giornali, le riviste e gli opuscoli, per rendere noto il proprio operato militare e il proprio orientamento tendenzialmente apartitico, fermo nell’intento di battersi per il riscatto dell’onore.

L’Ufficio Stampa e Propaganda della Xa Flottiglia M.A.S. s’incarica di fare disegnare i soggetti di taluni manifesti e volantini, predisporre i testi degli stessi, effettuare le spedizioni per le opportune affissioni e organizzare il volantinaggio. Al contempo cura la redazione e la diffusione delle proprie testate giornalistiche e degli opuscoli, nonché la protezione militare delle edicole e la distribuzione mediante i cosiddetti “strilloni”. Le riviste edite dall’Ufficio Stampa e Propaganda sono: Xa per l’onore, La Cambusa, L’Orizzonte e Rinascita.

Per comunicare l’impegno della Xa Flottiglia M.A.S. e diffonderlo innanzitutto presso i propri soldati l’Ufficio Stampa ha fatto pubblicare numerosi opuscoli, tra i quali si ricordano: Questa è la Decima, La beffa del MAS 522, Il Comandante Umberto Bardelli, Un eroe della “X„ Leone Bogani, Reggimento “S. Marco„, Xa Inno del San Marco, Le nostre canzoni.

Se queste sono le voci ufficiali della Xa Flottiglia M.A.S., non mancano quelle redatte e stampate da singoli reparti, come ad esempio i così detti “fogli d’arma”: Cose Nostre S.A.F. Xa, Barbarigo Xa Flottiglia MAS, Franchigia NP, Cucaracia, Quelli della Xa Flottiglia MAS, San Marco (soppresso nel 1944). Sono le voci prive di retorica di chi sta combattendo volontariamente per un ideale.

Xa per l’onore.

È un giornale che esce senza scadenza fissa; il primo numero del 20 febbraio 1944 è composto da un foglio (2 pagine, cm. 58 x 40) ed è redatto dall’Ufficio Stampa e Propaganda della Xa Flottiglia M.A.S. («Tipografia della X Flottiglia Mas»). Il titolo di prima pagina recita: «Il battaglione “Barbarigo„ inizia l’azione di riscatto».

Un articolo è l’arringa del Comandante Borghese: «Ufficiali / sottufficiali / marinai / Oggi posso dirvi che il vostro entusiasmo, la vostra abnegazione e, soprattutto, il vostro amor patrio, hanno permesso di travolgere i contrasti enormi affioranti dal caos che ci opprimeva. Oggi disponiamo di un organismo sano e ben saldo: la “Xa” sa quel che vuole! L’ora del combattimento è finalmente giunta. Già sui campi di battaglia ove di difende Roma, e con Roma il diritto all’indipendenza, reparti della “Xa” lottano contro il vero nemico d’Italia mentre mezzi d’assalto solcano nuovamente i flutti per annientare quell’avversario che ci ha tolto l’onore. Sono certissimo che tutti i combattenti della “Xa” compiranno il loro dovere sino all’estremo della vita stessa: bisogna mettere il nemico in ginocchio e fargli scontare l’infamante accusa di viltà rivolta all’intero popolo italiano. Camerati dei Mezzi d’Assalto, camerati del battaglione “Barbarigo”, che già siete sulla linea dell’ardimento, e voi tutti che vi accingete a raggiungerla oppure che vi addestrate per essere pronti ad ogni rischio, unitamente al vostro Comandante che è sempre con voi e tra voi, gridate forte, perché giunga anche ai fratelli delle terre invase: Viva l’Italia! / Il Comandante / valerio borghese» (Junio Valerio Borghese, Ufficiali sottufficiali marinai, in Decima Flottiglia M.A.S., Xa per l’onore, Ufficio Stampa e Propaganda, Anno I, N. 1, 20 Febbraio 1944 – XXII, p. 1).

Il riquadro, nella metà superiore della pagina, contiene le parole: «italiani! / Sapete cosa significa / Decima Flottiglia Mas? / onore / eroismo / vittoria» (Decima Flottiglia M.A.S., Xa per l’onore, Ufficio Stampa e Propaganda, Anno I, N. 1, 20 Febbraio 1944 – XXII, p. 1).

Altre indicazioni relative al giornale: «Tip. Xa Mas, cm. 58 x 40, senza indicazione di luogo, di prezzo e di direttore. Esce dal 20 febbraio 1944» (Vittorio Paolucci, La stampa periodica della Repubblica sociale, Argalìa Editore, Urbino 1982, p. 204).

Xa la Cambusa.

È il giornale settimanale informativo interno della Caserma San Bartolomeo a Muggiano (La Spezia), composto di due pagine. Il primo numero esce il 15 maggio 1944 e il sottotitolo è: «Ritrovo dei marò della Xa Flottiglia M.A.S.», mentre a lato è scritto: «le rovine non / bastano per / seppellire / gli impavidi». Il n. 2 esce il 31 maggio e in testa è scritto: «Questo numero è dedicato a Bruno Solari e Renato Parigi»; difatti il 23 febbraio 1944 la cannoniera americana PC 627 ha affondato l’M.T.S.M. 236 e sono morti il Guardiamarina Bruno Solari e il Marinaio Renato Parigi.

Si legge inoltre: «ammucchieremo / anche i morti / per oltrepassare / gli ostacoli».

L’articolo centrale è dedicato all’azione di alcuni MAS guidati dal Tenente di Vascello Sergio Nesi: «con nesi ad anzio / Base Sud, maggio / Dopo Chiarello, Candiollo, Baglioni, ecco il nome di un altro affondatore: il Ten. Di Vasc. Sergio Nesi, comandante di una squadriglia di mezzi d’assalto della nostra Decima. Non molto tempo dopo il rientro dei piloti dall’azione, l’azione che per la quarta volta ha dato – dopo l’8 settembre – la vittoria ai nostri piloti, abbiamo visto il Com. F. e gli abbiamo chiesto che ci illustrasse sinteticamente quel che avvenne nelle acque della testa di sbarco di Nettuno la notte del 13 maggio. Ci osservò con i suoi occhi penetranti e ci parlò. Incominciò pacato, sempre più infervorandosi, come in un crescendo le note da sommesse diventano gradatamente sommesse e marziali. “Fu un’uscita dalla base normale. I mezzi d’assalto avevano i carichi di esplosivo a posto, ma i piloti disperavano di trovare ‘qualcosa’ in quella notte troppo lunare e in quel mare troppo calmo. Ma mentre i MAS sciupavano con le loro scie lo specchio s’acqua, ecco che le navi nemiche vengono avvistate. Le navi che dovrebbero proteggere gli sbarchi ed i rifornimenti alla testa di ponte. Il Com. Nesi dà immediatamente l’ordine: attaccare. E lanciò il mezzo alla massima velocità, ponendosi in testa alla formazione. A qualunque costo – era questo l’ordine – ci si doveva avvicinare; anche se i nemici, scoperti gli audaci, si fossero messi a sparare all’impazzata (come infatti fecero) con un fuoco confuso. Tra le comete dei colpi traccianti, i piccoli MAS, velocissimi sgusciano, si avvicinano, attaccano senza indugio. Si trovano esattamente a otto miglia dalla costa: Anzio è vicina, Nesi si trova a sbattere nella squadra di navi nemiche che cercano la formazione italiana. Proprio sotto bordo, a prora di una corvetta che spara, spara affannosamente con tutte le sue otto mitragliere ed i suoi due cannoncini, si trova il suo mezzo. Si butta a tutta forza, supera la nave a prua di una trentina di metri, il siluro è al suo posto, pronto a partire. Il lancio e subito un colpo al timone e via velocemente. I marinai hanno appena il tempo di volgere il capo per vedere una vampata enorme ed udire la detonazione. La corvetta si impenna, sbanda di fianco e s’immerge, giù, a picco. Gli scafi sono ormai lontani quando le artiglierie delle navi beffate gridano dietro il loro livore. In breve il gruppo dei MAS si forma. Verso la base, si torna”. / Il Com. F. si allontana. Io penso alla preghiera che i piloti dei mezzi d’assalto della Xa formulano prima delle azioni sul mare: / “…Prego bensì che l’una e l’altra cosa la Vittoria ed il ritorno Tu conceda, ma se una sola cosa, o Dio darai la Vittoria concedi sola…”» (Decima Flottiglia M.A.S., La Cambusa. Ritrovo dei marò della Xa Flottiglia M.A.S., Ufficio Stampa e Propaganda, Anno I, N. 2, 31 Maggio, Milano 1944 – XXII, p. 1).

Ha scritto Pasca Piredda: «Il Tenente di Vascello Sergio Nesi è Capo Ufficio Operazioni dei Mezzi d’Assalto della X Flottiglia M.A.S; comanda la Base Sud dei Mezzi d’Assalto di Fiumicino e poi la Base Est nell’isola di Broni in Istria sino al suo affondamento davanti al porto di Ancona il 15 aprile 1945 nel corso del tentativo di forzamento di quel porto» (Pasca Piredda, L’Ufficio Stampa e Propaganda della X Flottiglia MAS, Lo Scarabeo Editrice, Bologna 2003, p. 155).

Il N. 3 di Xa la Cambusa, del 10 luglio 1944, ha in prima pagina la foto di un cannone da campagna e i serventi al pezzo, la cui didascalia recita: «Questo numero è dedicato ai Caduti del “Barbarigo” e vuole essere un modesto ma fraterno riconoscimento di tutti i camerati della decima al loro olocausto che è stato glorioso e che sarà fecondo per coloro che, sul loro esempio, erediteranno la consegna. I camerati della decima si scoprono riverenti e fieri dinanzi al sacrificio di tutti i Caduti del “Barbarigo” che, antesignani della nuova Italia, hanno eroicamente combattuto per la libertà e l’indipedenza della Patria». L’immagine è ripresa nei disegni di due cartoline a firma del Sotto Tenente Montagnani.

Il N. 8 di Xa la Cambusa reca in prima pagina un particolare necrologio: «Il Reparto Stampa della Xa Flottiglia Mas annuncia ai camerati marinai la morte in combattimento di due suoi corrispondenti di guerra: il tenente di corvetta alfredo magnani ed il sergente allievo ufficiale umberto bruschi caduti in operazioni di rastrellamento» e la foto «Bacio alla bandiera repubblicana» ripresa nel disegno di un manifesto (Decima Flottiglia M.A.S., la Cambusa. Ritrovo dei marò della Xa Flottiglia M.A.S., Anno I, N. 8, 10 ottobre 1944, p. 1).

A seguito dei bombardamenti l’Ufficio Stampa e Propaganda della Xa Flottiglia M.A.S. viene trasferito a Milano in Via Parini n. 1; la Cambusa cambia veste ed esce con foto a colori e disegni, aumentando a sedici il numero delle pagine. Nel gennaio del 1945 il giornale è sostituito da L’Orizzonte.

La Cambusa è tutt’oggi edita dall’Associazione Combattenti Decima Flottiglia Mas di Milano, Casella Postale n. 33, 20091 Bresso (Milano); sito web:

https://www.associazionedecimaflottigliamas.it/

L’Orizzonte.

Giornale pensato per essere un “settimanale d’attualità”, esce per la prima volta il 29 gennaio 1945. È nominato direttore Francesco Monarchi, codirettore Mario Ducci (Capo Ufficio Stampa della Xa Flottiglia M.A.S.), ma con una ben precisa figura dietro le quinte: Bruno Spampanato. A proposito di Bruno Spampanato, giornalista inviso al Regime fascista, scrive Ernesto Laura: «Ma c’era un direttore ombra il cui nome non si poteva fare al Ministro, che lo aveva emarginato da qualsiasi attività giornalistica: Bruno Spampanato. Nei confronti di costui, Fernando Mezzasoma aveva scritto una violenta lettera a Mussolini nell’agosto [1944. N.d.A.] esigendo “una esemplare sanzione disciplinare del Partito” perché Spampanato, diffamandolo, avrebbe, in presenza del Comandante Enzo Grossi e dei giornalisti Romersa e Rolandino, affermato che l’attuale Ministro dopo il 25 luglio sarebbe rimasto brillantemente in carica come Direttore Generale della Stampa Italiana fino al 14 agosto 1943 avvallando quindi tutte la campagne di stampa contro il fascismo[43]. Ma subito dopo a Spampanato in difficoltà era venuto incontro Borghese, offrendogli di prendere in mano la stampa e propaganda della “X” che formalmente sarebbero rimaste affidate a Ducci. E così fu» (Ernesto G. Laura, L’immagine bugiarda. Mass-Media e spettacolo nella repubblica di Salò (1943-1945), A.N.C.C.I. (Associazione Nazionale Circoli Cinematografici Italiani), Roma 1986, pp. 276-277) (1).

Il Ministero della Cultura Popolare ne autorizza la stampa specificando che debba avere non più di dieci pagine, delle quali due d’inserto fotografico. Il Comandante Borghese fa uscire il primo numero con dodici pagine, di cui due d’immagini, innescando la reazione del Ministero che impone di ridurre la testata a sei pagine, comprensive delle due di fotografie. La prima pagina è caratterizzata da un box, in altro a destra, dove c’è scritto: «Nonostante tutto gli “alleati” non hanno ancora vinto la guerra, ma hanno già perduto la pace». L’articolo Contro le potenze occulte, a firma di Giovanni Preziosi (2), bene inquadra uno dei fattori politici troppo spesso ignorati sia in tempo di pace sia in guerra (3).

Il 5 febbraio il secondo numero esce invece con otto pagine comprensive d’inserto composto da un solo foglio (fronte e retro) di foto in bianco e nero accompagnate da brevi didascalie. A Milano viene fatto distribuire dai marò armati, pronti a reagire qualora qualcheduno tenti di sequestrarlo (4). Compare sempre il box in prima pagina che questa volta ammonisce: «Tutte le opinioni sono rispettabili, ma occorre che lo siano anche quelli che le professano».

Il terzo e ultimo numero del settimanale esce il 12 febbraio e con l’articolo in prima pagina e centrale di Carmelo Puglionisi, «Il popolo non è colpevole». Con esso si controbattono le considerazioni e le dichiarazioni di Vittorio Rolandi Ricci uscite nei giorni precedenti su un altro giornale. Anche stavolta è presente il box, dal contenuto chiaro e profetico: «Solo la libertà della Nazione può garantire quella dei suoi cittadini».

Si informano inoltre i lettori che: «“L’Orizzonte” pubblica una serie di Collezioni destinate al grande pubblico italiano, con la collaborazione di noti scrittori politici, militari, tecnici, di letterati, di giornalisti, ecc. – Le Collezioni de “L’Orizzonte”: gli uomini e i fatti, problemi per domani, documenti e l’Orsa Maggiore, illustrate e a prezzo popolare, si possono trovare in tutte le librerie e nelle edicole della Repubblica Sociale Italiana».

Nella prossima parte si parlerà delle altre pubblicazioni della Decima.

Note

1) Nota N. [43]: «Lettera di Fernando Mezzasoma a Mussolini del 3 agosto 1944, in ACS – RSI – SPD – CR)» (Ibidem, p. 285). Si segnala che sull’argomento l’autore dedica, nel sopra citato libro, il paragrafo «“L’Orizzonte”: Borghese contro Mezzasoma» (pp. 276-285).

Per quanto riguarda il giornalista Bruno Spampanato si veda la lettera con cui il Comandante Borghese lo ringrazia per avere accettato l’incarico di «voler sovrintendere a tutta l’attività di propaganda e di stampa della Decima Flottiglia Mas» (Ezio Ferrante, Borghese e la Decima nella bufera (1943-1945), in Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, Anno XXVIII, Ministero della Difesa, Roma 2014, p. 88).

2) «Contro le potenze occulte // di Giovanni preziosi // I. - È storicamente dimostrato che l’attuale guerra fu voluta, preparata e scatenata dal giudaismo, che ha avuto come strumento principale la massoneria. La dimostrazione di questa verità storica fu, in tempo non sospetto, da me offerta agli italiani ed è raccolta in un libro che ha avuto l’onore di numerose traduzioni (“Giudaismo Bolscevismo Plutocrazia Massoneria”). Scopo preciso della guerra fu quello di abbattere il Fascismo (nel termine Fascismo è sempre stato incluso anche il Nazionalsocialismo) definito da Roosevelt: “Il veleno del mondo” (New York Herald 1937). / Due testimonianze sole tra le molte decine che chiunque può controllare nel citato libro: / Allorché, con l’avvento del Nazionalsocialismo, il Kahal decise la guerra, il gran massone giudeo Wladimir Jabotinsky, della massoneria “B’nai Bderit”, fondatore delle organizzazioni militari che avevano il compito di creare il vero governo ebraico, così scriveva nella rivista ebraica Natcha Retch del gennaio 1934: / “La lotta contro la Germania viene condotta da mesi da tutte le comunità ebraiche, da tutte le Conferenze e i Congressi, da tutte le Associazioni commerciali e dagli ebrei di tutti i Paesi del mondo. / “C’è motivo di credere che la nostra partecipazione a questa lotta sarà di utilità generale; poiché noi scateneremo la lotta di tutto il mondo contro la Germania tanto spiritualmente quanto fisicamente. / “L’ambizione di essa è ridiventare una grande nazione, di riacquistare i suoi territori e le colonie perdute; ma i nostri interessi impongono la distruzione definitiva della Germania. / “Il popolo tedesco nel suo insieme e nei singoli che lo compongono è un pericolo per noi. La Germania è sempre stata retta – salvo il periodo di tempo in cui era sotto la influenza ebraica – da elementi che si dimostrano ostili al nostro popolo. Non possiamo perciò permettere assolutamente che essa diventi potente sotto l’attuale gomondo [probabile errore di battitura. N.d.A.]. / Lo storico ebreo ed altissimo dignitario della massoneria, Emil Ludwig, cinque mesi dopo – giugno 1934 – scriveva tra l’altro in Les Annales: “Hitler non vuole la guerra, ma egli vi sarà costretto… anche questa volta come nel 1914 l’ultima parola è all’Inghilterra che può evitare la guerra”. / Accanto a queste due testimonianze, il lettore troverà che fin dallo stesso anno 1934, ininterrottamente, erano stati previsti e illustrati tutti gli atteggiamenti di Roosevelt, portato alla presidenza degli Stati Uniti dalla giudeo-massoneria per preparare e scatenare la guerra ebraica contro il Fascismo e per il maggior dominio del giudaismo sul mondo. / II. - È anche storicamente dimostrato che è stata l’ebreo-massoneria a preparare ed effettuare il rovesciamento del Fascismo, dando al calendario italiano le date più tristi della nostra storia: 25 luglio, 8 settembre. Questo potè fare la ebreo-massoneria perché, come altrove lo ha dimostrato, l’Italia tra i Paesi europei era il più giudaizzato: quello nel quale la massoneria si è insediata in tutti i centri della vita attiva dello Stato. / III. - Questo dice la storia. Ma se la storia insegna qualche cosa, l’insegnamento è il seguente: la vera risurrezione dell’Italia non avverrà, fino a quando gli italiani non si saranno convinti che il “tradimen // to” è stato preparato da quelle “potenze occulte” che han sempre dominato nella vita nazionale, mentre il Paese credeva di vivere una vita propria e libera. / IV. - L’altro insegnamento è che la critica non basta a fare opera di illuminazione degli spiriti pensosi per le sorti della Patria, e non può provocare il rimedio. Tutta la mia opera ultratrentennale è stata paralizzata dalla strapotenza dell’ebreo-massoneria, ed è un miracolo che io non sia stato travolto. Ebrei e massoni hanno avuto facile vittoria in un Paese nel quale, in politica, prevalgono sugli studiosi retori e abili declamatori, bramosi soprattutto di conservare le acquisite posizioni. / Urge perciò che l’opera degli studiosi sia fiancheggiata da quella degli uomini d’azione. Chi non vede quale apporto alla rinascita potrebbe dare la gloriosa Xa Mas? Gli articoli e i libri non sono serviti neppure a demolire l’equivoco di certi idoli; per cui, anche oggi, l’intossicazione ebraica tra noi è senza controveleno. / V. - Per chi si meravigliava della accoglienza fatta agli inglesi dagli ebrei di Bengasi all’indomani della occupazione, scrissi, in un non dimenticato articolo, che la stessa cosa sarebbe accaduta, nel primo momento, anche in Italia nel caso di // (Continua in ottava pagina) // G. P.» (Giovanni Preziosi, Contro le potenze occulte, in L’Orizzonte, Anno I, N. 1, 29 Gennaio, Decima Flottiglia M.A.S., Milano 1945, p. 1).

