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L’insegnamento speciale del Tögal – V parte – Luca Violini

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Riprendo qui la spiegazione sul Thodgal, posso affermare che l’esperienza del Rigpa è legata al prana con cui siamo in quel momento connessi. L’esperienza può essere intensa o meno e questo dipende dal particolare tipo di prana attivato. Ma non si deve confondere l’esperienza con lo Stato naturale. Una volta a Lopon Tenzinnamdak Rinpoche venne rivolata questa riflessione: “quando faccio le pratiche dei Semdzin, diversi tipi di pratiche con la Ha o il Phat, lo stato in cui mi trovo non mi sembra qualcosa di speciale o comunque diverso dal comune”.

La risposta di Lopon Tenzinnamdak fu: “Da diverso tempo ho spiegato che non stiamo cercando qualcosa di speciale. La ricerca che stiamo facendo è quello di osservare il pensiero e che la natura si libera nella natura stessa. Se si comprende questo allora si è trovata la natura. Non stiamo cercando qualche cosa di speciale. Ci sono varie storie con le quali si spiega che coloro che vanno in montagna troveranno rocce e alberi. Chi va al mare troverà conchiglie. Però non stiamo cercando di pensare a qualche cosa di speciale o di cercare di trovare qualcosa di speciale. Stiamo osservando la mente scoprendo che non ha, colore forma, o qualche misura, che non c’è niente di distinto e in questo modo ritorniamo alla vera natura che tuttavia è indescrivibile e non può essere riconosciuta dalla nostra coscienza e dal pensiero, perché è al di là della coscienza e del pensiero”.

Questo insegnamento è la peculiarità dello Dzogchen. Lo Dzogchen ritiene secondari i metodi del prana dei Tantra. Le esperienze che il controllo dei soffi dei Bindu e dei canali possono essere significativi per il praticante non avanzato ma non sono di per sè significativi. All’inizio si ha bisogno dell’esperienza particolare perrchè siamo fatti così, ma il praticante vero avanzato non va che alla ricerca ed alla scoperta della propria vera natura, che può essere sperimentata anche nello stato ordinario: in quel caso non troveremo qualcosa diverso dal comune. Questo è ciò che distingue lo Dzogchen dai Sutra dai Tantra ma anche dalle varie forme dell’Induismo a cui spesso viene accostato. Il fatto che lo Stato di Buddha può essere scoperto e sperimentato persino nello stato relativo: nei Sutra così come nel Vedanta e lo yoga bisogna dedicarsi sia ad una forte vita ascetica con l’osservazione scrupolosa di tutti precetti, sia alla via della concentrazione . La concentrazione nei sistemi Sutra e Vedanta deve essere sviluppata ai massimi livelli. Lo yoga, da cui i metodi della concentrazione dei Sutra sia il Vedanta attingono, parla di tre fasi: Concentrazione, Meditazione e Samadhi. Nello Dzogchen non vi è alcun bisogno di questi tre stadi. Nei Tantra invece l’esperienza della natura della mente dipende dalla funzione di particolari canali e dei venti ad essi collegati dei Bindu che scorrono all’interno di essi. Lo Dzogchen non dice affatto che la scoperta dello stato naturale dipenda dai canali e dalle energie. I maestri come Lopon TenzinNamdak continuamente ripetono che è un grave errore dedicarsi a queste pratiche di concentrazione e dei Prana nella speranza di trovare lo stato naturale. La pratica principale deve essere sempre questa osservazione della mente. E’ sufficiente questa esperienza per aprire dei canali di luce che sono la base del Thodgal, poiché lo Dzogchen Upadesha, a differenza degli altri due veicoli come il Semde e il Longde, parla espressamente dei canali di luce quello che seguirà è una piccola guida del sistema fisiologico occulto dello Dzogchen che condivide in parte quello del Vajayana.

Lo Dzogchen e i Tantra reputano che il corpo umano sia costituito da un corpo grossolano e da corpi energetici sottili. Il corpo energetico è costituito da canali interni , i nuclei seminali Bindu o Tigle e i venti. Questi tre aspetti costituiscono la base della nostra esistenza .I canali interni sono i condotti dove scorrono i nuclei seminali definiti Bindu o tigle, che sono delle condensazioni dell’energia intelligente dello stato naturale ed i venti sono l’energia vitale che muove questi tigle all’interno dei canali. Gli aspetti grossolani dei canali sono ovviamente le vene, le arterie, i nervi, i nuclei seminali, gli ormoni, lo sperma, il sangue, l’ovulo femminile. I venti interessano il metabolismo, il respiro, la digestione ed il respiro. Sia i canali che i venti ed i Bindu hanno un aspetto distorto che è alla base della nostra visione ordinaria che i tibetani definiscono karmika e un aspetto puro che costituiscono la base del Nirvana. I tantra si occupano di tre canali: lo Dzogchen definisce questi tre canali come tre canali distorti e aggiunge una altra serie di canali sconosciuti ai Tantra chiamati canali di luce. Questi canali di luce sono la base del Thodgal. I Tantra parlano di vari tipi di Bindu, ma principalmente di due tipi di Bindu: il Bindu bianco proveniente dal padre e il Bindu rosso della madre. Lo Dzogchen a questi aggiunge altri tipi di tigle luminosi di cui si parla nel Thodgal.I Tantra parlano di Venti Karmici e di venti della conoscenza. Lo Dzogchen come abbiamo visto parla dell’energia dello stato naturale che scorre nei canali di luce.

I canali possiamo paragonarli a dei veri propri canali di irrigazione che solcano l’intero corpo al cui interno scorrono differenti sostanze: il sangue l’acqua, i venti e la luce. In tibetano vengono chiamati tsa e in sanscrito nadi sia perché sono il fondamento del nostro corpo delle nostre facoltà della vita dei nostri organi, sia perché sono la radice della nascita e della nostra ascesa nei reami superiori o della discesa nei reami inferiori. Alcuni Tantra parlano di 108 canali principali e di più di 9 miliardi di canali secondari; per altri Tantra sono settanta duemila e percorrono tutto il corpo. Alcuni sostengono che i canali fondamentali siano Otto e si originino nel cuore ciascuno dei quali presenta tre diramazioni che formano ventiquattro luoghi sacri interni, scindendosi ulteriormente in tre gruppi che formano settantadue canali da ognuno dei quali si dipartano mille piccoli canali.
Nei Tantra si distinguono tre tipi di canali: esterni, interni, segreti. Nei canali esterni scorre il sangue, in quelli interni una mistura di sangue e prana, in quelli segreti solo il prana. I commentari tantrici focalizzano principalmente la loro attenzione verso tre canali:

1. Uma al centro
2. Il Roma a sinistra
3. l Kyangma a destra

Il Canale Centrale Avadhuti in tibetano Uma attraversa verticalmente il centro del Corpo dalla punta dell’organo sessuale fino alla sommità del Capo e i due canali in direzione del canale centrale si connettono con altri canali in alcuni punti particolari chiamati chakra. Si distinguono i seguenti chakra:

•Il chakra della Grande Beatitutidine alla sommità del capo con trentadue
raggi diretti verso il basso: èc onsiderato il chakra del corpo;
•Il Chakra della realtà di fruizione, situato alla gola con sedici raggi diretti
verso l’alto: è questo il chakra della parola;
•Il chakra della realtà assoluta: è al livello del cuore ha otto raggi verso il
basso ed è connesso con la mente;
•Il chakra di emanazione, all’altezza dell’ombelico con sessantaquattro
raggi verso l’alto: è legato alle qualità;
•Il chakra che sostiene la Beatitudine situata al perineo con ventotto o
trentadue raggi;
•Il chakra del gioiello, all’estremità dell’organo sessuale maschile a otto
raggi.

Abbiamo poi a sinistra Lalana in tibetano Roma di colore bianco: è congiunto al canale centrale nella cima dell’organo sessuale risale il corpo parallelo al canale centrale, raggiunge la sommità della testa e si ripiega giù fino alla narice sinistra. La sua funzione grossolana è trattenere e rilasciare il sangue l’urina e lo sperma. Nelle donne si trova a destra. E’ Bianco perché trasporta il Bindu Bianco. Nella donne questo canale si trova a destra Infine Rasana, in tibetano Kyangma, a destra rosso (per le donne a sinistra). Nasce alla cima dell’ano corre parallelo al canale centrale, raggiunge la sommità della testa e si ripiega giù fino alla narice desta. E’ rosso perché trasporta i bindu rosso, Iantra del Guhyasamaja del Chakramsavara di Yamantaka descrivono il canali Kyangma e Roma paralleli al canale centrale .Nei due canali circolano i venti mentre nel canale centrale non circola nessun vento. Nel Kalachakra invece i canali destro e sinistro si incrociano al canale centrale al livello dell’ombelico contengono varie sostanze. Nella parte superiore il canale destro contiene il bindu rosso, il canale sinistro contiene il bindu bianco e il canale centrale vento. Nella parte inferiore il canale destro contiene le feci, il canale sinistro l’urina e il canale centrale il seme. La differenza sostanziale tra il Kalachakra e gli altri sistemi è che nel canale centrale non è vuoto ma circolano venti e contiene il seme. Kongtrul Rinpoche a questo proposito sostiene in un volume del tesoro della conoscenza dedicato ai Tantra che nei tre canali scorrono tre tipi di venti karmici il lunare, il solare e il Rahu. Vedremo i Venti karmaci e venti di saggezza nel prossimo articolo. Kongtrul Rinpoche è un Maestro Rime (nella sua biografia apprendiamo che era la sua prima formazione monastica era Bonpo) e soprattutto era un grande Maestro Dzogchen. La sua posizione riflette la posizione dello Dzogchen. A questo proposito Longchenpa i considera i canali sopra menzionati di essere il supporto alla visione Samsarica ma di essere comunque utili per fare delle esperienze precise dello stato naturale: infatti, benchè lo Dzogchen ritenga che i metodi Tantrici non siano in grado di trasformare i venti karmici in venti di saggezza, nei tre canali circolano delle forme di venti karmici menzionati da Kongtrul Rinpoche che se controllati possono essere il fondamento per il riconoscimento della propria vera natura al di là di ogni dubbio. Le volte scorse avevamo già visto che l’esperienza della natura poteva avvenire anche nel contesto ordinario, solo che in questo contesto sarà molto fugace questa esperienza dello stato naturale sarà molto più chiara e priva di dubbi. Ad ogni modo fintanto che nel nostro corpo predomineranno i venti karmici le esperienze non potranno che essere momentanea ed instabili .Abbiamo già parlato dei tre tipi di rigpa e del SamrigRigpa o l’esperienza del rigpa della mente in movimento, finchè non applicheremo i metodi del Thodgal non saremo mai in grado di far dissolvere i venti Karmici e la visione illusoria non ci apparirà come tale .Il Thodgal porta alla dissoluzione dei venti karmici nei venti di saggezza che scorrono in determinati canali.

Luca Violini

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Una russa a Montparnasse: biografia intellettuale di Maria De Naglowska – 3^ parte – Francesco Innella

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Capitolo III

Il Gruppo di Ur

Dopo l’abbandono della Svizzera, Maria De Naglowska, si trasferì in Italia e si stabilì a Roma, dove rimase dal 1921 al 1926. Nella capitale, frequentò Julius Evola e il gruppo di Ur, lavorando come giornalista. Il gruppo di Ur fu un sodalizio magico, che fu attivo in Italia verso la fine degli anni 20. Fondatore del gruppo fu Julius Evola, che si alternò con il massone Reghini. Sebbene il gruppo si dichiarasse indipendente dai maggiori movimenti esoterici del suo tempo ( massoneria, teosofia, e spiritismo ), le principali componenti che lo fondarono furono antroposofiche, kremmerziane e massoniche. Il gruppo di Ur aveva due finalità. Suscitare una superiore forza metafisica che potesse aiutare i singoli membri a operare magicamente. Utilizzare questa forza superiore per poter esercitare una influenza magica sulle forze politiche del tempo. All’interno del gruppo vi furono dei tentativi di rivitallizzare il paganesimo romano, in modo da poter condizionare il fascismo mussoliniano, e poter imprimere ad esso una visione più pagana che cristiana. Ma questo tentativo fallì. Ci furono diramazioni del gruppo di Ur in altre città italiane, dove furono costituite diverse catene magiche.

Espressione del gruppo fu una rivista, nella quale gli autori degli articoli si firmavano, usando uno pseudonimo. Nella rivista furono pubblicati testi di un notevole interesse alchemico – magico ed esoterico di cui segnalo alcuni. “Il Gran Papiro Magico di Parigi”. Il “De Mysteris” di Giamblico, “ I Versi d’oro” di Pitagora.” Massime di saggezza pagana” di Plotino.” Clavis Philosophiae Chemisticae” di Geral Dorn.” La dignità dell’uomo”di Pico della Mirandola. “ Il Golem e il Volto verde” di Gustav Meyrink.

Nell’elenco degli iscritti al gruppo di Ur, nella sezione dei non confermati, risulta alla lettera g. Maria De Naglowska ed accanto al suo cognome era riportata la seguente frase. “Maria De Naglowska ( da Alessandria D’Egitto).”
La rivista di Ur, pubblicò la sua poesia che aveva per titolo: “ Message de L’etoile Polaire. “. Gruppo dei Polari. Da ciò è evidente che quando la russa restò a Roma dal 1921 al 1926, incontrò Evola, con cui secondo alcuni ebbe una relazione tantrica, anche se la pubblicazione della poesia fa intendere piuttosto, che la loro relazione fosse all’epoca basata più sull’interesse comune per la poesia. Riporto la poesia che fu pubblicata da Evola.

LE MESSAGE DE L’ETOILE POLAIRE
"Il est onze heures a la grand horologe de L’Univers, la Porte est ouverte, et le élus sont conviés. Car l’épé a dèchiré les entrailles de la Femme et dans la “profondeur du Sein”la Parole est prononcèe. Le péché n’est plus et dans la novelle cité brillante l’arbre de vie offre déjà aux baisers du soleil rénové son premier fruit odorant.

Le Prince du Monde, le Grand Condanné de la première heure a expié sa faute et retrouve son épouse lavée da la tete aux pieds.
Bienheureux ceux dont la chandelle s’allume à la nouvelle aurore, bienheureux ceux qui ont ouvert leurs yeux à la lumiere qui éclare trionphante au coeur de la Nuit, à l’heure promise du renouveau. Le Fils se place sur son trone et envoie aux quatre coins du monde ses serviteures fidelès chargès des cuellir la moisson. Une heure encore est laissée à toute creature, un temps bref: mais decisive celui qui a des oreilles pour entender peut encore changer de direction et accourir à la Vie en abandonant la Mort. La Coupe est offerte à tous, mais le vin doit etre buvolontairement, conformément à l’antique sagesse que le silence a conservée intacte jusqu’à ce jour.

Maintenant les lévres sont déliées et il suffit d’écouter pour comprende chaque chose.
C’étiat d’abord le signe,ensuite ce fut le symbole aujourd’hui s’ouvre l’ere de la réalité.
Paix à tous et joie à claque etre juste.
Alexandré d’Egypte, 1927"

(1) "Sono le undici al grande orologio dell’universo, la Porta è aperta e gli eletti sono convitati. Perché la spada ha lacerato i visceri della donna e nella “profondità del seno” la parola è pronunziata. Il peccato non c’è più e nella nuova città brillante l’albero di vita già offre ai baci del nuovo sole il suo primo frutto odoroso. Il Principe del mondo, il grande condannato della prima ora ha espiato la sua colpa e riprova la propria sposa lavata da testa a piedi. Ben felici quelli per cui s’accende la candela dell’alba nuova, ben felici coloro che hanno aperto gli occhi alla luce che esplode trionfante nel cuore della notte, all’ora promessa della stagione nuova. Il figlio s’insedia sul proprio trono e manda e manda ai quattro angoli del mondo i suoi fedeli servitori incaricati di provvedere al raccolto. Ancora un’ora rimasta ad ogni creatura, tempo breve ma decisivo: chi ha orecchie per intendere può ancora cambiare direzione ed accorrere alla vita abbandonando la morte.

La coppa è offerta a tutti, ma il vino deve essere bevuto volontariamente, conformemente all’antica saggezza che il silenzio ha conservato integra finora. Ora le lebbra sono sciolte e basta ascoltare per intendere ogni cosa. Prima era il segno, poi fu il simbolo, oggi s’apre l’evo della realtà. Pace a tutti e gioia ad ogni essere giusto. Alessandria d’Egitto, 1927".

Il testo in cui Evola descrisse la magia sessuale di Naglowska fu “Metafisica del Sesso”. Mircea Eliade si incontrò con Evola nel 1952, dove venne a conoscenza che l’aristocratico romano aveva iniziato la traduzione di Sesso e carattere di Weininger e nel contempo la stesura di “Metafisica del sesso”. Così il filosofo romeno scrisse nel suo diario. «Parlammo per oltre un'ora. Mi disse che ormai avendo tutto il suo tempo a disposizione, ne approfittava per tradurre autori francesi o tedeschi. Mi parlò anche di Metafisica del sesso, un libro che stava progettando». Gli argomenti prevalentemente trattati nel testo riguardavano : la crisi del pudore osservata da un punto di vista non borghese, l'emancipazione della donna, le nuove tendenze di costume, le nuove tesi di Reich sulla sessualità, nonché specifiche considerazioni su fatti di attualità. Dopo una introduzione sul sesso nel mondo moderno , Evola suddivise il testo in alcuni capitoli: il primo (Eros e amore sessuale) aveva un carattere pragmatico e concreto; il secondo (Metafisica del sesso) affrontava il tema del sesso secondo la tradizione classica (il mito dell'androgine, Eros, Afrodite, etc.). il terzo (Fenomeni di trascendenza nell'amore profano) si occupava dell'amplesso da un punto di vista superiore, cercando di scorgere quei fenomeni trascendenti (a volte semplici retaggi) che si registravano nell'atto sessuale; nel quarto (Dei e dee, uomini e donne) l'autore analizzava in maniera analitica le differenze tra i due sessi; nel quinto (Sacralizzazioni e evocazioni) Evola sviluppò una disamina storica sull'argomento: il mondo della tradizione, il Cristianesimo, la cavalleria medievale, i Fedeli d'Amore); nell’ultimo capitolo, il sesto (Il sesso nel dominio delle iniziazioni e della magia) si occupò dell'aspetto più propriamente magico ed esoterico: taoismo, yoga, tantrismo, ermetismo Il termine "metafisica" fu usato dall'autore con un duplice significato: da una parte una metafisica intesa come una ricerca del significato ultimo dell'eros e dell'esperienza sessuale al di là della fisiologia e dell'istinto di riproduzione; dall'altra uno studio volto ad individuare anche nelle forme di amore più comune un'esperienza trascendentale. Evola, in Metafisica del sesso, raccolse testimonianze storiche, tradizionali e scientifico-biologiche per dimostrare che il rapporto sessuale tra due esseri umani di sesso diverso è tanto più potente quanto i due elementi (uomo e donna) sono ontologicamente se stessi, determinati, distinti e differenziati. L'uomo, rifacendosi alla tradizione classica e preclassica, è l'elemento unitario (lo spirito, il cielo) mentre la donna è l'elemento diadico (la materia, la terra): la forma (l'uomo) che plasma la materia (la donna).

Julus Evola a pagina 294 del suo “ Metafisica del sesso”, scrive che gli scritti della Naglowska formano un insieme di divagazioni personali e letterarie imperniati su una visione scandalistica e riecheggiano temi già noti nella coscienza esoterica scaturiti dai contatti avuti dalla donna con ambienti caucasici e cassidici.

Note:

1 - Traduzione del testo francese a cura del dr. Antonio Vacca.