3) Sul “B’nai Bderit”, citato da Preziosi, scrive Emmanuel Ratier che: «secondo l’Enciclopedia Giudaica (1970) il B’naï B’rith, o Figli dell’Alleanza, costituisce “la più antica e numerosa organizzazione giudaica di mutua assistenza, riunita in logge e capitoli in 45 Paesi. Il numero dei suoi membri è di circa 500.000, tra uomini, donne e giovani. Esistono 1700 logge maschili delle quali il 25% fuori dagli Stati Uniti, con 210.000 uomini ed un budget di circa 13 milioni di dollari. I suoi programmi coprono tutti gli interessi ebraici e ne includono anche diversi altri orientati a finalità più vaste della comunità stessa”. Risulta pertanto strano che una tale associazione, fondata negli Stati Uniti nel 1843 e in Francia nel 1932, non abbia mai pubblicato alcunché su se stessa né in Francia né altrove (2)» (Emmanuel Ratier, Misteri e segreti del B’naï B’rith. La più importante organizzazione ebraica internazionale, Centro Librario Sodalitium, Verrua Savoia 1995, p. 11); nella Nota [2] si puntualizza: «Negli Stati Uniti il B’naï B’rith ha dato alle stampe, nel 1966, una preziosa e pregiata opera storica che ricostruisce la storia intitolata The story of a Covenant (La storia di un’Alleanza) di Edward E. Grusd, prefazione di Robert F. Kennedy, New York, Appleton-Century 1966. Nei vari capitoli citiamo quest’opera, senza richiamo in nota. Da allora, sempre a cura del B’naï B’rith, sono state pubblicate due altre opere con obiettivi più specifici: B’naï B’rith and the challange of ethnic leadership di Deborah Dash Moore, State University of New York Press, 1981, e Simon Wolf, Private Conscience and Public Image, di Esther L. Panitz, Madison, Fairleigh Dickinson University Press, 1987» (Ibidem, p. 14). Inoltre: «Secondo diversi autori, tra cui Simon Wiesenthal, gli ebrei sarebbero giunti negli Stati Uniti contemporaneamente a Cristoforo Colombo… che sarebbe stato ebreo. Sta di fatto che Colombo salpò il 3 agosto 1492 e che il giorno precedente un decreto reale bandiva dalla Spagna i 300.000 ebrei che vi si trovavano. (…) Già nel 1658 alcuni ebrei avevano eretto una loggia che sarebbe stata ospitata fino al 1742, nell’abitazione dell’ebreo Campurell. (…) Il 13 ottobre 1843 al Caffé Sinsheimer, nella cupa Essenstrat del quartiere Wall Street, fu fondato il primo B’naï B’rith che prese il nome di Bundes-Brueder, letteralmente Lega dei Fratelli, un nome germanico dovuto al fatto che i fondatori parlavano solamente tedesco o yddish. La scelta del caffè israelita si spiega col fatto che all’epoca il Lowee East Side era il feudo degli immigrati ebrei tedeschi» (Ibidem, pp. 19-20). Per quanto riguarda i rapporti con la madrepatria, ovvero la Germania: «Henry Jones, il fondatore del Bene Berith, divenuto ben presto B’naï B’rith, si chiamava in realtà Heinrich Jonas. Era nato ad Amburgo nel 1811. Gli altri undici Fratelli che erano con lui erano ugualmente immigrati ebrei di origine tedesca. (…) Con la sua rapida diffusione negli Stati Uniti, dovendo espandersi fuori dagli U.S.A., era naturale che s’impiantasse nella nazione di origine, che era allora il Reich tedesco. La prima loggia germanica, la Deutsche Reich Loge n° 332 di Berlino, fu fondata il 20 marzo 1882, alla presenza del Grande Segretario dell’Ordine, Moritz Ellinger, su richiesta di trenta ebrei berlinesi» (Ibidem, p. 146).

4) Scrive Massimo Zannoni: «Gli organi ministeriali e di partito, come già abbiamo visto, non apprezzano particolarmente l’iniziativa che si conclude, in modo assai movimentato, con il terzo numero de L’Orizzonte. Dal punto di vista giornalistico comunque L’Orizzonte allinea delle (usando una terminologia dell’epoca) “firme” di prim’ordine da Manunta a Pettinato, da Preziosi a Cione. Il tutto sotto la supervisione de facto, anche se non de jure, di Spampanato. La circostanza che gran parte di questi personaggi non fossero particolarmente graditi a Mezzasoma non portò indubbiamente acqua alla sopravvivenza della rivista, che comunque riuscì a mandare, con gli autocarri della X Mas, una parte delle sue cinquantamila copie persino nella difficile area dell’Adriatische Kustenland, con conseguenti incidenti fra marò e marinai croati» (Massimo Zannoni, La stampa nella Repubblica Sociale Italiana, Edizioni Campo di Marte, Parma 2012, p. 175).

N.B.: Il bollo a corredo proviene da: Archivio di Stato di Milano; Tribunale Militare per la Marina in Milano (Repubblica Sociale Italiana), Procedimenti archiviati. Autorizzazione alla pubblicazione. Registro: AS-MI. Numero di protocollo: 2976/28.13.11/1. Data protocollazione: 29/05/2018. Segnatura: MiBACT|AS-MI|29/05/2018|0002976-P.

Le quattro età dell’Uomo ed il mito di Prometeo – Valerio Avalon

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Come ogni anno, il "New Earth Circle Project" mette a disposizione di chiunque sia interessato ad un percorso evolutivo di natura ascendente, nel pieno dell'epoca discendente del Kali Yuga, un percorso formativo strutturato su sette incontri. Durante questi incontri vengono affrontati temi cari alla Tradizione quali:

- la Dottrina dei Cicli Cosmici - Thule come Patria Primordiale e Centro del Mondo (e tutti i simboli ad essa connessi) - le 4 Ere dell'Umanità - i 4 doni dei Thuata De Danann e i 4 Stati dell'Essere - la Ruota dell'Anno, ovvero i Solstizi, gli Equinozi e le 4 date intermedie - la Meditazione Trascendentale - La mitologia Nordica e le Rune quale strumento evolutivo.

Questa Via, seguendo le indicazioni date da Evola in "Rivolta contro il Mondo Moderno, è stata ribattezzata "Via del Nord". Giunti al terzo incontro, ci sembrava interessante soffermarci in modo particolare sul mito di Prometeo, che risulta essere di particolare interesse. Se è vero che la Tradizione racconta la Vera storia dell'umanità attraverso i miti, quello di Prometeo rientra a pieno titolo in quei resoconti, trasformati appunto in mito per essere facilmente compresi dalla mente umana, che nascondono delle indicazioni molto precise su ciò che realmente avvenne in un tempo ormai lontanissimo e remoto. Ora, districare una tale matassa, come si può ben immaginare, non è affatto semplice. Quindi, al di là di un mero resoconto sui fatti raccontati dal mito, può risultare molto interessante individuare alcuni contenuti. Prima di cominciare la nostra analisi è bene però sottolineare che non si può assolutamente scindere il mito di Prometeo da quello di Pandora, perchè, come vedremo più avanti, sono strettamente connessi tra di loro. Cercando di essere schematici, possiamo dire che gli elementi centrali del mito di Prometeo sono:

- lo schierarsi in una guerra - la creazione dell'uomo - l'inganno a buon fine - il furto del fuoco e il suo dono all'umanità insieme alla teknè - il supplizio subito per questo - infrangere un divieto - la caduta dell'umanità da una posizione privilegiata ad una tribolata - l'eterna afflizione per l'umanità all'alimentazione e alla riproduzione

Giusto per dovere di cronaca, è doveroso accennare al fatto che il mito di Prometeo riporta tutta una serie di contenuti che si ritrovano nei miti scandinavi, in quelli egizi, in quelli babilonesi e, come non aspettarsi il contrario, in quelli biblici. Come appunto si accennava prima, quasi ad indicare il fatto che tutte le tradizioni ricordano e raccontano tutte la stessa storia. Nonostante il fatto che, grazie al suo eterno fascino, il mito di Prometeo sia stato raccontato e riscritto decine e decine di volte nell'arco dei millenni, la fonte più importante ed eminente, dalla quale si estrae tutto ciò che c'è da sapere sul mito, resta sempre e comunque Esiodo.

Ma passiamo ai fatti. Prometeo, che significa "colui che vede prima", è un Titano, e grazie alla sua capacità di veggente, vede il futuro esito della Titanomachia (battaglia tra gli dei dell'Olimpo e i Titani) che si sta per combattere e per questo motivo si schiera con Zeus, nonostante non abbia molta stima del padre degli dei. Possiamo notare come già in questa prima occasione ricordi Loki (che è un gigante, uno Jotun) della mitologia nordica. Nonostante esistessero già svariate versioni nel mito greco sulla nascita dell'uomo, a seguito della vittoria sui Titani, Zeus concede a Prometeo di creare (forgiare per la precisione) una nuova umanità. Un'umanità ben diversa da quella che si era manifestata fino a quel momento, che spuntava da sola all'improvviso dalla terra , o cadeva dagli alberi come frutti maturi. Nel racconto di Prometeo, con la benedizione di Zeus, subentra per la prima volta la figura del "demiurgo", ossia una santa e illuminata e benevola figura superiore, che con un atto consapevole d'Amore, plasma con le sue mani e i suoi poteri, dal fango, dall'argilla o dalla creta a seconda delle versioni, delle figure umane a immagine e somiglianze di quelle divine.

Poi, quando Prometeo insieme a suo fratello Epimeteo ("colui che vede dopo", "il postveggente") ricevettero l'incarico di distribuire un numero limitato di "buone qualità", Epimeteo in modo avventato e sprovveduto, cominciò a distribuirle agli animali. Quando fu il turno degli uomini, non vi era più nulla per questi. Prometeo allora rimediò subito, rubando ad Atena uno scrigno in cui erano riposte l'intelligenza, la tecnica, la memoria, le arti , le scienze, l'architettura, l'astronomia, l'agricoltura e tutte le forme di sapere (riassunte nella parola greca "teknè") e le donò agli umani. In questo passo invece ricorda Thot della tradizione ermetica egizia. Zeus saputo ciò, considerando i doni del titano troppo pericolosi, perché gli uomini in questo modo sarebbero diventati sempre più potenti e capaci e si sarebbero affrancati dal giogo degli dei, decise di distruggerli.

A quell'epoca, gli uomini erano ammessi alla presenza degli dei, con i quali trascorrevano momenti conviviali di grande allegria e serenità. Durante una di queste riunioni tenuta a Mekone (o Mecone) fu portato un enorme bue, del quale metà doveva spettare a Zeus e metà agli uomini. Il signore degli dei affidò l'incarico della spartizione a Prometeo che, intuite le intenzioni di Zeus, approfittò dell'occasione per vendicarsi del re degli dei e per mostrare ancora una volta l'amore per le sue creature. Prometeo tagliò a pezzi il bue e ne fece due parti. Agli uomini riservò i pezzi di carne migliori, nascondendoli però sotto la disgustosa pelle del ventre del toro. Agli dei riservò le ossa che mise in un lucido strato di grasso. Fatte le porzioni, invitò Zeus a scegliere per primo la sua parte, il resto andava agli uomini. Zeus accettò l'invito e prese la parte grassa ma, vedendo le ossa abilmente nascoste, si infuriò e lanciando una maledizione sugli uomini, li punì colpendo indirettamente Prometeo e tolse loro il fuoco e lo nascose.

E qui veniamo al cuore del mito. Prometeo non sopportando l'idea di dover vedere i suoi "figli" morire di freddo e di fame per l'assenza del fuoco, lo rubò agli dei per restituirlo all'umanità. Esistono diverse versioni di questo furto: il fuoco rubato proveniva dal Sole (Elios), dalla fucina di Efesto oppure dal fuoco sacro di Athena. Zeus dall'alto del suo trono, vedendo nuovamente brillare dei fuochi sula terra nel buio della notte, comprese ciò che era accaduto e a quel punò architettò il suo piano definitivo di vendetta e punizione. Tralasciando le varie versioni e i piccoli dettagli che differiscono, quello che avvenne dopo fu l'incatenamento di Prometeo e la creazione di Pandora. Prometeo venne incatenato sulla cima più alta del Caucaso, dove tutti i giorni un'aquila (simbolo della regalità di Zeus) gli divorava il fegato e/o anche gli altri organi. Questi durante la notte ricrescevano, per dare di nuovo inizio al supplizio il giorno dopo, e così fino alla fine dei tempi.

Anche in questo episodio ricorda Loki. Una volta stabilita per Prometeo la punizione di un tormento eterno, Zeus si concentrò sulla punizione da riservare ai "figli" del Titano. Siccome fino a quel momento l'umanità sembra essere composta da esseri androgini o da soli maschi che non avevano bisogno del sesso (ma alcune volte amavano e si univano con Oceanine, Naiadi e altre varie figure femminili mitiche e non umane), Zeus ordinò ad Efesto e a Hermes di creare (forgiare) "la prima donna", Pandora ("colei che è ricca di doni" o "che porta tutti i doni"). Anche tutte le altre divinità accorsero e contribuirono alla creazione dell'essere più bello mai visto, ma dotato, come riportano gli scritti di Esiodo, di "un'indole ingannatrice e l'anima di una cagna" (donati da Hermes). Le diedero come dono di nozze un vaso pieno di tutti i mali del mondo: la vecchiaia, la gelosia, la malattia, la pazzia ed il vizio. E la spedirono in sposa a Epimeteo. Questi, nonostante avvisato dalla veggenza del fratello, non fu in grado di rifiutare la donna a causa della sua bellezza divina e disarmante, e la prese in sposa. Una volta stabilita la convivenza tra i due poi, a seconda delle versioni, ad un certo punto uno dei due (ma più presumibilmente Pandora stessa, per via della sua "natura") infranse il divieto di aprire il vaso (che qui sembra ricordare il divieto biblico infranto da Eva riguardo al frutto della conoscenza). Tutti i mali si abbatterono sull'umanità rendendola mortale, caduca e sottomessa alla loro azione distruttrice, per volere degli dei.

Ora, facendo un'analisi precisa sul mito, il racconto del sacrificio di Mēkṓnē e l'episodio della creazione di Pandṓra appaiono come due momenti simmetrici e complementari che sembrano avere a che fare con un più complesso mito della "caduta" dell'uomo, rispetto ad una condizione edenica primordiale. La dura reazione di Zeús ha ridimensionato la natura umana, rendendola mortale, e colpendola in due punti fondamentali per la sopravvivenza, l'alimentazione e la sessualità:

- Alimentazione: lavoro quotidiano per strappare il cibo alla terra per il sostentamento, rispetto ad una condizione precedente dove gli alberi e la terra davano spontaneamente frutti e messi. - Sessualità: introduzione della divisione in sessi e dell'accoppiamento per la riproduzione della razza umana.

E i responsabili sembrano essere appunto i due fratelli Prometeo e Epimeteo. Chi vede prima e chi vede dopo. Quindi che non sono avveduti. Ora, senza proseguire oltre, e inseguire tutte le varie versione su ciò che accadde dopo, vorrei concentrarmi su quello che a mio personalissimo avviso, si può estrarre da questo mito, alla luce di tutto quello finora raccontato. Provando ad osservare quello fin qui riportato con gli occhi di un iniziato, il mito di Prometeo sembra raccontare avvenimenti accaduti in un tempo fuori dal tempo, che hanno coinvolto almeno minimo tre razze di esseri viventi: i Titani, gli dei dell'Olimpo e l'umanità. Gli dei, a seguito di guerre vinte per il potere sulla terra, si dedicano a più riprese alla creazione di un tipo di umanità atta ad essere soggiogata ai loro voleri. Non tutti quelli coinvolti nell'esperimento sostengono queste posizioni, e fanno tutto quello che è in loro potere per aiutare gli uomini a migliorare la loro condizione. In più, nell'ottica tradizionale, aggiungerei che fanno anche tutto quello che ritengono "GIUSTO" fare senza guardare alle conseguenze. Anche se alla fine, secondo quanto ci racconta il mito, vi è stata una vittoria da parte degli dei nel far perdere all'uomo una sua condizione edenica privilegiata, quell'unica cosa rimasta nel vaso di Pandora, la "Speranza", possiamo affermare che è ciò su cui possiamo fare leva per affrancarci dalla nostra condizione materiale. Non una speranza infima e becera da rivolgere in un'ipotetica fortuna, ma una speranza di genere universale riposta nell'

"Agire senza guardare ai frutti, senza che sia determinante la prospettiva del successo e dell'insuccesso, della vittoria e della sconfitta, del guadagno o delle perdite, e nemmeno quella del piacere e del dolore, dell'approvazione e della disapprovazione altrui."

Come riporta Evola e come ci mostra con coraggio Prometeo, poiché "un uomo è un dio mortale, e un dio un uomo immortale". E se è vero che "...tutti gli uomini hanno una rupe, e i mostri non muoiono. Ma quello che muore è la paura che t'incutono", e che quel fuoco che Prometeo rubò e che ci donò è la scintilla Divina che si cela in noi, ora sappiamo che grazie al "SACRO FUOCO" che arde in noi, donatoci da Prometeo con coraggio e con amore, e che ci spinge ad AGIRE, possiamo liberarci da ogni catena e paura e tornare a riprenderci il posto che ci spetta nell' Universo.

Valerio Avalon

Il Fascismo senza maschere, quello autentico e rivoluzionario – recensione a cura di Maurizio Rossi

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La nuova indagine di Luca Leonello Rimbotti

 

Qualcuno forse si domanderà, ma come ancora un altro libro sul Fascismo? Non siamo ormai già a conoscenza di tutto? I segreti, le storie, anche le più controverse, le vicende e i dibattiti, non sono forse già stati tutti svelati e spiegati in ogni prospettiva possibile? C’è ancora qualcosa di ulteriore da scoprire, da indagare e da capire su quella che è stata, piaccia o meno, l’unica, possente rivoluzione che l’Italia abbia mai avuto nella sua complicata storia?

Evidentemente sì. Anzi, ne siamo più che certi. E l’ultima fatica di Luca Leonello Rimbotti sul tema, recentemente pubblicata dalle Edizioni Passaggio al Bosco nella collana «Bastian Contrari» con il titolo «Fascismo rivoluzionario. Il fascismo di sinistra dal sansepolcrismo alla Repubblica Sociale» ne è la migliore conferma.

Per coloro che ancora non fossero a conoscenza delle Edizioni Passaggio al Bosco possiamo sinteticamente sottolineare che si tratta di una giovane e coraggiosa iniziativa editoriale fiorentina nata da un qualificante retroterra militante, assolutamente non conformista, che può già vantare nel suo catalogo un buon elenco di titoli di cultura politica particolarmente interessanti e adatti al momento storico che stiamo attraversando.

Attraverso le oltre quattrocento pagine dell’opera, ma non lasciatevi impressionare dalla mole, si snoda una valida ed esaustiva esposizione delle stagioni del pensiero fascista, in tutte le sue molteplici espressioni. Un fascismo senza maschere, appunto; privo di interessate ricostruzioni artificiali, ma intenso e sincero nel suo percorso. Pagine così interessanti e ricche di contenuti e così belle per ciò che riescono a rendere di nuovo visibile e tangibile che non soltanto mettono in evidenza la conoscenza precisa e obiettiva dell’autore, ma ancor di più pongono nella giusta attenzione la densità e la profondità dell’ideologia fascista; dalla sua nascita movimentista alla maturità di una rivoluzione fattasi Stato, fino al suo epilogo tragico, ma eroico, nella trincea rivoluzionaria della Repubblica sociale. Tante storie, progetti, riflessioni e percorsi che ci parlano del fascismo come di un instancabile e inesauribile laboratorio di volontà e di decisione e quindi di una rivoluzione perennemente in marcia, nonostante gli innumerevoli sabotaggi, le battute di arresto e anche le compromissioni sempre avversate dalla base del movimento.

Sappiamo che il movimento fascista manifestò fin dalle origini diciannoviste, la sua ferma e inderogabile volontà politica di perseguire il fine dell’integrazione totale del popolo italiano all’interno di un processo rivoluzionario di radicale trasformazione dell’intera società in senso fascista, senza escludere alcun comparto sociale o aspetti particolari dalla sua azione di penetrazione; affinché si raggiungesse il completamento culturale e politico della sintesi organica tra Stato, nazione e popolo. Una sintesi che fu indubbiamente di rottura con le ideologie del secolo precedente, che venne dettata da esigenze antiliberali, antimarxiste e antiplutocratiche.

Abbiamo detto delle origini diciannoviste, per la verità dovremmo andare ancora un po’ più indietro nel tempo che comprendere il senso innovativo del pensiero mussoliniano, cioè a quando nell’agosto del 1918 Mussolini decise di cambiare la dicitura del proprio giornale, Il Popolo d’Italia, che passò dall’essere «quotidiano socialista» a quella più decisamente specifica e inglobante di «quotidiano dei combattenti e dei produttori». Con questo passaggio, il Mussolini politico e combattente che aveva saputo interpretare e vivere da volontario la grande guerra come guerra di popolo e l’interventismo come l’innesco rivoluzionario di nuove consapevolezze al di fuori delle politiche borghesi della destra e della sinistra si rivolgeva alle masse lavoratrici italiane, le stesse che avevano riempito le trincee, incitandole ai nuovi compiti che si prospettavano, ovvero emergere nella storia dell’Italia come le nuove aristocrazie dirigenti della nazione contro i parassiti del lavoro e del sangue versato sul fronte. Si trattò di una coraggiosa scommessa per il cambiamento, le cui radici affondavano nel sacrificio della guerra, il momento nel quale le masse popolari e contadine italiane scoprirono di appartenere a una nazione. La trincea non sapeva quali fossero le differenze di classe o di ceto, ma conosceva il cameratismo del sangue dei soldati. Quella comunità solidale esaltata da Mussolini che rappresentò il nucleo iniziale del fascismo.

Per non parlare poi del discorso che Mussolini il 20 marzo 1919 tenne alle maestranze in sciopero dello stabilimento metallurgico Franchi e Gregorini di Dalmine, che precedette di tre giorni l’adunata di Piazza San Sepolcro a Milano e la nascita ufficiale del primo fascismo. Uno sciopero ben motivato nelle legittime rivendicazioni, ma differente nelle sue modalità da quelli consueti. Infatti, i lavoratori organizzati dai sindacalisti rivoluzionari corridoniani stavano autogestendo la produzione nella fabbrica occupata.

A loro, che rappresentavano i produttori e i combattenti quindi le nuove aristocrazie in pectore, Mussolini rivolse infiammate parole di elogio e di stimolo, in esse gli elementi di fondazione della futura ideologia fascista erano già presenti. Nel seguente passaggio estratto dal discorso appare evidente l’intenzione di Mussolini di raccogliere in un unico programma istanze che fino al allora avevano viaggiato su binari differenti e distanti: «Il significato intrinseco del vostro gesto è chiaro, è limpido, è documentato nell’ordine del giorno. Voi vi siete messi sul terreno della classe, ma non avete dimenticato la nazione. Avete parlato di popolo italiano, non soltanto della vostra categoria di metallurgici. Per gli interessi immediati della vostra categoria, voi potevate fare lo sciopero vecchio stile, lo sciopero negativo e distruttivo, ma pensando agli interessi del popolo, voi avete inaugurato lo sciopero creativo, che non interrompe la produzione. Non potevate negare la nazione, dopo che per essa anche voi avete lottato, dopo che per essa 500 mila uomini nostri sono morti. La nazione che ha fatto questo sacrificio non si nega, poiché essa è una gloriosa, una vittoriosa realtà. Non siete voi i poveri, gli umili e i reietti, secondo la vecchia retorica del socialismo letterario; voi siete i produttori, ed è in questa vostra rivendicata qualità che voi rivendicate il diritto di trattare da pari cogli industriali. Voi insegnate a certi industriali, a quelli specialmente che ignorano tutto ciò che in questi ultimi quattro anni è avvenuto nel mondo, che la figura del vecchio industriale esoso e vampiro deve sostituirsi con quella del capitano della sua industria da cui può chiedere il necessario per sé, non già per imporre la miseria per gli altri creatori della ricchezza.»

Rimbotti ci parla di tutto questo con passione e con dovizia di particolari. Particolari importanti perché nelle radici del fascismo possiamo già leggere i successivi arricchimenti politici e dottrinari: dalla fase rivoluzionaria dello squadrismo e della guerra civile in cui si immerse alla conquista del potere, fino alla stagione del regime consolidato, del dibattito sul corporativismo, delle grandi innovazioni e di una modernizzazione sociale in marcia con uno spirito del tutto nuovo, delle varie anime interne al regime che si fronteggiarono aspramente, nei segmenti di una rivoluzione certamente incompiuta per l’insorgere di fattori anche estranei alla dialettica fascista ma propri di differenti logiche di potere. Dobbiamo riconoscere che la necessaria trasformazione fascista in senso corporativo dell’economia e della produzione nella sua interezza, quindi di un totale e radicale superamento dell’organizzazione capitalistica imprenditoriale nell’indirizzo di una civiltà fascista del lavoro, non si ebbe; la Camera dei Fasci e delle Corporazioni venne inaugurata il 23 marzo 1939, troppo tardi e in clima di generale disillusione.

Ciononostante, l’impasse non impedì che numerosi traguardi sociali venissero lo stesso conseguiti, molte riforme strutturali portate a termine, la Carta del Lavoro fu un monumento di socialità e di organizzazione; il tutto a dispetto delle pesanti e minacciose opposizioni delle forze conservatrici, che nel complesso agivano indisturbate per sabotare il fascismo, dei ceti imprenditoriali, della monarchia e perfino delle gerarchie ecclesiastiche che non vedevano di buon occhio gli esperimenti sociali del regime. Molto fu fatto, molto restava ancora da fare come lamentavano i fascisti più intransigenti, spesso vecchi squadristi o giovani irrequieti.

E per la svolta socializzatrice si dovette attendere la Repubblica sociale.

La rivoluzione compiuta sociale e totalitaria che spesso Mussolini aveva invocato dovette essere rinviata a tempi più opportuni e favorevoli.

Insomma, quelle tante complessità che caratterizzarono l’esperienza fascista e che hanno sempre affascinato e incuriosito gli studiosi della materia.

Comunque sta di fatto che il fascismo, coerentemente con la sua vocazione rivoluzionaria originale e originaria, riuscì durante gli anni del regime a mettere in campo un processo di trasformazione globale della società, delle mentalità e dei costumi che non poteva prescindere dallo sviluppo e dall’applicazione di un vasto panorama di interventi pubblici politici e sociali che avrebbero dovuto, attraverso un uso capillare della propaganda e dell’educazione tramite l’inquadramento politico dei vari strati della popolazione, sviluppare una nuova coscienza di appartenenza alla comunità nazionale ricostruendo così di sana pianta il tessuto della vita collettiva. Nel significato fascista si trattava di una comunità nazionale intesa come un luogo spirituale e sociale compiuto che si sarebbe identificata per automatismo nello Stato fascista e che attraverso la mobilitazione educativa delle organizzazioni del partito sarebbe approdata ad una sorta di formalizzazione delle emozioni e l’emergere di nuovi valori civici e politici intesi in chiave mistica, si parlò infatti di una «mistica fascista» da iniettare nella vita civile, ed infine anche eroica; il vivere la quotidianità fascista con spirito antiborghese, con tensione virile, agonistica, e pertanto eroica.

Gli stessi canoni sviluppati dalla cultura fascista miravano a un approdo definitivo verso un fascismo risolto e compiuto nella totalità del popolo italiano, che sarebbe, per forza di cose, emerso come la caratteristica morale e politica identificativa della nuova Italia.

Il nostro autore qualifica tutto questo insieme di programmi e di aspirazioni, di potenzialità e di radicalismo, come «fascismo di sinistra», quindi rivoluzionario e non addomesticato perché appunto «di sinistra». È giusto? È sbagliato? Una tesi ardita? Difficile a dirsi, come difficile è il voler utilizzare categorie già vecchie e superate all’epoca, frutto per altro della interessata stratificazione borghese della vita politica. La democrazia borghese ha sempre conosciuto una «destra» e una «sinistra», con tutte le loro declinazioni possibili e magari anche in concorrenza tra loro, ambedue però funzionali alla dialettica di sopravvivenza e di giustificazione interna della società borghese. Anche al fascismo, ideologia nuova e di rottura del XX° secolo, è allora applicabile questo schema?

Il fascismo rigettò il mondo borghese e il massimalismo progressista creando in primis le proprie categorie di riferimento, e lo fece andando ben oltre la «destra» e la «sinistra», però è anche vero che sopravvissero al suo interno tra le pieghe del movimento modi diversi di interpretarlo e questo fu una debolezza. Una rivoluzione che vanta aspettative totalitarie questo lusso non se lo può mai permettere, la credibilità della sua stessa idea di rivoluzione ne risulterebbe inficiata.

Le grandi rivoluzioni del primo dopoguerra, il fascismo, il nazionalsocialismo, anche il comunismo quello staliniano, hanno rappresentato in generale delle complessità ideologiche e culturali particolarmente articolate che sfuggono alle rigidità interpretative del pensiero politico moderno. Il loro saper essere state, parliamo soprattutto del fascismo e del nazionalsocialismo, allo stesso tempo sintesi nuove e antiche e risoluzione delle contraddizioni della modernità, quindi visioni del mondo destinate a un nuovo meriggio, le fa apparire ancora oggi complicate nelle valutazioni e nelle analisi.

Però, sempre il nostro autore riesce a giustificare in maniera coerente e accattivante questa sua specifica chiave di lettura che sposta irrimediabilmente l’asse del fascismo, puro, intransigente e rivoluzionario verso la «sinistra». Spetterà allora al lettore, che sicuramente non potrà che riconoscere il valore dell’accurata opera di Rimbotti sul fascismo, trarne le personali valutazioni.

Il dibattito resta ancora aperto.

Maurizio Rossi

Ereticamente intervista il dott. Stefano Montanari, a cura di Roberta Doricchi

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– Possiamo cominciare con l’intervista rilasciata dalla nostra ministra della salute alla rivista Vanity Fair [https://www.vanityfair.it/news/politica/2018/07/11/ministro-sanita-giulia-grillo-vaccini-salvini-marijuana (N.d.R.)]?

SM – Una manifestazione mortificante. Al di là di chiacchiericci e di particolari sulla sua vita intima che al massimo potrebbero interessare gli strati culturalmente meno attrezzati della popolazione, è preoccupante ciò che questa signora, laureata comunque in medicina, esterna sui vaccini. Diciamo che è poco e male informata e fermiamoci lì, magari aggiungendo che non le sarebbe poi difficile acquisire almeno un po’ delle tante nozioni che pare non possedere. Ma qui ci vorrebbe un po’ di umiltà e forse di autorità. E preoccupante è pure il fatto che la ministra s’infischia bellamente di ciò che il suo partito ha comunque dato ad intendere a chi, stoltamente, lo ha votato. Non sono pochi, infatti, coloro che sono cascati nel giochetto di credere che la legge sulla vaccinazione obbligatoria, folle e illegittima com’è, sarebbe stata abrogata. Ora questi sconsiderati, ingenui elettori si ritrovano ad essere complici di una situazione a dir poco critica, avendo in qualche modo sottoscritto una gestione che è la replica di quella passata.

– A suo parere, perché questo che sembra un voltafaccia del Movimento 5 Stelle?

SM – Io conosco personalmente un po’ dei loro rappresentanti ma quel partito è un miscuglio indecifrabile in cui c’è un po’ di tutto. Certo, il fatto di essersi fatti arrivare come consulente per l’argomento vaccini un personaggio come quel tale Guido Silvestri avrebbe dovuto aprire gli occhi a chi, nella scheda elettorale, ha messo la crocetta sul simbolo dei grillini. A chi rispondano le stelline è una domanda che ci si dovrebbe porre. Certo è che, se si considerano certe posizioni ora spostate nel dimenticatoio sugli inceneritori e ciò che quelli dicevano fino a qualche mese fa sui vaccini per poi confrontarle con i fatti, dubbi ne sorgono tanti o, se vuole, tanti dubbi scompaiono. Di fatto, se non siamo caduti dalla padella alla brace poco ci manca.

– Anche Giorgia Meloni si è espressa a favore dei vaccini citando il caso del pallavolista che ha vaccinato sua figlia.

SM – Aspetto di vedere i loro risultati scientifici.

– Che cosa succederà alla riapertura delle scuole?

SM – Sarebbe come se lei mi chiedesse che cosa accadrà in un manicomio da barzelletta. È straordinario osservare come sia mai potuta essere presa per buona una legge che, dal punto di vista elementarmente legale, è carta straccia. Inventata da un governo che legalmente non poteva legiferare fuori dell’ordinaria amministrazione perché insediato palesemente contro la Costituzione, quella povera Costituzione la legge la calpesta innumerevoli volte, così come fa con tanti trattati internazionali e con le leggi, quelle sì non calpestabili, della medicina. La cosa più incredibile è che la magistratura non intervenga.

– Insomma, i bambini entreranno o no a scuola?

SM – Escludere dalla scuola un bambino non vaccinato è illegale. Chi lo fa è semplicemente un delinquente. Il magistrato che non interviene non fa il suo dovere. Ma c’è pure il lato buffo. Come chiunque conosca un minimo di medicina deve sapere e come le stesse case farmaceutiche scrivono, in molti casi il soggetto vaccinato è portatore della malattia per periodi più o meno lunghi, addirittura a vita per malattie come la pertosse. Per questo, a vaccinazione effettuata, il soggetto va tenuto in quarantena. Invece i ragazzini vengono vaccinati e immediatamente entrano a scuola mentre, incredibilmente, il vaccinato che non è portatore di nulla, viene escluso. Non mi stupisco che questa assurdità sia presa per buona dalle tante famiglie vittime della sottocultura di stato. Appena di più mi stupisco dei giornalisti che imperversano nei mezzi di cosiddetta comunicazione. Un pizzico di stupore aggiuntivo per i politici ma nessuna giustificazione per i medici.

– A proposito di vaccini, suppongo che abbia letto la circolare [http://www.fimmgroma.org/images/stories/documenti/n.%2020024_03-07-2018_Tetano.pdf([N.d.R.)] a proposito della vaccinazione antitetanica.

SM – Diventa difficile commentare uno sproposito simile. Mi chiedo che fine avrebbero fatto all’università certi personaggi qualche decennio fa.

– Mi dà comunque qualche commento?

SM – Secondo quel testo, pare sia difficile, non mi chieda il perché, trovare il vaccino antitetanico monovalente e, allora, chi si vuole o si deve vaccinare contro il tetano deve beccarsi pure una serie di altri vaccini in macedonia tra cui l’anti-difterico e quello contro la pertosse. Già qui siamo alla bocciatura senza appello perché non si vaccina mai chi ha già superato la malattia e, di conseguenza, ne è diventato immune. Ma nella circolare si menziona pure la possibilità di praticare una vaccinazione esavalente, con questo toccando un ulteriore abisso. Raccontare, come ogni tanto qualche genio fa, che una vaccinazione rende ancora più immuni è una presa in giro che equivale a dire che se sparo a un morto lo uccido di più. Comunque, uno dei fondamenti della farmacologia è che non si somministra per nessuna ragione un farmaco di cui non esiste la necessità. Ma qui si va in un terreno culturale che forse esula da quello che piace al regime.

– C’è altro?

SM – Beh, chi ha scritto quella circolare forse non ricorda che il tetano non si passa con un morso, meno che mai quello di un essere umano. Scriverlo è imbarazzante come fu imbarazzante quando la signora Lorenzin sparò che il tetano era trasmesso dai nonni ai nipoti. Ma allora si trattava di un personaggio culturalmente a zero per quanto riguarda la medicina. Lascio perdere il resto relativo alla trasmissione del Clostridium per pietà umana. Aggiungo un’ovvietà: se si sospetta che il Clostridium tetani sia già penetrato nei tessuti, cosa, peraltro, non proprio comune, non si deve mai praticare una vaccinazione perché il rischio è quello di aggravare la situazione. Qualunque medico sa o, almeno, dovrebbe sapere che non si vaccina mai qualcuno che abbia la malattia in corso. Tenga anche conto del fatto che qualunque vaccino, se mai funziona, richiede un certo periodo di tempo per raggiungere una qualche efficacia.

– Restando ai vaccini, pare si stia spingendo la vaccinazione contro il Papilloma virus. Che ne dice?

SM – Provi a chiedere alle innumerevoli ragazzine che ne sono restate danneggiate, a volte in maniera gravissima. Si tratta di un vaccino comunque inutile anche se funzionasse perché i sierotipi che, almeno teoricamente, copre sono pochissimi sui duecento e passa esistenti. Consideri che il cancro del collo dell’utero da Papilloma virus è diagnosticabile molto facilmente con anni di anticipo e che è guaribile con un intervento ambulatoriale banalissimo. Consideri che tra i tanti effetti collaterali del vaccino c’è pure quello di rendere meno feconde le donne [https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/15287394.2018.1477640?scroll=top&needAccess=true (N.d.R.)].

– A suo parere, perché lo si spinge?

SM – Il complottista le dirà che è per sfoltire la popolazione. Forse, più banalmente, è per incrementare il giro di quattrini.

– Mercoledì scorso abbiamo ascoltato a Radio Studio 54 l’intervento di quella madre che riferiva del figlio danneggiato dal vaccino contro la meningite B.

SM – Un vaccino non solo di efficacia mai davvero dimostrata ma somministrato al di fuori di ogni anche solo remota indicazione e, stando a quanto dice la signora, senza che la s’informasse. Ma ormai è la prassi: iniettare vaccini sempre e comunque pare sia la missione di migliaia di operatori senza cultura, senza criterio e senza morale. Un paio di giorni fa ho avuto in laboratorio una coppia di genitori con un figlio diventato autistico immediatamente dopo la somministrazione di un vaccino trivalente spacciato per obbligatorio. Ma, naturalmente, le molte migliaia di bambini del tutto normali diventati autistici poche ore dopo la vaccinazione sono invenzioni fantasiose. La verità è quella di regime.

– Cambiamo appena argomento. Come va la raccolta fondi per il microscopio?

SM – In dieci mesi siamo arrivati più o meno a 150.000 Euro.

– Manca ancora parecchio.

SM – Sì, però la cifra raggiunta comincia a fare paura, viste le reazioni dei troll che si sono scatenati sui tanti blog, il mio compreso [www.stefanomontanari.net (N.d.R.)]. Succede esattamente ciò che cominciarono a fare addirittura alcuni personaggi all’interno di associazioni che si presentano come “free vax”: si sta cercando di bloccare la raccolta.

 – I “free vax”…

SM – Beh, è un fatto che conservare le cose come stanno ora fa comodo a chi, comunque, qualcosa si porta a casa. E noi siamo senza dubbio elementi di disturbo.

– A quanto so, lei conosce il senatore Luigi Gaetti, grillino e sottosegretario al Ministero degli Interni. Si tratta di un medico che ha lavorato con lei. Come vi conosceste?

SM – Quando facevo conferenze non troppo lontano da Mantova che è casa sua, veniva ad ascoltarmi.

– Come mai ora che ha una carica parlamentare importante non l’ha mai invitata a Roma?

SM – Quando ancora faceva l’anatomo-patologo, con lui studiammo il primo caso, poi pubblicato, di bambino nato con il cancro da madre sana e, per la cronaca, morto dopo circa otto ore dalla nascita. Poi, diventato senatore di Casaleggio e ora al terzo mandato, si è subito dimenticato di noi. Per carità: può capitare. Eppure ci eravamo veduti ripetutamente e, anzi, lui venne pure qualche volta in laboratorio da noi. Fu lui, proprio in una delle sue visite a Modena, a parlarci per la prima volta del cancro che i gatti sviluppano al punto d’iniezione dei vaccini.

– E, allora, non vi dà almeno una mano per recuperare il microscopio che proprio Grillo, il capo del suo partito, vi fece sottrarre?

SM – Gliel’ho detto: può capitare di perdere la memoria. E poi c’è la disciplina di partito.

– Lei continuerà a fare conferenze per arrivare ad acquistare il microscopio?

SM – Consideri che io regalo il mio lavoro e le confesso che sono molto stanco. Fare conferenze di diverse ore non è affatto divertente, rispondere mille volte alle stesse domande è obiettivamente noioso, non avere mai una domenica per me pure. Ricevere in cambio insulti, minacce e, chiamiamoli così, ostacoli istituzionali, poi, non migliora la situazione. C’è chi fa regolari azioni di disturbo spedendoci le querele più incredibili, e qualche volta ci tocca di aver bisogno di un avvocato. Pensi che i troll che infestano Internet arrivano addirittura a sostenere che io mi arricchirei. Questi personaggi io li ho invitati un sacco di volte a venire a Modena dove, con il mio permesso che concederò senza problemi, potranno recarsi in banca a controllare tutto ciò che vogliono. Naturalmente nessuno di loro si è mai materializzato, preferendo continuare l’opera di diffamazione che tanto attizza pettegoli e falliti e chi, forse, in qualche modo li ricompensa. E, aggiungo, nessuno, a qualunque livello, si materializza quando propongo un confronto condotto con le regole della scienza. In definitiva, una partita senza avversari in campo.

– Ma, insomma, lei continuerà a fare conferenze?

SM – Mi lasci qualche settimana di tregua. Poi, a metà settembre, ci sarà la prima conferenza autunnale a Vicenza.

– Una delle domande abituali è che cosa farete del denaro raccolto se non raggiungerete la somma necessaria per l’acquisto e il mantenimento dell’apparecchio.

SM – Se non ce la facessimo si tratterebbe della dimostrazione che la gente merita ciò che ha. Vadano al diavolo e peccato solo per i bambini che non hanno colpa di avere i genitori che si ritrovano. In fondo si tratta di un a cifra irrisoria se si considera la popolazione non dico mondiale ma anche solo italiana. A parte ciò, se non arrivassimo a quanto è necessario, finanzieremmo ciò che sarà compatibile con quando avremo raccolto.

– Per esempio?

SM – Per esempio continueremmo con la ricerca sulla leucemia mieloide acuta che ha dato risultati preliminari eccellenti e che è stata bloccata per punirci del fatto che mettiamo il naso nei vaccini, cosa che, come è evidente, non ha nulla a che fare con la leucemia ma quello è il regime.

– Ma per continuare a lavorare avrete ancora disponibilità del microscopio almeno una volta la settimana a Pesaro?

SM – E chi lo sa? Il comodato d’uso tra Università di Urbino e ARPAM di Pesaro è stato prorogato al 28 febbraio 2019. Quello che accadrà dopo è impossibile da prevedere, anche perché, con un atteggiamento su cui preferisco non esprimermi, noi non siamo mai informati su quanto riguarda l’apparecchio che è arrivato all’Università di Urbino semplicemente dopo che lo abbiamo ottenuto noi con i nostri sforzi, peraltro non piccoli, e senza che l’Università muovesse un dito. Sul resto, taccio.