 

Francesco Innella

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Il labirinto allagato – Vittorio Varano

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Arrivato alla sorgente dopo aver risalito a ritroso nuotando controcorrente il corso del fiume, l'uomo-salmone può ritenere che non gli resti più niente da fare, ma il principio primo è soltanto l'obiettivo del cammino, non ne è lo scopo, che è nascosto proprio da esso, perché è ciò con cui rischia di venir scambiato : tra il raggiungimento dell'obiettivo e l'ottenimento dello scopo c'è l'abisso che separa i misteri minori e i misteri maggiori ; l'uomo-salmone si deve sovrapporre alla sorgente non per identificarcisi, ma per assorbirne tutta l'acqua e prosciugare l'alveo dove fluisce, provocando lo spegnimento del tempo e il relativo passaggio dal piano della successione lineare a quello della simultaneità labirintica. La linearità apparente è l'effetto di un errore percettivo, un'illusione prospettica dovuta alla direzione del tempo, ch'è uno spazio ad una dimensione ; ma questo meccanismo che appiattisce le coordinate del sistema di riferimento funziona soltanto finché scorre l'acqua fatta non di gocce ma di istanti, ed automaticamente finisce quando s'asciuga quel che sembrava il letto di un fiume ed era in realtà un labirinto allagato. A dispetto della sua ricorrenza il tempo è lineare per definizione, perché chi si trova immerso in esso è mosso da una forza posta alle sue spalle che lo spinge in avanti verso qualcosa che dovunque sia gli sta di fronte. Il tempo è fato, mancanza di libertà di scelta, di svolte e scartamenti laterali, perché è la dimensione dell'uno-appresso-all'altro, dell'uno-alla-volta, in cui chi ne è prigioniero, come unica opzione per non lasciarsi trascinare e travolgere, ha a disposizione quella di convertirsi, cioè puntare i piedi, opporre resistenza al movimento discendente, compiere un giro di 180 gradi intorno al suo asse e un cambio di meta : non più la foce ma la fonte, non più la fine ma l'inizio, non più il sotto ma il sopra, non più il dopo ma il prima...

La conversione comporta la salvezza che consiste nello scampare alla sorte a cui vanno incontro quelli che non compiono nessuno sforzo e rimangono a galleggiare a corpo morto per la durata complessiva della loro cosiddetta vita, finché la massa liquida che li sostiene sbocca in mare e s'inoltra al largo lontano dalla costa del continente delle terre emerse, e li fa andare alla deriva verso il centro dell'immensa distesa verdeazzurra, dove si spalanca il grande vortice in cui l'essere si avvolge e si ripiega su stesso, risucchia tutto ciò che esiste, lo inghiotte e lo fa sprofondare, e lo risputa giù precipitandolo nel vuoto. Sapere di aver evitato un simile destino è senza dubbio un valido motivo per emettere un sospiro di sollievo, ma c'è un pericolo in agguato anche all'altra estremità di questo fiume teso come in un gioco di tiro alla fune, in cui essere riuscito a sfuggire alle fauci del Leviathan-Maelstrom non garantisce che non si cadrà tra le grinfie ) strette ad afferrare, attente a non allentare la presa, occupate a reggere gelosamente l'altro capo della corda ) del suo nemico Yahweh, l'altra faccia della medaglia, forse persino peggiore. Il getto d'acqua che esce dalla sorgente è come un fascio di fotoni ; il motore immobile è come un generatore di energia elettrica che alimenta un proiettore di onde di particelle che spazzano il campo antistante illuminandone una singola porzione subito sostituita da quella consecutiva, in una continua alternanza di accensione/apparizione ed estinzione/eclissamento di piccoli pezzi di estensione cronologica posizionati in fila indiana che si avvicendano come in un reiterato-routinario cambio della guardia.

Chi s'immedesima nell'assoluto impersonale senza qualità indeterminato privo di attributi bla bla bla eccetera eccetera, assume l'ottica autoreferenziale ed accetta l'infondata convinzione del demiurgo che si considera il creatore del cosmo, e resta bloccato in un delirio di onniscienza/onnipotenza/onnipresenza da cui in nessun modo potrà mai venir dissuaso, perché il significato di qualunque percezione sensoriale proveniente dalla realtà esteriore può essere arbitrariamente distorto fino al punto di attribuire ad ogni smentita un valore di conferma alla propria credenza, e dissolto ermeneuticamente il mondo assegnandogli lo status ontologico di un'allucinazione soggettiva, una figura fantasma fabbricata da un'inconscia immaginazione, e rovesciata sullo schermo universale come i colori che il pennello di un pittore trasferisce dalla tavolozza alla bianca tela del quadro. Invece l'uno è soltanto un numero intero, il primo, ma niente di più che un membro di una categoria specifica, anteriormente a cui ( compreso tra l'inizio della serie e lo zero ) c'è l'infinito attuale ( contrapposto a quello potenziale che è la loro somma interminabile ) : la classe delle frazioni, luogo dell'alterità in cui nessuno è tutto, ed ognuno è parte dell'insieme ( il pantheon, il pleroma ), pluralità preesistente e persistente, famiglia formata da elementi in reciproco rapporto di misura-proporzione-somiglianza, vincolo di parentela che collega mantenendoli distinti i molteplici dei che vengono descritti da Esiodo, li colloca ciascuno in una casella, punto di snodo nella ramificazione dell'albero genealogico, secondo un criterio che non riferendosi a un'età anagrafica, indica indiscutibilmente una differenza nell'ordine di grandezza, non risultante da uno svolgimento storiosofico in stile Fenomenologia dello Spirito, come sarebbe se la Teogonia fosse stata una prima stesura di una sezione dell'Enciclopedia delle Scienze Filosofiche in Compendio, risalente al XXVI secolo avanti Hegel. I principali protagonisti delle religioni monoteiste cominciano la loro carriera ( durante cui daranno la scalata alla montagna in cima alla quale risiede il proprietario della sorgente che da quel momento riconoscono come unico signore ) strappando le radici che affondavano il loro viluppo nell'originaria comunità di appartenenza ( l'uscita di Abramo dalla città di Ur dei Caldei, la fuga di Mosè dall'Egitto alla guida del popolo d'Israele ridotto in schiavitù dal faraone, l'egira di Maometto dalla tribù dei Coreisciti della Mecca ) ma come se avessero esaurito, per sconfiggere l'inerzia che impediva loro di compiere l'innaturale rotazione, tutta la forza di volontà di cui erano dotati, dopo aver fornito alla propria esistenza un nuovo orientamento, a partire da quell'episodio occasionale, si ostinano a tirare dritti innanzi a testa bassa come arieti, in direzione opposta ma con un'ottusità uguale a quella che essi stessi, quando procedevano seguendo la corrente verso valle insieme agli altri pesci-pecora loro fratelli ed amici, precedentemente avevano, ed hanno tuttora quelli che rimasti in mezzo al banco-gregge continuano a farlo ; la loro cecità, cocciutaggine e chiusura mentale, ha cambiato segno ma non sostanza ; questo limite ne è la condanna, la causa della disfatta, l'ostacolo che non consente di cogliere come una palla al balzo l'opportunità di oltrepassare il livello metafisico del divenire, quando giungono al cospetto del suo dominatore.

Ma questa è soltanto una congettura : siccome l'umana natura non è quel messaggio codificato mediante le sessantaquattro combinazioni di quattro basi azotate aggruppate in triplette nella doppia elica dell'acido deossiribonucleico contenente le istruzioni per l'assemblaggio dei venti amminoacidi impiegati come materiale da costruzione nella catena di montaggio dove si effettua la sintesi proteica, l'umana tragedia non ha una conclusione congenita ma contingente, che rimane inconoscibile fino all'ultimo momento ; perciò non può essere esclusa l'eventualità che per i personaggi nominati abbia un esito alternativo a quello ipotizzato, e ci sia chi guardandolo in faccia nel giorno del giudizio capisca di aver dedicato ogni suo sacrificio a servire una divinità inferiore, e per la seconda volta scoprendosi capace di cambiare in modo repentino e radicale, come fece Siddhārtha Gautama Shakyamuni nel cielo di Brahma, lo ringrazi ma rifiuti i beni ( amori, onori, piaceri, poteri, saperi, tesori... ) che gli furono offerti per comprarne il cuore e la mente, lo saluti, e vada ulteriormente avanti. D'altro canto, viceversa, non è affatto detto che chi intraprende un percorso che nelle intenzioni punta molto più in alto, poi, quando al dunque, effettivamente non interrompa il suo itinerario ben prima della tappa intermedia sorvegliata dal grande guardiano della soglia, ragion per cui non esiste nemmeno un individuo che abbia il benché minimo diritto di sentirsi superiore, a nessun titolo, perché colui che è solo a un passo dal traguardo ha ancora il tempo di inciampare, e colui che è rimasto indietro ha ancora il tempo di recuperare tutto il ritardo accumulato e superarlo.

Classificare i sentieri spirituali compilando un catalogo da due colonne in una delle quali si inseriscono quelli magici regali solari e nell'altra quelli mistici sacerdotali lunari è una schematizzazione semplicistica, si basa su un presupposto sbagliato : l'idea che per capire una via dove porta basta sapere da dove parte e che direzione prende nel suo primo tratto ; mentre invece quella che sembra una retta in realtà è una linea spezzata, somma di segmenti diseguali, incommensurabili perché tra di essi non ce n'è nessuno che si possa usare come unità di misura comune, e saltando da AB a BC poi da BC a CD... quello che non percepiamo non è soltanto il passaggio da un tipo di manto stradale ad un altro, ma specialmente lo spostarsi della traiettoria che avviene in conseguenza dell'associata accelerazione angolare che ne altera l'orientamento. Come accadrebbe a chi consultasse una carta geografica in cui la scala di riproduzione non sia omogenea, non è consentito, nella speranza di potersi regolare globalmente, senza tener conto del suo carattere locale, generalizzare la modalità di rappresentazione dell'area circostante, ed estenderne l'applicazione credendo che mantenga la sua validità al di là dei confini attuali della zona in cui siamo situati, e si trova tutto ciò con cui si ha un contatto concreto, all'infuori di cui non c'è che sogno ed illusione, ciascuno se la canta e se la suona, autisticamente, come gli pare e piace, intrappolatosi da sé in un'illimitatezza dalla quale non può uscire perché, con quel carcere, coincide.

Vittorio Varano

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Contro la Costituzione: attacco ai filistei della Carta ‘48 – recensione a cura di Eduardo Zarelli

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Recensire un libro che esplicita le sue intenzioni molto chiaramente fin dal titolo –Controla costituzione. Attacco ai filistei della Carta ‘48– tipone di fronte a uno degli interdetti fondativi della Repubblica italiana. In effetti l’autore, Alessio Mannino, ha scritto un intenso pamphlet di polemica culturale, sottraendosi consapevolmente all'erudizione specialistica così come al conformismo intellettuale vigente nel nostro Paese. Il libro, volutamente provocatorio e dissacrante nei confronti del “Sistema Italia”e più in generale del mondo globalizzato,prende quindi spuntodagli articoli della Costituzione,analizzati in maniera esaustiva – ancorché sintetica – per una lettura libera e indipendente del nostro presente. Tutto ciò, alle prime,farebbe pensare a un velleitarismo anarcoide, a un utopismo irrealistao a un tentativo di delegittimazione della Carta costituzionale sulla base di un risentimento ideologico o addirittura nostalgico; invece nulla di tutto questo anima il giovane scrittore, che parte con la sua riflessione sul crepidoma introduttivo di Massimo Fini, il quale ricorda – prima di entrare nel merito dei contenuti, che vedremo poi – come la stessa logica filosofico-politica dell’atto giuridico a fondamento della vita associata italiana abbia nell’articolo 138 la possibilità di essere modificata, in tutto, non per singole parti, compreso lo stesso articolo di modifica, il 138 appunto: «Magari per riscriverla daccapo: le famose riforme istituzionali, mettono insieme tante parziali correzioni fra loro contraddittorie, mentre sarebbe ora di porre mano alla Costituzione dalle sue fondamenta». Ora, non sarebbero certo le parole di un polemista –volutamenteestraneo all’autoreferenzialità della cultura dominante –aconvalidare l’opportunità di una riflessione non scontata in tema, ma il fatto che le contraddizioni del sistema politico-istituzionale e il degrado sociale ed economico siano oggettivamente lì a testimoniare del realismo di un pubblico dibattito sulle ragioni e le forme del patto costitutivo viene da fonti insospettabili. È Angelo Panebianco,in un editoriale pubblicato sul Corriere della Sera lo scorso 20 luglio 2017 e intitolato “La Costituzione e le difficili riforme italiane”, a prendere spunto dalla proposta di una flat tax (o tassa piatta), di una aliquota del 25 per cento uguale per tutti, da applicare alle principali imposte (ma con esenzioni per le fasce di reddito più basse), elaborata dall’economista Nicola Rossi, che eglinon solo difende come liberista dalle controrepliche di chi – comeil keynesiano Enrico De Mita su IlSole 24 Ore (16 luglio) – èun avversario ideologico della flat tax e la ritiene incostituzionale, ma a cui si riferisce per aprireuna considerazione metodologica ben più generale. Il docente di Scienze politiche all'Università di Bologna arriva infatti ad affermare –ci si scuserà la lunga citazione, ma è indispensabile – che«forse è arrivato il momento di chiedersi se non sia il caso di intervenire col bisturi sulla prima parte della Costituzione, sui famosi principi. Dagli anni Ottanta dello scorso secolo (si cominciò allora con la Commissione Bozzi) fino al referendum costituzionale del dicembre scorso, i tanti tentativi — tutti falliti — di riformare la Costituzione hanno sempre puntato a cambiare solo la seconda parte, quella che riguarda l’assetto dei poteri dello Stato. Il ritornello sempre ripetuto era che solo la seconda parte richiedesse profonde modifiche. La prima, invece, era impeccabile, perfetta, non bisognosa di interventi. È stata una convenzione della Repubblica, riverita da tutti, quella secondo cui ogni cosa era negoziabile, e poteva essere oggetto di dispute, tranne la prima parte della Costituzione, lo scrigno che conteneva i gioielli più preziosi, i principi costituzionali per l’appunto. È stata questa la vera ragione per cui le riforme tentate (e fallite) avevano sempre qualcosa di incompiuto, di mal costruito, di posticcio. Non riconoscendo l’intima coerenza che esiste fra la prima parte e la seconda parte della Costituzione, i riformatori finivano per confezionare un abito da Arlecchino: volevano superare l’assemblearismo e rafforzare il ruolo del governo lasciando invariato un testo (la prima parte) molto più coerente con il suddetto assemblearismo che con le progettate riforme. Cambiare la seconda parte lasciando invariata la prima era come tentare di innestare la testa di un cavallo sul corpo di un cane… Sarà la discussione sulla flat tax che, finalmente, costringerà molti a trattare in modo meno acritico i principi costituzionali su cui si regge la Repubblica».

Panebianco ovviamente si muove con l’intento di svincolare definitivamente l’interesse generale da una sovranità comunitaria, cioè nel senso opposto al principio del “politico” che risponde di sé a un bene comune, ma, come si può constatare per viva parola di un protagonista della cultura politico-istituzionale egemone, la barca fa acqua e non tiene più il mare. Metafora, questa, nelle corde di Alessio Mannino, avendo in mente le parole del cantautore Leonard Cohen – recentemente scomparso – quando cantava «Tutti sanno che la nave sta imbarcando acqua. Tutti sanno che il capitano ha mentito». La consapevolezza, cioè, che siamo di fronte a un declino evidente del nostro Paese, non sottrae dalle proprie responsabilità – inu n'improbabile resipiscenza – ilceto intellettuale che ne è partecipe, anzi conferma cheil ragionare criticamente sull’esistente e sui suoi interdettinon caratterizza qualche “frangia lunatica”, ma ha una necessità storica, sociale e politica. Questo si dimostra un argomento di grande efficacia, per confutare il primato normativo e contrattualistico del pensiero giusnaturalistico illuminista liberale. La costituzione non è una verità autoreferenziale, tautologico-veritativa, ma l'espressione di una volontà politica in un contesto sociale e culturale che la sostanzia. L’universalismo giuridico ha un portato ideologico individualistico, che può e deve essere confutato in nome del pluriversalismo culturale di Popoli e culture, contesti sociali e ragioni di giustizia e partecipazione. L’unilateralismo etnocentrico della globalizzazione è fondato sull'ideologia del progresso, per cui sono leggi universali la storia e i valori occidentali: l’individualismo, il mercato, la democrazia, il capitalismo, i diritti umani e lo sviluppo illimitato della tecnoscienza. Questi “valori” sono in realtà istituzionalizzazioni funzionali della modernità, che l’Occidente vuole imporre a tutta l’umanità, così chele altre culture risultino improprie e imperfette, destinate all’assimilazione. Il liberalismo ha combattuto e vinto le altre ideologie contemporanee insistendo sulla riduzione della politica fino alla sua dissoluzione tecnocratica. Nel realizzare questo scopo, si è premurato di garantirsi un dominio totalizzante, ma anche le ideologie sconfitte non sono state in grado di porsi come efficace alternativa, e l’assenza di conflitto – direbbe Carl Schmitt – elide la categoria amico/nemico, quindi la politica; eppure, in tale contesto post-moderno, lo stesso liberalismo si è adattato alla sua egemonia, traslocando dal piano delle idee e degli argomenti politici a quello della realtà sociale con il catechismo del “politicamente corretto”. Il liberalismo di massa globalista, apolide e cosmopolita è oggi inteso come l’ordine naturale delle cose, come “fine della storia”. Francesco Germinario nel suo ultimo libro "Un mondo senza storia? La falsa utopia della società della poststoria (Asterios)" ben argomenta come nella cultura dominante si sia affermata, negli ultimi decenni, la certezza che la Storia sia da osservare come una dimensione introdotta dall'esterno in un Occidente che si pone ormai nell'autoreferenzialità autistica. La Storia è stata una lunga catena di sofferenze e di stermini. È stata, ma non è più; perché ciò che è percepito come Storia è tragico: una fastidiosa interruzione del godimento del mondo. La vita è pensata come un percorso depoliticizzato e destoricizzato, il trionfo neoliberale del presentismo: non è necessario interrogarsi sul passato, perché il passato non esiste in rapporto alla mancanza di un destino. L’intera società ha sovvertito la verticalità con l’orizzontalità. Nel dominio dei valori, il bene e il male non sono più sinonimi dell’alto e del basso. Nella vita quotidiana, il “presentismo” consacra il crollo della dimensione della profondità, costituente fino a poco tempo addietro la chiara coscienza del modo in cui il passato si congiunge all’avvenire. Più generalmente ancora, tutto quello che è stato stabile, solido, duraturo tende a divenire transitorio, passeggero, effimero. Siamo in presenza dell'affermarsi definitivo del nichilismo, o forse siamo già oltre lo stesso nichilismo, in un vero e proprio mutamento antropologico con tratti totalitari, per cui tornano assai vivide le pagine letterarie delle distopie di Aldous Huxley piuttosto che di William Ford Gibson e di Philip Kindred Dick. Conservatorismo, socialismo, comunismo e fascismo, nelle loro varie declinazioni, sono sconfitti e il liberalismo dominante è oggi la stessa logica edonistica della società dei consumi. Un individualismo di residui pulsionali, che il pensatore russo Aleksander Dugin ne La quarta teoria politica (NovaEuropa) nomina come “dividualismo”, data oramai un'inerzia anomica sub-individuale e post-umana. Anchei critici dell’esistente, quindi, sono in una situazione deprivata di un oggetto ideologico da avversare; è perciò patetico tentare di utilizzare – rifugiandosi nella nostalgia settaria delle minoranze –le narrazioni politiche passate. Necessita invece confutare la realtà oggettiva dello status quo sociologico della Forma Capitale. Quest’ultima non è né di destra né di sinistra o, meglio, è sia di destra che di sinistra. È di destra nell’economia, ma è a sinistra nel costume. Criticarne l’aspetto economico senza mettere in discussione quello sociologico, è un po’ come pensare che la febbre sia la causa della malattia. Chi si vuole misurare con la possibilità di uscire da questo dopo-storia – per dirla con Jean Baudrillard – deve ridare al Politico il suo ruolo costituente, che declini il “mondo della vita” (Edmund Husserl) capace di superare la morta gora del presente. Se il liberalismo è oggi dominante, lo deve essenzialmente all’individualismo e ne è talmente consapevole da discriminare ogni formulazione ideale o gnoseologica che iscriva l’identità personale in un più ampio contesto olistico. Riducendo la libertà all’azione deliberata, invece che responsabile, denuncia come autoritario ogni limite etico, sociale, culturale e politico. Ma l’essere umano è tutto, tranne che un atomo individuale, e la libertà è un principio costitutivo della dignità della persona, ragione per cui la resistenza al dispotismo – per dirla con Ernst Jünger – nasce dalla libertà interiore di chi assegna più valore al modo di essere che alla mera sopravvivenza. Non esiste coercizione legittima a determinare l’esserci (dasein), al sentirsi parte nello spazio e nel tempo di un comune destino. Per identificare una comunità nella libertà, vanno superati i limiti della dittatura presente dell’individuo utilitaristico e della sua giurisdizione formale contrattualistica.

La Costituzione della Repubblica Italiana si esprime all’art.1, il quale dispone che «la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti stabiliti dalla Costituzione», da quiil potere derivato da una delega all’apparato statuale. Sull'effettiva attuazione di questo fondamento giuridico si palesa la contraddittorietà giusnaturalistico-liberale che si rafforza all’art.67, secondo cui «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». La discussione filosofico-politica sui limiti eil superamento dell'attuale dettato costituzionale ha nella figura di Johannes Althusius – recuperata da Alain de Benoist – una risorsa essenziale per la formulazione di un nuovo patto associativo. Nella dottrina di Giovanni Altusio «la sovranità (…) rappresenta soltanto il livello di potere che dispone delle capacità decisionali ed esecutive più larghe». La politica è «l'arte con cui gli uomini si uniscono allo scopo di costituire, coltivare e conservare tra loro una vita sociale» e ha, per presupposto, la natura simbiotica e sociale dell’uomo. Gli uomini, dunque, sono per natura vocati a vivere in comunità, la quale, se ben organizzata, consente a ciascuno di occupare il posto che merita, in coerenza con il Bene comune. La concordia e il consenso, quindi, non la costrizione, caratterizzano il rapporto tra governanti e governati. Questa consociatio è una struttura cooperativa di gruppi organizzati comunitariamente, in cui si sviluppa la vita politica e sociale. Ogni associazione esercita il proprio potere eleggendo consensualmente un "primus inter pares" che la rappresenta e la cui autorità, per quanto superiore a quella dei singoli soci, è inferiore all’autorità dell’associazione, le cui deliberazioni sono prese a maggioranza. Questa massima autorità politica rappresentativa del popolo è comunque subordinata alla volontà dei membri della consociazione, in quanto esso è mandatario di una comunità che partecipa attivamente alla politica. La figura del summus magister è intesa come "maior singulis e minor universis". In quest’ottica, la sovranità appartiene non al principe di assolutistica memoria, ripreso in chiave collettivistica dal giacobinismo, bensì alla comunità: la sovranità è sottoposta alle leggi da questa poste in essere. Il popolo non può rinunciare al potere sovrano né trasmetterlo ad altri, neppure volendolo; può soltanto delegare l’esercizio dei diritti sovrani o distribuirli tra vari soggetti. Come ogni comunità, anche il popolo può conferire pieni poteri ai suoi procuratori, ma questi rimangono solo dei rappresentanti investiti di un diritto altrui e non proprio; infatti, se viola il contratto tramite il quale i consociati gli hanno conferito il mandato alla condizione che egli governi giustamente ed equamente, il summus magisterviene liberato dal vincolo fiduciario e i cittadini possono darsi ex novo un rappresentante o una nuova costituzione. La sussidiarietà di Altusio, afferma Alain de Benoist, «rappresenta dunque una divisione di competenze secondo il criterio della sufficienza o dell’insufficienza: ogni livello di autorità conserva le competenze per le quali è sufficiente. (…) Mentre il punto di vista giacobino fa della sovranità la garante dell’unità nazionale, il principio di sussidiarietà fa della preservazione della pluralità una garanzia della sovranità. Un’Europa ben concepita, ossia un’Europa federale, non sarebbe dunque il solvente delle sovranità ancora esistenti, ma lo strumento della loro rinascita mediante una sovranità europea pensata e realizzata diversamente»(1).

Partendo da questa idea della sovranità, nascerebbe una democrazia partecipativa, intesa nella sua accezione aristotelica, non da esportare, bensì da difendere dalle “azioni preventive” di ogni falsus procurator, il quale agisce in nome e per conto dell’umanità e della democrazia globale, sebbene in assenza di mandato. Alessio Mannino si riconosce in questa cornice, rifugge l’atlantismo, corrobora un nomos continentale e cita opportunamente Danilo Zolo: «L’Europa deve continuare a far parte dell’Occidente oppure puntare a una sua crescente autonomia, su una nuova centralità geopolitica come “grande spazio” (Grossraum), ispirandosi, come ha suggerito Carl Schmitt, alla concezione originaria della dottrina Monroe». Un'Europa indipendente e multilaterale, neutralista, mediterranea, retaggio millenario di cultura e fonte di civiltà.

Sulle basi sopra indicate,quindi, esaminiamo ora alcuni commenti critici di Mannino riguardo al contenuto dei vari articoli della Costituzione, dopo che già Massimo Fini si è soffermato nella prefazione a considerare il primo, «L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro»,improprio e inadeguato. Il mito industrialista del lavoro – caroa tutti i filoni ideologici della modernità – è un'illusione. Affermando che il vero valore non è il Tempo, ma la produzione, esso legittima – come affermava Friedrich Nietzsche – la “schiavitù salariata”. L’utopia dell'eguaglianza in una società di diseguali riduce il Popolo a una massa informe di frustrati e di risentiti. Coerentemente, Mannino constata come l’unico e vero spettro che si aggira oggi nell’estremo Occidente sia il “consumismo reale”. La cosiddetta “civiltà superiore” è, nella sua essenza, l’iper-consumo indotto (con il contraltare dell’ipo-consumismo, generatore di invidia o rassegnazione, non di sete di giustizia), che nella mancanza del senso del limite abolisce i sacrifici, la sobrietà e il merito in forza dell’affermazione del narcisismo, del feticismo delle merci edella degradazione, in una fuggevole pulsione emozionale di ogni sentimento costituito e radicato. Una grottesca società dello spettacolo, in cui la corruzione è pari solo alla futilità di comportamenti standardizzati, moltiplicati alla massima forma di potenza dai mezzi di comunicazione onnipervasivi, nella protervia titanica del dileggio utilitarista di ogni forma di gratuità, di onore e di senso del dovere: è «il bioconsumismo; non più la vita che si fa merce, ma la merce che si fa vita», che Michel Foucault formulò come biopolitica. L’interesse generale si costituisce ovviamente tramite il contributo attivo di ognuno di noi; però,come scrive Aristotele, «bisogna sìsvolgere un'attività e combattere, ma anche contemplare in ozio. Bisogna sì fare le cose necessarie e pratiche, ma molto di più quelle belle», così che il fare – poiesis – si faccia poesia. Una cultura si traduce nell’ethos di un Popolo, quando l’agire trascende la prosaicità del proprio ego.

La tradizione è connessione verticale nel tempo espressa in un luogo reale, di cui si avverte la consapevolezza ecologica di appartenenza e cura. La tradizione è l’unica immortalità terrena. Sulla tradizione si fonda anche ciò che in apparenza sembra negarla, il divenire, dove l’evoluzione presuppone la continuità del tramandare e non risponde al determinismo meccanicista di "caso" e "necessità", ma all'emanazione di "forma" e "funzione". La trasmissione culturale, quindi,intesa non come sincopata serialità materiale, ma come fedeltà creatrice a principi che continuamente si rinnovano. La cosa pubblica va radicata non in un mezzo, ma in un fine che sia fine in sé, e si può sicuramente convenire con Serena Pellegrino, deputata di SEL, che formulerebbe un comma per cui «La Repubblica italiana riconosce la bellezza come elemento costitutivo dell’identità nazionale», o ancora con il più perentorio Vittorio Sgarbi quando asserisce che «l’Italia ha la sua identità nella bellezza». Ma è ovviamente il primato della giustizia a sostanziare una legittima sovranità pubblica, garante della libertà della persona nelle comunità in cui realizzarsi e partecipare alla cura del bene e del bello dell’identità culturale. Alessio Mannino scrive che una comunità nazionale amante della vita si riconoscerebbe in un articolo che sancisse: «L’Italia è una Repubblica fondata sulla giustizia, sulla libertà e sulla bellezza». Lo Stato liberale non è mai neutro, a predominare non sono la libertà e l'autonomia, ma la perdita dei riferimenti, il materialismo pratico e il nichilismo. A ciò si deve contrapporre il miglior Rinascimento. L’humana dignitate di Giovanni Pico della Mirandola, secondo cui un uomo e una donna si affermano nella loro dignità, che – come la libertà – non si recepisce passivamente per formalismo giuridico, ma si afferma nella rettitudine del proprio agire, quella “vita buona” di aristotelica memoria che identifica l’onorabilità di una persona.

Recepito l’articolo 3 sull'uguaglianza e pari dignità sociale di fronte alla legge, Mannino fa cadere l’ipocrisia sul compito della Repubblica a rimuovere gli ostacoli che impediscono la realizzazione del contenuto dell'articolo stesso e quindi della dignità della persona. Esaminando la parte più sociale e politica della Carta costituzionale dedicata ai “rapporti economici” (artt. 33-47), emergono gli insanabili contrasti con tutti i trattati internazionali sottoscritti negli ultimi decenni a favore della globalizzazione dei mercati nei campi della tutela del lavoro, del risparmio, dell’accesso del risparmio popolare nell’azionariato, dell’iniziativa economica pubblica, della disciplina e del controllo del credito, del protezionismo e delle limitazioni agli investimenti speculativi in conto capitale, dell’equità e progressività retributiva. La critica dell’accumulo capitalista passa tramite la «effettiva partecipazione dei lavoratori». Mai realizzata, la socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio passa inequivocabilmente per una terza via tra liberismo e socialismo, realizzando comunitariamente la partecipazione proprietaria e gestionale del lavoratore all’intrapresa. Conseguentemente, l’autore definisce tale istanza in una prospettiva sussidiaria e localistica: tranne le materie costitutive dello Stato centrale – giustizia, politica estera, difesa, moneta sovrana – tutto il resto dovrebbe basarsi sul principio secondo cui un'autorità di livello gerarchico superiore si sostituisce a una di livello inferiore solo quando quest'ultima non sia in grado di compiere gli atti di propria competenza, ivi compresa anche la possibilità di emettere monete locali complementari.

Ricollegandosi ai limiti del lavoro come condizione alienante del modo di produzione capitalistico, è interessante notare il recupero delle teorie del valore di Rudolf Steiner, per il quale non era pensabile ridurre il lavoro dell’uomo a semplice energia misurabile. Nello specifico, egli non solo escludeva il lavoro come fattore produttivo, ma lo considerava solo unito a Terra e capitale; la creatività dell’uomo, identificandosi con loro, crea valore. In quest'ottica, Steiner ha preso le distanze da Adam Smith piuttosto che da Karl Marx, facendo notare come non possa esservi posto per una teoria del plus-valore o plus-lavoro, in quanto non è possibile imputare al lavoro un valore inferiore a quello di quanto esso produce. Per Steiner, il lavoro era produttivo solo se si lasciava modificare dalla cultura e dal carisma dell’attività imprenditoriale (che per Steiner era una forma d’arte) e dalla scienza, che a sua volta conosce imitando la Natura stessa. Con Steiner la distinzione fra lavoro produttivo e improduttivo non aveva alcun senso, quando cultura e arte hanno invece un ruolo determinante nel circuito di creazione del valore. Sono le idee che hanno ispirato il movimento Comunità e l'esperienza imprenditoriale partecipativa di Adriano Olivetti.

Anche il commento all’articolo 10 sulla condizione giuridica dello straniero è di stringente attualità. Mannino ha affrontato il tema in un saggio specifico, Mare monstrum. Immigrazione. Bugie e tabù, (Arianna Editrice), e qui concentra la riflessione sull’essere umano che dovrebbe essere il fine, ma diventa un mezzo. La nostra economia ha smesso di essere amministrazione della casa, come vorrebbe la sua etimologia – dal greco οἶκος (oikos), “casa” inteso anche come “beni della famiglia”, prima comunità naturale e νόμος (nomos), “norma” o “legge” – ed è diventata amministrazione del mondo. Nella casa (comunità), l’essere umano è al centro; nel mondo, l’essere umano viene alienato nella mercificazione dei rapporti di forza utilitaristici. Voler prendere e contenere più di quanto possano fare le proprie mani è la logica del consumo, quindi della predazione, della rottura della sostenibilità. Masse spoliticizzate in merito all'autodeterminazione locale sono proiettate come esercito schiavilenel mercato mondiale di beni, servizi e forza lavoro del profitto. Lo sradicamento apolide è correlato alla "neutralizzazione" della dimensione pubblica. Il cosmopolitismo occidentale eradica le differenze identitarie, che si riversano sulla sfera privata. In tale ottica, l'integrazione degli immigrati è pura assimilazione, come la nazionalità è sinonimo di cittadinanza. La Repubblica "procedurale" non riconosce le comunità, aggrega solo atomi omogenei, perciò rifiuta di "differenziare" (distinguere) culturalmente i cittadini secondo criteri etnici e religiosi: l’individuo sconta l’assimilazione con l’oblio delle radici.

Questo barbaro mercato di sfruttamento si allarga a ogni pratica di vita, nella società post-moderna, con definizioni neutre, scientifiche o addirittura progressiste come la “gravidanza surrogata”, la “donazione di organie di semi”, le “libere adozioni omogenitoriali”, che mimetizzano lo scenario post-umano dello stravolgimento antropologico in atto. Albert Camus, ne L’uomo in rivolta, scriveva che «sia per i cristiani che per i marxisti, bisogna signoreggiare la natura. I Greci erano del parere fosse meglio obbedirle», e Mannino ben pone il concetto di famiglia naturale dell’articolo 29 della Costituzione come riferimento più generale per evidenziare che la deriva dei diritti civili consta ultimativamente nel «desiderio di liberare il desiderio», perfetta veste del consumatore sincopato: ottenere tutto senza limiti.Il perfetto servo della mercificazione e del nichilismo dominanti.

In ultima istanza, per l’autore la democrazia rappresentativa, in quanto tale, è un regime non democratico, ma liberale: una «oligarchia spacciata per governo del Popolo». Nella società dell’infotainment, i voti sono “merce” come tutto il resto del mercato sussunto, quando invece andrebbe posto, come trincea invalicabile della volontà popolare, il principio per cui si governa solo partecipando, nelle varie declinazioni funzionali possibili di una relazione sociale olistica e sussidiaria. Vi è, in tal senso, una citazione fondamentale di Carl Schmitt sullo scarto incolmabile tra il liberalismo e la partecipazione comunitaria: «La nozione essenziale della democrazia è il popolo, e non l’umanità. Se la democrazia deve restare una forma politica, ci sono solo democrazie del popolo e non una democrazia dell’umanità»2. Affermazione perentoria e non negoziabile, a tutela della persona dalla dittatura del “maggior numero”, che non trova argine nel presunto “diritto di tribuna” dell'odierna società dello spettacolo, ma nel dovere per il singolo di professare idee e pensieri in direzione ostinata e contraria.

Eduardo Zarelli

Note
1. De Benoist, Alain,Johannes Althusius 1557-1638, in «Krisis», marzo 1999, 2-34.
2. Schmitt, Carl, Dottrina della Costituzione, Giuffré, Milano 1984.

Alessio Mannino
Contro la Costituzione. Attacco ai filistei della Carta ‘48
Circolo Proudhon, Roma, 2017, 11 euro

 

 

L'articolo Contro la Costituzione: attacco ai filistei della Carta ‘48 – recensione a cura di Eduardo Zarelli proviene da EreticaMente.

La ‘FESTA-RIVOLUZIONE’ di Fiume: La vita, l’arte, la politica – Vitaldo Conte

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«Ci sono certi sguardi di donna che l’uomo amante non scambierebbe con l’intero possesso del corpo di lei»: scrive Gabriele d’Annunzio ne Il piacere, il suo primo romanzo (pubblicato nel 1989), il cui protagonista Andrea Sperelli è l’alter ego dello scrittore. In questo capolavoro, manifesto dell’estetica dannunziana, egli ‘guarda’ l’amore d’eccezione, attraversando le conquiste e le sconfitte: «Tutto il suo essere insorgeva e tendeva con smisurata veemenza verso la stupenda creatura. Egli avrebbe voluta involgerla, attrarla entro di sé, suggerla, beverla, possederla in un qualche modo sovrumano». Gabriele è poeta, ma anche ‘amante guerriero’, in ogni espressione. La Festa-Rivoluzione di Fiume sancisce la grandiosa sintesi di questi aspetti. Conquista, infatti, questa città, sottolinea Giordano Bruno Guerri, «come un condottiero rinascimentale, (…) primo - e ultimo - poeta al comando di uno stato nella storia dell'umanità».

I volontari più arditi e gli irregolari dell’arte, accorsi alla spettacolare ‘Festa della Rivoluzione’ a Fiume, appartengono alla stirpe dei negatori dionisiaci della morale. Vogliono affermare la vita attraverso la bellezza dell’azione e del piacere, la leggerezza della danza e del riso. Questa rivoluzione si svolge a Fiume per oltre 15 mesi (dal 12 settembre 1919 al 24 dicembre 1920). La città alto-adriatica, abitata in maggioranza da italiani, è occupata da d’Annunzio e dai suoi legionari per essere annessa al Regno d’Italia.
L’esperienza, pur vissuta come momento ludico e di festa continua, vuole concepire una diversa realtà esistenziale. Assume il carattere di una ribellione esuberante, che si libera dai cicli del lavoro produttivo e dalle normalizzazioni sociali. Sublima l’iniziativa politica con il gioco che diviene arte, ma soprattutto con il piacere.

I convenuti alla ‘Festa-Rivoluzione’ di Fiume anticipano ciò che, mezzo secolo dopo, avrebbero inseguito i sognatori del ‘68: confrontarsi con il libero amore, l’emancipazione femminile e della diversità, forme economiche non condizionate dal profitto. Questo ‘invito a osare’ ha contagiato successive generazioni di ‘artisti barbari sognanti’: «L’Arte! L’Arte! - Ecco l’Amante fedele, sempre giovine, immortale; ecco la Fonte della gioia pura, vietata alle moltitudini, concessa agli eletti; ecco il prezioso Alimento che fa l’uomo simile a un dio» (d’Annunzio, Il piacere).

Il carisma di d’Annunzio diventa il collante delle diverse anime presenti. Oltre a quella tradizionalista, c’è quella immaginifica, che vede, in questa occasione, la possibilità di una pratica collettiva di ribellismo e trasgressione, attirando personaggi dalle svariate provenienze di pensiero. L’espressione ‘scalmanata’, insofferente a ogni regola, è costituita da artisti, avventurieri, apolidi: rappresenta, secondo De Felice, l’espressione più originale del fenomeno. Obiettivo di d’Annunzio e di questa area di legionari è quello di creare una sorta di ‘contro-società’, sperimentando idee e valori nuovi. Tra i pellegrini attratti da questo clima ci sono, dall’inizio, i futuristi, che realizzano una specie di osmosi con il dannunzianesimo: «È forse la prima volta nel mondo che l’ala di un lirismo aeroplastico (...) riesce a stabilire l’armonia di un ritmo nuovo di vita. (...) La vecchia antitesi fra vita e sogno, fra realtà e poesia, fra buon senso e immaginazione, è stata finalmente sorpassata» (M. Carli). Un poeta che guida la rivoluzione incarna il sogno futurista della rivoluzione lirica. Gli artisti al potere sono l’espressione naturale della fusione di arte e vita, segnalando l’avvento di una civiltà destinata alla supremazia della poesia e dell’intelligenza, dell’individualismo creativo su ogni livellamento.

La ‘libera Fiume’, che d’Annunzio plasma come sua città ideale, si autofinanzia anche ricorrendo a metodi utilizzati dai corsari. Sono ribattezzati «uscocchi» (nome degli antichi pirati illirici) i legionari che riprendono gli arrembaggi pirateschi per rifornire di viveri l’esercito. I loro incredibili colpi di mano (terrestri e marittimi) sono oggetto di ammirazione per molti libertari. Gli «uscocchi», corsari che rubano per dare da mangiare a chi è affamato, diventano testimonianza dell’economia del dono. Questa non nasce dal bisogno di trovare un utile personale, ma di essere utile per l’altro, da cui si può ottenere in cambio stima e ammirazione. Ma per poter donare bisogna aver conosciuto le passioni: «Non avete predato se non per donare. Io non ho mai predato se non per donare» (d’Annunzio).