– Mi dica solo come farete a continuare la ricerca se non avrete più il microscopio.

SM – Andremo da qualche parte dove un microscopio adatto a noi viene noleggiato. Già lo abbiamo fatto in passato e le assicuro che si tratta di un incubo. I costi sono altissimi e si perde tantissimo tempo non solo per i trasferimenti ma per mettere l’apparecchio in condizione di funzionare per le nostre esigenze.

 – Un’ultima domanda: ma quel microscopio da 488.000 Euro che sta cercando di ottenere è proprio necessario?

SM – È il più piccolo tra quelli che possono fare il lavoro che ci serve. Altre soluzioni sono inutili e chi, di tanto in tanto, pretende di proporci questo o quello ci fa solo perdere tempo. Si figuri che una volta un medico scrisse, da incompetente, a mezzo mondo che le nostre analisi sono possibili con un microscopio ottico da poche migliaia di Euro.

Intervista a cura di Roberta Doricchi

dell’Associazione di promozione sociale “Vita al Microscopio” (http://www.vitalmicroscopio.net/).

L’Insegnamento speciale del Tögal – III parte – Luca Violini – EreticaMente

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C'è uno scopo fin dall'origine. Alcuni venti non sono molto puri e sebbene siano sottili essi sono più grossolani del vento della saggezza. Quando la coscienza è nel canale e si muove in esso, i pensieri sono grossolani. Se siete in grado di controllare questo vento con la respirazione allora la mente diventa gentile e stabile. Questo canale è collegato con tutti gli organi e quindi la coscienza è integrata con loro e i venti vanno e vengono attraverso tutti gli organi di senso, di modo che sono insieme. Ma il vento si muove soprattutto attraverso il naso e la bocca e collega gli organi di senso con vento e coscienza. La coscienza è pertanto collegata con la respirazione e l'aria e lo sviluppo delle cinque coscienze velenose, la coscienza normale. Nel cuore e nell'occhio in particolare c'è un canale purissimo, chiaro e sottile che va dal cuore al globo oculare, poi il canale centrale che collega la corona del capo all'ombelico è connesso con il canale kati al livello del cuore. Il canale centrale connette molti altri diversi canali, la corona del capo, il collo, il cuore, l'ombelico e quello segreto. Essi sono come una ruota con diversi nomi e raggi. In generale un canale è connesso al cuore e va attraverso la spina dorsale e il cervello su fino alla corona del capo dove si divide in due nei globi oculari. Lì è dove la normale coscienza dell'occhio va e viene. Nel contempo, il canale kati comincia al cuore e va su fino alla settima vertebra e poi gira attorno al cervello fino alla corona del capo dove si divide in due e va ai globi oculari. Così ogni globo oculare ha due canali: quello normale è usato come via della coscienza dell'occhio, ma il canale kati è usato dalla consapevolezza. Il globo oculare è dove possiamo vedere esseri e forme menteli: è anche dove vengono le visioni: è come se le loro manifestazioni le "vedessimo" davanti al globo oculare, ma è il canale kati. La coscienza dell'occhio vede solo visioni comuni ed impure ma le altre appaiono davanti al globo oculare a causa del canale kati. Ciascuno ha un nome speciale. Il globo oculare è detto "il Lume del Laccio d'Acqua". Ci sono quattro Lumi usati qui e ciascuno ha un nome speciale ma per ora stiamo solo parlando del globo oculare. Dobbiamo spiegare di più la coscienza e come separare coscienza e saggezza. Dunque, per continuare a spiegare i Quattro Lumi, abbiamo visto come le visioni vengono dal cuore e vanno attraverso il sottile canale bianco su fino alla settima vertebra e sopra il cervello in due rami agli occhi e come questa sia l'origine delle visioni del Tögal. I Quattro Lumi sono:

1. Il Laccio dell'Acqua del quale ho parlato stamane;
2. Il Lume Vuoto, o Lume del Tiglé Vuoto;
3. Il Lume della Natura Vuota e Pura;
4. Il Lume della Saggezza Auto Originata.

Questi quattro sono come vengono le visioni, da dove vengono e come si integrano. Esse vengono tutte insieme in questi quattro lumi. Questo è a proposito del Tögal. Il primo lume: dà una descrizione del globo oculare. Il bulbo oculare stesso non fa molto, supporta il canale ma non è connesso con le visioni e il Tögal, è un supporto temporaneo. Il secondo lume: le visioni vengono tramite il sottile canale bianco. Esse sono come penne di pavone poiché sono tonde. È solo un esempio di un tipo di visione. Dapprima non appaiono colori, di solito solo in bianco e nero e molto piccole che diventano gradualmente sempre più grandi.

Questa è anche una prova. Se praticate nei sogni, voi vedete le visioni chiaramente ma già da prima sapete che tutte le luci esterne sono escluse, dunque la coscienza dell'occhio non può vedere niente. Così, chi vede? Non c'è coscienza quindi qualsiasi colore o forma appaia non è vista dalla coscienza dell'occhio, perciò quindi esse possono solo apparire alla e dalla Natura vuota. Questo da la prova di come possono apparire. Quando usate i metodi del Tögal e appaiono le visioni, non usate alcun tipo di coscienza e le visioni vanno e vengono dalla Natura vuota. Questo significa che non c'è alcun genere di ignoranza perché queste visioni non sono connesse con la coscienza, perciò sono pure. La nostra vita normale viene tutta dalla stessa fonte, ma noi usiamo la coscienza e seguiamo sempre il lato dell'oggetto senza mai guardare indietro. Questa è una cosa comune, la visione comune, tutto è ugualmente influenzato dall'ignoranza, per questo sono chiamate visioni impure. Così se noi usiamo queste visioni in modo corretto esse si sviluppano sempre più e diventano sempre più chiare mentre le visioni impure diventano sempre più deboli e alla fine siamo pronti a raggiungere lo scopo finale e le visioni impure sono convertite in pure poiché vengono tutte dalla stessa sorgente. Questo significa che per il praticante alla fine tutte le visioni sono pure perché vengono dallo stesso luogo.

I testi sacri forniscono un esempio del sole che brilla in un cielo senza nubi. In quel momento non ci sono ombre o oscurità. Per lo yogi praticante che ha molta esperienza con le visioni esterne ed interne, la cui realizzazione della Natura è stabile e per il quale non c'è separazione tra le cose esterne ed interne, per lui tutte le cose materiali possono scomparire, anche il suo corpo. Quello è lo scopo della purificazione di tutti gli oscuramenti con la pratica di Trekchö e Tögal insieme, utilizzate non solo perché appaiono strane visioni. Inoltre, ci possono essere anche suoni. Non è importante quel che viene, Buddha o divinità o Samsara e uccidere o mangiare. Molte cose vengono e voi avete la necessità di riconoscere da dove vengono. Non c'è molta differenza se vengono cose buone (che sembrano cose buone) o cose cattive. I Lumi hanno la stessa Natura delle visioni, esse sono tutte nella Natura. Il Lume Puro Auto Originato significa lo Stato Naturale ed è la stessa cosa.

Possono le visioni del Tögal apparire nei sogni? Dipende dal praticante e da quanto è riuscito ad integrare i suoi sogni con lo Stato Naturale, altrimenti i sogni naturali (ordinari) non hanno nulla a che fare con le visioni del Tögal. Non importa quali forme vediate. Se siete stabili nello Stato Naturale potete vedere persino inferni e spettri affamati oppure Buddha e divinità ed esse sono tutte visioni pure perché non sono influenzate dall'ignoranza. Così, dal lato della visione non c'è molta differenza, ma se seguite il lato dell'oggetto allora siete influenzati dall'ignoranza. Allora qualsiasi cosa vediate, Buddha, inferni, ecc. tutto è impuro. La prova è nei sogni. Se nei sogni potete vedere forme, colori, alberi, fiori, ecc. e qualsiasi cose vediate appare come se venisse tramite la coscienza dall'occhio, ma la coscienza dell'occhio non funziona nell'oscurità, allora sembra soltanto come se l'occhio le vedesse. Le visioni e le cose che vedete vengono tutte dalla Natura, le visioni stesse vengono e vanno nella Natura vuota. Voi potete pensare "Qui" o "Lì", ma non è così. Questo dà quindi prova di come esse non possano essere influenzate dall'ignoranza. È importante. Dovreste sapere che le visioni sono auto apparizioni dalla Natura vuota ed appaiono alla Natura vuota. Questa esperienza è usata come prova per mostrare come le cose possono apparire spontaneamente dalla Natura vuota e sviluppare il nostro universo. Il praticante stesso può purificare le cose per se stesso ma non può mostrarlo agli altri. Anche così, voi dovreste fidarvi della vostra esperienza. Quella è la ragione per praticare Trechö e Tögal.

Coscienza e saggezza sono due cose ed abbiamo cercato di distinguerle. La seconda cosa è quando coscienza e saggezza vengono insieme. Esse hanno naturalmente la stessa base ma in realtà appaiono dall'energia (Tsal). sono di due tipi, l'incontro esterno con la coscienza e l'incontro interno con la saggezza.

Per prima cosa l'incontro esterno. Questo significa che quando siete troppo agitati, il vostro vento è fortemente sviluppato nei canali e fa scuotere la vostra mente il che conduce all'agitazione. Il canale che va dal polmone al globo oculare e giunge al cuore tocca e un pò collega la saggezza alla coscienza ordinaria, proprio dove il canale del polmone e quello del cuore\zdf{globo oculare} s'incontrano al cuore. L'incontro interno tra coscienza e saggezza significa che quando vengono pensieri ed agitazione, voi osservate e i pensieri improvvisamente si liberano nella Natura. I pensieri stessi sono coscienza ed essi si liberano nella saggezza, quindi quello è l'incontro interno. Questi ultimi sono naturalmente senza separazione, essi non solo s'incontrano e poi se ne vanno separatamente. Non è davvero possibile spiegarlo ma a volte essi s'incontrano e i pensieri stessi si liberano nella Natura. Questo è solo un nome, essi non sono naturalmente separati. Poi, come la coscienza e la saggezza possono essere separati e perché abbiamo due nomi. Ci sono due spiegazioni, spiegazioni temporanee. Come sono divenute separate? La coscienza conduce al Samsara e la saggezza conduce al Nirvana. Prima di tutto, se ci teniamo temporaneamente nello Stato Naturale e appaiono diversi tipi di pensiero e noi li seguiamo, in quel momento è chiamata "coscienza" ma quando guardiamo semplicemente nella Natura e non c'è separazione di chi/dove sta guardando, quando realizziamo questo e diventiamo stabili e chiari, quella è chiamata saggezza. Il primo pensiero è andato ed il secondo non sta ancora nascendo e tra loro c'è uno stato chiaro che è chiamato saggezza.

Inoltre, la coscienza incontra la consapevolezza, questo è il sinonimo. Alcuni testi dicono che coscienza è lo stesso di Natura o lo stesso di saggezza, me è un tipo di energia che è chiamato il figlio della Natura. Così quando la coscienza va alla Natura, è detta il figlio che va nel grembo della Madre. Alcuni testi spiegano che tutti i generi di visione sono il figlio e quando le visioni scompaiono nella Natura, quello è il figlio che va nel grembo della Madre. È importante sapere che lo Stato Naturale è difficile da riconoscere perché comprende tutto quello che esiste, l'universo esterno e i suoi soggetti interni, ma è sempre insieme alla sofferenza. Il veicolo è sofferenza, ma la natura è la stessa. Così noi non lo riconosciamo e quando leggiamo i testi o il Maestro sta insegnando, noi cerchiamo di riconoscere la Natura, cioè la stessa saggezza. Così a volte è detto il figlio della saggezza. Le qualità e capacità sono le stesse della Natura, ma è come il ramo di un fiume: l'acqua è la stessa ma i rami sono distinti. In modo simile un fiume può gonfiarsi, ingrossarsi ed esondare ma un oceano di solito non cambia molto. Se cominciate a riconoscere la Natura, quello è detto Tsal, il figlio della consapevolezza, e potete cominciare ad applicare gli insegnamenti e crescere, poi praticando sempre più esso si può sviluppare e diventare più grande e più ampio.  Ma la Natura di Base non può essere più grande o più piccola. Così quella è la differenza tra cominciare a conoscere la Natura e la Natura in quanto tale. Alcuni testi dicono che nello Dzogchen non c'è meditazione, ma ciò è (vero) secondo la Base. E altri dicono che c'è meditazione e sviluppo, e quello è secondo la nostra esperienza e pratica. Dovete sempre comprendere il contesto, altrimenti sembrerebbe che ci fossero contraddizioni. Dovete impararlo. È importante distinguere tra "secondo la Natura di Base" o "secondo la nostra esperienza", altrimenti puù sembrare non vi sia differenza se praticate o vivete in un modo ordinario. Non c'è bisogno di fare voti o compiere atti virtuosi, o a volte si dice che dovete fare tutto. Dipende da quale lato state guardando. Il lato dello Dzogchen è perfetto, se fate bene, non lo migliora, se fate male, non lo peggiora. Ma il praticante non è lo Dzogchen ma uno dzogchen-pa. Pertanto, il praticante deve raccogliere virtù e fare attenzione.

Quando avviene l'incontro esterno tra coscienza e saggezza? La coscienza è sempre in agitazione e quando comprendete che è influenzata dall'aria o respiro, dai polmoni, e quando il respiro è agitato, comprendete che parte del canale, perché in quel momento l'aria sta spingendo nel canale, nel polmone. C'è un punto d'incontro, il cuore e il polmone sono collegati da un canale. Il lato del cuore è la base della saggezza mentre il polmone è più influenzato dal vento ed essi s'incontrano in un minuscolo punto. Perché s'incontrano esternamente? Perché dipende dal canale. L'incontro interno è quando la coscienza si auto libera nella Natura. Noi lo chiamiamo incontro, ma la base naturale di entrambi è la stessa, la saggezza.

Quando possono separarsi coscienza e saggezza? Dopo la morte il praticante è nel primo bardo, il Bardo della Chiara Luce. In quel momento, tutti i venti sottili ed irati semplicemente scompaiono nella Natura. Il tempo non è limitato, dipenda dalla persona. In quel momento lo Stato Naturale è molto chiaro e puro e per il praticante che sta cominciando a comprendere e la cui pratica è stabile nella Natura, quando cominciano ad apparire suoni luci e raggi, allora quella è saggezza. Come ho spiegato stamattina, una persona ordinaria si focalizza sul lato dell'oggetto quando vengono suono luce e raggi e quello è l'inizio dell'ignoranza. Così in quel momento è molto importante riconoscere la Natura e il metodo è soltanto praticare quanto più potete in questa vita e quell'esperienza vi conduce a riconoscere la Natura al momento del bardo. Così se praticate molto ed avete esperienza allora il momento del bardo sembra come l'acqua che va lungo un canale e giunge fino a dove voi volete che sia. Allo stesso modo, se praticate, questo vi conduce a quel momento del bardo e lì non c'è Samsara, non vi sono le sue limitazioni.

Luca Violini

L'articolo L’Insegnamento speciale del Tögal – III parte – Luca Violini – EreticaMente proviene da EreticaMente.

Due poli di telai del Fato: Giza delle Piramidi e Pechino. A cura di Gaetano Barbella (Prima parte)

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Le dee tessitrici e l’arte di tessere come atto di creazione della realtà

[caption id="attachment_29218" align="aligncenter" width="625"] Illustrazione 1: L’arte di tessere come atto di creazione della realtà.[/caption]

Le donne che si risvegliano, costruiscono il loro telaio e poi mettono su l’ordito e la trama della loro tela, tutte insieme, armoniosamente. L’Abisso, la “Grande Profondità”, in Egitto era personificato dalla dea Nut, precedente tutti gli dèi e dea tessitrice. Sta scritto: “l’unico Dio senza forma e sesso, che si autogenerò senza fecondazione, ed è adorato sotto forma della Madre”. “Nut è la Grande Madre, il Dio femminile dal quale derivano tutte le cose. Nut è il “Padre–Madre”, il suo nome significa “Io vengo da me stessa”, ossia autoconcepita. Ella si è autogenerata, come “Madre Originale”, una divinità androgina, che ingloba tanto l’aspetto femminile come quello maschile. Creare materia per esistere e vivere è una delle nature primarie di questa Dea nel processo della Creazione.

Tutte le antiche Dee partenogenetiche, create da se stesse senza l’aiuto del seme maschile, sono tessitrici.

Nut è la Signora di Vita, cioè che fissa lo spirito nell’Essere umano attraverso la respirazione, che per analogia si trasforma nell’ordito e nella trama sul telaio.

Tessere in un cerchio di donne e ritrovare l’essenza e la condivisione del femminino sacro: tessere, cantare, chiacchierare. Da sempre l’arte della tessitura è collegata alla Dea e al femminino sacro. Trama e ordito rappresentano yin e yang, inspiro ed espiro della vita. Tessitura è l’arte del Creare, All’incrocio tra ORDITO verticale e TRAMA orizzontale la Dea tesse attraverso gesti di armonia, il ritmo della creazione. Una meditazione attiva e utile anche a livello pratico.

Tessendo in cerchio tra sorelle, si incontra la Dea nei suoi differenti aspetti – Brigid la devozione, Isis la conoscenza, Afrodite la bellezza, Morrigan l’arditezza e, soprattutto, Amaterasu di cui la tessitura è il simbolo. Le leggende britanniche narrano che la spada di Artù, la sacra spada di Britannia che gli conferiva immortalità e invincibilità, non avrebbe funzionato senza il fodero cucito da Morgana, durante 3 giorni di digiuno e meditazione, e decorato con simboli druidici di protezione. Il contenitore è importante quanto il contenuto nella via sciamanica.

L’ago contiene 3 fili colorati e rappresenta la trama della Materia nella tridimensionalità; l’ago sale e scende dal duplice filo dell’ordito che rappresenta lo Spirito. L’ago porta nella dualità le tre dimensioni dell’esistenza (cielo, terra e inferi). I fili che prima sono sciolti poi si intrecciano formando la pezza. Così agisce anche la mente, tesse le stringhe di energia e forma le pezze di materia che chiamiamo realtà. Questo è il telaio della Dea, una eredità.di cui dobbiamo riappropriarci.

Simbolo sole : vita universale, circonferenza con un punto al centro.

Circonferenza: Madre Matrice Vita passività ricettività nel silenzio.

Punto: figlio-maschio manifestazione attiva istante per istante, causata dall’emissione di suono.

Solve et coagula: coagula è il punto, l’istante della manifestazione dell’idea; solve è il ritorno alla matrice quando la manifestazione finisce. La creazione non finisce ma passa solo nel silenzio e nell’inazione in un altro piano di esistenza.

Nel sistole diastole e inspiro espiro è la contrazione coagula e il rilassamento solve della manifestazione in questo piano di esistenza: nel macrocosmo è Saturno Giove nascita ‒ morte sono i due momenti di inizio e fine della manifestazione del punto. Mentre la vita è infinita ed è la circonferenza la matrice passiva.

Giorno: posizione umana verticale ordito – Notte: posizione umana orizzontale trama. i due bracci della croce, i due momenti dell’esistenza umana nella manifestazione duale; ma poiché sia trama che ordito sono andata e ritorno, nella tessitura rappresentano le 4 direzioni e le 4 fasi della creazione:

4 lati del telaio: genesi: acque superiori (aria), raggi (fuoco), terra e acque inferiori: 4 elementi alchemici sono le 4 direzioni (nord-terra, est-aria, sud-fuoco e ovest-acqua) del piano orizzontale.

3 piani di esistenza (i 3 fili): macrocosmo cosmo, Uomo, microcosmo atomo: trinità sul piano verticale; mondi superni, superficie terrestre, mondi inferi.

La somma di 4 + 3 da 7: i 7 archetipi planetari, collegati ai 7 principali centri energetici nel corpo umano.

I tre fili portano nella dualità dell’ordito i 3 piani di esistenza: osservare la legge di azione e reazione: dentro fuori sopra e sotto sempre opposti. Subito dopo essere entrata devo uscire e sono opposta rispetto al giro inferiore. Così si crea la realtà percepibile ai sensi: azione e reazione yin yang.

Quando i fili si incrociano significa un passaggio in un altro piano di esistenza.

Ogni volta che vado verso sinistra vado verso ovest, la morte e rinascita; quando vado verso destra è la nascita est1.

1 Le piramidi di Giza, Cheope, Chefren e Micerino correlate a tre stelle

[caption id="attachment_29219" align="aligncenter" width="625"] Illustrazione 2: Correlazione delle tre stelle della “cintura di Orione” con le piramidi e la Sfinge di Giza[/caption]

Le piramidi di Cheope, Chefren e Micerino, nell’insieme, in base a una teoria della piramidologia, sono state viste come riflesso del cielo stellato, (illustr. 2) della “cintura di Orione”, Alnitak, Alnilam e Mintaka, che fanno parte della omonima costellazione. È uno scrittore britannico, Robert Bauval, che sostiene questa tesi, ma è in contesa con un altro scrittore britannico, Andrew Collins , che invece sostiene che le tre piramidi sono correlate alle tre stelle della costellazione del Cigno, ε, γ e δ Cygni. Comunque resta il fatto che le tre piramidi, Cheope, Chefren e Micerino sono viste appunto come tre stelle, giusto in relazione al titolo di questo scritto,  Ma vedremo che è coerente questa relazione, intravedendo nella topografia della mappa delle piramidi in questione, una disposizione geometrica che suggerisce l’idea di un certo “varco”, da associarsi appunto al Telaio del Fato del titolo di questo scritto.