La rivoluzione di Fiume, oltre che essere politica, è esistenziale, volendo cambiare la vita stessa: «Ricordavamo di tanto in tanto di essere dei poeti, e riconoscevamo ma senza rimorso di aver sognato» (d’Annunzio). Pulsioni senza limiti, libero fluire delle emozioni, diventano caratteri dominanti di questa esperienza ‘giovane’: «La sorte mi ha fatto principe della giovinezza sulla fine della mia vita», esclama un giorno il Vate.

Il piacere stesso diviene la bussola dei convenuti alla ‘Festa della Rivoluzione’: l’azione è bella di per se stessa, quando è disinteressata e desiderante: «nichilistica aspirazione, in fondo, di finirla in bellezza questa inutile stupida vita, in una specie di orgia eroica» (N. Valeri). La vita-festa, intesa come trasgressione di divieti, ricerca una liberazione totale in favore di una creazione fluttuante: da vivere insieme in strada e in spazi pubblici. Rappresenta il predominio della vita collettiva su quella privata, in cui la carica individuale si espande nell’energia collettiva del vivere. Prostitute, nei numerosi postriboli, e disinibite ragazze attirano i legionari in un delirio senza censure, facendo diventare Fiume una città dell’amore ‘a tutto campo’. Questa situazione ‘costringe’ d'Annunzio a richiamare i legionari a una condotta più controllata. Il piacere diventa però anche ribellione e spettacolo, vissuti con una teatralità coinvolgente. La festa continua è l’antecedente di un’arte intesa come rito e sogno collettivo.

Fiume, sotto il comando del poeta-guerriero, che governa leggendo, dal balcone del Palazzo di Governo, proclami che sono testi letterari, ‘donati’ al suo pubblico, diventa crocevia e laboratorio di sperimentazioni: politiche, sociali, sessuali, creative. Queste incarnano il pensiero politico, artistico, esistenziale del Futurismo e delle sue istanze anarco-libertarie, che vi ‘entrarono’ grazie anche a Guido Keller (1892-1929). Da ricordare i suoi manifesti dell’Associazione Yoga, ideata insieme allo scrittore Giovanni Comisso: una associazione di ‘spiriti liberi’ tendenti alla perfezione. L’individualismo anarchico, in quel momento storico, è molto sentito. Gli anarchici italiani guardano con attenzione a Fiume. In una intervista d’Annunzio dichiara:
«Tutta la mia cultura è anarchica (...) è mia intenzione fare
di questa città un’isola spirituale dalla quale possa irradiare
un’azione [...] verso tutte le nazioni oppresse».

La rivoluzionaria concezione
del sesso, a Fiume, sembra
anch’essa fuoriuscire dai manifesti e dalla produzione letteraria futurista: amore libero;
superamento della famiglia tradizionale, del mito della fedeltà
e verginità femminile; divorzio facile e rapporti amorosi multipli; superamento della gelosia, del possesso della donna e dei sentimenti romantici; il figlio di stato e gli istituti di allevamento della prole. I legionari, pur con la città accerchiata, sono dediti alle feste, al vino, al divertimento senza limiti. Dopo mesi di baldoria un breve assedio fa crollare questa immaginale utopia, con il Natale di sangue del 1920, per mano dell’esercito governativo.

«Guido Keller aveva preparata e animata l’impresa fiumana col suo entusiasmo geniale (…). Spirito sottile, penetrante, arguto e pensoso, aveva delle doti futuriste di demolitore e di sfottitore. Conosceva la frenesia dell’azione e la calma superiore della cerebralità pura». Con queste parole Mario Carli definisce il suggestivo percorso di arte-vita del futurista Guido Keller: poeta, aviatore e combattente audace, circondato da un alone leggendario. Questo ribelle assoluto incarna, insieme, l’esteta e l’eroico uomo d’azione, vivendo l’esistenza come un continuo gioco. È, tra i personaggi dello spettacolo fiumano, quello che, dopo d’Annunzio, maggiormente esprime la vocazione di fare della propria vita un’opera d’arte. Il Vate conta su di lui nell’impresa di Fiume, divenendone riferimento di stravaganze e temerarietà: è l’unico legionario giovane autorizzato a dargli del tu. Keller fonda l’originale compagnia de La Disperata, la guardia scelta del Comandante: i suoi giovani componenti, spregiudicati e aggressivi, combattono come dei poeti guerrieri: «erano tutti bellissimi, fierissimi e li giudicò i migliori soldati di Fiume» (G. Comisso). Il Reparto degli Ignoranti «ha proclamato di credere prima in d’Annunzio, poi in dio, poi nel suo capitano» (M. Carli).

L’irrequietezza di Keller si appaga nel volo aereo, il primo passo verso l’infinito: ‘volando’ oltre i limiti del quotidiano trova il senso della libertà assoluta. Oggi riposa al Vittoriale, per volontà di d’Annunzio (accanto alla sua tomba), che così commemora la sua precoce morte in un assurdo incidente automobilistico: «Ingiustamente disconosciuto da tanti, egli fu tradito dalla sorte vile. Il mio dolore supera il dolore di tutti gli altri. (...) Egli era uno dei pochissimi che hanno saputo amarmi come io voglio essere amato». Entrambi, collegati oltre la vita, sono una presenza palpitante di questa stagione, che continua a ‘emergere’ oggi come una pulsionale fucina di pensiero e immagini di arte vita.

Nell’avventura fiumana d’Annunzio ha trasferito i suoi ideali di vita: ‘il piacere’ diviene la bellezza del vivere e ‘il sogno’ incontra la libertà senza limiti. «Bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte. Bisogna che la vita d’un uomo d’intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta qui. (…) Bisogna conservare ad ogni costo intiera la libertà, fin nell’ebrezza» (d’Annunzio, Il piacere).

NOTA. Il testo è pubblicato sul numero monografico della rivista ‘la Biblioteca di via Senato’ (Milano luglio/agosto 2018) dedicato a Gabriele d’Annunzio per gli ottanta anni dalla morte.

 

Vitaldo Conte

insegnante all'Accademia delle Belle Arti di Roma

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E’ nato prima l’uovo o l’Antirazzista? – Enrico Marino

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“I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”. Così sentenziava alcuni anni fa Umberto Eco, guru della sinistra e uomo sicuramente colto, ma non per questo necessariamente intelligente. Le due prerogative, infatti, non viaggiano sempre di conserva e se tanta spazzatura oggi circola in rete è proprio perché non tutti hanno la capacità di discernere le bufale dalla realtà né di cogliere l’idiozia e la capziosità di certi ragionamenti e di certe argomentazioni molto abusate nel quotidiano della polemica politica. Se com’è stato detto “Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità” non dobbiamo stupirci del dilagare in rete di gente come Roberto Saviano o Saverio Tommasi.

Attualmente i collettori del pensiero unico radical progressista sono tutti orientati a rilanciare un farsesco allarme sull’immaginaria deriva razzista che starebbe prendendo piede nel Paese. Ma in questa faccenda del razzismo, che secondo la sinistra si sta scatenando in Italia, c’è qualcosa di più della semplice imbecillità. C’è l’ipocrisia, la malafede e lo spirito di rivalsa di chi, sconfitto nelle urne e schifato dal popolo, cerca ogni appiglio e ogni pretesto più squallido per cercare di riemergere dalla palude e dal fango in cui è stato relegato. Ricordate le bufale della sinistra? Dal bagnino “fascista” di Chioggia, alla bandiera “nazista” (in realtà del Kekistan, Stato immaginario creato sui social) esibita a un comizio di Salvini, fino all’altra bandiera “del Reich” (in realtà bandiera della marina del Kaiser) fotografata nella stanza di un carabiniere? Tutte fake news, insieme a tante altre, che per settimane hanno occupato le cronache e intere paginate di giornali come l’Espresso, Repubblica, il Corriere della Sera e la Stampa. Stupidaggini montate ad arte e gonfiate, spesso con la complicità di ministri della Repubblica come la Pinotti, per dimostrare che in Italia, prima delle elezioni del 4 marzo, c’era il pericolo fascista di un ritorno alla dittatura, di una montante intolleranza e di un grave rischio per le Istituzioni democratiche.

Non polemica politica, ma propaganda, seminazione di paura, disinformazione, consapevole imbroglio. Questa, da sempre, è la strategia della sinistra e di chi la supporta dalle posizioni del cattolicesimo progressista e della finanza democratica, da correnti della magistratura, da manager pubblici e istituzioni lottizzate, da gran parte dei media e da larga parte dell’apparato burocratico statale. Tutta questa platea autoreferente di assistiti di regime s’è trovata, a un tratto, sbugiardata, respinta dal popolo e isolata da un’opinione pubblica esacerbata e stanca di ascoltare le sue insopportabili e assillanti litanie calibrate su astrazioni ideologiche ma completamente avulse dalla realtà e dai problemi concreti del Paese.

L’animale ferito reagisce con rabbia, i progressisti messi all’angolo hanno alzato le cortine fumogene della disinformazione, ricorrono a tutte le armi della propaganda di cui ancora dispongono, sguinzagliano i loro agenti inseriti nei gangli statali, dall’Inps al Cnr, fanno quadrato attorno ai centri di potere in cui sono asserragliati da anni, dal Copasir alla Rai o alla CdP. Il pretesto del razzismo è per costoro un’arma potente, che trasforma nelle loro cronache addomesticate episodi di ordinario bullismo in truci manifestazione di discriminazione e di brutalità; è un’arma sempre più spendibile, dopo che per anni hanno riempito il Paese di clandestini e reso sempre più frequenti e possibili contrasti sociali e fenomeni di degrado civile; è un’arma vigliacca e spregevole, perché rivolta soprattutto contro altri italiani che, se sbagliano, vanno puniti, ma non colpevolizzati sempre e a prescindere.

Il razzismo è l’arma dei falsi buonisti che vogliono seminare astio e disordine, stravolgere la realtà, creare i mostri, delegittimare gli avversari e sollecitare ovunque una caccia alle streghe, trasformando una bravata da teppistelli, cioè un uovo tirato in faccia a una giovane nera, in una inquietante e intollerabile manifestazione di razzismo. Per farlo ricorrono ai sillogismi più stravaganti e alle più insensate dichiarazioni, né si arrendono di fronte all’evidenza di un atto deprecabile, ma più volte reiterato anche contro altre persone, anziani e donne bianche. Uno sfregio insensato, ma che per loro diventa immediatamente una manifestazione di razzismo quando ne è vittima una ragazza nera. Peraltro, una ragazza nera militante del PD e, come tale, poco attendibile nel momento che esterna le sue personalissime impressioni sull’accaduto, senza alcun riscontro oggettivo di quanto afferma. Una ragazza che fa notizia in quanto nera e componente della squadra italiana di atletica, mentre le precedenti aggressioni con lancio di uova contro italiani e italiane bianchi sono passate del tutto sotto silenzio e derubricate come una cosa da nulla.

Una evidente montatura, ma una notizia sulla quale si sono lanciati come avvoltoi tutti i tromboni dell’antirazzismo, a cominciare da Enrico Mentana per finire con Matteo Renzi, con dichiarazioni avventate, grottesche e scellerate. A dar retta a tutti questi indignati democratici, finiremmo per trovarci in una situazione paradossale di vero razzismo rovesciato: ogni sgarbo ovvero ogni reato che avesse come vittima un negro sarebbe tacciabile di razzismo, con la conseguenza di due pesi e due misure nella valutazione e nella eventuale sanzione da comminare a secondo del colore della vittima, con una evidente disparità di giudizio e la conseguente penalizzazione dei bianchi. I negri sarebbero tutelati due volte, dalle norme di legge e dal colore della loro pelle. Per questi cialtroni un simile assioma, “vittima nera uguale atto razzista”, sarebbe l’uovo di Colombo per ridare fiato ai loro farneticanti teoremi, per inscenare le loro gazzarre mediatiche, cavalcare il fasullo vittimismo degli immigrati africani e così riaprire ai clandestini e all’invasione, mettere sul banco degli imputati tutti i loro avversari e criminalizzare chiunque la pensasse diversamente. Non si deve lasciare spazio all’armata luddistico ideologica della sinistra, ai comici schierati, ai vignettisti di regime, ai nani e ballerine e a tutti quelli che anche con la satira e le scemenze sono pronti ad amplificare le menzogne sul pericolo razzismo e sulle uova anti negri.

Una tesi assurda, pericolosa e cretina che può essere partorita solo da menti malate dal pregiudizio ideologico e dall’ipocrisia ovvero da una disgustosa discriminazione premeditata nei confronti degli italiani bianchi, nel momento stesso in cui le statistiche raccontano di una criminalità diffusa tra gli immigrati che, piuttosto che vittime di razzismo, sono artefici di violenze e reati nei confronti degli italiani. Una tesi da contrastare e respingere con decisione, così come tutte le altre farneticazioni con le quali i progressisti inquinano ogni tematica sociale e politica. Perché se è vero, com’è stato detto, che “l’uovo ha una forma perfetta, benché sia fatto col culo”, le idee dei radical democratici non hanno il pregio della perfezione, pur avendo la medesima origine.

Enrico Marino

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Contro i Galilei! Gli aspetti amministrativi e giuridici della Restauratio di Giuliano – 3^ parte – Tommaso Indelli

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III) Gli aspetti amministrativi e giuridici della Restauratio di Giuliano.

Esaminati gli aspetti teologici, cioè teorici e dottrinali della Restauratio religiosa giulianea, ci si soffermerà, ora, sugli aspetti legislativi e amministrativi. Tuttavia, non bisogna dimenticare che i due piani - dottrinale e giuridico-amministrativo -nella polemica anticristiana di Giuliano, furono sempre collegati, dato che il suo ruolo, ai vertici della compagine imperiale, era appunto quello di pontifex maximus, ma anche di imperator. Bisogna premettere che, sul piano politico, Giuliano non scatenò alcuna persecuzione cruenta contro il cristianesimo - che non fu messo mai fuorilegge! - ma si limitò a colpirne gli interessi economici e politici, privando le gerarchie ecclesiastiche dei privilegi fiscali e giurisdizionali di cui avevano goduto dall’epoca di Costantino, come le esenzioni fiscali su beni e persone ecclesiastiche, il diritto del clero di essere giudicato da propri tribunali, il diritto dei tribunali vescovili di emanare sentenze nelle controversie tra laici, il diritto delle chiese di ricevere eredità e donazioni e il diritto dei vescovi di servirsi del servizio di posta imperiale. La politica dell’imperatore non fece alcuna vittima, se si escludono alcuni ecclesiastici e simpatizzanti del cristianesimo aggrediti e, in alcuni casi, uccisi - come ad Emesa, in Siria (1) - a seguito di tumulti popolari, poiché la popolazione, ancora pagana, voleva vendicarsi delle angherie e della distruzione di templi e simulacri, perpetrate dai cristiani durante il governo dei predecessori di Giuliano. Tutti questi episodi avvennero in gran parte in Oriente. In Egitto si verificò il caso più noto, l’uccisione, nel 362d. C., da parte della folla tumultuante, del patriarca di Alessandria, Giorgio di Cappadocia (357-362d. C.), che era stato uno dei precettori del piccolo Giuliano (2). Sotto il governo dell’imperatore è registrabile un solo caso di martirio cruento, quello dei santi Iuventino e Massimino, due ufficiali della guardia imperiale cristiani mandati a morte dall’imperatore con l’accusa di cospirazione politica e non certo per le loro simpatie religiose (3). Scrivendo ad Atarbio, ufficiale imperiale, Giuliano aveva avuto modo di specificare quali sarebbero state le direttrici di marcia della sua azione politica contro i Galilei. Scriveva, infatti, Giuliano: «Io, per gli dei, non voglio che i Galilei siano uccisi, né che siano percossi ingiustamente, né che soffrano qualunque altra disgrazia. Tuttavia affermo, senza alcun dubbio, che a loro devono essere preferiti gli adoratori degli dei, perché è a causa della demenza dei Galilei che quasi tutto è stato sovvertito, mentre è grazie alla benevolenza degli dei che noi tutti veniamo preservati. Perciò bisogna onorare gli dei, nonché gli uomini e le città che li adorano» (4). Già alla fine del 361d. C.,la politica religiosa di Giuliano fu inaugurata dalla promulgazione di una legislazione speciale che, sostanzialmente, non abrogava quella costantiniana, compreso l’editto di tolleranza del 313d. C. (5). Con i suoi editti, l’Augusto ripristinava integralmente la religione tradizionale, stabilendo la riapertura dei templi, il restauro di quelli andati in rovina, il ripristino delle sovvenzioni finanziarie pubbliche e delle esenzioni fiscali per gli antichi collegi sacerdotali (6). Il ripristino degli antichi culti, d’altronde, doveva necessariamente comportare anche una restaurazione degli spazi e dei luoghi sacri, profanati dall’affermazione della nuova religione. Allo stesso tempo, per sancire una rottura con la precedente politica imperiale in materia religiosa, Giuliano stabilì che i Galilei che avessero voluto rinnegare la loro fede, ritornando al paganesimo, non avrebbero subito sanzioni, da parte della legge dello stato, purché si fossero adeguatamente purificati, attraverso i riti e le pubbliche preghiere agli dei. Anche i templi, un tempo adibiti a chiese, dovevano essere decontaminati con la pratica di opportuni riti purificatori, cui si sottopose lo stesso Giuliano - che, in gioventù, aveva ricevuto il battesimo e, forse, era stato consacrato lettore - aspergendo il suo corpo con sangue sacrificale (7).

Alcuni casi, ben documentati, di ritorno all’antica religione sono rappresentati da Pegasio, vescovo di Ilio - nella Troade - da Ecebolio, già maestro di retorica del giovane Giuliano, a Nicomedia, e, infine, da Elpidio, amico dell’imperatore di origine siriana, che rivestì le funzioni di comes rei privatae ( ministro delle finanze) e proconsul Asiae (governatore provinciale). Il ritorno alla fede dei padri, dopo l’adesione al cristianesimo, appariva a Giuliano come una vera e propria guarigione dalla “follia” cristiana, anziché come un’apostasia. In una prospettiva di tolleranza generale, Giuliano ordinò di revocare le sanzioni - esilio, carcere, confisca dei beni - che i suoi predecessori avevano erogato ad eretici e scismatici cristiani, a favore della Chiesa ortodossa. In tal modo, l’imperatore si guadagnò la simpatia di donatisti, ariani e altri eretici, fino ad allora perseguitati dal potere politico, ma ciò contribuì a creare maggiore conflittualità e divisioni all’interno della Chiesa, indebolendone le istituzioni, il che andava nella direzione auspicata dall’Augusto che aveva imparato a conoscere bene le discordie interne alla Chiesa fin dall’epoca del suo soggiorno in Gallia, come Cesare, tra il 355 e il 361 d. C. (8). Nel corso di quell’esperienza, Giuliano ebbe anche modo di entrare nel vivo del dibattito teologico e religioso cristiano. Infatti fu coinvolto, suo malgrado, nelle dispute che allora laceravano la comunità ecclesiale riguardo l’identità di Cristo ed i suoi rapporti col Padre, che avevano prodotto un vero e proprio scisma nel collegio episcopale, a causa della diffusione dell’eresia ariana. Come è noto, l’arianesimo era un’eresia trinitaria, nata nel IV secolo, ad opera di Ario († 336 d. C.), presbitero di Alessandria d’Egitto. L’eresia aveva una chiara impronta monarchiana e subordinazionistica, nel senso che negava la piena divinità del Verbo divino - seconda persona della Trinità - definendolo fattura del Padre, creato nel tempo e nella storia, contestandone la consustanzialità - omousìa - con Dio, cioè la sua eternità. L’arianesimo, benché condannato, una prima volta, nel sinodo di Alessandria, nel 318 d. C., e poi, definitivamente, nel concilio ecumenico di Nicea, in Bitinia, nel 325 d. C. - convocato su iniziativa di Costantino I - sopravvisse e si diffuse, celermente, nelle province dell’impero. Le comunità ariane disponevano di propri luoghi di culto, distinti da quelli cattolici, e di riti officiati dai loro sacerdoti (9). Il cugino di Giuliano, Costanzo II, nonostante l’impegno antiariano del padre, propendeva decisamente per l’arianesimo, sebbene per una sua visione più moderata, detta omeusiana - oppure omea -che sosteneva la “similitudine” del Figlio al Padre, anziché la totale dissomiglianza, e prese posizione contro i cattolici, facendo esiliare molti vescovi, tra cui il papa, Liberio (352-366 d. C.) (10). Costanzo II, pertanto, tra il 351 e il 360 d.C., fece convocare una serie di concili per definire una formula di fede religiosa che ripristinasse l’unità nel corpo ecclesiastico: i concili si tennero nel 351 a Sirmio, in Mesia, nel 353 ad Arelate, in Gallia, e nel 355, a Milano, dove fu imposta ai vescovi la formula di fede voluta dall’imperatore, di carattere omeusiano. Nel 359d. C., due distinti concili, a Rimini, per l’Occidente, e a Seleucia, per l’Oriente, imposero la formula di fede omeusiana ai due distinti corpi episcopali (11). Nel 360d. C., col concilio di Costantinopoli, il credo omeusiano divenne obbligatorio in tutto l’impero.Giuliano - che allora era Cesare e non ancora imperatore - fu costretto ad intervenire nelle vicende dell’episcopato gallico, esiliando molti prelati che si opponevano a Costanzo II, tra i quali s. Ilario, vescovo di Poitiers (350-367 d. C.), che fu esiliato in Asia.