[caption id="attachment_29220" align="aligncenter" width="625"] Illustrazione 3: Le piramidi di Giza (da sinistra): Micerino, Chefren Cheope.[/caption]

L’immagine dell’illustr. 3 mostra il complesso monumentale della Necropoli di Giza situata nella piana omonima, alla periferia de Il Cairo dell’Egitto. Si tratta di uno dei siti archeologici più importanti del mondo, tanto da essere inclusa nell’elenco dei Patrimoni dell’Umanità dell’Unesco nel 1979.

Sono in bella mostra, iniziando da sinistra, la Piramide di Micerino (o Mykerinus), la più piccola, poi quella di Chefren (o Khepren) e l’altra, che appena si vede, è la più grande, Cheope (o Khufu) posta su una base sottoposta.

La piramide Cheope

Cheope (o Khnum-Khufu) (2566 a.C.) significa “che Dio mi protegga”, è stato un sovrano egizio della IV dinastia. Di lui ci è pervenuta solo un’immagine in pietra, anche se il suo culto durò ben 25 secoli. Egli difese le miniere del Sinai dalle incursioni dei beduini, curò la manutenzione di alcuni templi. Era, come tutti i Faraoni, un erudito, appassionato di storiografia sacra dell’Egitto, un re sapiente, dotato di uno spirito curioso e profondo.

La piramide di Cheope ha una base di 230 metri per 230 metri e all’origine era alta 146 metri e 35 cm, mentre oggi raggiunge i 137 metri d’altezza a causa della totale rimozione del rivestimento in pietra calcarea che in passato la rivestiva, colpita da erosione naturale.

Questa piramide doveva essere sormontata da un pyramidion d’oro che risplendeva sotto i raggi del sole al pari di una gemma enorme, visibile a chilometri di distanza.

Ufficialmente la sua edificazione è fissata tra il 2700 e il 2200 a.C. ma si tratta di dati incerti.

La piramide è stata realizzata in 3 progetti successivi:

- Nel primo, la camera sepolcrale è sotterranea, a circa 31 metri di profondità nella roccia, raggiunta da un corridoio secondo un angolo di 26,5 °, ma si dovette trattare di un progetto abbandonato, come dimostra l’incompiutezza della stanza del sarcofago.

- Il secondo progetto comprende la costruzione della camera sepolcrale per il re, poi la cosiddetta “Stanza della Regina”, anch’essa incompiuta, collegata con un corridoio di circa 80 metri al punto d’ingresso.

- Il terzo progetto comprende la “Grande Galleria”, quella sepolcrale e quelle di scarico.

Per l’esoterismo di base della piramide di Cheope, correlata a una formulazione matematica, rimando al saggio: La Stele d’Inventario di Giza la “sindone” della Grande Piramide.

La piramide Chefren

Chefren (Chephrèn, originariamente Khafre e Hor Userib) era il figlio di Cheope, il cui nome, in egiziano, significa “Ra quando sorge”. È stato un faraone della IV dinastia egizia. Di questo Faraone ci resta una statua in diorite proveniente dal tempio dell’accoglienza della sua piramide di Giza, che è da stimarsi la più perfetta scultura di tutta l’arte egizia. Sulla nuca di Chefren è posato il Falco Horo che, con le sue ali spiegate, protegge l’istituzione faraonica.

La piramide di Chefren, se pur la seconda piramide più grande di tutto l’Egitto, ma appena di tre metri circa, dopo quella di Cheope suo padre, tuttavia appare più alta di quella di Cheope, poiché fu costruita sopra uno zoccolo di roccia più alto, circa 10 metri. La sua punta è ancora intatta, conservando la struttura in calcare bianco levigato che in origine copriva tutte le piramidi. Il suo interno è semplice con due discese convergenti che conducono a un’unica tomba. A differenza della stanza della tomba di Cheope è situata invece nella parte centrale della struttura, ed è scavata nella roccia, sotto la base della relativa piramide. Di interessante nella piramide c’è solo da vedere il sarcofano in granito del Re. L’accesso è tramite un unico corridoio discendente, facile da varcare a differenza di quella della piramide di Cheope.

Per l’esoterismo di base della piramide di Chefren, correlata a una formulazione matematica, rimando al saggio: La piramide di Chefren e il sigillo della triade superna del giudizio finale.

La piramide di Micerino 

Micerino (o Menkaura) (2512/2508 a.C) è il faraone successore di Chefren, salito al trono  regnandovi per una ventina di anni. A differenza di lui e il nonno Cheope, che erano stimati dei tiranni (ma sono dei dati incerti, però), Micerino fu giudicato buono (secondo Erodoto). Il suo nome significa “Divina è la piramide di Micerino”.

Come già detto la piramide di questo faraone era molto più piccola delle altre due, un fatto che stigmatizza forse una certa decadenza faraonica. Inoltre non venne completata nella struttura, ma a questo supplisce frettolosamente poi Shepsekaf, il figlio che gli successe, terminandola. Questi Per sé non fece erigere piramidi per sé, ma solo una gigantesca mastaba nei pressi della Piramide di Snefru e Saqqara. La piramide di Micerino ha una base quadrata di lati di circa 103 metri, con quasi 66 metri di altezza in origine, mentre oggi raggiunge i 62. Gli archeologi hanno appurato che il rivestimento della piramide di Micerino fosse di bianco calcare di Tura, anche se pare che il progetto iniziale prevedesse il bellissimo granito rosso di Assuan. Il suo interno è complesso con un ingresso a nord a 4 metri di altezza e una discesa di 32 metri, rivestita in granito rosa. Il cunicolo conduce al vestibolo decorato con bassorilievi. Un ulteriore corridoio di circa 13 metri di lunghezza giunge nella camera funeraria posta 6 metri sotto il livello del suolo. La sala doveva contenere il sarcofago, andato purtroppo disperso.

Per l’esoterismo di base della piramide di Micerino, correlata a una formulazione matematica, rimando al saggio: La piramide di Chefren e il sigillo della triade superna del giudizio finale.

La Sfinge

Il quarto monumento della piana di Giza, che non appare nella foto dell’illustr. 3, è la Grande Sfinge una scultura di pietra calcarea raffigurante una sfinge sdraiata, ovvero una figura mitologica con la testa di un uomo e il corpo di un leone (nello specifico è detta anche androsfinge o sfinge andricefala).

Ottenuta da un substrato roccioso, è la più grande statua monolitica tra le sfingi egizie: è lunga 73 metri (dalla coda alle zampe anteriori), alta 20 metri (dalla base alla punta della testa) e larga 19 metri; la sola testa ha un'altezza di 4 metri.

La Sfinge è stata chiamata in diversi modi: per gli Arabi musulmani e per i Copti è ancor oggi Abū l-Hōl, ossia “padre del terrore”.

Il nome Sfinge che le attribuiamo deriva dal greco Sphynx, che significa strangolatrice, e deriva a sua volta dall'egizio traslitterato che significa “statua vivente”, nome attribuito alle statue di leoni con testa di uomo.

Questo monumento pare che sia stato eretto (ma incertamente) attorno al 2500 a.C, al tempo del faraone Chefren (2520-2494 a.C) come simbolo protettivo.

2 Geometrie della mappa delle tre piramidi e sfinge di Giza

Ed ora entriamo nel tema di questo scritto che è quello di esaminare la mappa delle tre piramidi e la sfinge della piana di Giza, peraltro un indagine eseguita da non pochi studiosi di archeoastronomia. Infatti nel capitolo precedente ho mostrato due casi in cui due ricercatori, Robert Bauval e Andrew Collins, entrambi britannici, hanno correlato le tre piramidi: il primo con la “cintura di Orione”, tramite le stelle Alnitak, Alnilam e Mintaka della omonima costellazione; e il secondo con le stelle  ε, γ e δ Cygni, ovviamente della costellazione omonima.

 

[caption id="attachment_29221" align="aligncenter" width="625"] Illustrazione 4: Mappa della tre piramidi e la sfinge di Giza. La sagoma della piramide di Cheope[/caption]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Noi ora, tralasciando questo scopo e cercheremo di occuparci della geometria cui sono informate le posizioni delle tre piramidi e la sfinge per verificare delle singolarità geometriche. Per far questo ho estrapolato dal web, tramite Google Map, la vista in elevazione ingrandita delle tre piramidi più la sfinge e ho eseguito una certa geometria dal risultato sorprendente che mostro con l’illustr. 4.

Nell’eseguire il grafico si comincia considerando il centro di osservazione della piramide di Cheope e si tracciano due cerchi, il primo passante per il centro della testa della Sfinge e successivamente per il centro della piramide di Micerino.

Poi si congiunge l’asse della piramide di Cheope con quella di Micerino e il risultato è ciò che si può costatare osservando il nuovo elaborato attraverso l’illustr. 5.

Capita che l’asse verticale della piramide di Cheope è in mezzeria tra Chefren e la Sfinge, tanto da poter tracciare un triangolo equilatero (in giallo). Questo triangolo ha a tutti gli effetti, la sagoma della piramide di Cheope: ecco il fatto straordinario che dimostra la singolare condizione di questa piramide con le altre e la Sfinge, come a costituire una occulta sudditanza.

Ma un’altra singolarità ora emerge allestendo una seconda geometria sui quattro monumenti sacrali con l’illustr. 5.

 

[caption id="attachment_29222" align="aligncenter" width="625"] Illustrazione 5: Mappa della tre piramidi e la sfinge di Giza. Poligono stellato a 40 punte. Concordanza fra Chefren, Micerino e la Sfinge[/caption]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le 40 corrispondenti corde, che si susseguono l’un l’altra partendo dalle punte, sono tangenti al cerchio passante per la piramide di Chefren. Successivamente si riscontra che anche per il cerchio passante per la Sfinge sussiste la condizione della suddivisione in 40 parti, cosa che è evidenziata con i cerchietti gialli, più quello nero relativo alla Sfinge. Se ne deduce che c’è concordanza d’intenti fra i tre monumenti di Giza, che nel prossimo capitolo verranno spiegati, come a riscontrare una singolare armonia che li informa.

Il lettore attento, sempre disposto a vedersi illuminato da qualche spiraglio di luce insolita, sarà colpito dal fine telaio dell’illustr. 5 e non potrà evitare di ammirare la fine tessitura disposta, appunto, dal fato per le tre piramidi egizie.

3 Il numero 40 dell’ascesa della barca solare di Cheope

[caption id="attachment_29223" align="aligncenter" width="625"] Illustrazione 6: Piramide di Cheope. Partic. imbarco dell’iniziato per il viaggio di ascesa verso il Tabernacolo di Osiride (lo Zed).[/caption]

Il mistero delle 40 suddivisioni rilevate nel precedente capitolo è legato  al viaggio iniziatico del defunto faraone Cheope nella piramide omonima, cioè  il viaggio con la barca solare nella Grande Galleria (illustr. 6). Si tratta di concezioni di ordine alchemico che fanno capo alle ragioni della struttura architettonica della Grande Galleria appunto, dove si compie il viaggio di ascesa iniziatica. Naturalmente con un modello di barca solare non diversa, ma in proporzione ridotta, da quella di 47 metri di lunghezza di Cheope trovata accanto alla sua piramide a Giza.

L’illustr. 6 non ha bisogno di commenti eccetto far capire che il viaggio iniziatico è concepito per simulare l’altro “viaggio”, il vero che vi corrisponde e che si attua sul piano delle energie eteriche.

[caption id="attachment_29224" align="aligncenter" width="625"] Illustrazione 7: Punto di arrivo della Grande Galleria e ingresso dell’atrio della Camera del Re[/caption]

Il mistero di Osiride, che vi attiene e che il Defunto faraone, in fase di ascesa verso il suo tabernacolo (la camera del Re della Piramide) si dispone ad attuare, inizia dalla base iniziale della Galleria invasa dall’acqua che è mercuriale, con la sua barca solare. Salendo conta sulla rampa di sinistra a ridosso della parete, 28 fori, il numero degli anni del regno di Osiride, il ciclo lunare della gestazione.

Guarda in alto il Defunto, iniziando la salita della Grande Galleria, e vede un soffitto formato da lastroni non allineati e ne conta 40, il numero della traversata (illustr. 7).

Il soffitto infatti è composto da 40 lastroni di calcare, chiaramente definiti e sistemati in modo da formare una dentellatura, a voler rimarcare la loro presenza o il loro significato. Il numero 40 = 10x4 è uno dei numeri fortemente usati negli insegnamenti misterici del popolo di Israele. Il passaggio attraverso l’oscurità dell’utero fino alla luce all’esistenza cosciente avviene in 40 settimane di 7 giorni per un totale di 280 giorni, visualizzati nei 280 cubiti dell’altezza della piramide (di Cheope). Il numero 40 indica il periodo della costruzione del tempio interiore che deve essere trascorso fra prove e solitudini prima che si possa varcare la porta che conduce alla camera del Re2 3.

NOTE

1 Fonte:   https://devanavision.it/articoli/le-dee-tessitrici-e-larte-di-tessere-come-atto-di-creazione-della-realta/

2 Per 40 anni Mosè rimase o attraversò il deserto, per 40 giorni dura la quaresima cristiana, ecc. Quaranta è il numero della traversata prima di giungere alla Terra Promessa, che non è di natura terrena ma celeste. In cima alla Grande Galleria vi era il grande gradino, di 0,909 metri, un cubito per la radice quadrata do tre, una salita verticale incommensurabile, per raggiungere un pianerottolo che faceva da atrio al cunicolo che portava alla Camera del Re.

3 Esonet.ORG – I segreti delle piramidi – http://www.esonet.org

L'articolo Due poli di telai del Fato: Giza delle Piramidi e Pechino. A cura di Gaetano Barbella (Prima parte) proviene da EreticaMente.


Achille Funi a cura di Emanuele Casalena

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( Ferrara 1890-Appiano Gentile 1972 )

“Questo paziente e solido costruttore; Achille Funi, nacque in Ferrara e crebbe sotto il segno zodiacale della linea ferma e del colore deciso, da Cosmè Tura, dal Costa e dal Cossa fermato sulle mura per sempre luminose di Schifanoia, nei grandi affreschi lapidari e sontuosi […] Nella giovane schiera dei pittori neoclassici d’oggi, egli opera, medita e agisce in silenzio, con alacre fervore, tra i primi.[…]”.( Margherita Sarfatti, Arte Moderna Italiana n. 4, Achille Funi, Ed. U. Hoepli, Milano 1925)

Nomen omen, impossibile sfuggire all’arte classica se ti chiami Achille Virgilio Socrate Funi, nasci a Ferrara, culla della corte estense, di quell’Ercole I cui si deve la prima speculazione edilizia d’età moderna con l’ Addizionale urbanistica che porta il suo nome. L’ampliamento della vecchia urbe medioevale,  creò un nuovo centro, con strade razionali, larghe, tracciate a cardo e decumano, prolungamento delle mura difensive, canalizzazione sotterranea della Giovecca, realizzazione del primo raccordo anulare, bei palazzi rinascimentali nei lotti. Tutto questo fece di Ferrara la città più moderna in Europa secondo il giudizio dello storico svizzero Jacob Burckhardt.

I lotti dei terreni però erano tutti del Duca, così fece, con Biagio Rossetti suo architetto, un modello d’ urbanistica moderna riempiendo, al contempo, di monete d’oro i suoi forzieri. Ferrara fu città natia di quell’Isabella d’Este, D’opere illustri e di bei studi amica,/Chi’io non so ben se più leggiadra o bella/Mi debba dire, o più saggia e pudica/Liberale e magnanima Isabella.” ( Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, XIII, 59), andata diciannovenne in sposa a Francesco II Gonzaga Signore di Mantova. Nell’humus della città delle delizie estensi l’ars pingendi si vestì con gli abiti a festa nel primo Rinascimento con Cosmé Tura, Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti ai quali seguirà Dosso Dossi.  Attenzione poi a quell’opera ad affresco di grandi proporzioni, il Salone dei mesi di Palazzo Schifanoia, fu una summa profana del sapere astrologico del tempo intinto nel brodo del neoplatonismo ficiano. Diciamo questo perché il buon Achille si distinse proprio per la tecnica a fresco controfirmando, nel ’33, il manifesto della pittura murale di Mario Sironi e Schifanoia era di certo nella sua testa. La Belle Epoque di Giovanni Boldini, il Divisionismo di Gaetno Previati, la pittura flash di Filippo De Pisia, Ferrara, come vedete, è sta madre di grandi pittori anche tra Ottocento e Novecento.

E’ l’anno della costruzione del nuovo acquedotto ferrarese, il 1890, quando Virgilio Socrate Funi nasce il 26 febbraio, primogenito di quattro figli d’ un pastaio sindacalista, Giovanni, e una casalinga Elvira Maria Bertolini. Bambino “intellettuale” si legge tutta la Bibbia ma non solo, si tuffa  nei versi dei poemi epici, spazia da Omero al mantovano Virgilio fino all’Ariosto. A dodici anni è allievo dell’Istituto d’Arte “Dosso Dossi”, Figura, Plastica e Decorazione i corsi da lui seguiti. A quindici avviene il suo battesimo artistico in una collettiva d’arte al Teatro  Filarmonico della città estense con carezze benevole della critica locale. Il 1906 è l’ anno della svolta, la famiglia Funi, per lavoro, si trasferisce nella Milano dai mille fermenti, è quella “Città che sale “ dipinta dal reggino Boccioni.  Naturale l’iscrizione d’ Achille all’Accademia meneghina di Brera dove insegna pittura tal Cesare Tallone prolifico coniglio d’una nidiata di ben nove figli. Il savonese fu grande ritrattista, genere che gli diede pane e fama con commesse della hight society ambrosiana, oltre allo stipendio di docente con allievi da Storia dell’Arte, Carrà, Boccioni, Sant’Elia,  Dudreville, logicamente  Funi. L’insegnamento rigoroso del maestro gettò le fondamenta solide dell’ Achille pittore,  sicurezza del tratto, anatomia della figura, plasticità statuaria,  posa studiata, attenzione al ritmo, un bagaglio non da poco. Tra i cavalletti dell’Accademia conosce quei mattacchioni dei futuristi, Boccioni, Chiattone, Carrà, Erba, e molti altri mistici della velocità. Scoppia la Guerra, Funi balza in sella alla bicicletta arruolandosi nel Battaglione volontari ciclisti e automobilisti co’ gli interventisti Boccioni, Marinetti, Russolo, Sant’Elia, Sironi. Lascia Milano per la guerra, si svuotano di protagonisti le poltrone del salotto intelligente della Sarfatti, anche quella di Funi resta lì che aspetta. Visto che la guerra è di trincea e ci si batte anche sui monti, il Battaglione VCA viene sciolto, non serve alla logistica del conflitto, ciascun appartenente viene assegnato ad altra formazione. Lui passa ai bersaglieri col grado di tenente, spedito ad ascoltare il mormorio del Piave. Tra marce, bivacchi, schioppettate, Achille disegna, schizza, annota , una specie di diario di vita militare reso a fumetti, 500 disegni di cui la gran parte purtroppo dispersa.  Quei schizzi rapidi, essenziali ci ricordano quelli d’un altro cronista di guerra Anselmo Bucci.

Negli anni furiosi del primo Novecento Funi aderisce al Futurismo, nel turbinio delle Avanguardie, si mette in scia con Boccioni e Carrà assorbendo il ribellismo anarchico del Movimento contro la polvere spessa del passato, eco di quel:” Compagni! Noi vi dichiariamo che il trionfante progresso delle scienze ha determinato nell'umanità mutamenti tanto profondi, da scavare un abisso fra i docili schiavi del passato e noi liberi, noi sicuri della radiosa magnificenza del futuro.[…] Per gli altri popoli, l'Italia è ancora una terra di morti, un'immensa Pompei biancheggiante di sepolcri. L'Italia invece rinasce, e al suo risorgimento politico segue il risorgimento intellettuale. Nel paese degli analfabeti vanno moltiplicandosi le scuole: nel paese del dolce far niente ruggono ormai officine innumerevoli: nel paese dell'estetica tradizionale spiccano oggi il volo ispirazioni sfolgoranti di novità.[…] Volendo noi pure contribuire al necessario rinnovamento di tutte le espressioni d'arte, dichiariamo guerra […] a tutti quegli artisti e a tutte quelle istituzioni che rimangono invischiati nella tradizione, nell'accademismo e sopratutto in una ripugnante pigrizia cerebrale.[…](dal Manifesto dei pittori futuristi dell’11 febbraio 1911). La vita è adrenalina, azione, il secolo nascente vede le macchine ruggire, la dea sacrificale si chiama Ve-lo-ci-tà, sconosciuta alle mammole contemplative del passato. Funi ci prova con uomini inforcati su moto o biciclette, il paesaggio dietro si scompone, le linee diagonali di forza, i piano intersecati illudono il movimento.

Ma già quei schizzi di guerra presagiscono un ripensamento, quelle figurine pacate riprese nella quotidianità della vita militare, non hanno velocità ma stasi, il suo Bersagliere ciclista, sdraiata la due ruote, disegna il suo esistere lì, in quell’ora, forse un autoritratto con malcelata stanchezza.  Gli rimbalza alla mente, in quei momenti, il mito aulico della sua Ferrara, la sua passione per i classici tanto da autobattezzarsi Achille come nome d’arte ed è il 1916. Sta vivendo un equinozio di primavera, lui, tra i fondatori del gruppo “Nuove Tendenze” nel ’13, ala destra del futurismo, ora nel dopoguerra riscopre la solidità della figura; non inganni la sua firma al “Manifesto contro tutti i ritorni in pittura” elaborato da Dudreville, l’acciaccato Russolo e l’aquila Sironi. In realtà, a ben guardare, il Manifesto auspicava un futurismo sintetico, si era esagerato nell’esplosione analitica delle immagini, arrivando sulla soglia dell’astrazione (stessa paura dei cubisti) Adesso era tempo di ricomporre i pezzi del vaso, semplificando la composizione senza guardarsi indietro, quello mai! La ricerca neoclassica era aperta, la manina gentile di Margherita poteva guidare gli artisti verso la nuova sponda. 23 marzo 1919, Piazza S. Sepolcro a Milano, nascono i Fasci Italiani di Combattimento, bene Achille Funi c’era nei 127 ( più 14 probabili ) presenti in Piazza S. Sepolcro come risulta dall’elenco redatto da “La Voce del Mattino” per  il decennale di quella storica adunata, un fascista dunque della prima ora indovinate con chi? Ottone Rosai ( probabile). La tela della Penelope Sarfatti si stava componendo proprio di sera (!), nella sua lussuosa residenza milanese di Corso Venezia, 95 dove ospitava il gotha dell’intellighentia ambrosiana, un rosario l’elenco però Berlusconi non c’era (sic!). Nel clima spumeggiante di quelle serate, nasce l’idea di forgiare un’arte della rivoluzione fascista ascesa al potere nell’ottobre del ’22. Le peculiarità nell’ agenda di Mussolini erano ben altre e tali resteranno, l’arte come espressione dell’individuo, per lui, doveva essere libera: “ E’ lungi da me l’idea d’incoraggiare qualche cosa che possa somigliare all’arte di stato “. ( dal breve discorso di Mussolini all’inaugurazione della prima mostra del gruppo Novecento alla Galleria Pesaro nel marzo del ’23 ), Margherita, al contrario, voleva partorire l’estetica fascista, l’abito nuziale della rivoluzione. Sette pittori proprio nel ’22, pochi giorni prima della marcia su Roma, decidono di saldarsi in sinergia per riportare l’arte italiana sul podio della storia, innestando la tradizione del Rinascimento sui rami della variegata pittura italiana di quegli anni. Ad Anselmo Bucci  si accende la lampadina d’ Archimede, chiameremo il gruppo dei 7: “Novecento”.  La prima vernissage è del 26 marzo del ’23 alla Galleria dell’ebreo Lino Pesaro gran mercante d’arte. Nel ’24 il gruppo ha già perduto una gamba, Oppi, in sei si presentano alla XIII Biennale veneziana, Achille tra le ’altre opere espone Saffo.

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Il ritorno alla tradizione trasferita nel contesto storico vivente è il nucleo della ricerca di Novecento, ma i sette pittori fondatori si sparigliano, in fondo alcuni ricalcano il profilo dell’artista libero, un po’ bohémienne dell’Ottocento, tutto io, divina ispirazione, cavalletto.  Sironi e Funi invece restano saldi nella ricerca d’ una sintesi tra i tesori del passato, radici profonde del fare arte in Italia, e quel presente di ricchi fermenti, cocciuti vogliono ricostruire un’estetica nazionale da primato. Gli ingredienti ci sono tutti: il disegno, i colori del Quattrocento ( Mantegna, Piero della Francesca, Bellini ), la luce ( da Leonardo a Caravaggio ), il ritmo armonioso della composizione, la plasticità materica delle figure, una spruzzata di espressionismo tedesco, le atmosfere metafisiche di De Chirico, il pathos di ambienti e personaggi, non ultima la grandiosità dell’opera. Proprio quest’ultimo fattore porta alla rinascita della pittura murale con tanto di manifesto nel dicembre 1933 a firma Campigli, Carrà, Funi e Sironi. Era l’abbandono delle alcove degli studi, dell’individualismo narcisista, della piccola pittura da cavalletto tanto amata da borghesi e mercanti, era la riscoperta delle pareti pubbliche per narrare la storia del popolo  al popolo, disegnarne la memoria nella sua marcia verso nuove frontiere.

Dopo l’esperienza del gruppo Novecento, cui Funi e Sironi partecipano alacremente fino alla seconda mostra del ’29, negli anni trenta il loro supporto preferito diventa l’intonaco coi grandi cicli d’ affreschi sul modello narrativo del Trecento ( in primis Giotto ).  Pur non disdegnando il cavalletto la coppia Funi & Sironi eccelle nella pittura murale, anzi ne sono, pur nella diversità di stile, le vere punte di diamante assumendosi il  ruolo di “artisti militanti”, ma attenzione di fede politica autentica, profetica, nulla a che vedere coi servi sciocchi del regime ( e ce n’erano già tanti). Dimessosi dal Direttivo di Novecento, Achille nel ’30 si mette in gioco proprio nell’esecuzione  delle decorazioni murali per la IV Triennale milanese che a quel tempo  dava ossigeno alla Villa reale di Monza, abbandonata dai Savoia dopo l’assassinio di Re Umberto I.

Veniamo all’imponente Esposizione della Rivoluzione Fascista del ’32, a Funi vengono commissionate opere di decorazione  nelle Sale della Guerra e della Vittoria  contrassegnate dalle lettere C e D, Architettura sobria ma monumentale delle scene, la Grande Guerra rappresentata non nei suoi tragici eventi ma piuttosto come incubatrice del futuro fascismo esaltando il mito del Mussolini interventista e combattente al fronte.

Nel ’33 è di nuovo alla Triennale ma nel nuovissimo Palazzo dell’Arte a Milano progettato da G. Muzio, tirato su in soli 18 mesi, lui vi dipinge un gran murale a tema “I Giochi atletici italiani”, continuità storica  tra lo spirito agonistico dell’antica Roma e l’Italia fascista assai attenta alla pratica sportiva di massa, riprendendo il motto “mens sana in corpore sano”. Due registri sovrapposti, in basso gli atleti romani impegnati nelle specialità sportive del tempo ( pugilato, lotta greco-romana, lancio del giavellotto), con al centro il discobolo di Mirone icona di continuità con lo spirito olimpico dei greci. Sopra Funi sceglie il calcio e l’atletica leggera, la regina della pratica agonistica, mentre al centro ora giganteggia un enorme genio alato che regge il simbolo del fascio.

Un capolavoro dell’architettura sacra, dicunt, fu la Basilica del Sacro Cuore di Cristo Re a Roma, progettata dall’anfitrione del mattone fascista Marcello Piacentini, volumi netti, piani ortogonali, niente intingoli ornamentali, facciata priva di frontone, un rettangolo con tre bocche in gerarchia, una per ogni navata, pelle di mattoni lavorati a vista, pare un’architettura razionalista. Ma Piacentini era un ruminante, rispolvera elementi della grammatica classica come la rigorosa simmetria. i campanili gemelli, la pianta a croce ibrida, gli archi cornici degli ingressi, la cupola, l’abside, ecc…L’unica nota eretica dell’interno austero sono gli affreschi a tinte forti di Achille, quei quattro evangelisti  sui piloni della cupola e il Cristo Re in trono, imponente pantocratore di reminiscenza bizantina.  Dal ’33 passiamo al ’35-’37 in Libia colonia giolittiana dell’Impero, precisamente a Tripoli dove Funi  affresca l’atrio del Palazzo del Governatorato e la chiesa di S. Francesco alla Dahra  Il gran dipinto del Palazzo commemora la visita di Mussolini a Tripoli avvenuta il 16  marzo del 1937, Duce e cavallo sono la statua equestre di Marc’Aurelio. L’impianto delle figure richiama Paolo Uccello, la scenografia del fondale sembra disegnata dal giovane  Giotto delle Storie di S. Francesco ad Assisi. Sempre il Maestro del Mugello guida l’Achille nel narrare le storie della vita di S. Francesco nell’omonima chiesa.

Il suo Everest in arte è il ciclo eseguito nella Sala dell’Arengo del Palazzo Comunale della sua città: Ferrara. Un lavoro durato 4 anni dal 1934 al 1938, per il quale l’artista estense si avvalse della collaborazione di Felicita Frajova (Frai), pittrice praghese, d’ una bellezza unica, radiosa, già  allieva di De Chirico, fu una fiabesca ritrattista di bambine e di signore della Milano bene nonché assai longeva, si è spenta all’età di 101 anni nel 2010 nella città ambrosiana.

Il soggetto vero è “il mito di Ferrara” narrato attraverso le leggende. All’ingresso nell’Arengo ammiriamo la scena di S. Giorgio che infilza a morte il drago liberando la giovin fanciulla offerta in sacrificio al demone. Eh sì perché c’è un S. Giorgio ferrarese nella leggenda, un  cavaliere venuto da molto lontano ch’ un tempo raggiunse un umile villaggio di capanne, il primitivo abitato  di Ferrara, devastato dalle acque del Po dove viveva minaccioso un drago. Ogni qual volta la bestia  usciva dal fiume era un disastro, acqua e fango trascinati invadevano tutto causando ruina e morti. Per tenere buono, buono il drago nel suo letto i meschini gli offrivano in pasto una vergine fanciulla  acquietandone le brame. Finché arrivò quel cavaliere errabondo a trapassare quel diabolico nemico, la giovinetta di turno fu salvata, il villaggio finalmente era libero conoscendo la pace. Il drago era metafora del Po, la fanciulla di Ferrara,  il cavaliere, senza macchia né paura, la famiglia d’Este che aveva ammansito il fiume con grandi opere d’ingegneria idraulica.  Sulla parete opposta Funi rivisita il mito di Fetonte, bellissimo quanto ribelle adolescente, figlio di Elio nocchiero del carro del sole. Il ragazzo, seppure inesperto, vuole guidare “la macchina” di papà. Un giorno, il birbante, di nascosto ci riesce ma la sua imperizia è tale da rischiare un cataclisma universale al punto che Giove, last minute, lanciandogli contro un fulmine  lo sbalza giù dal carro facendolo precipitare alla foce del Po, nell’agro di Ferrara. Altro episodio affrescato sulla parete è l’amor tragico tra Ugo d’Este e Laura ( detta Parisina) Malatesta andata in sposa, di secondo letto, a soli tredici anni al ben più anziano Niccolò III d’Este noto sciupa femmine.

Parisina, tra un adulterio e l’altro del consorte, s’innamora proprio d’un figlio naturale del marito avuto dall’amante preferita Stella de’ Tolomei. I due giovani ardono di rossa passione l’un per l’altra ma il tutto in gran segreto, però a corte si mormora, pettegolezzi alzano il venticello della maldicenza che giunge alle orecchie del becco  Niccolò.

Scoperti, i due amanti vengono imprigionati nella torre del Palazzo, quivi giustiziati col taglio della testa, i loro corpi poi  inumati, nottetempo, in fretta, nel cimitero di  S, Francesco era il 21 maggio del 1425.

La parete di destra, per chi entra, ospita scene tratte dai poemi cavallereschi La Gerusalemme liberata di T. Tasso e  l’Orlando Furioso di L. Ariosto. Perché? Torquato Tasso fu ospite della corte estense a Ferrara presso il duca Alfonso ( 1572) e lì compone sonetti, madrigali, la favola Aminta, ma soprattutto terminò La Gerusalemme liberata, operando anche una ripulitura del testo originale perché in odore d’eresia. L’Orlando Furioso, che vide la sua prima stampa in una tipografia di Ferrara nel 1516, fu scritto dall’Ariosto nel capoluogo estense dove il poeta risiedeva in un’umile casetta in via gioco del Pallone, acquistata nel 1529, senza contare che anche le sue spoglie sono raccolte qui nel monumento funebre a lui dedicato, traslato al  palazzo Paradisi della città. Agli angoli del salone Funi dipinge quattro figure mitiche, Ercole, Marte, Mercurio e Apollo, il primo con chiaro riferimento ad Ercole I d’Este, il secondo e terzo già cantati in affresco nel salone dei mesi di palazzo Schifanoia, Apollo un omaggio al dio delle arti.

Sul soffitto ritorna appunto il tema di quel salone con la riproposizione dei segni zodiacali in relazione ai mesi dell’anno, un trattato figurato di Astrologia.

Stile? Una soluzione tra Pompei, il visionario Paolo Uccello e quel Giulio Romano di Palazzo Te a Mantova, useremmo la parola neomanierismo, libertà compositiva, nessuna ossessione prospettica, movimento  delle figure, licenze nelle proporzioni, colori accesi assorbiti negli impasti ed altro ancora. Direi nell’insieme l’opposto del percorso di Sironi segnato da monumentalità, espressionismo e metafisica.

Questo ciclo sommato a molte altre prove di decoratore ( vedi anche il Palazzo di Giustizia meneghino) gli spianano la strada per una cattedra di Affresco tutta sua all’Accademia di Brera di Milano della quale diverrà Direttore nel 1957.

All’entrata in guerra dell’Italia Achille ha cinquant’anni, non segue lo spericolato Marinetti partito volontario al seguito dell’ARMIR nella campagna di Russia all’età di 66 anni, lui si ritirò a Rovetta,  Comune piccinino della bergamasca con l’amico Arturo Tosi conosciuto ai tempi delle esposizioni del gruppo Novecento. Arturo è un pittore lirico, ama le nature morte, soprattutto i brumosi paesaggi dipinti en plein air, diciamo questo perché anche Funi abbraccerà questo genere nei suoi ultimi anni d’ attività. Pendant la guerre aveva partecipato, nel ’44, ad una collettiva presso la Galleria il Secolo a via Veneto a Roma, erano stati invitati i più insigni artisti del novecento , in tutto 25 tutti ben  selezionati. Non aveva rinnegato il Fascismo dopo l’8 settembre, era rimasto fedele alle scelte d’ una vita, aderì idealmente alla RSI  ma non imbracciò il moschetto nella guerra civile, se ne stette appunto in quel di Rovetta con l’amata sorella Margherita. Dovette lasciare la cattedra all’Accademia di Brera per il precipitare degli eventi bellici, usci indenne dalle indagini “partigiane” sull’organico dei docenti, forse, un po’ maliziosamente, anche perché aveva lasciato la sua casa milanese ad un caro amico, però partigiano, che ne fece un covo della Resistenza. Nel dopoguerra si divise tra l’insegnamento accademico e la sua passione per l’affresco, una specializzazione che gli permise di non conoscere il vade retro satana dell’antifascismo, poi lui era stato sì una camicia nera della prima ora ma soprattutto un maestro della pittura, perciò chapeau! tanto più che la sua arte figurativa, per il popolo, era quasi in linea con l’estetica realista di Roderigo (Palmiro Togliatti) contro gli scarabocchi incomprensibili degli astrattisti. Molti muri sentono stendersi i suoi pennelli, dal Teatro Manzoni a Milano alle Banche (sic!) a Casa Reiser ( imprenditori dell’industria tessile a Gallarate ) agli edifici sacri come la Cappella S. Borromeo in S. Angelo a Milano, il Santuario di Legnano e quello dei Padri Paolotti a Rimini per lo più opera dei suoi allievi quest’ultima. Riprende temi classici, pompeiani, anche nelle opere da cavalletto poi pian piano, si ricorda dei paesaggi di Arturo dipinge, calme, silenti campagne toscane senza buoi né contadini, e queste immagini chiare, quasi in dissolvenza lo accompagneranno  verso l’ultima porta che si apre il 26 luglio del 1972.

 

Emanuele Casalena

Bibliografia:

-Lucio Scardino, Achille Funi e il "Mito di Ferrara", Ferrara, Belriguardo, 1985

-Francesco Tedeschi, Dizionario biografico degli italiani (Vol. 50 ), Enciclopedia Treccani, 1998

-M. Malinverno, Il motivo del classico nella pittura ad affresco di A. F., tesi di laurea, Università cattolica del Sacro Cuore, Milano a.a. 1992-93.

-Ars Value.com, Biografia di Achille Funi.

-Peggy Guggenheim Collection, Achille Funi

Settemuse.it, Achille Funi pittore (1890.1972)biografia e opere.

-Arte su Arte, Funi Achille ( 1890-1972 ), monografie.

 

 

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Realtà e mito di Flavio Claudio Giuliano Augusto, nella storiografia e nella cultura antica, medievale e moderna – Tommaso Indelli

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La tragica morte dell’imperatoreFlavio Claudio Giuliano (361-363 d. C.), avvenuta il 26 giugno del 363 d. C., durante la campagna contro i Persiani e dopo appena tre anni di governo, troncò sul nascere il suo tentativo di Restauratioreligiosa, ma ebbe l’effetto di consegnarne la figura e l’opera al “mito”. Dal IV secolo ad oggi, infatti, nonostantel’enorme influenza esercitata dalla Chiesa in ogni ambito della vita associata,è fiorita una mole sterminata di biografie e studi di ogni genere sulla figura dell’imperatore, impropriamente denominato, dai cristiani, l’’“Apostata” (1). Già all’indomani della morte, la persona e l’opera di Giuliano suscitarono reazioni diverse - e spesso contrastanti - tra sostenitori e denigratori. Questi ultimi - ovviamente cristiani - contribuirono anche a diffondere la leggenda di un suo presunto suicidio,sostenendo la tesi che l’Augusto aveva consapevolmente rifiutato di indossare l’armatura, perché intendeva morire in battaglia, demoralizzato dall’esito nefasto della campagna contro i Persiani e dall’insuccesso della sua politica religiosa. Questa versione della morte del princeps, oltre a cozzare contro la fermezza e il coraggio di Giuliano, probabilmentenon ha alcuna validità storica e fu diffusa ad arte da Efrem di Nisibi (†373d. C.), padre della Chiesa d’Oriente e autore di alcuni inni religiosi, redatti in siriano, quattro dei quali diretti proprio contro l’Augusto (2). Comunque, i cristiani - o Galilei, come li denominava, sprezzantemente, Giuliano (3) - accolsero la morte dell’Augusto con gioia, considerandola la giusta punizione divina inflitta ad un esecrabile personaggio, come già era avvenuto per altri imperatori persecutori e per altri empi sovrani citati nell’Antico Testamento. Tale, ad esempio, fu il giudizio di Gregorio di Nazianzo (†390d. C.) - futuro patriarca di Costantinopoli e, durante la gioventù, compagno di studi di Giuliano ad Atene - il quale, a pochi anni dalla morte del princeps, decise di innalzargli un’autentica “stele di infamia”, dedicandogli due epitaffi molto critici (4). I “pagani”, invece, con la scomparsa dell’imperatore, ritennero perduta l’ultima possibilità di un ritorno al culto dei padri e al mos maiorum, e piansero non solo la fine dell’uomo, ma anche la sconfitta della loro causa: ad esempio, il retore Libanio di Antiochia (†393d. C.) - maestro di Giuliano a Nicomedia e convinto sostenitore della politica di Restauratio religiosa del princeps- quando venne a conoscenza della sua morte fu addirittura sul punto di suicidarsi! Tuttavia, benché ritenesse tutto perduto, compose ben tre Orazioni in cui elogiò l’Augusto per la forza del carattere, l’intelligenza e la determinazione con cui aveva perseguito i suoi obiettivi politici (5). Ancora nel V secolo, in un impero romano formalmente cristiano, c’erano “pagani” disposti ad esaltare la figura dell’Augusto come lo storiografo Eunapio di Sardi (†420d. C.) (6).

Durante il Medioevo, Giuliano fu oggetto di insindacabile condanna e non pochi lo considerarono una prefigurazione dell’Anticristo apocalittico (7). Ad esempio, si diffuse la leggenda agiografica secondo la quale l’imperatore sarebbe stato ucciso in Persia non da un comune soldato sassanide, ma dall’intervento miracoloso di s. Mercurio di Cappadocia e su ordine della Vergine. L’uccisione di Giuliano ricalcava quella dell’Anticristo - cui Giuliano era assimilato, nella propaganda cristiana - ad opera dell’Arcangelo Michele e il miracolo sarebbe avvenuto grazie alle preghiere di s. Basilio, vescovo di Cesarea (370-379d. C.), amico del già citato Gregorio di Nazianzo oltre che, in gioventù, compagno di studi dell’imperatore. Nella cultura bizantina, la figura di Giuliano fu totalmente cancellata o, al massimo, vituperata, eccetto rari casi, perché l’impero d’Oriente, anche se formalmente erede di quello romano, sul piano istituzionale e culturale era uno stato totalmente cristianizzato e basato su una forte compenetrazione tra potere temporale e spirituale, non a caso ricordata con la dizione, storicamente impropria, di “cesaropapismo” (8). La scarsa considerazione di cui godé Giuliano, nella cultura bizantina, è dimostrata anche dall’incerta memoria della sua sepoltura che, probabilmente, non avvenne mai a Costantinopoli, nel mausoleo costantiniano annesso alla chiesa dei SS. Apostoli, dove riposava anche il cugino, Costanzo II (337-361d. C.), e gli altri imperatori che lo avevano preceduto (9).