Tutte queste dispute contribuirono a consolidare, in Giuliano, la conoscenza dei dogmi e dei valori fondanti la religione cristiana, ma anche ad accrescere il suo astio nei confronti della nuova fede che cominciò a detestare, a causa delle sue innumerevoli diatribe interne, spesso incomprensibili ad un’anima pacata e razionale, oltre che fonte di lacerazioni sociali (12). E proprio durante la sua permanenza in Gallia- secondo la tradizione agiografica cattolica - Giuliano conobbe Martino, futuro santo, evangelizzatore dei pagi gallici e, in seguito, vescovo di Tours (371-397 d. C.). Di origine pannonica (13), Martino aveva iniziato la sua vita di cristiano proprio nelle file dell’esercito di Giuliano, nelle scholae palatinae, la guardia personale del generale, ma, nel 356 d.C., a Worms, alla vigilia della campagna contro gli Alemanni, il futuro vescovo fu congedato per intervento diretto dell’Augusto, dopo aver rifiutato di combattere e aver dichiarato di essere miles Christi e, quindi, di non voler servire più nell’esercito (14). Una volta imperatore, grazie ai provvedimenti di clemenza, Giuliano pose fine alle diatribe teologiche avvenute sotto il suo predecessore e, così, molti vescovi esiliati ritornarono nelle proprie sedi episcopali e, tra i tanti, Ilario di Poitiers e Atanasio di Alessandria (328-373 d. C.) strenui oppositori dell’arianesimo (15). Il bando fu revocato persino al teologo di origine siriana, Aezio(†367 d. C.), fautore del più estremo arianesimo e riluttante ad ogni compromesso (16). L’imperatore convocò molti prelati a corte - ortodossi e ariani - e li esortò a mantenere tra loro la concordia e a praticare ciascuno i propri riti, pacificamente, per il benessere dello stato e della popolazione (17). Giuliano, però, pur non evitando del tutto i rapporti con l’episcopato cattolico - dato il suo ruolo istituzionale - si guardò bene dall’ interferire nelle vicende dogmatiche della Chiesa cristiana, convocando e presiedendo concili religiosi come, invece, aveva fatto Costanzo II (18). Nonostante le energiche misure di restaurazione religiosa, nessun editto di Giuliano decretò mai un “non licet esse Christianos”, ma, con la nuova legislazione, la Chiesa tornò ad essere l’istituzione che era stata prima di Costantino, una semplice associazione privata, priva del supporto del potere pubblico romano. L’unica misura veramente coercitiva contro i cristiani, se così può definirsi - ma dotata di una sua intrinseca ratio - fu l’editto “De professoribus”, emanato il 17 giugno del 362d. C., probabilmente ad Ancyra, capitale della Galazia, in Asia Minore, mentre Giuliano e l’esercito si stavano trasferendo ad Antiochia, in vista della campagna contro i Persiani - che sarebbe iniziata l’anno seguente - e dove giunsero alla fine di giugno (19). L’editto fu emanato mentre l’imperatore, in marcia con il suo seguito verso la Siria, si recava in visita presso i templi ed i luoghi più significativi della religione e della storia greca, in Asia Minore. In quelle circostanze, Giuliano visitò le rovine di Ilio, in Troade, i santuari innalzati in onore di Ettore e Achille, presso i quali si era fermato anche il grande Alessandro, e il tempio monumentale di Pessinunte, in Frigia, edificato in onore di Cibele, la Magna Mater deorum (20). Apparentemente, il provvedimento di Giuliano sulla disciplina dell’insegnamento non aveva nulla di rivoluzionario, perché si inseriva in un filone normativo con cui, da sempre, gli imperatori pretendevano di vigilare sulla correttezza e sulla moralità dei docenti delle scuole pubbliche, minacciando gravi sanzioni in caso di irregolarità o condotte sconvenienti dei maestri. Ma, se si guarda alla politica imperiale verso i Galilei, perseguita dall’epoca di Costantino, l’eccezionalità dell’editto appare in tutta la sua portata. Infatti, con efficacia retroattiva, l’editto dispose l’allontanamento dalle scuole pubbliche dei maestri galilei di grammatica e retorica, dal momento che - come ebbe modo di precisare Giuliano - non era concepibile che uomini che disprezzavano i culti di stato insegnassero, manipolandola a loro piacimento, la letteratura classica, permeata dalla spiritualità greco-romana, percependo per di più uno stipendio a carico della pubblica autorità (21). A quanto è dato di sapere, il provvedimento di Giuliano colpì unicamente gli insegnanti di grammatica e retorica, impiegati nelle scuole municipali abilitate all’istruzione di “secondo grado”, ma non i loro discepoli di fede cristiana che, eventualmente, avrebbero potuto abbandonare la scuola o continuare a frequentarla, adattandosi al cambiamento del personale docente (22). Tuttavia, era improbabile che famiglie cristiane, non disposte ad abiurare, accettassero passivamente che i propri figli frequentassero scuole che, ormai, presentavano un aspetto “confessionale” di segno diametralmente opposto a quello precedente (23). Giuliano era consapevole che i Galilei si servivano della conoscenza dei testi classici e degli artifici retorici della cultura greco-romana per utilizzarli contro di lui o, comunque, per criticare e profanare il culto degli dei e il Mos Maiorum che intendeva restaurare e, quindi, piegavano la cultura pagana alle proprie finalità, distorcendo il significato degli antichi insegnamenti (24). Inoltre, poiché le scuole di grammatica e retorica erano il serbatoio da cui l’amministrazione imperiale attingeva i futuri funzionari dello stato, il provvedimento di Giuliano interveniva ad interrompere un circolo vizioso che, se portato alle estreme conseguenze, avrebbe, in breve, condotto alla “cristianizzazione” di tutto l’impiego pubblico! (25) A partire dall’entrata in vigore dell’editto, per accedere al rango di magister in una scuola, era necessaria un’apposita autorizzazione rilasciata dall’ordo decurionum locale - il consiglio municipale dell’epoca - previo opportuno esame delle attitudini professionali e della fede del candidato, e doveva essere approvata dall’imperatore (26). I cristiani potevano continuare a frequentare le scuole pagane, pur non potendo più insegnarvi, e potevano continuare a svolgere attività didattica in scuole proprie, studiando e commentando i testi della loro religione, ma non quelli delle altre. Giuliano riteneva la παιδεία greco-romana - e l’ideale antropologico che essa propugnava - assolutamente inconciliabili con l’etica cristiana. Libertà di culto, anche pubblico, ma rispetto per i principi basilari della Res publica Romanorum! L’editto suscitò opposizione e sconcerto tra le file cristiane, ma non si verificò alcuna manifestazione violenta contro l’imperatore. Tra i docenti cristiani allontanati, a seguito del provvedimento, ci fu il noto maestro di grammatica e retorica, Gaio Mario Vittorino (†370 d. C.), che si era convertito al cristianesimo intorno al 355 d. C., suscitando grave scandalo tra l’intellighenzia pagana. Dall’applicazione del provvedimento fu, invece, esentato il retore cristiano di origine armena, Proeresio (†368 d. C.), che svolgeva la sua attività di docente ad Atene e che, tuttavia, abbandonò l’insegnamento anche se la sua scuola non fu mai chiusa (27). Solo dopo la morte di Giuliano alcuni vescovi, come Gregorio di Nazianzo - futuro patriarca di Costantinopoli (nel 381 d. C.) - contestarono la legittimità del provvedimento sulla scuola e negarono l’identificazione giulianea tra ellenismo e paganesimo, destituendo di ogni legittimità la decisione dell’imperatore di privare i cristiani della “cultura”. Secondo Gregorio, la religione di Cristo era l’unica e vera filosofia, pertanto il cristianesimo aveva il compito di trarre dall’ellenismo e dal suo patrimonio intellettuale tutto ciò che era utile, rifiutandone ciò che era improprio o, comunque, contrario alle verità di fede (28). Ovviamente, quella di Gregorio era una posizione di compromesso tra la spiritualità galilea e l’essenza spirituale più profonda della cultura pagana, ben lontana da certe posizioni di aspra condanna della letteratura e, in genere, delle conquiste civili della civiltà greco-romana, assunte da altri intellettuali cristiani (29). Tuttavia, anche le posizioni moderate di Gregorio di Nazianzo erano contrarie allo spirito della politica di Giuliano che mirava, invece, ad una Restauratio integrale dell’eredità dei padri, ossia al ritorno ad un classicismo che fosse non solo politico e culturale, ma anche, e soprattutto, spirituale e religioso e, quindi, alieno da qualsiasi compromesso con i Galilei.

Secondo l’imperatore - e in netta polemica con gli apologisti cristiani - la letteratura pagana non era qualcosa di neutro, ma il prodotto di una specifica spiritualità ed eticità, inconciliabili col cristianesimo. Nello schieramento pagano, solo Ammiano Marcellino (†397 d. C.) - storiografo e funzionario militare - espresse riserve sul provvedimento giulianeo, che riteneva eccessivamente lesivo della libertà di insegnamento e contrario al tradizionale “liberalismo” ellenico (30). Al di là dei provvedimenti in materia scolastica, non è certo - data la mancanza di documentazione in proposito - se Giuliano emanò analoghi editti anche per altri settori dell’amministrazione pubblica. Molti anni dopo la sua morte, però, Giovanni Crisostomo (†407 d. C.), patriarca di Costantinopoli (397-404 d. C.), affermò che l’imperatore aveva escluso dalla professione medica e dalla milizia i cristiani che non intendevano abiurare la loro fede (31). Nel 362 d. C., Giuliano dispose anche che la famosa statua della Vittoria - simulacro marmoreo posto nell’atrium della curia Iulia, sede del senato romano - fosse recuperata e nuovamente collocata nel luogo da cui Costanzo II l’aveva fatta rimuovere, durante il suo solenne Adventus aRoma, nell’aprile del 357 d. C. La statua - davanti alla quale tutti i senatori dovevano bruciare grani d’incenso prima di riunirsi - era stata posta lì da Ottaviano Augusto (†14 d. C.), nel 27 a. C., nell’anno della fondazione del principato, a simboleggiare la grandezza e potenza di Roma, grazie alla pax deorum, ovvero al culto dei suoi dei (32). Dopo la morte di Giuliano, intorno al simulacro della Vittoria, si sarebbe scatenato un aspro scontro - non solo intellettuale - conclusosi nel 394 d. C., con la definitiva rimozione della statua (33). Nel piano di Restauratio religiosa rientrò anche l’organizzazione - per la prima volta nella storia dell’impero romano - di una vera e propria “Chiesa pagana”, dotata - sotto il profilo istituzionale - di una solida e ramificata struttura organizzativa e sacerdotale avente a modello la stessa gerarchia ecclesiastica! (34) Giuliano tentò di organizzare, su base gerarchica, gli uffici sacerdotali pagani - accessibili anche alle donne - ponendo al vertice degli stessi l’imperatore – pontifex maximus - e alla base, in progressione gerarchica, gli antichi collegi sacerdotali di stato - pontifices, augures, septemviriepulones - i sacerdoti provinciali – sacerdotes provinciarum - e quelli cittadini – flamines civitatum - che sovraintendevano, rispettivamente, al culto degli dei nelle province e nelle singole città. L’imperatore, come pontifex maximus, designava i sacerdoti degli antichi collegi e quelli preposti al culto nelle province, mentre questi ultimi designavano i sacerdoti cittadini. Giuliano incoraggiò la fondazione di ospedali, nosocomi e xenodochi pagani, al fine di sottrarre ai cristiani il monopolio dell’assistenza sociale agli indigenti, e incoraggiò i suoi sostenitori ad essere sempre uomini di specchiata moralità, perché solo il buon esempio, corroborato da una morale severa ed austera, poteva creare una barriera alla rovina del paganesimo. Per sostenere finanziariamente tale macchina burocratica, Giuliano ricorse, sull’esempio ecclesiastico, all’imposizione di decime, a carico di coloro che dimoravano nei luoghi prossimi ai templi (35). Ma questa articolata e complessa gerarchia sacerdotale, strettamente dipendente dall’imperatore, non era altro che l’espressione, sul piano politico ed istituzionale, del κόσμος, dell’ordine divino teorizzato da Giuliano, per cui l’imperatore era la manifestazione visibile, sulla terra, di Helios-Apollo, mentre i sacerdoti a lui subordinati, fino alla base della piramide sociale rappresentata dai sudditi, non erano altro che i gradi gerarchici discendenti che, sul piano politico, corrispondevano alle entità teofaniche generate dal Principio primo (36). Occorre infine ricordare che i cristiani non furono i soli destinatari dell’ostilità e del disprezzo giulianeo, in quanto molte disposizioni legali emanate contro i Galilei furono applicate -in via analogica e per espressa volontà dell’imperatore - anche nei confronti dei cinici, gli adepti della scuola filosofica fondata da Antistene di Atene (†366 a. C.) e Diogene di Sinope (†323 a. C) nel IV secolo a. C. (37). Secondo Giuliano, il cosmopolitismo esasperato, l’irrazionale esaltazione di un ipotetico stato di natura e il disprezzo dei cinici per i culti di stato e, in genere, per le leggi, la patria, le tradizioni dei padri - da essi ritenute convenzioni sociali limitative delle libertà individuali e impedimenti al perseguimento della virtù - li accumunavano, ideologicamente, ai sovversivi cristiani (38). Non a caso, nel 362 d. C., l’imperatore indirizzò ai cinici ben due Orazioni: “Contro i cinici ignoranti” e “Contro il cinico Eraclio”, in cui espresse tutto il suo biasimo per questi diseducatori della gioventù, avvezzi a inculcare il disprezzo per la civile convivenza e per tutto ciò che, secondo Giuliano, andava rispettato (39). L’Orazione contro Eraclio fu composta da Giuliano in risposta ad un discorso, non pervenuto, tenuto a Costantinopoli nel 362 d. C., in cui il cinico Eraclio - altrimenti sconosciuto, aveva ironizzato sui miti tradizionali, facendo un espresso riferimento sarcastico a Giuliano (40). L’Augusto contestò punto per punto le argomentazioni di Eraclio e, più in generale, dei cinici, accusandoli di aver travisato l’originale insegnamento di Antistene e Diogene che sentiva, stranamente, così vicino al suo ideale di filosofo, alieno dal dominio delle passioni, e di aver alimentato comportamenti anarcoidi ed antisociali ingiustificabili. Giuliano, inoltre, esaltò nell’orazione la propria stirpe - i Costantinidi - che definì di origine divina, in quanto protetta dal dio Helios, fin dal suo capostipite, l’imperatore Marco Claudio il Gotico (268-270 d. C.) (41). Aggiungendo al discorso contro Eraclio alcuni elementi autobiografici - relativi alla tragedia familiare vissuta durante l’infanzia - Giuliano si definì figlio adottivo di Helios, grazie al quale era stato salvato dalla crudeltà del cugino Costanzo II e da cui aveva ricevuto la missione di annientare l’empietà galilea! (42) Al di là di variazioni marginali, entrambe le Orazioni contro i cinici sono una vera e propria apologia dei valori dell’ellenismo, cemento culturale unificante dell’impero, contro coloro che l’imperatore riteneva - come i cristiani - sovversivi e autentici “pazzi” (43).

IV) Conclusioni.

Come le riforme economico -sociali avviate da Giuliano, volte a tutelare gli interessi degli humiliores dell’impero, così anche i provvedimenti adottati in materia religiosa furono abrogati dai successivi imperatori - che, peraltro, furono tutti cristiani (44)- a cominciare dal suo immediato successore, l’illirico Flavio Gioviano (363-364 d. C.). Data la brevità del governo di Giuliano, è impossibile dire che conseguenze avrebbe avuto il suo Kultur kampf anticristiano sui destini di Roma e dell’impero, cioè se si sarebbe potuto realmente contenere il proselitismo dei Galilei e favorire un’effettiva rinascita della religione tradizionale, accompagnata dalla piena reintegrazione del Mos Maiorum. Rispetto a quelle economiche, inoltre, le riforme religiose messe in campo da Giuliano non ebbero un’accoglienza del tutto favorevole, soprattutto tra i ceti popolari. Si ricordino, ad esempio, alcuni episodi avvenuti durante la permanenza dell’imperatore ad Antiochia, nell’imminente campagna contro i Persiani, in cui avrebbe trovato la morte. Il primo episodio di ostilità popolare si verificò quando Giuliano, asceso al monte Casio - dove si trovava un noto santuario consacrato a Zeus - per sacrificare, non trovò ad attenderlo né il popolo di Antiochia, né i magistrati cittadini, ma solo un sacerdote con un’oca come vittima da immolare al dio (45) Il secondo episodio si verificò quando Giuliano dispose che dal tempio di Apollo - ubicato nel sobborgo di Dafne e da tempo trasformato in chiesa - fossero rimosse le spoglie di alcuni martiri cristiani, tra cui s. Babila, e trasferite nella cattedrale di Antiochia (46). Giuliano riteneva il fatto una vera e propria profanazione e, quindi, Apollo - secondo i sacerdoti del posto - non rendeva più oracoli, probabilmente irritato dalla presenza delle reliquie dei Galilei. La rimozione delle spoglie dei martiri provocò un tumulto e alcuni cristianidiedero alle fiamme il tempio di Dafne, determinando la reazione dell’imperatore che ordinò la chiusura della cattedrale di Antiochia, ma si astenne dall’usare eccessivamente la forza (47). Il consenso alla politica giulianea di Restauratio etico-spirituale, quindi, fu limitato ad alcuni esponenti dei ceti più elevati che condividevano gli interessi di natura intellettuale e filosofica dell’imperatore come Ammiano Marcellino e Secondo Sallustio. Nel complesso, quindi -e salvo rare eccezioni - anche le classi dirigenti dell’impero - partendo dall’ordo senatorius, fino ad arrivare all’ordo decurionum dei municipi - non furono sedotte dalla politica

di Restauratio religiosa, come ha dimostrato, nella sua celebre biografia di Giuliano, lo storico statunitense Glen Warren Bowersock (48). Infatti, nel suo libro - Julian the Apostate-pubblicato nel 1978, approfondendo lo studio del rapporto tra Giuliano e gli apparati dello stato romano come l’esercito, il senato e la burocrazia, Bowersock arrivò alla conclusione che il fallimento del tentativo di Restauratio religiosa dell’Augusto fosse stato determinato più che dall’inesorabile diffusione del cristianesimo, dall’ostilità degli ambienti burocratici alla politica dell’imperatore, percepita come qualcosa di anacronistico.Una conferma di queste conclusioni viene anche dall’archeologia e dalle poche testimonianze epigrafiche pervenute per il periodo di governo di Giuliano. Già di per sé scarse, le iscrizioni che testimoniano, in maniera specifica, un’adesione convinta al programma di restaurazione religiosa dell’imperatore - da parte dell’élites municipali - sono pochissime. E ciò non può essere imputato solo alla brevità del regno di Giuliano, poiché il dato numerico va raffrontato con l’alto numero di epigrafi disponibili per il periodo di governo, altrettanto breve, di altri imperatori (49).