Durante l’Umanesimo e il Rinascimento con il recupero, in chiave attualizzante, della “classicità” greco-romana, Giuliano tornò ad essere “di moda”, anche in seguito alla riscoperta dei manoscritti della sua vasta produzione letteraria e filosofica, di cui iniziarono ad essere diffuse le prime edizioni a stampa, la prima delle quali nel 1566 (10). Infatti, durante il Medioevo - a causa della “pessima fama” di cui l’imperatore godeva negli ambienti ecclesiastici - la tradizione manoscritta delle sue opere fu pressoché nulla: d’altronde, la gran parte degli scriptoria era posta sotto l’attenta vigilanza delle istituzioni ecclesiastiche. Nel clima razionalista e anticlericale del XVIII secolo, l’Augusto tornò a godere di enorme considerazione presso gli illuministi come Voltaire (†1778), che lo giudicò uno dei più grandi imperatori, pari solo a Marco Aurelio (†180 d. C.), con cui Giuliano condivideva la passione per gli studi filosofici (11). Anche lo storico illuminista Edward Gibbon (†1794) - autore della monumentale “Storia della decadenza e caduta dell’impero romano” (1776-1788) - ebbe parole di elogio per il princeps che considerò uno dei migliori imperatori romani (12). Tuttavia, proprio durante il ‘700, iniziò quel fenomeno storiografico - destinato a protrarsi a lungo - per cui ogni epoca cominciò a forgiarsi il “suo” Giuliano, a causa del ricorso a criteri interpretativi e valutativi attualizzanti che ne decontestualizzarono la figura. Ad esempio, l’anticlericalismo illuminista vide in Giuliano un anticipatore della lotta all’oscurantismo religioso cristiano, un esempio di tolleranza religiosa, una prefigurazione del principe filosofo settecentesco ostacolando, così, la reale comprensione del tentativo di Restauratio spirituale dell’imperatore che era uomo sommamente pius (13).

Durante il Romanticismo, il princeps fu in parte dimenticato, e alcuni scrittori del tempo - ad esempio, François-Auguste-RenédeChateaubriand (†1848) - ne condannarono il fanatismo anticristiano, equiparato all’anticlericalismo e al materialismo settecentesco, rispetto al quale le correnti filosofiche dell’epoca si ponevano in antitesi (14). Nella seconda metà dell’800 - in pieno positivismo storiografico e nazionalismo - la figura di Giuliano fu rivalutata in chiave patriottica, come esempio di geniale uomo d’armi, difensore di Roma e della sua cultura, garantiti da un ordine politico opposto al mondo “barbaro”, combattendo il quale l’Augusto aveva trovato la morte. Solo nel XX secolo, grazie alla biografia del filologo e studioso delle religioni di origine belga, Joseph Marie Auguste Bidez (†1945), la figura di Giuliano cominciò ad essere inquadrata, scientificamente, nelle dinamiche culturali e politiche del contesto storico che lo aveva espresso: la Tarda Antichità (15). Tuttavia, anche La vie de l’Empereur Julien di Bidez, col tempo, iniziò a subire delle critiche, e l’autore fu accusato di aver giudicato troppo positivamente l’Augusto e di essersi servito, per lo più, di fonti letterarie e documentali a lui favorevoli, come l’opera dello storiografo “pagano” Ammiano Marcellino (†397 d. C.).

Dopo la seconda guerra mondiale, l’opera di Bidez fu sottoposta a revisione e iniziarono ad essere pubblicate nuove biografie. Un’inversione di tendenza, rispetto all’opera di Bidez, si ebbe con la pubblicazione, nel 1956, de L’imperatore Giuliano l’Apostata, biografia scritta da Giuseppe Ricciotti (†1964), sacerdote, storico e biblista, ma l’opera di Ricciotti risentiva, inevitabilmente, dell’estrazione sociale e culturale dell’autore e il giudizio sull’imperatore fu, pertanto, totalmente negativo (16). Grande novità, invece, furono le biografie pubblicate a cavallo degli anni ’70 e ’80 dallo storico statunitense, Glen Warren Bowersock, e dalla studiosa greca, Polymnia Athanassiadi-Fowden. In Julian the Apostate - pubblicato nel 1978 -Bowersock ricostruì la figura di Giuliano, analizzando meticolosamente le fonti ostili all’imperatore, soprattutto cristiane, e, per la prima volta, approfondì lo studio del rapporto tra l’Augusto e gli apparati della Res publicacome l’esercito, il senato e la burocrazia. In base alle sue ricerche, lo storico americano imputò il fallimento della Restauratiogiulianea e, più in generale, di tutta la politica legislativa, economica, fiscale e militare dell’imperatore, ad un vero e proprio “sabotaggio” ordito dal senato e dai ceti dirigenti dell’impero ormai ampiamente cristianizzati (17) Invece, il libro della Athanassiadi-Fowden - Julian and Hellenism. An Intellectual Biography - pubblicato nel 1981, si collocava sul piano della storia delle idee e della cultura, concentrandosi soprattutto sulla ricostruzione degli aspetti intellettuali della personalità di Giuliano, attraverso l’analisi della sua sterminata produzione letteraria, senza considerare, però, gli elementi propagandistici ed apologetici delle sue pagine autobiografiche che - secondo la storica - risentivano di un tentativo di autorappresentazione, inevitabilmente unilaterale e poco obiettivo (18). Nel corso del XX secolo, il risveglio di un interesse filologicamente più corretto e severo per Giuliano non ha impedito che anche storici non professionisti ne riscoprissero la figura e ne restassero affascinati, come lo scrittore statunitense Gore Vidal (†2012) che, nel 1964, pubblicò uno dei suoi romanzi storici più famosi - Julian - dedicato proprio alla figura e all’opera dell’imperatore (19). Nell’opera, Vidal ripercorreva tutta la vita di Giuliano, dal massacro della sua famiglia - dopo la morte di Costantino I (306-337 d. C.), nel 337 d. C. - fino alla campagna contro i Persiani, ricostruendone la tormentata e complessa personalità, il tutto in una cornice narrativa d’invenzione, incentrata sullo scambio epistolare tra il retore Libanio di Antiochia e il filosofo Prisco (†398 d. C.), entrambi amici e maestri di Giuliano. Infine, non si può non constatare come l’immagine dell’imperatore abbia risentito anche dei mutamenti della nostra epoca, dominata dalla rivoluzione tecnologica, mediatica e computeristica, che ha influenzato anche la didattica e la ricerca storiografica. Grande, infatti, è la diffusione di materiale di ogni tipo - più o meno scientifico – su Giuliano, reperibile su Internet, basti pensare all’enciclopedia telematica Wikipedia che ospita alcuni profili biografici dell’Augusto, in ben 52 lingue diverse. Anche su Internet, però, l’imperatore non cessa di suscitare polemiche, con una presenza di contributi fortemente critici, reperibili soprattutto sui siti di ispirazione “cattolica” (20).

Note:

1 - Ossia il “Rinnegato”, per aver violato - con la sua adesione al “paganesimo” - il sigillo sacramentale del battesimo cristiano, ricevuto in gioventù.
2 - Efrem Siro, Jul., II, 16. Per il testo dell’inno, R. Contini, Ancora su Giuliano imperatore nella letteratura siriaca, in A. Marcone (a cura di), L’imperatore Giuliano. Realtà storica e rappresentazione, Milano 2015.
3 - Così, Giuliano chiamava, sprezzantemente, i cristiani, perché la famiglia di Gesù - nato a Betlemme, in Giudea - era originaria di Nazareth, in Galilea.
4 - Gregorio di Nazianzo, Contro Giuliano l’Apostata, a cura di L. Lugaresi, Firenze 1997.
5 - U. Criscuolo, Libanio. Sulla vendetta di Giuliano. Testo, introduzione, traduzione, commentario e appendice, Napoli 1994.
6 - A. Baldini, Ricerche sulla storia di Eunapio di Sardi. Problemi di storiografia tardopagana, Bologna 1984.
7 - S. Conti, La fortuna di un imperatore pagano negli autori cristiani dell’Italia medievale, in M. P. Peri (ed.), Percorsi della memoria, 2, Firenze 2004.
8 - S. Trovato, Antieroe dai molti volti: Giuliano l'Apostata nel Medioevo bizantino, Udine2014, pp. 250 ss.
9 - Giuliano, come’è noto, fu sepolto a Tarso, in Cilicia. Sulla questione, J. Arce, La tumba del EmperadorJuliano, in «Lucentum», 3, (1984), pp. 181 ss., M. Johnson, Observations on the Burial of the Emperor Julian in Constantinople, in «Byzantion», 77, (2008), pp. 254 ss.
10 - E’ del 1566 la prima stampa del manoscritto del “Misopogon” - “L’Odiatore della Barba” - ad opera dello studioso e ugonotto francese Pierre Martini, noto anche come Martinius. Com’è noto, Giuliano fu prolifico scrittore. Tra le sue opere, si ricordino Il “Misopogon”, “Contro i Galilei”, “I Cesari”, le Epistole e le Orazioni.
11 - Voltaire, Dizionario filosofico. Tutte le voci del "Dizionario filosofico" e delle "Domande sull'Enciclopedia", testo francese a fronte, a cura di D. Felice - R. Campi, Milano, Milano 2013.
12 - E. Gibbon, Storia della decadenza e caduta dell'Impero romano, introduzione di A. Momigliano, traduzione di G. Frizzi, Torino, 1967.
13 - O. Andrei, Giuliano. Da apostata a l’Apostata (sul buon uso dell’apostasia), in A. Marcone (a cura di), L’imperatore Giuliano. Realtà storica e rappresentazione, Milano 2015.
14 - F. R. de Chateaubriand, La chute de l'empire romain, la naissance et lesprogrèsduchristianisme et l'invasiondesbarbares, De Julien à ThéodoseIer, II, 2, Bruxelles 1832.
15 - J. Bidez, Vie de l'Empéreur Julien, Paris 1930, Per l’edizione critica dell’opera di Giuliano, Julian Empereur, Epistulae, leges, poematia, fragmenta, ed. J. Bidez et F. Cumont, Paris 1922.
16 - G. Ricciotti, L’imperatore Giuliano l’Apostata, Milano 1956.
17 - G. Bowersock, Julian the Apostate, London 1978.
18 - P. Athanassiadi-Fowden, Giuliano. Ultimo degli imperatori pagani, Genova 1994.
19 - G. Vidal, Giuliano, traduzione di I. Omboni, Milano 1969.
20 - Sul punto, M. C. De Vita, Un imperatore “con le dita macchiate d’inchiostro”. A proposito di Flavio Claudio Giuliano, in «Intersezioni», 35, (2015).

Tommaso Indelli (Salerno, 1977) è Assegnista di Ricerca in Storia Medievale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Salerno. Ha conseguito, a Pavia, il Dottorato di Ricerca in Diritto Romano e Cultura Giuridica Europea (XVIII ciclo). Si occupa, prevalentemente, di Storia del Mezzogiorno medievale, longobardo e normanno (VI-XII sec.). Di formazione storico-giuridica, i suoi campi di ricerca sono le problematiche inerenti le strutture e le forme di organizzazione del potere pubblico e statale. Per le Edizioni di Ar ha già pubblicato, Langobardìa. I Longobardi in Italia (VI-XI sec.) (2013), Odoacre. L’irruzione tribale di un uomo di guerra nel paesaggio dell’Impero (2018). Collabora con alcune riviste di settore - come il mensile “Medioevo” - ed è socio della SISMED (Società Italiana degli Storici Medievisti).

L'articolo Realtà e mito di Flavio Claudio Giuliano Augusto, nella storiografia e nella cultura antica, medievale e moderna – Tommaso Indelli proviene da EreticaMente.

Davide Susanetti e la conoscenza misterica degli Dei

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Nell'ambito della manifestazione MithosLogos, organizzata a La Spezia (S. Terenzo - Lerici) dal celebre ed amico filologo Angelo Tonelli, sui temi legati alla sapienza della Grecia arcaica, proponiamo ai nostri lettori il video integrale dell'intervento del prof. Davide Susanetti sulla via e la conoscenza dei Numi, tramite la conoscenza pre-socratica, la misteriosofia, la tragedia e la filosofia neoplatonica e teurgica, di lunedì 9 Luglio 2018. Ringraziamo l'organizzazione dell'evento e l'interessato per aver acconsentito alla realizzazione di questo video.

La Redazione di EreticaMente.net

 

 

 

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DECIMA FLOTTIGLIA M.A.S.: propaganda per la riscossa (XXIII parte) – Gianluca Padovan

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«Così per terra – come per mare – i nostri nemici di ogni razza e di ogni colore hanno incontrato degli italiani – valorosi combattenti e difensori della loro terra – inquadrati nelle formazioni della Xa; e, com’è vero che il valore di un soldato dà prestigio alla nazione cui appartiene, così – a detta dello stesso nemico – la strenua, ostinata difesa di questi marinai – ha fatto onore alla nostra Patria»

Junio Valerio Borghese, La Xa Flottiglia MAS

 

8 settembre 1944: con la prora al vento.

Pasca Piredda c’informa sul carattere anche politico, ma non partitico, della propaganda. Difatti, se nella Decima ciò che conta sono valore, onore e fedeltà alla Patria, ci si rende conto che gli attriti con il direttivo della R.S.I. e più avanti anche con il Comando germanico, sono sempre, come dire, “in agguato”. Difatti, come visto nelle precedenti parti, vi sono “vecchi fascisti” che non vedono di buon occhio l’esercito volontario di Borghese; questo perché la Decima non solo è apartitica, ma è pure svincolata da legami con la Massoneria, entità sempre presente anche nella Repubblica Sociale Italiana. Per quanto riguarda i rapporti con i Tedeschi, la cosa è presto detta: più la guerra prosegue, meno costoro si fidano. Difatti il sospetto di un nuovo “8 settembre” è costante.

Tornando alla “politica” della Decima così scrive Pasca Piredda in modo decisamente esemplificativo: «La necessità di dare in quei mesi difficili una voce più autorevole alla X Flottiglia M.A.S. e a quanto essa rappresentava, spinse il Comandante Borghese alla modificazione e al rafforzamento della testata La Cambusa che nel gennaio 1945 venne ribattezzata L’Orizzonte, affidato al T.V. Ducci e poi al Dr. Bruno Spampanato. Rispetto alla pubblicazione precedente, l’impostazione fu più “politica”, come richiedevano i tempi. Si voleva con questa iniziativa animare un ampio dibattito sul presente e sul futuro del Paese, lontani per valori etici e spirituali dalle divisioni determinate dalla guerra civile e svincolati da ogni forma di censura da parte degli organi ministeriali e di partito» (Pasca Piredda, L’Ufficio Stampa e Propaganda della X Flottiglia MAS, op. cit., p. 21).

Rinascita.

È il numero unico della Xa Flottiglia M.A.S., edito a cura del Reparto Stampa, uscito il giorno 8 settembre 1944. Si tratta di una pubblicazione che ribadisce il fatto che un anno dopo la resa incondizionata si è combattuto e si continua a combattere: «Un anno fa, allorquando parve che nell’Italia tutto dovesse venire travolto dal tradimento, le porte aperte all’invasione nemica, la compagine della nazione frantumata, la decima flottiglia mas, fedele alla sua tradizione non ammainò la Bandiera. Il Tricolore, privo dello stemma Sabaudo si alzò ancora sul pennone della caserma del Muggiano, in quel giorno e nei giorni successivi, insegna di riscossa, di combattimento, di onore, di amor patrio. Nel generale sfacelo quello fu l’unico tricolore che il mattino del nove settembre sventolava ancora su tutto il territorio italiano» (Reparto Stampa della Xa Flottiglia M.A.S. -a cura di-, Rinascita, Numero Unico, 8 Settembre, Milano 1944, Riedizione dell’Associazione Culturale Novecento, s.d., p. 54).

Composta da 56 pagine (24 x 30,5 cm), la rivista contiene testi, foto in bianco e nero, disegni a colori e riproduzione di alcuni tra i più noti manifesti. Parla delle motivazioni che hanno condotto alla prosecuzione della guerra, delle imprese compiute dalla Xa Flottiglia M.A.S. per la riscossa, ricordando i personaggi caduti: Umberto Bardelli, Leone Bogani, Cesare Biffignandi, gli eroi del Barbarigo e molti altri… che non sono tornati. Vi è anche una pagina dedicata alle Volontarie della Xa M.A.S. Enzo Giudici scrive: «In fondo a tutte le aspirazioni e a tutti i motivi, l’ideale della Xa Mas è un ideale di giovinezza» (Enzo Giudici, Noi, in Reparto Stampa della Xa Flottiglia M.A.S. -a cura di-, Rinascita, Numero Unico, 8 Settembre, Milano 1944, Riedizione dell’Associazione Culturale Novecento, s.d., p. 37).

Recentemente Rinascita è stata ristampata dall’Associazione Culturale Novecento, senza le coordinate editoriali, ma con una dedica iniziale di Valerio Borghese (nipote del Comandante) e una di Pasca Piredda. Inoltre: «Nel primo anniversario dell’8 settembre l’Ufficio Stampa e Propaganda della X MAS volle comporre un numero unico in più pagine dal titolo rinascita. Un auspicio per quelle migliaia di giovani volontari accorsi ad arruolarsi sotto le insegne “per l’Onore d’Italia”. Fra i primi soldati in grigioverde sul fronte di Anzio, sul Senio, a difesa di Gorizia e delle città sulla costa istriana e dalmata. “Con poche speranze e nessuna certezza di vittoria”. Di questo numero l’A.C. Novecento ha curato la ristampa, la cui unica copia probabilmente ancora esistente è in nostro possesso. Un omaggio verso chi scelse per non essere scelto, rispetto ai tanti che trovarono rifugio in quella “zona grigia”, di cui parla lo storico Renzo de Felice. “Zona grigia” di cui accanto ai Maramaldo del venticinque aprile di turno, il nostro paese si è fatto vanto nei secoli. “Franza o Spagna purché se magna”. Eppure ha saputo proporre, a compenso e lode, generose figure che tutto vollero donare e nulla per sé pretendere» (Ibidem, pag. introduttiva non numerata).

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Questa è la Decima.

Opuscolo informativo edito nel 1944 e composto da 24 pagine (15 x 21 cm), con disegni a colori e fotografie in bianco e nero.

Il testo ripercorre brevemente la storia della Xa Flottiglia M.A.S., accennando tanto alle difficoltà incontrate quanto ai successi conseguiti (1), e concludendo con le seguenti frasi: «Ma accanto a quelle dei mezzi d’assalto si costituirono altre schiere imponenti, in brevissimo tempo. Si formò come per miracolo in pochi giorni, la Divisione “San Marco”, che, ultimato il periodo di addestramento in Germania, già si distingueva sulla linea del fuoco; il “Barbarigo” partì per il fronte, combattè strenuamente partecipando tenacissimo alla difesa di Roma; stanno per seguirlo il “Lupo” e il “Sagittario”, il “Fulmine”, il “Freccia”, il “Tarigo” e il “Celere” che compongono la Divisione “Decima”; s’ingrossarono i battaglioni nuotatori e paracadutisti, a cui vennero affidate imprese di particolare rischio; mas con la nostra bandiera si unirono ai minuscoli scafi degli assalitori nelle intrepide azioni di sorpresa e d’insidia; tre sommergibili autoaffondati l’8 settembre vennero recuperati. La “Decima”, prima a riprendere la lotta e subito efficacemente attiva in terra e in mare, si portò all’avanguardia nella riscossa, divenne il simbolo della rinascita, superando ogni ostacolo, affrontando il nemico di forze stragrandi, travolgendolo a volte con le doti esclusive della nostra razza. “Decima”! Basco, calzoni da montagna, scarpe solide, fucile mitragliatore, mostrine bianche per gli assalitori del mare, rosse per i reparti di terra, azzurre per quelli naviganti. “Decima”! Scuola di ardimento, fucina di nuovi, esemplari soldati. “Decima”! Primissima nella lotta e nella vittoria, è un nome di riscossa, per l’Italia e per l’onore» (Xa Flottiglia M.A.S., Questa è la “Decima”, Marina da Guerra Repubblicana, s.d., p. 24).

L’opuscolo è stato ristampato nel marzo 2005, in bianco e nero eccettuate le quattro pagine di copertina, da Effepi Edizioni e Associazione Culturale e di Storia Vivente italia).

La beffa del MAS 522.

Opuscolo stampato il 12 aprile 1944 dalle Edizioni Erre, terzo di una serie di tredici. Scritto da Fidenzio Pertile, è composto da 15 pagine di solo testo (12,5 x 17,4 cm). Chiaro e semplice, racconta la situazione in cui si è venuto a trovare l’equipaggio del MAS 522, comandato dal Sottotenente Carlo Beghi, ancorato nella baia di Karlovassi (isola di Samos, Dodecaneso). Risulta particolarmente interessante perché testimonia in modo inequivocabile come fin dagli inizi della guerra in seno alla Marina si stesse operando in modo da condurre le operazioni a sfavore dell’Italia. Rimane emblematico l’episodio dei siluri moderni chiusi nei magazzini e consegnati solo agli Inglesi e non già alle unità combattenti italiane.