Note:
1 - Attuale Homs, a sud di Antiochia.
2 - M. Spinelli, Giuliano l’Apostata. Anticristo o cercatore di Dio?, Fidenza (PR) 2017.
3 - Infatti avevano espresso critiche alla sua politica anticristiana. Inoltre, i loro correligionari diedero origine ad una sommossa e tentarono di farli evadere dal carcere dove erano rinchiusi. Sul punto, M. Spinelli, cit.
4 - Lettera 37, “Ad Atarbio”, in Flavio Claudio Giuliano, Uomini e dei. Le opere dell’imperatore che difese la tradizione di Roma, a cura di C. Mutti, Roma 2004.
5 - Gran parte di questa legislazione è andata perduta. Si badi che l’editto di Milano - mai espressamente abrogato da Giuliano - continuò ad essere applicato. Sulla legislazione giulianea, Ammiano Marcellino, Le storie, a cura di A. Selem, Torino 2003, XXII, 5, 2.
6 - Sulla legislazione giulianea, E. Germino, La Legislazione dell’imperatore Giuliano. Primi appunti per una palingenesi, in «Antiquité Tardive, RevueInternationale d'Histoire et d'Archéologie (IVe-VIIesiècle)», 17, (2009).
7 - Si trattò, forse, di un taurobolio? Sul punto, Sozomeno, Historia ecclesiastica, a cura di J. Bidez – G. C. Hansen, Berlino 1960, V, 5, 1.
8 - Filostorgio, Historia ecclesiastica, a cura di E. Walford, London 1855,VII, 4.Il donatismo - condannato definitivamente nel sinodo di Cartagine del 411 d. C. - nato e diffusosi nell’Africa romana e, in seguito, sfociato in un vero e proprio scisma, prese nome dal vescovo africano Donato (†355 d. C.), propugnatore dell’idea della validità soggettiva dei sacramenti, secondo cui l’efficacia degli atti sacramentali non dipendeva dalla corretta esecuzione del rito, ma dall’ortodossia e integrità morale dell’officiante e del fedele cui erano impartititi. Sul punto, L. De Giovanni, Chiesa e stato nel codice teodosiano. Saggio sul libro XVI, Napoli 1980.
9 - Sull’arianesimo, A. Momigliano, Il cristianesimo e la decadenza dell’Impero romano, in Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel IV secolo, Torino 1968.
10 - L. De Salvo – C. Neri, cit.
11 - Ibidem
12 - L. De Salvo – C. Neri, cit.
13 - La Pannonia corrispondeva, approssimativamente, all’odierna Ungheria.
14 - Su Martino si veda anche, R. Pernoud, Martino di Tours, Milano, 1998, Sulpicio Severo, Vita di Martino, a cura di E. Giannarelli, Milano 1995.
15 - L. De Salvo – C. Neri, cit.
16 - Sull’organizzazione ecclesiastica nel IV secolo e, più in generale, sulla teologia e la cultura cristiana del tardo impero, P. Brown, Potere e Cristianesimo nella Tarda antichità, Roma-Bari 1995, L. De Giovanni, Chiesa e stato nel codice teodosiano. Saggio sul libro XVI, Napoli 1980.
17 - Ammiano Marcellino, o. c., XXII, 5, 3.
18 - Sull’arianesimo di Costanzo II, G. Gigli, L'ortodossia, l'arianesimo e la politica di Costanzo II, Napoli 1949.
19 - Ancyra corrisponde all’attuale Ankara, in Turchia. Il provvedimento dell’imperatore è generalmente identificato con Codex Theodosianus cit., XIII, 3, 5. Per il provvedimento di Giuliano sull’insegnamento, si veda anche Ammiano Marcellino, o. c., XXII, 10, 7.
20 - Ammiano Marcellino, o. c., XXII, 9, 5.
21 - R. Goulet, Réflexionssur la lo iscolaire de l’empereur Julien, in L’enseignement supérieur dans lesmon des antiques et médiévaux, sous la dir. De H. Hugonnard-Roche, Paris 2008.
22 - Per una disamina completa sulla questione dell’insegnamento di docenti cristiani nelle scuole, G. Coppola, La politica religiosa di Giuliano l’Apostata, Bari 2007, L. Gallinari, Giuliano l’Apostata e l’educazione, Roma 1992, E. Germino, Scuola e cultura nella legislazione di Giuliano l’Apostata, Napoli 2004.
23 - A. Gallinari, Pensiero politico-educativo di Giuliano l'Apostata, Cassino 1985.
24 - Teodoreto di Cirro, Storia Ecclesiastica, a cura di A. Gallico, Roma 2000, III, 4.
25 - H. I. Marrou, Storia dell’educazione nell’antichità, Roma 1950.
26 - Ammiano Marcellino, o. c., XXII, 10, 7.
27 - Sulla figura di Vittorino, P. Hadot, Marius Victorinus. Recherchessur sa vie et sesœuvres, Parigi 1971.
28 - Orazione IV, 20, 101, 102, 103, in Gregorio di Nazianzo, Contro Giuliano l’Apostata, Orazione IV, a cura di L. Lugaresi, Firenze 1993.
29 - W. Jaeger, Cristianesimo primitivo e Paideia greca, Firenze 1966.
30 - Ammiano Marcellino, o. c., XXV, 4, 20.
31 - Giovanni Crisostomo, Homelia in Iuventinum et Maximum martyres, in J. P. Migne, Patrologia Graeca, voll. 161, Paris 1857-1866, vol. 50, col. 573.
32 - M. Spinelli, cit.
33 - Per una visione complessiva della questione della statua della Vittoria, Simmaco - Ambrogio, L'altare della Vittoria, a cura di F. Canfora, con una nota di L. Canfora, testo latino a fronte, Palermo 1991.In proposito, si veda anche il contributo Giuliano l’Apostata, un rivoluzionario al potere, pubblicato in questo sito.
34 - Gregorio di Nazianzo, infatti, parlò di “scimmiottamenti”.
35 - Per questi aspetti della politica giulianea si veda anche, M. Spinelli, cit.
36 - S. Conti, Da eroe a dio: la concezione teocratica del potere in Giuliano, in “Antiquité tardive”, 17, (2009).
37 - Per un inquadramento generale delle vicende indicate nel testo, G. Reale, Storia della filosofia greca e romana. Vol. 5: Cinismo, epicureismo, stoicismo, Firenze 2004.
38 - D. Micalella, Le polemiche di Giuliano contro i Cinici, in Lessico, argomentazioni e strutture retoriche nella polemica di età cristiana (III-V sec.), Atti del convegno internazionale (Lecce, 9-10 aprile 2010), a cura di A. Capone, Turnhout 2012.
39 - Orazione VII e Orazione VIII, in Giuliano Imperatore, Alla Madre degli Dei cit.
40 - Orazione VII, 7, 205a, 208b, 234d, in Giuliano Imperatore, Al cinico Eraclio, a cura di R. Guido, Galatina (Lecce) 2000.
41 - Claudio il Gotico fu un imperatore del III secolo, distintosi soprattutto nelle campagne militari contro i Goti, sul Danubio. Esaltato ne “I Cesari” di Giuliano, come uno dei migliori imperatori di Roma, Claudio non fu affatto un ascendente dei Costantinidi. Infatti, la genealogia che lo collegava a Costanzo Cloro, padre di Costantino I, e, attraverso questi, all’imperatore Giuliano, era assolutamente fittizia e frutto di una costruzione politica e propagandistica voluta proprio da Costantino, in vista della conquista del potere assoluto.
42 - Orazione VII cit., 227c.
43 - Sul punto, M. C. De Vita, Giuliano e l’arte della “nobile menzogna” (Or. 7, Contro il cinico Eraclio), in A. Marcone (a cura di), L’imperatore Giuliano cit.
44 - Escluso Flavio Eugenio (392-394 d. C.), usurpatoredi origine gallica che tentò l’ultima Restauratio pagana, ma fu sconfitto e ucciso dall’imperatore Teodosio I, nel 394 d. C.
45 - Ammiano Marcellino, o. c., XXII, 14, 4.
46 - Misopogoncit.,346 b, 361 b.
47 - Ammiano Marcellino, o. c., XXII, 12, 2.
48 - G. Bowersock, Julian the Apostate, London 1978.
49 - Sulle testimonianze epigrafiche del periodo giulianeo, G. Agosti, Paideia greca e religione in iscrizioni dell’età di Giuliano, in A. Marcone (a cura di), L’imperatore Giuliano cit.

Tommaso Indelli,
assegnista di Ricerca in Storia Medievale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Salerno.

L'articolo Contro i Galilei! Gli aspetti amministrativi e giuridici della Restauratio di Giuliano – 3^ parte – Tommaso Indelli proviene da EreticaMente.

Arturo Dazzi il babbo del “Bigio” – Emanuele Casalena

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[caption id="attachment_29703" align="alignright" width="230"] Arturo Dazzi[/caption]

Per tre anni i mie piedi pazienti hanno attraversato piazza Don Bosco, nomadismo dei docenti, arrivavo in un quartiere popolar-popoloso di Roma, circa 60.000 ab., la piazza come un Foro, palazzi dell’INPS affacciati su quel vuoto senza scopo, immensa rotatoria del traffico locale. Giravo a curiosare, com’è mio solito, per capire dove fossi allunato, sniffare gli odori dei forni, dei banchi di frutta, peregrinare nei bar annusando il profumo dei corneti, scoprire una tabaccaia felliniana da mozzare il fiato, il mercato rionale o i venditori d’agli e calzini sui marciapiedi. Già, da quest’ultimi scoprii la grande truffa dell’Euro prodiano, comprai a dicembre dei pedalini a 1.000 £, il negozio magrebino era il muretto della scuola, a gennaio il prezzo era di 1 Euro,  il doppio, ma i salari erano rimasti in lire.  Garcia, allenatore normanno della Roma, dopo un derby vittorioso, affermò “ abbiamo rimesso la chiesa al centro del paese”, bene ovunque io sia andato ho visitato in primis proprio la chiesa, così fu per Don Bosco. Per monumentale retorica salesiana è l’architettura guida del quartiere, non solo, connota di se lo sky line del panorama meridionale di Roma.

Gaetano Rapisardi, architetto siracusano, migrato pria a Firenze poi a Roma, ne fu il progettista vincitore di concorso nel ’52, era stato il migliore allievo di Marcello Piacentini, forse il più prono per amor delle commesse, visto il potere demiurgico dell’architetto del fascismo ( un’idiozia ) tanto da firmare i progetti delle Facoltà di Lettere e Filosofia, Giurisprudenza e Scienze Politiche della Città Universitaria. Un piccolo gossip rosa ci vuole perché il Gaetano fu uomo in carriera, nella città del giglio conobbe una delle figlie di Gino Coppedè, sua compagna di corso ad Architettura e Cupido fece centro. Lui giovane laureato rifiutò il posto fisso ( mito di C. Zalone) alla Soprintendenza ai monumenti  di Siracusa, per seguir l’amata a Roma piazzandosi a studio, guarda un po’, del futuro suocero passato alla storia per il quartiere eclettico conosciuto col suo cognome.

[caption id="attachment_29695" align="aligncenter" width="623"] Immagine dall’Archivio Gaetano Rapisardi, Basilica di S. Giovanni Bosco a Roma[/caption]

Arturo Dazzi era un predestinato, aveva respirato polvere di marmo fin d bambino, nato nella Carrara della bianca roccia da papà Lorenzo proprietario di  un laboratorio per la lavorazione del pregiato carbonato di calcio. Era nato nel 1881, battezzato col nome di William, nel 1888 era già orfano di padre, diceva lui, in realtà il babbo se l’era squagliata negli States cancellando ogni traccia. Il laboratorio implose e fu ceduto a poche lire, il bàmboro, chiamato Arturo, finì nella bottega di zio Nicola a rimboccarsi le manicucce lavorando di scalpello. L’era bravino  il ragazzo se a 11 anni mise piede all’Accademia di belle arti della sua città arrivando fino al Diploma nel 1899, sua vocazione la genetica scultura.

L’arte di levare fu la sua professione di fede rispettosa del patrimonio toscano del Rinascimento, i germi dei Pisano, Donatello, Buonarroti lo accompagneranno nel suo stile d’artista devoto al classicismo, forse troppo.

La mimesis del reale era solo uno strumento  di caccia dell’osservatore per raccontargli ben altro che la verosimiglianza;  Michelangelo fu il primo artista moderno, la forma mandorla del tormento d’animo, espressionismo aspro, tagliente sull’umana condizione o il potere, amara riflessione sulla morte come nella Pietà Rondanini da Dazzi rivisitata, nel 1907,  per il sepolcro dei conti San Bonifacio a Padova. A intenderci il marmo ispira grandezza non solo plastica ma di forza interiore, fu questo, a nostro avviso, il mancato 110  e lode dell’Arturo.  Il giovanotto era partito col piede del verismo sociale, dagli Eroi del mare, un gesso perduto, che gli valse la vincita del pensionato artistico a Roma dal 1905, a I lavoratori delle Alpi Apuane, a quel bronzo de I costruttori del 1906, di un realismo duro senza indugi al pathos o al lirismo bartoliniano, l’àncora è nel realismo francese e del nostro Vincenzo Vela con una polverina di melo..  L’anno prima del suo approdo romano s’era sposato con la diciannovenne Italia Scopsi della Lia che gli darà due figli: Romano nel 1905, ottimo disegnatore assai apprezzato da E. Oppo, e Renzo nel 1907.

Nella Capitale William (Arturo) colse i suoi primi applausii d’artista, realizza la statua a tutto tondo del Card. G. B. De Luca per il costruendo Palazzaccio di Giustizia di Guglielmo Calderini, una scultura alquanto barocchetta per i vari piani della composizione. Partecipa cum laude al concorso per il fregio dell’altare della Patria da collocarsi sotto il gradone della statua equestre di Vittorio Emanuele II, il temi da lui scelti sono Labor et  Amor Patriae. Fu corsa al fotofinish con A. Zanelli che si aggiudicò la commessa, ma l’interpretazione fidiaca del fregio di Dazzi fece comunque scalpore tra i critici d’arte, la porta del consenso s’ era aperta portandogli commesse da privati. Il suo stile si evolve, dal verismo prova senza convinzione il Liberty, schizza il futurismo pur essendo amico di Carrà, lo avvolge un poco la metafisica di De Chirico, ma la nave giusta per il suo marmo è il classicismo arcaico, solido, plastico, grandioso, privo d’orpelli descrittivi. Alle sua prima Biennale di Venezia, nel 1914, viene esposto un altorilievo in gesso  raffigurante “Il carro della Vittoria”, enfasi del soggetto, contaminazione stilista da Art Nouveau. Poi si apre la chiusura lampo della Grande Guerra, il nazionalismo ha vinto il suo braccio di ferro col neutralismo socialista, è giunto il tempo che l’arte canti l’Italia e i suoi eroi siano lavoratori o fanti della trincea, si sta apparecchiando quel “ritorno all’ordine” tanto caro a M. Sarfatti nei primi anni Venti. Nascono così il Monumento a Enrico Toti (1919-‘22) posto sul Pincio e il Monumento ai ferrovieri caduti per la Patria (1923)  a Villa Patrizi ( Roma), bronzi ellenistici a guardar bene le fonti.

[caption id="attachment_29696" align="alignleft" width="150"] Arturo Dazzi, Monumento a Enrico Toti, Pincio[/caption]

[caption id="attachment_29697" align="alignright" width="150"] A. Dazzi, Mon. ai ferrovieri caduti per la Patria[/caption]

Un saltello indietro adesso, nella Carrara delle botte sonore tra i neonati fascisti e gli anarco-socialisti nel clima di violenza del biennio rosso.  Fu un giovane ardito legionario fiumano di nome Renato Ricci a fondare il fascio di Carrara nel maggio del ’21, erano solo un dieci. La reazione della muta  dei rossi fu d’aggressione al “nemico di classe” in camicia nera, servo dei padroni delle cave. Ci furono assalti reciproci, schioppettate, morti, fino ai tragici  fatti di Sarzana che la dem. storiografia occulta. Ricci l’era in guardiola, un fermo dei Carabinieri seguito agli scontri coi bolscevichi, i camerati accorrono a manifestare uniti per la sua liberazione, i carruba aprono il fuoco uccidendone quattro e ferendone altri. Di ritorno da Sarzana i fascisti vengono aggrediti dai compagni che ne uccisero una decina accanendosi come cani sui loro corpi. Ma i fascisti di Carrara erano tutt’altro che amici dei padroni della cave, era esattamente il contrario se i lavoratori deposero a breve falce e martello per schierarsi con le camicie nere dello squadrista Renato Ricci. Contro “ i baroni del marmo” proclamò lo sciopero generale del 23 novembre 1924 con assemblea nel teatro Politeama di Carrara alla presenza di Benito Mussolini, era quello il fascismo rivoluzionario, “immenso e rosso” amato da Gallian, Viani e M. M. Merlino.

Il carrarese Dazzi dov’era? Non c’era tra gli squadristi, né si conoscono episodi che lo abbiano visto andar d’assalto o menar le mani, lui schivo, quieto, percorreva la sua strada, la sua adesione al fascismo fu da artista consenziente al nuovo vento di grecale, quel classicismo celebrativo era nelle sue corde, un’opportunità professionale oltre che un approdo personale di stile.

Eppure lui, agli occhi del regime, una macchia ce l’aveva eccome, nel 1907 era stato iniziato alla Loggia massonica “Fantiscritti” di Carrara ancor’oggi operante che si era distinta con il suo Presidente nonché sindaco di Carrara Alessandro Bigetti per il censimento delle cave e la tassazione delle rendite bel 1902. Comunque ad Arturo il Notiziario del GOI dell’ottobre 2016 ha dedicato un ricordo dell’artista  in occasione dei cinquant’anni della sua scomparsa onorati da una mostra a Villa Torlonia. In chiusura del pezzo si legge: Massone,  venne iniziato nella loggia “Fantiscritti” di Carrara.

S’ode il verso del VII canto dell’Inferno dantesco: “ Papè Satan, Papè Satan aleppe…” , odor di zolfo dalle grotte dell’Arte Muratoria assai amata, purtroppo, dagli architetti, ma le fil vert  del grembiule massonico tesseva anche quello di Marcello Piacentini, l’arch-leader dell’ars edificandi del fascismo, sorpresi? Post bellum il Marcello si riciclò in fretta e furia, a Sironi celebrarono il De profundis.  E’ un terreno d’indagine stimolante, tutto da dissodare per riportare alla luce la storia, ma qui importa solo per capire l’amicizia tra Dazzi e Piacentini iniziata, guarda caso, nel ’22.

Eppure William amava molto i ritratti e gli animali, si prestò invece al gigantismo retorico di Piacentini sfornando lavori di pregio ma anche colossi senza anima, di solo corpo, come il “Bigio”.

La premiere fois con il Marcello fu il fregio per la lunetta del salone centrale della nuova sede della Banca d’Italia firmata dall’architetto. Poi fu un susseguirsi di monumenti ai caduti da Ancona a Fabriano fino all’altorilievo della Vittoria Sagittaria a Bolzano.

[caption id="attachment_29704" align="alignleft" width="150"] Arturo Dazzi, Monumento ai caduti, Fabriano[/caption]

[caption id="attachment_29705" align="alignright" width="150"] A. Dazzi, Fregio della Vittoria, Monumento di Bolzano[/caption]

Dalla metà degli anni ’20 agli anni ’30 si susseguirono le tappe del suo successo, dalla Biennale veneziana del ’26, alla Mostra d’are moderna di Zurigo dell’anno seguente coincidente con la nomina a Cavaliere di SS Maurizio e Lazzaro, alla vernissage internazionale di Madrid del ‘28 , alla  nomina, senza concorso, a docente di scultura all’Accademia Reale di belle arti di Carrara nel ’29. Seguono la partecipazione alla Quadriennale romana del ’31, l’ingresso all’Accademia di S. Luca, la sua presenza alle Esposizioni internazionali di Budapest e Parigi dove si aggiudicò il “Grand Prix” e l’Esposizione mondiale di New York nel ’37, anno boom con l’investitura ad Accademico d’Italia. Ciliegina ante guerra fu la Medaglia d’oro assegnatagli dalla città di Roma per le sue benemerenze artistiche.  Ma in questo turbinio di mostre (ne abbiamo citate solo alcune), incarichi, onorificenze il meglio di se l’artista l’avtrbbe dato nei ritratti come nella mimesis zoologica. Prendono ad esempi Serafina o il non finito Ritratto di bambino, la celebre Adolescente il famoso Cavallino del 1928 o il Capriolo morente presentato alla Prima mostra de “L’animale nell’arte” svoltasi nelle sale al giardini zoologico di Roma nel marzo del ‘30 ( Doc. dell’Istituto Luce ) e altre opere in libertà compresi i dipinti.