Ecco il testo integrale di La beffa del M.A.S. 522:

«A Samo l’8 settembre del 1943, non c’era nessun soldato tedesco, e l’isola era presidiata solamente da truppe italiane. Quella sera, dopo l’annuncio dell’armistizio, alle unità dislocate in talune isole di quel settore dal superiore comando non giunse l’ordine di opporsi con le armi a eventuali sbarchi tedeschi, ma solo di mantenere la disciplina dei reparti e restare ai propri posti. Generali e ammiragli dell’Egeo erano dunque contrari a deporre le armi, e invece decisi a conservare l’alleanza del Reich? Nemmeno per sogno. La ragione era ben diversa, era che in quei dati punti si attendeva, da un momento all’altro, che arrivassero gli inglesi. Con delusa tristezza anche l’equipaggio del mas 522, ancorato nella baia di Karlovassi, obbedì. Che mai avrebbe potuto fare? E come orientarsi e capire in quel vuoto di notizie? Era ancora buia, o almeno grigia, laggiù, in quel luogo remoto e isolato, la situazione militare e politica dell’Italia. Ma in ogni caso il comandante del motoscafo sapeva di avere in pugno // la volontà e la fedeltà dei suoi uomini. Il giovane ufficiale ebbe la sensazione che un’ora tragica era scoccata. E ne ebbe la riprova il mattino seguente, quando su quella terra conquistata dal sangue dei nostri soldati, giunse un motoveliero carico di armi, con a bordo quattro ufficiali britannici e altri ellenici. Il comandante della piazza (riparerà poi più tardi in Turchia), generale di divisione Soldarelli, diede ordine di ricevere gli ufficiali con ogni onore e di considerarli parlamentari. Il capitano di vascello Mascherpa, comandante dell’isola di Lero (poco dopo promosso contrammiraglio da Badoglio per meriti… speciali), avuta notizia di questo sbarco a Samo, pensò subito di trarne profitto, e, poiché aveva deliberato di consegnare l’isola al primo contendente che si fosse presentato, fece in maniera che arrivassero immediatamente gli inglesi. Fu destinato il mas 522 a trasferire la commissione. Assieme ai quattro ufficiali britannici salirono a bordo due badogliani, con il mitragliatore imbracciato, nel caso che l’equipaggio avesse avuto l’intenzione di fare qualche scherzo. Capitolata in questo modo la nostra maggiore base dodecanesina, uno degli inglesi rimase là per il collegamento, gli altri tre rientrarono a Samo. Intanto qui il giorno 12 erano sbar // cati da una motovedetta commandos canadesi e neozelandesi (quegli uomini erano conciati proprio come Tom Mix, cappelloni e bragoni, due pistolacce infilate alla cintura, due pugnali, una carabina “Mauser”, tutta preda bellica, che pareva dovessero possedere almeno cinque mani per adoperare quell’arsenale). La stessa sera calarono dalle montagne i banditi balcanici, che durante lunghi mesi erano stati segretamente riforniti di armi, munizioni e vettovaglie da alcuni nostri, e parteciparono ad un lauto banchetto offerto dal comando italiano agli ospiti britannici. Mentre a notte alta i calici si toccavano per il brindisi protocollare, in un cafenìo della riva alcuni fanti s’azzuffavano con i nuovi arrivati, e da allora fu proibito a chiunque indossasse il grigioverde di frequentare bar e osterie. Ormai tutto era chiaro, nel cervello e nella coscienza del comandante il mas 522; e anche per l’equipaggio. Quel pugno di uomini, cementato in un blocco di fratellanza dal comune destino affrontato tante volte a viso sereno, mordeva il freno per non poter sottrarsi a quella disonorante alterigia inglese. Furono gli stessi marinai che si presentarono al loro comandante per sollecitarlo a rompere gli indugi, a tornare // in Italia, o in un’isola dove fossero i tedeschi, gli alleati cui era onorevole e doveroso mantener fede. Ma il momento non era ancora giunto. Essi dovevano ancora sopportare e patire, in attesa dell’occasione propizia che certo non sarebbe mancata. I marinai avevano piena fiducia nel loro comandante. Questi era il sottotenente del C.R.E.M. Carlo Beghi, nato a Varese nel 1912. Si tratta d’un giovane alto e segaligno, volto segnato di piani ed occhi penetranti, un gestire nervoso e sereno. Egli ha fatto tutta la guerra sui mas, prima in Jonio, poi in Egeo. Instancabili e pericolose crociere di scorta ai convogli provenienti o diretti in Italia dalla Balcania all’Africa; improvvise e audaci missioni alla ricerca e alla caccia dei sommergibili nemici, in agguato su tutte le rotte. Una volta, mentre partito dalla sua base di Cefalonia col mas 519 rastrellava la strada ad un gruppo di mercantili, la motonave veloce Vettor Pisani, carica di automezzi, fusti di benzina e munizioni, oltre che di alcuni reparti diretti in Libia, venne attaccata da aerosiluranti nemici e colpita saltò in aria. Tra quell’iradiddio di scoppi e incendi, col suo minuscolo guscio, che faceva la spola tra il luogo del sini- // stro e la costa, e si spingeva sottomurata per recuperare dalle onde i feriti, nel rischio continuo di essere travolto nei gorghi del fulmineo inabissarsi del piroscafo o di essere contagiato dalle fiamme, riuscì a trarre in salvo ben centoventi uomini. In quella circostanza, per tanta audace abnegazione, si meritò la croce di guerra al valor militare. Ma torniamo al racconto. Una sera a Samo, mentre alcuni ufficiali badogliani conversavano in un caffè con dei colleghi inglesi, uno di questi si lasciò andare alle confidenze, e rievocò episodi della guerra in Africa. Tra l’altro disse che Londra già due volte aveva fatto passi per un armistizio con l’Italia, tramite i rappresentanti diplomatici della Svizzera e del Portogallo, non direttamente a Mussolini – il quale anzi doveva rimanere all’oscuro – ma allo Stato Maggiore: la prima volta nel 41 quando Rommel conquistò Sollum e la seconda quando le truppe dell’Asse arrivarono a El Alamein. Alla prima richiesta lo Stato Maggiore italiano rispose che il Comando inglese non si preoccupasse oltremodo perché “tutto sarebbe stato un fuoco di paglia”; e alla seconda, in una circostanza ben più grave, che // esso avrebbe fatto in maniera che l’offensiva non sarebbe andata al di là di El Alamein. Questa rivelazione si collegò, diede senso prova e conferma, ad altri episodi e fatti che già avevano colpito la sensibilità e la coscienza del sottotenente Beghi. Alla fine del ’41, mentre si trovava a passare per Napoli, egli fu avvicinato da due ufficiali dell’Esercito i quali, dopo un preambolino di maniera, lo invitarono ad aderire al partito nazionale antifascista, nel quale militavano ormai molti altri suoi colleghi. Piantati in asso i due emissari comunisti, egli andò a denunciare l’accaduto alle autorità militari e politica [politiche], ma entrambe gli risposero che queste cose le sapevano e che lui non doveva preoccuparsi. Nell’estate dell’anno seguente, quando in Jonio scortava sottocosta dalla Grecia i convogli che, caricati a Bari o Brindisi, dovevano rifornire il fronte africano, ebbe dai fatti la riprova che alcuni comandi militari dovevano tradire la Patria e per forza dovevano fare servizio di spionaggio all’avversario. I piroscafi partivano, e pieni, dall’Italia, ma non potevano arrivare a destinazione perché durante il tragitto avvenivano sempre i “siluramenti all’appuntamento”. Benché le navi seguissero rotte di sicurezza, gli aerei inglesi capitavano sempre a colpo sicuro, in formazione già schierata per l’attacco, dalla direzione ormai idonea. Adesso che a Samo c’erano gli inglesi, le prove del tradimento aumentavano. Mentre il comando delle truppe d’occupazione faceva ridurre ben due volte la razione dei viveri ai soldati italiani, una bella mattina tutti i Tom Mix con gli altri inglesi giunti a rinforzare i commandos si vestirono con divise grigioverdi e ai piedi calzavano scarpe nuove fiammanti, prelevate dai nostri magazzini abbondantemente riforniti. Eppure in due anni di permanenza in Egeo, l’equipaggio del mas 522 non era mai riuscito ad avere un capo di vestiario, e ad ogni regolare richiesta veniva risposto che “non ce n’era perché l’Italia non ne mandava”. Adesso che c’erano gli inglesi, negli arsenali venivano scoperte piramidi di siluri recentissimi, mentre i mas avevano dovuto uscire in mare con le armi datate ancora 1912, e pure alle proteste per avere materiale più nuovo si era risposto che “l’Italia non ne mandava”. Ma il tradimento assumeva aspetti anche più tragici. Il comandante della base di Argostoli, capitano di fregata Mastrangelo, dopo aver assicurato al Comando germanico la collaborazione dei quindicimila connazionali dislocati nel territorio, lasciò che i tedeschi // inviassero un loro presidio, ma quando i duecento granatieri furono prossimi alla riva vennero falciati dalle mitragliatrici italiane. (Il Mastrangelo si ebbe più tardi la testa spaccata definitivamente da un nostro marinaio, schifato dal doppio tradimento e rimasto fedele all’onore). A Coo, lo stesso. Solo che traditi dai comandanti furono i soldati italiani. Durante la riconquista dell’isola da parte dei reparti del Reich, le truppe connazionali dovettero retrocedere combattendo. Gli ufficiali badogliani avevano assicurato che bisognava operare questo ripiegamento per ricongiungersi con lo schieramento inglese, steso nell’interno, e quindi poter sferrare una controffensiva. In realtà i nostri si trovarono chiusi fra due fuochi, perché alle spalle, gl’inglesi che non erano riusciti a scappare in Turchia s’erano subito arresi ai paracadutisti e ai reparti da sbarco tedeschi. L’equipaggio dei mas era impaziente di evadere da quella ingloriosa e vile prigionia. A dire il vero, esso aveva obbedito ad un ordine, e ora comprendeva quanto quell’ordine fosse stato iniquo e vergognoso; ma non si considerava arreso senza combattimento, non aveva mai ceduto le armi e ammainata la bandiera. Solo che adesso non poteva fuggire arbitrariamente, // poiché ogni movimento era vigilato e controllato dagli invasori. Un pomeriggio che il mas era in moto per la prova dei termici, attratto dal rumore dello scappamento un ufficiale inglese si precipitò alla banchina per mettere in guardia il comandante affinché non si sognasse di fuggire, e lo avvertì che in ogni caso le artiglierie avrebbero aperto il fuoco e gli aeroplani lo avrebbero raggiunto. La tattica da seguire doveva essere necessariamente diversa. E doveva portare un frutto. Quando l’ora fosse venuta, i marinai sapevano di avere un comandante leale e audace, pronto a osare tutto per la patria; l’ufficiale sapeva di avere agli ordini uomini retti e coraggiosi. Essi si conoscevano reciprocamente da lunghi mesi. Nel maggio del 43, quando reggeva interinalmente la XI squadriglia mas, avendo già in mano tali sintomi e prove militari e politiche da fargli temere da un momento all’altro una crisi della nostra condotta bellica se non addirittura un rovesciamento del fronte, il sottotenente Beghi radunò i propri equipaggi, ormai ferreamente plasmati dal suo rigido sentimento, e ottenne la loro piena ed incondizionata adesione alla via da seguire assieme, in // qualunque evenienza e qualunque cosa fosse capitata: la via dell’onore. La circostanza favorevole si presentò dopo dieci giorni di cattività. Il 18 settembre il mas ebbe l’ordine d’imbarcare un generale di brigata badogliano (vicecomandante delle forze di Samo) un tenete colonnello e un maggiore britannici, e un capitano di vascello greco che (per molto tempo, al comando del sommergibile Papàs Nicòlas, aveva dato notevole fastidio al nostro traffico navale in Egeo: sulla sua cattura era stata posta dal Governo italiano una taglia di mezzo milione, così che presso gli elleni egli era diventato una specie di eroe nazionale), i quali dovevano compiere una ispezione ad alcuni isolotti vicini. L’unità salpò poco prima di mezzogiorno. Il rientro era previsto per l’imbrunire. Quando il vascello fu sulla via del ritorno, d’accordo con i nove uomini dell’equipaggio, il sottotenente Beghi mise in esecuzione il suo piano, che certo sarebbe riuscito perché favorito dal tramonto e poi dalle tenebre, oltre che dall’isolamento. Inaspettatamente e repentinamente un marinaio si parò davanti ai quattro ospiti e, spianando un mitragliatore, intimò di alzare le mani. Mentre compiva questo gesto, egli incespicò sulla coperta instabile a causa della velocità // e del mare agitato, e nel momento di riprendere l’equilibrio gli partì una raffica in aria. I quattro ufficiali obbedirono terrificati e impotenti, e furono disarmati. Presentandosi a togliere la pistola al generale badogliano, il sottotenente si trovò un poco imbarazzato; ma non potè farne a meno, perché fino a pochi momenti prima l’aveva udito aizzare i soldati italiani contro i tedeschi. Alle proteste del generale egli rispose seccamente: “Speravo che voi deste l’ordine che ho dovuto dare io”. Il mas cambiò rotta e puntò sull’isola di Sira, ove erano i tedeschi. Riavutisi dal colpo, i quattro misero in atto tutti gli argomenti e le arti per far recedere il comandante e l’equipaggio dal proposito. Prima a essere sfoderata fu l’autorità del grado, quindi la corruzione col denaro e la promessa di una speciale licenza, infine la preghiera di essere lasciati liberi su qualche scoglio abbandonato. Durante la perquisizione, un marinaio trovò nelle tasche del greco un alto pacco di sterline ed un rotolo di monete d’oro. Egli scrutò con meraviglia e circospezione tutto quel denaro, temendo che ci fosse qualche tranello sotto la preziosa lucentezza. Tale indugio nell’esame fu interpretato dal proprietario come un desiderio, e gli offrì i soldi. Ma // il marinaio, sdegnato e fiero, glie li ricacciò in saccoccia. Allorché il generale badogliano cercò di trarre a coscienza (alla sua coscienza) l’equipaggio informandolo che tradiva il giuramento al re, un altro marinaio saltò su a rimbeccarlo: “No, generale, è stato il re che ha tradito il giuramento fatto al popolo italiano”. Il motoscafo filò rapido alcun tempo. La superficie del mare era diventata ancor più un subbuglio di onde incomposte, continuamente sferzata dal furioso grecale. A prora il battello aveva impennato due enormi baffi bianchi, che si riversavano in coperta, la inondavano, la spazzavano, penetravano sotto il ponte. In breve i quattro prigionieri si trovarono inzuppati di acqua, essi tremavano per il freddo, erano accasciati stanchi rassegnati. I nostri marinai furono mossi a pietà per quella gente. Era il buon cuore del popolo sano e forte verso il vinto. Quattro uomini cedettero i loro impermeabili agli ufficiali, affinché potessero ripararsi dalla inclemenza atmosferica e involgersi in panni asciutti. Finalmente, a notte alta, tranquillo e sicuro, il minuscolo scafo arrivò con la sua preda all’inaspettata destinazione, accolto festosamente dalla guarnigione tedesca e italiana. Il mas 522, il glorioso scafo della beffa, in un’a // zione di guerra successiva a questa gesta coraggiosa è stato attaccato da una formazione di Beaufighters ed affondato. Ma il fulgido tricolore, che non aveva conosciuto l’onta della resa vergognosa, che non aveva ceduto l’asta a insegne di paesi nemici, che invece aveva continuato a sventolare al vento egeo, nobile e puro simbolo di indomiti animi rimasti fedelmente italiani anche quando per la legge della divisa dovettero piegarsi a un ordine mostruoso; la vittoriosa bandiera non è scomparsa in fondo al mare con il battello colpito a morte. L’ha recuperata e salvata il sottotenente Beghi. E sarà issata su un’altra nave, spiegata a nuovi combattimenti. Questa è la volontà del comandante e dei suoi marinai» (Fidenzio Pertile, La beffa del Mas 522, N. 3, Decima Flottiglia M.A.S., Edizioni Erre, Milano 1944).

Sulle imprese della Decima Flottiglia MAS si può consultare il sito dell’Associazione:

associazionedecimaflottigliamas.it

 

Note

1) Ed ecco un esemplificativo scritto d’epoca: «Sempre più convinta del doloroso boicottaggio di cui era oggetto da parte del Ministero, la “Decima” custodì più gelosamente che mai i suoi segreti e decise di operare indipendentemente. Il Ministero non ebbe più alcuna influenza nè alcun modo di intromettersi nei suoi approvvigionamenti, nel reclutamento, nella preparazione del personale e nei piani operativi che solo formalmente gli venivano sottoposti quando le azioni erano già in corso o addirittura s’erano concluse. La “Decima” faceva a sè, forza oramai estranea alla Marina ufficiale, gelosa del suo segreto e non compromessa in una condotta di guerra che rivelava ad ogni battuta secondi fini e delittuose incongruenze. E la “Decima” fece a sè anche l’8 settembre» (Xa Flottiglia M.A.S., Questa è la “Decima”, Marina da Guerra Repubblicana, s.d., p. 10).

N.B.: I bolli a corredo provengono da: Archivio di Stato di Milano; Tribunale Militare per la Marina in Milano (Repubblica Sociale Italiana), Procedimenti archiviati. Autorizzazione alla pubblicazione. Registro: AS-MI. Numero di protocollo: 2976/28.13.11/1. Data protocollazione: 29/05/2018. Segnatura: MiBACT|AS-MI|29/05/2018|0002976-P.

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La lotta per le “terre rare” e le contraddizioni della crescita pulita – Francesco F Marotta

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È finita l’era dell’industria inquinante e del paradigma dei grandi distretti industriali. Siamo alle prese con una vera e propria guerra per il predominio delle “terre rare”. Un gruppo di minerali, composto da una quindicina di elementi conosciuti anche come lantanidi, denominazione che deriva da uno di essi, il Lantanio. Dai nomi insoliti per citarne alcuni, quali l’ittrio, promezio, samario, gadolinio, lutezio, europeo, ecc… Ai più non dicono nulla se non ricordargli un’assonanza con dei nomi propri e le bizzarrie genitoriali che vanno per la maggiore.

Questa famiglia allargata è una vera e propria fonte di approvvigionamento, in grado di alimentare l’odierno capitalismo. La rivoluzione digitale e le linee guida della transizione energetica, incardinate sull’implementazione tecnologica, dettano i tempi del modello della crescita pulita. Ma non è tutto argento quello che luccica, dato il colore argenteo dei minerali in questione: la lotta di potere per le materie prime che servono per la produzione degli smartphone, delle nuove tecnologie hi-tech, per le turbine eoliche, le auto elettriche ed i missili “intelligenti”, è in pieno svolgimento.

La Cina è la maggiore beneficiaria dell’estrazione e produzione delle “terre rare” e, per fare un esempio, la sola Francia gli affida più del 40% delle sue risorse senza tener conto della tipologia di estrazione e, in più, del pessimo sistema di riciclo dei RAEE (rifiuti elettronici) che non supera l’1% annuo. Ma a contendersi il mercato ci sono anche gli Stati Uniti. Finito il periodo florido di maggior produttore degli anni ’80, e scacciato il breve ricordo della chiusura della miniera di Mountain Pass nel 2002, sancendo de-facto il monopolio cinese, adesso vogliono tornare ad avere un ruolo preminente.

Ma affrancarsi dalla dipendenza cinese, come dimostra la scaramuccia dell’8 luglio 2010, che per poco non scatenò un disastro internazionale a causa dell’annuncio di Pechino sul taglio delle esportazioni, non è un’impresa facile. Lo stesso discorso vale per l’Europa che sta investendo in iniziative diplomatiche per ridurre la dipendenza dalla Cina, sulle energie a basse emissioni di carbonio, nelle fonti rinnovabili e nella creazione di start-up per ridurre l’importazione di “terre rare”.

Non sappiamo se gli sforzi europei, tengano presente del rovescio della medaglia. Ovvero, il lato oscuro, all’ombra delle tecnologie verdi e digitali. Non è un mistero che la produzione di un’auto elettrica richiede l’utilizzo di quell’energia convenzionale che si vorrebbe ridurre, immettendo nell’aria tanto CO2 da far impallidire un vecchio diesel. E soprattutto in Italia, dopo aver scoperto i due giacimenti di “terre rare” più grandi d’Europa, in Toscana e Liguria, l’auspicio è di trovare nelle nostre sabbie marine, un giacimento di 16 tonnellate come è successo in Giappone. Giusto per affrancarci, definitivamente, dalla corsa “all’oro hi-tech”.

Motivo per cui l’Italia, erroneamente, continua ad infischiarsene del pesante equilibrio ecologico dei nostri modi di vita, tanto da sottovalutare la logica dei pesci rossi nella boccia di vetro. Quella della produzione di un “benessere” inesistente e della realtà del dover sopravvivere; entrando a piè mani, nell’ingranaggio dell’aumento energetico, cioè materiale, mascherati da green economy e da economia circolare. Delle economie, sempre meno verdi e sempre più economiciste.

Francesco F Marotta

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