           

[caption id="attachment_29706" align="alignleft" width="150"] Arturo Dazzi, Serafina, 1920[/caption]

[caption id="attachment_29707" align="alignright" width="150"] Arturo Dazzi, ritratto di bambino, 1930[/caption]

    

Fu artista con più maschere, classica, epica per le opere pubbliche monumentali, intimista per gli occhi coi quali indagava curioso persone o animali con calma serena come quando, lasciati trapani e scalpell,i si sedeva a dipingere i suoi quadri. Ecco  la sua pittura era  il “riposo del guerriero” a Forte dei Marmi, paesaggi meditati della Versilia, nature morte ricche di colori, alla Cézanne, studio di nudi femminili ( ma senza l’eros di Modì ), scene campestri e gli animali toscani come i buoi di Fattori.

[caption id="attachment_29708" align="alignleft" width="150"] Arturo Dazzi, Il Cavallino, 1928[/caption]

Scontato che dell’artista si rivaluti il suo percorso intimista, recuperandone il verismo

[caption id="attachment_29709" align="alignright" width="150"] Arturo Dazzi, Il capriolo morente. 1930[/caption]

introspettivo dei soggetti, quasi un’amara riflessione sull’essere e il dover essere per la retorica del regime. Villa Torlonia ne aveva celebrato l’umanesimo, retaggio genetico, per un toscano che guarda al Quattrocento, mimetizzando se non addirittura sezionando il Dazzi indagatore della realtà come unica Musa ispiratrice ( Caravaggio fé lo stesso senza scomodare Courbet) dal Dazzi  rètore del Fascismo. Chi ha sfiorato l’arte con le proprie mani sa che questa è un’operazione chirurgica alla testa che conduce alla sua morte dell’artista.

Arturo per noi è soprattutto grandezza, d’altronde il marmo questo gli aveva insegnato, è quella che leggiamo nella sua collaborazione all’Arco della Vittoria di Genova del ‘31, architetto Piacentini, bassorilievi del nostro. Quei fregi raffigurano tutte le armi combattenti nella I Guerra mondiale distribuite secondo orientamento, tra i bersaglieri compariva il ritratto di Benito Mussolini poi abraso dall’iconoclastia della Resistenza. Poi c’è quel “Bigio” alto 7 m e ½ in marmo di Carrara, piazzato a Brescia  su una fontana a Piazza della Vittoria per celebrare i 10 anni dell’Era fascista ( nome del colosso ), rimosso a furor di partigiani nel ‘45 e nascosto in un magazzino comunale ( così ha fatto la mostra su Dazzi a Villa Torlonia). Il soggetto è un giovane palestrato, un atleta, totalmente ignudo, gambe ben salde a compasso in posizione chiasmica rivisitata, testa volta verso sinistra, posa di orgogliosa sfida. Con le debite proporzioni richiama un altro giovane gigante il David di Michelangelo emblema della bellezza maschile, difensore della Repubblica fiorentina di Pier Soderini. Dopo più di 70 anni un comitato cittadino bresciano invoca la sua ricollocazione in sito ma l’ANPI fa buona guardia sui “rigurgiti “ del ventennio, eppur  per le sue ciapet tornite, quel fisico d’ Apollo, “il Bigio” è diventato, dicono, un’icona gay.

[caption id="attachment_29710" align="aligncenter" width="622"] Arturo Dazzi, il colosso dell’Era fascista detto il Bigio, 1932[/caption]

E veniamo a Guglielmo Marconi, icona del progresso tecnico-scientifico per il regime, Dazzi ne scolpisce un ritratto a stele secondo i canoni della scultura pubblica romana, ma ancor di più viene incaricato di rivestire di pannelli il Monumento a Guglielmo Marconi da erigersi a obelisco nella Piazza Imperiale ( poi G. Marconi ) in occasione dell’EUR del ’42. L’opera gli fu commissionata personalmente da Mussolini nel ’37, verrà ultimata solo nel 1959 tra tante interruzioni, dovute agli eventi bellici, ma anche ripensamenti dell’artista, ostracismo nei suoi confronti. L’obelisco è alto 45 m, realizzato in cemento armato, simbolicamente ricorda  l’antenna radio di Marconi, l’opera restò nuda fino alla fine degli anni ’50 poi con l’avvicinarsi delle Olimpiadi romane del ’60 si decise finalmente di cucirle sopra l’abito di 90 pannelli realizzati da Dazzi con la storia dell’invenzione del fisico bolognese che affratella tutti i popoli del mondo anzi tutta la Natura narrata in Canti come in un poema medioevale moderno.

[caption id="attachment_29711" align="alignleft" width="300"] La Pricipessa Elettra Marconi vicino al busto di Guglielmo Marconi, realizzato nel 1940 dallo scultore Arturo Dazzi,[/caption]

                                                             

[caption id="attachment_29712" align="alignright" width="150"] A. Dazzi, Obelisco dedicato a G.Marconi, 1958, EUR - Rom[/caption]

La guerra segnò il punto di non ritorno, inutile girarci intorno, Dazzi si rintanò prima ad Orbetello poi nella sua villa a Forte dei Marmi, fu depennato dal nuovo elenco degli artisti prono-affidabili, di quelli riciclati per il riuso. Unica forte eccezione la stele di Marconi ultimata grazie alla mediazione determinante della famiglia del fisico felsineo. il Mausoleo a Ciano restò logicamente incompiuto, precipitando nel degrado, anche le formelle per le porte di bronzo di S. Pietro furono scartate,quell’ artista era troppo compromesso col fascismo anche nello stile, perciò si stese la coperta del silenzio. Furono anni di depressione, malattia spezzati da frammenti di gloria ( cattedra di scultura all’Accademia di Carrara (’48-’50), timida Biennale di Venezia nel ’52 con ritratto ligneo di C Malaparte spregiato dallo scrittore, qualche commessa privata e molta pittura. Ma proprio il miglior allievo di M. Piacentini, Gaetano Rapisardi, si ricordò di Arturo per decorare la facciata della Basilica di S. Giovanni Bosco nel quartiere Tuscolano, era il 1958.

[caption id="attachment_29713" align="aligncenter" width="620"] Arturo Dazzi, altorilievo di Don Bosco, 1958[/caption]

Da ex allievo dei Salesiani, mi sentivo un po’ a casa visitando il tempio, dal sagrato l’occhio mi cadeva sul Don Bosco di Dazzi, gli angeli disegnano una mandorla simbolo mistico della resurrezione, si aprono scoprendo il corpo gigante del Santo che forma una croce, ha passato la morte ed ora è investito dalla luce divina, tutto si è compiuto. La gerarchia delle figure ci ricordano  la scultura popolare romana ma anche la bottega dei  Pisano, una lezione di classicità in chiave moderna, è la firma dello stile di William (Arturo) Dazzi.

Emanuele Casalena

Bibliografia:

DizionBolaffi degli scultori italmoderna Torino 1972, p. 110.

  1. A. Picone Petrusa, Dazzi Arturo, Dizionario biografico degli Italiani, Vol 33, 1987, Enc. Treccani.

A.V.Laghi, Arturo Dazzi scultore e pittore. introduzione di Antonio Paolucci, Cassa di Risparmio di Carrara : Fondazione Cassa di Risparmio di Carrara, Ospedaletto, Pacini, 2012.

Federico Giannini, Arturo Dazzi:una mostra per recuperare un artista condannato dalla storia,Rivista online Finestre sull’Arte, 2017.

Carlo Franza, Arturo Dazzi lo scultore fascista che rese grande l’arte italiana,Blog Il Giornle, 16 ott. 201.

Gioela Massagli, Arturo Dazzi ( Carrara 1881- Pisa 1966 ), Art Studio.

L'articolo Arturo Dazzi il babbo del “Bigio” – Emanuele Casalena proviene da EreticaMente.


DECIMA FLOTTIGLIA M.A.S.: propaganda per la riscossa (XXVI parte) – Gianluca Padovan

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«… la sera dell’8 settembre, trovandomi al comando della Flottiglia a La Spezia, apersi la radio per captare il bollettino di guerra; come un fulmine a ciel sereno la notizia dell’avvenuto armistizio piombò sui nostri progetti, sulle nostre attività, sulle nostre speranze…»

Junio Valerio Borghese, Decima Flottiglia MAS, 1950

 

 

 

Tutt’oggi “suona” strano.

Avendo parlato della propaganda portata avanti dalla Decima M.A.S. si può tornare ai fatti del 1943: repetita iuvant! (1).

Dopo non essere entrati nel conflitto al fianco della Germania nel 1939, ma l’anno successivo e dichiarando guerra a una Francia già sconfitta, si capisce che le vicende non solo belliche presentano lati che la “storia ufficiale” s’è sempre guardata bene dall’affrontare.

Una sera Badoglio annuncia alla radio la firma dell’armistizio avvenuta già alcuni giorni prima a Cassibile. Ma ai soldati al fronte e in patria non viene dato alcuno specifico ordine. Solo la Regia Marina, e non tutta, riceve l’ordine di consegnarsi al nemico o di autoaffondarsi.

Il Comandante Junio Valerio Borghese conclude così il libro Decima Flottiglia MAS. Dalle origini all’armistizio, scritto quasi settant’anni fa da quei fatti: «Mi sembrò strano».

 

Antony Eden.

Cominciamo a ricordare chi fosse Antony Eden (Durhan 1879 – Salisbury 1977). Esponente di spicco del Partito Conservatore inglese, presso la Società delle Nazioni nel 1935 sostiene la necessità di sanzionare il Regno d’Italia a causa della guerra condotta contro l’Etiopia. Inoltre: «pervenne nel medesimo anno (dicembre) alla direzione del Foreign Office nel gabinetto Baldwin. Fautore di una politica di fermezza verso le dittature nazista e fascista, si dimise nel febbraio del 1938, rifiutando di appoggiare Neville Chamberlain nella sua politica di distensione e di negoziati diretti con l’Italia e la Germania. Segretario di Stato per i Dominions nel 1939, riprese la direzione del Foreign Office dalla fine del 1940 al luglio del 1945, assumendo inoltre, dal 1942, la presidenza dei comuni. Divenuto il maggior collaboratore di Churchill, viene considerato suo probabile successore alla testa del partito conservatore» (Rizzoli Larousse, Enciclopedia, Vol. 7, Bologna 2003, p. 345).

 

 

Le indagini di Elena Aga Rossi.

Parlando di Sir Robert Antony Eden, dei contatti diplomatici e dei sondaggi che si stavano conducendo per capire in quale modo ottenere l’uscita dell’Italia dal conflitto mondiale, Elena Aga Rossi scrive: «I “sondaggi” di cui sopra erano venuti da·numerosi italiani fuori d’Italia e presentati in promemoria al primo ministro da Eden (14): I) il ministro e il primo segretario della legazione italiana a Lisbona[1] si erano serviti di un intermediario romeno per esprimere all’ambasciata inglese e all’ambasciata polacca a Lisbona il loro interesse per una pace separata. II) Si era detto che il generale Birolli[2], governatore italiano del Montenegro, fosse favorevole a una pace separata. Questa informazione, che era vaga, proveniva dal generale Mihailovic[3], che era in contatto con il generale Birolli, e non era sicuro se la pace cui si faceva riferimento sarebbe stata tra l’Italia e gli Alleati o un’intesa esclusivamente locale tra l’Italia e il generale Mihailovic. III) Il console generale italiano a Ginevra[4] era ansioso di stabilire un canale di comunicazione da usare in caso di emergenza tra il governo inglese e una persona non nominata dell’entourage del principe ereditario (con tutta probabilità il principe Umberto stesso)» (Elena Aga Rossi, L’inganno reciproco. L’armistizio tra l’Italia e gli angloamericani del settembre 1943, Pubblicazioni degli Archivi di Stato – Fonti XVI, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali – Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, Roma 1993, pp.105-106).

 

Note alla trascrizione:

[1] Il ministro era Francesco Fransoni, che mantenne la carica fino al maggio 1943 quando fu sostituito da Prunas; il primo segretario era Renato Giardini, che mantenne tale carica fino al giugno 1943, quando fu sostituito da Francesco Silj.

[2] Il nome corretto è Pirzio Biroli.

[3] Il leader serbo Draza Mihailovic, nazionalista e filomonarchico, fu a capo di bande di partigiani cetnici; inizialmente appoggiato dagli inglesi venne da questi sconfessato nell’autunno 1943 in seguito alla loro decisione di sostenere i partigiani comunisti di Tito.

[4] Si tratta di Luigi Cortese.

Riferimento ai documenti:

14) Minuta di Eden al primo ministro del 2 dicembre 1942; PM/42/292 in CP 242.

 

 

12 dicembre 1942 e il duca di Spoleto.

Più avanti Elena Aga Rossi scrive: «Dieci giorni dopo (il 12 dicembre [1942. N.d.A.]) Eden era in grado di dare maggiori ragguagli circa l’approccio ginevrino (16):», poi riportando il testo del documento di Sir Robert Antony Eden:

«“Vengo ora a conoscenza che la “persona non nominata” è il duca di Aosta (cioè il duca di Spoleto fratello del defunto duca di Aosta[1]) che si dice sia disposto a guidare una rivolta armata contro Mussolini e il regime. Si dice che è fiducioso di poter contare sull’appoggio della marina italiana e di alcuni elementi dei bersaglieri, anche se non può fare assegnamento sull’esercito. Le forze aeree italiane, inoltre, sono completamente fasciste. Le garanzie chieste da (? a)[2] noi sarebbero:

  1. a) L’appoggio della RAF per affrontare le forze aeree italiane e tedesche.
  2. b) Uno sbarco concordato da parte di truppe britanniche e americane, coll’intesa che esse sbarcherebbero come alleati per collaborare al rovesciamento del regime e non come truppe di conquista e occupazione dell’Italia.
  3. c) Non deve essere fatta alcuna richiesta di consegnare la flotta italiana.
  4. d) Mantenimento della monarchia in Italia.
  5. e) Si devono dare garanzie secondo questi termini a nome di tutti i paesi alleati.

Sembra che il duca intenda organizzare e guidare la rivolta sotto la propria responsabilità con l’obiettivo di restaurare casa Savoia secondo linee costituzionali, con il principe di Piemonte sul trono. È mia opinione che questo approccio è probabilmente genuino. Ma la proposta non mi ha fatto grande impressione. È chiaro, per esempio, che noi troveremo una forza aerea ostile, nessun appoggio da parte dell’esercito tranne i bersaglieri (cioè al massimo circa 27.000 uomini), e forse nessuna collaborazione attiva da parte della marina. Il punto (b) per di più prescrive uno “sbarco concordato” che nell’ipotesi migliore presenta complessi problemi di coordinamento e di concomitanza e nella peggiore non può essere altro che un tranello. E la condizione secondo la quale tutti i governi alleati dovrebbero unirsi nella desiderata garanzia renderebbe quasi impossibile mantenere il segreto riguardo all’operazione. Ciononostante i vantaggi che si ricaverebbero dal poter contribuire a un crollo italiano sono molto grandi ed io ho dato istruzioni di mantenere aperto questo canale di comunicazione. Il duca di Aosta ha cominciato a discutere il suo piano con il principe di Piemonte e ad informare il nostro intermediario dei risultati. Non vi possono essere danni dall’ascoltare il risultato di questa discussione e per il momento non intraprendo alcuna ulteriore azione”. Il primo ministro [Winston Churchill. N.d.A.] annotò al margine “concordo” (17)» (Ibidem, p. 107).

 

Note alla trascrizione:

[1] Aimone, duca di Spoleto, era un ufficiale di marina, designato nel maggio 1941 re di Croazia; divenne duca d’Aosta nel novembre 1942 alla morte del fratello Amedeo. Questi era stato comandante delle truppe italiane in Etiopia dove venne fatto prigioniero dagli inglesi.

[2] Così nel testo; come anche in altri punti del documento, si tratta probabilmente di un suggerimento di alternative per l’eventuale pubblicazione del testo.

Riferimento ai documenti:

16) Minuta di Eden al primo ministro del 12 dicembre 1942, PM/ 42/303 in CP 242.

17) Nota manoscritta di Churchill in PM/42/303 come sopra.

 

 

L’accoppiata Badoglio – Pesenti.

Inoltre, sempre l’Autrice, scrive: «Ma questo non fu l’unico approccio fatto via Svizzera. Né il più importante. Anche il SOE, sembra di propria iniziativa, prese contatto con (? fu avvicinato da) un industriale italiano di nome Rusca[1] che era personalmente in relazione con il maresciallo Badoglio (18). L’8 gennaio 1943, sir Charles Hambro[2], scrisse al generale Ismay[3] accludendo il rapporto che viene riprodotto integralmente (19).

“Partiti antifascisti italiani

  1. Sin dal maggio 1942 il nostro rappresentante SOE a Berna è stato in contatto con i marescialli Badoglio e Caviglia in Italia. Il contatto è mantenuto attraverso un intermediario nel quale il rappresentante SOE a Berna ripone piena fiducia e col quale egli ha collaborato in altre occasioni per un lungo periodo. Egli è anche un amico del maresciallo Badoglio e i suoi genitori antifascisti non sono mai stati messi in dubbio.
  2. Egli riferisce che Badoglio è ora fermamente convinto che l’Asse non può vincere la guerra; egli non è più fedele alla Casa reale e vuole, al momento giusto, prendere il potere e costituire un governo militare. Badoglio e Caviglia hanno, insieme, un seguito potente e influente di elementi antifascisti in Italia e desiderano inviare un emissario nella persona del generale Pesenti[4] per discutere con il governo britannico un’azione coordinata dall’esterno e all’interno dell’Italia mirante al rovesciamento del regime fascista.
  3. La più recente informazione indica che un aeroplano con pilota è pronto a partire dall’Italia per portare il generale Pesenti in Cirenaica.
  4. Il maresciallo Badoglio ha chiesto per garanzia che si aiuti il generale Pesenti a reclutare un esercito tra gli italiani residenti all’estero e, se possibile, tra prigionieri di guerra ribelli.
  5. All’interno dell’Italia il maresciallo Badoglio è fiducioso di potere, al momento opportuno, essere a capo di vasti settori del popolo italiano, convinti che la Gran Bretagna vincerà la guerra e che solo collaborando veramente al rovesciamento del regime fascista sia possibile accarezzare una minima speranza di occupare un posto al tavolo della pace e di essere presi in benevola considerazione per quel che riguarda il futuro status internazionale dell’Italia.
  6. Questo approccio sembra al SOE di vitale importanza e viene perciò chiesto che i capi di Stato maggiore diano il loro consenso:
  7. a) al volo del generale Pesenti dall’Italia e b) a trattative con il maresciallo Badoglio sulla base della costituzione di un esercito italiano antifascista da parte del generale Pesenti.
  8. Il nostro corriere dall’Italia a Berna deve superare notevoli difficoltà per mantenere i contatti con entrambe le parti ed è perciò essenziale che si possa dare una risposta in un prossimo futuro. È stata chiesta una decisione per il 12 dicembre, data nella quale egli deve arrivare a Berna.
  9. Detto tra parentesi, il generale Pesenti ci dà piena libertà di scelta se, dopo il volo, la notizia deve essere resa di pubblica ragione o mantenuta per qualche tempo segreta”» (Ibidem, pp. 108-109).

 

Note riferite alla trascrizione:

[1] Luigi Rusca, condirettore amministrativo della Mondadori, aveva potuto recarsi spesso in Svizzera per motivi di lavoro e lì era entrato in contatto con elementi del SOE. Nell’aprile 1943 era stato internato in provincia di Potenza; fu poi liberato da Badoglio subito dopo il 25 luglio.

[2] Capo del SOE fino al settembre 1943.

[3] Il generale Hastings Lionel Ismay fu durante la guerra collaboratore diretto di Churchill come capo di Stato maggiore incaricato del collegamento tra il primo ministro e ministro della difesa, da una parte, e i vertici militari, dall’altra. Dal 1952 fu primo segretario generale della NATO.

[4] Il gen. Gustavo Pesenti, già comandante e governatore reggente della Somalia, era stato rimosso nel dicembre 1940 dall’incarico per aver proposto al duca d’Aosta di trattare un armistizio con gli inglesi.

Riferimento ai documenti:

18) SOE, History, vol III, pp. 828-830.

19) Memorandum SOE del 7 gennaio 1943, SIC.B/Special Ops./4.77A.

 

 

Colpo di stato all’italiana.

Si sottolineano gli intendimenti di Badoglio il quale «non è più fedele alla Casa reale e vuole, al momento giusto, prendere il potere e costituire un governo militare»; in pratica vede la possibilità di condurre un “colpo di stato” prendendo lui stesso il potere. Sulla “formula”, ovvero sulla “resa incondizionata”, quindi “senza condizioni”, ancora Elena Aga Rossi ha trascritto il seguente documento, datato 21 luglio 1943:

 

«Telegramma

Da: J.S.M. Washington

A: W.C.O. Londra

21 luglio 1943

Riferimento a NAF 295

Lo Stato maggiore degli Stati Uniti raccomanda ai capi di Stato maggiore congiunti di inviare la seguente risposta a NAF 295 al generale Eisenhower. Il comandante in capo alleato è autorizzato

(1) a fare i preparativi per estendere AMGOT sino a Roma.

(2) a trattare con gruppi militari o civili in Italia per realizzare la resa senza condizioni dell’Italia, ma non relativamente alla costituzione di un governo nel territorio occupato. Tranne che per funzionari di secondo piano, la scelta di italiani per il governo civile in Italia dopo la sua capitolazione sarà fatta dal presidente e dal primo ministro dopo aver ricevuto le raccomandazioni del comandante in capo alleato» (Ibidem, p. 280).

 

L’A.M.G.O.T. è l’Allied Military Government of Occupied Territories (Amministrazione Militare Alleata dei Territori Occupati).

 

Giacomo Carboni & Dwight Eisenhower.

È utile riportare anche il «Resoconto di Eisenhower ai capi di Stato maggiore congiunti sugli sviluppi dei contatti di pace con gli italiani, 28 agosto 1943», anch’esso contenuto nel lavoro di Elena Aga Rossi:

 

«Segretissimo // Da: Algeri // A: HQ Etousa (Azione) // Datato 28 agosto // Ricevuto 29 agosto // NAF 342 28 agosto 1943 // “Testo letterale corretto” // Indirizzi interni: per i capi di Stato maggiore congiunti // per i capi di Stato maggiore britannici // Firmato: Eisenhower // Riferimenti a: FAN 203 // 6056, FAN 202 // Con il testo dell’atto completo di resa, questo dà ricevuta di FAN 203. Gli sviluppi dal momento della prima conferenza di Lisbona sono i seguenti. Appena ricevuto il messaggio 6056, FAN 202, che ci informava dell’imminente trasmissione dei termini completi, il ministro britannico che aveva ricevuto tale messaggio si mise in comunicazione con Londra informando il governo che non vi era la sicurezza sul ritorno qui del generale C. e che i termini originari presentatigli a Lisbona avrebbero potuto essere accettati senza che lui tornasse. Il ministro britannico ha anche affermato che poiché era stata consegnata al generale C. una bozza della capitolazione militare, la situazione militare avrebbe potuto essere compromessa dalla presentazione dell’atto più completo nel breve periodo di tempo che restava prima del lancio di Avalanche. Ciò è particolarmente vero dato che la scarsità di tempo, la grande difficoltà nelle comunicazioni e la necessità della segretezza impediscono di continuare qualsiasi tipo di negoziati, salvo il più breve e il più semplice. Speriamo di riuscire a stabilire comunicazioni con il governo Badoglio a partire da oggi, 28 agosto, e di poter ricevere, entro le prossime 48 ore, un segnale della loro accettazione dei termini dello strumento breve (Ibidem, p. 292).

Il «generale C.» è il Generale Giacomo Carboni.

 

 

Note.

 

1) Vedere utilmente quanto già scritto nella XVIII parte.

 

Sulle imprese della Decima Flottiglia MAS si può consultare il sito dell’Associazione:

associazionedecimaflottigliamas.it

 

N.B.: I bolli a corredo provengono da: Archivio di Stato di Milano; Tribunale Militare per la Marina in Milano (Repubblica Sociale Italiana), Procedimenti archiviati. Autorizzazione alla pubblicazione. Registro: AS-MI. Numero di protocollo: 2976/28.13.11/1. Data protocollazione: 29/05/2018. Segnatura: MiBACT|AS-MI|29/05/2018|0002976-P.

 

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La responsabilità morale di Giuda – Luigi Angelino

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Negli ultimi anni, hanno fatto discutere alcune affermazioni di papa Francesco su Giuda l'Iscariota, l'apostolo di Gesù passato alla storia per averlo tradito e consegnato alla morte. Uno dei più recenti tentativi di riabilitare la figura di Giuda, la troviamo in un'intervista concessa a don Marco Pozza, in un estratto pubblicato da Il Corriere della sera il 23 novembre 2017 (1). In tale intervista papa Francesco sembrerebbe negare il tradizionale insegnamento della Chiesa Cattolica, secondo il quale Giuda sarebbe stato condannato al fuoco dell'inferno per l'eternità, anzi l'Iscariota è presentato come “un personaggio difficile da capire”, con particolare riferimento al sincero pentimento dell'ignominosa azione compiuta e al successivo rifiuto da parte dei sacerdoti giudei di avere misericordia nei suoi confronti. Francesco menziona due sculture presenti su un capitello medioevale nella basilica di Santa Maria Maddalena a Vezelay (2), in Borgogna, regione storica della Francia, che raffigurerebbero, da un parte Giuda impiccato, dall'altra il Buon Pastore che lo carica sulle spalle e lo porta via con sé. L'interpretazione presentata da questa scultura, per chi ha una conoscenza superficiale dell'arte e della teologia medioevale, potrebbe apparire, nella migliore delle ipotesi un'errata lettura della storia di Giuda, se non addirittura un travisamento eretico.

Secondo l'interpretazione tradizionale, il capitello in questione, scolpito tra il 1115 ed il 1120, sarebbe simile ad altre rappresentazioni presenti in numerose chiese edificate nello stesso periodo, e serviva come monito ai fedeli del terribile destino riservato a Giuda, e di conseguenza a tutti i traditori, cioè l'aspettativa del più basso in inferno. Emblematica è la collocazione di Giuda da parte di Dante, nella fossa più profonda dell'Inferno, il nono cerchio, nella bocca centrale di Lucifero, affiancato da Bruto e Cassio, seguendo l'insegnamento tradizionale. Pertanto, nella raffigurazione del capitello di Vezelay, l'uomo che porta via il cadavere, rasato con la sua corta tunica e senza aureola, starebbe ad indicare le sembianze di colui che deve fare il lavoro spiacevole di portare via il corpo suicida di Giuda, che, secondo l'usanza del suo tempo, per il grave crimine commesso, ricevette una sepoltura vergognosa dopo il tramonto.

Per gli oltranzisti cattolici, papa Francesco, che addirittura intravede “un sorriso complice sulla bocca del buon pastore”, identificato invece dai tradizionalisti come “espressione di ripugnanza”, non solo attribuirebbe un'errata lettura della simbologia di Vezelay, ma sovvertirebbe l'intera teologia medioevale. Ma vi è di più, Francesco, con le sue affermazioni rivoluzionarie, andrebbe oltre gli insegnamenti dei primi  padri della Chiesa, che hanno sempre condannato il suicidio, come crimine atroce e peccato mortale.

Ma l'apologia del tradimento di Giuda affonda radici ben più profonde e risponde soprattutto all'esigenza di contemperare il mai risolto problema tra determinismo e libero arbitrio dell'uomo. Citiamo, a tale proposito, il teologo Von Balthasar (3), già mentore di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, che nel suo libro “Sperare per tutti” (4), cercò di costruire una nuova teologia per riabilitare la figura di Giuda e salvarlo dalla condanna eterna. Secondo Balthasar il vero traditore di Cristo fu Dio, che lo abbandonò ad una spregevole morte: in realtà Dio Padre progettò e fece in anticipo, quanto Giuda compì “dopo” e per sua precisa disposizione. Se analizziamo la problematica dal punto di vista laico, senza pregiudizi religiosi, dobbiamo concludere, seguendo il ragionamento filosofico e razionale del precitato teologo, o che entrambi siano traditori (Dio e Giuda), o che nessuno dei due è colpevole, perché tutto faceva parte di un disegno prestabilito di salvezza.

Alla luce di queste considerazioni, la figura di Giuda, non solo ne esce riabilitata, ma diventa un protagonista nell'economia della salvezza dell'uomo voluta da Dio, tramite la morte del suo unico figlio. L'Iscariota diventa “un ministro di Dio, che eseguì la sentenza del Padre”. Il poeta francese Charles Peguy (5) immagina addirittura che le ultime parole di Cristo, nel corso della sua agonia, furono rivolte a Giuda, per esprimere amarezza per la mancata condivisione della dannazione del traditore. E' inutile dire quanto sia stata veemente, nell'epoca del poeta francese, la solita reazione degli esponenti della Chiesa retrogradi e bigotti, che considerarono le sue parole oltraggiose.

Molto interessante è il saggio-racconto di Borges (6), intitolato “Le tre versioni di Giuda” (7), nonché la riproposizione nel 2006 della traduzione del papiro contenente il Vangelo apocrifo di Giuda. Entrambe le fonti offrono un'immagine di Giuda completamente diversa da quella tradizionale. Nel vangelo apocrifo di Giuda (8), ispirato alla corrente dello gnosticismo (9), il tradimento dell'apostolo è addirittura voluto da Gesù e l'Iscariota appare come l'unico veramente in grado di comprendere il messaggio del Messia e di portare a termine fino in fondo il suo compito. Giuda consegnerebbe il suo Maestro alle autorità religiose e romane, soltanto per compiere la volontà divina. E' altamente simbolica una frase contenuta in questo testo apocrifo “Tu sacrificherai l'uomo che mi riveste”: Giuda, pertanto, è presentato come l'apostolo eletto, costretto ad un tradimento vergognoso, ma necessario per eliminare la figura umana Cristo e rivelarne la gloria divina. Sono molto chiari gli influssi dell'ideologia gnosticista  e del docetismo (10), che riteneva l'umanità di Cristo soltanto pura apparenza.

Borges, nel suo saggio “Le tre versioni di Giuda”, menziona le teorie del fantomatico teologo Nils Runeberg (11), che sono ancora più estreme sulla figura dell'apostolo maledetto e che sarebbero contenute nel libro “Kristus och Judas” del 1904 (12).  Nel racconto di Borges, il teologo svedese fu attaccato su tutti i fronti, fino ad essere accusato di eresia, ma ugualmente ripubblicò per tre volte il suo libro, rendendo le sue argomentazioni sempre più coraggiose. Nell'ultima edizione del suo libro, Runenberg sottolinea come il sacrificio di Cristo non potesse basarsi su un evento così banale come il tradimento di Giuda, ma che invece dovesse apparire “perfetto”, scevro da considerazioni morali che coinvolgessero altri. E il sacrificio per la salvezza dell'umanità non poteva essere “esteticamente bello”, ma doveva rappresentare il completo azzeramento della divinità e la momentanea vittoria dell'abominio, così come previsto dal profeta Isaia (13).

E' quasi sconvolgente, se letta con superficialità, la seguente frase di Borges: “Per salvarci, avrebbe potuto scegliere uno qualunque dei destini che tramano la perplessa rete della storia; sarebbe potuto essere Alessandro o Pitagora o Rurik (14) o Gesù; scelse un destino infimo: fu Giuda. Secondo questa drammatica e sconcertante conclusione, il segreto di Dio consisterebbe proprio nell'aver condannato il proprio figlio all'abisso e alla dannazione, per condividere pienamente la condizione umana, e non soltanto la sofferenza di un pomeriggio sulla croce.

Se andiamo ad analizzare anche le argomentazioni storiche prospettate da Borges, ci accorgiamo di alcune evidenti contraddizioni presenti nella tradizione. Prima di tutto, l'atto di Giuda appare superfluo, che senso avrebbe avuto l'identificazione plateale del “famoso bacio” a un uomo che ormai era ben conosciuto e che già da tempo predicava nelle sinagoghe, peraltro era stato già segnalato con una certa frequenza dalle autorità giudaiche? Il teologo Runenberg non si rassegna alla futile e turpe motivazione dei trenta denari, ma sceglie addirittura uno scopo opposto, di natura metafisica, un apostolo che sceglie la strada dell'infamia più assurda per glorificare Dio. Una parte  della dottrina tradizionale ha voluto vedere in Giuda un simpatizzante del movimento zelota (15), con il quale avrebbe condiviso le speranze del messianismo nazionalista di molti Giudei dell'epoca. Ad un certo punto Giuda, rendendosi conto che il messaggio del Maestro trascendeva la logica terrena, poiché si rivolgeva alla spiritualità dei discepoli, avrebbe cercato di persuaderlo ad agire in un confronto diretto con gli esponenti religiosi, prendendo accordi con gli avversari e tentando, nello stesso tempo, di trarre vantaggio dalla situazione.

Anche analizzando i testi dei vangeli considerati canonici, notiamo alcune discrepanze sulla figura di Giuda. Matteo, Marco e Luca (16) parlano del fatidico bacio prima dell'arresto di Gesù, Giovanni concorda più o meno con lo stesso racconto dei sinottici, ma osserviamo che nella narrazione della lavanda dei piedi, si riferisce all'Iscariota in maniera piuttosto enigmatica, quasi in un gioco a cerchi concentrici. Si nota, nell'ambito della narrazione dell'ultima cena di Giovanni (17) dove manca l'istituzione dell'eucaristia, prospettata con alcune varianti significative dai sinottici, sostituita, invece, dalla “lavanda dei piedi”, una versione del rapporto tra Gesù e Giuda molto complessa e difficilmente liquidabile nella solita storiella del “tradimento per trenta denari”. Sembra che l'azione di Giuda riceva un preciso mandato dal Maestro, che anzi sottolinea l'urgenza e l'improrogabilità della stessa: l'episodio del “boccone intinto del piatto” è quasi il preludio della determinazione finale: infatti, soltanto dopo di esso, l'evangelista, identificato come Giovanni, dice “Satana entrò in lui”. Stupisce, inoltre, l'atteggiamento degli altri apostoli che non muovono alcuna reale opposizione all'imminente disegno criminoso di Giuda. Ancora più contraddittoria è la spiegazione addotta dal redattore del quarto vangelo in merito all'incomprensione degli apostoli sulle parole finali pronunciate da Gesù all'Iscariota, che probabilmente erano state interpretate come un incarico per espletare una commissione, in qualità di “economo” del gruppo. E' ragionevole pensare che si tratti di un'interpolazione successiva per giustificare l'atteggiamento passivo degli apostoli, anche perchè in contrasto con i versetti precedenti, nei quali, invece, l'annuncio del tradimento suscita l'interesse nei destinatari, che, tramite il “discepolo prediletto”, chiedono immediatamente spiegazioni.

Santa Veronica Giuliani (18), considerata una delle più grandi mistiche cristiane, sostenne di aver avuto una visione in cui Giuda appariva “come cuscino sulla sedia formata dai capi dell'abisso sopra i quali sedeva Lucifero che poteva vedere tutto l'inferno e portare così orrore e disperazione a tutti i dannati”. Francamente la visione di Santa Veronica ci appare una variante del nono cerchio dell'Inferno dantesco, dal quale siamo tutti un po' suggestionati, quando proviamo ad immaginare il luogo destinato alle anime dannate. Di certo il Giuda di ispirazione gnostica, tratteggiato nell'omonimo vangelo (19), è più affascinante, diventando quasi una figura romantica e ci permetterebbe di comprendere più a fondo il disegno di salvezza di Dio, che comunque avrebbe dovuto compiersi. Giuda, pertanto, non solo non meriterebbe l'ignominiosa fama di “Traditore”, ma risulterebbe il discepolo decisivo, il prescelto, colui al quale Gesù avrebbe promesso : “Sarai maledetto per generazioni, ma regnerai su di loro”, riferendosi agli altri seguaci.

Note:

1 - Cfr. articolo pubblicato da Il Corriere della sera in data 23 novembre 2017, a seguito di intervista da parte di don Marco Pozza.
2 - L'edificio, nato come chiesa abbazia cluniancense è uno dei capolavori dell'architettura romanica, anche se parte dell'esterno è stato deturpato durante la rivluzione francese.
3 - Hans Urs von Balthasar (1905-1988), presbitero ed eminente presbitero svizzero, nominato cardinale nel 1988 da Giovanni Paolo II, poco prima della morte.
4 - “Sperare per tutti”- “Breve discorso sull'apocatastasi”, Editore Jaca book, 2017.
5 - Chrales Peguy (1873-1914), scrittore, poeta e saggista francese. Il “Getsemani” di Peguy, in cui parla di Giuda, è una via di mezzo tra una narrazione in prosa ed una struttura poetica: una delle sue opere più belle, ma poco conosciuta.
6 - Jorge Francisco Isidoro Borges Acevedo (1899-1986), scrittore, poeta, saggista, traduttore ed accademico argentino. E' stato il primo ad usare la definizione “realismo magico” per intendere quel genere che corrisponde al realismo e al naturalismo dominante del XX secolo.
7 - “Le tre versioni di Giuda” è il racconto di Borges incluso nell'antologia “Ficciones” pubblicata nel 1944.
8 - Il Vangelo di Giuda è un vangelo apocrifo gnostico che riporta alcune conversazioni che sarebbero avvenute tra Gesù e l'apostolo Giuda Iscariota, elaborate ovviamente non da Giuda stesso, ma da cristiani gnostici. Tale vangelo è riportato in un manoscritto in lingua copta risalente al IV sec. a.C., ma secondo alcuni studiosi si baserebbe su un originale greco composto tra il 130 e il 170 d.C. Il manoscritto, denominato “Codex Tchacos” è stato ritrovato presso una caverna a Minya (Egitto) nel 1978,e poi affidato a lavori di interpretazione e restauro a partire dal 2001. Nel 2006 la National Geographic Society ne ha pubblicato la prima traduzone.
9 - Lo gnosticismo cristiano, che meriterà un articolo a parte, è quella corrente considerata eretica dalla Chiesa e che si fonda sui principi della filosofia neoplatonica. Per gli gnostici cristiani il Dio buono del nuovo Testamento avrebbe deciso di salvare l'umanità per liberarlo dal Dio malvagio del Vecchio testamento, identificato come il Demiurgo, Satana, il creatore del mondo materiale. Gli gnostici credevano di poter accedere alla salvezza tramite “la gnosi”, una sorta di chiamata spirituale, che avrebbe alimentato la scintilla divina presente in ognuno di noi ed in contatto con l'”Uno”, il Dio spirituale, manifestatosi tramite Cristo.
10 - La dottrina dei docetisti, dal greco “dokein” (sembrare), diffusasi già alla fine del I sec. d.C., sosteneva che le sofferenze e l'umanità di Cristo fossero solo apparenti. Secondo la maggior parte dei docetisti, Gesù sulla croce fu sostituito da Simone di Cirene che, invece, nella tradizione cristiana classica, lo aiutò soltanto a portare la croce verso il Golgota.
11 - Nils Runenberg è in realtà, con ragionevole certezza, un personaggio inventato da Borges.
12 - Opera fittizia citata da Borges nel suo racconro “Tre volte Giuda”.
(13)Isaia, 3, 3-4: “Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio ed umiliato”.
13 - Rurik è stato un personaggio leggendario norreno, vissuto probabilmente alla fine del IX secolo, capostipite della cosiddetta dinastia “rjiurkide”. Le fonti germaniche e russe sono incerte sulla sua origine, se cioè fosse appartenuto all'etnia slava o a quella scandinava.
14 - Il movimento zelota aveva scopi politici-religiosi nell'ambiente giudaico del I secolo, costituito da partigiani accaniti per ottenere l'indipendenza politica della Giudea ed erano difensori dell'integralismo della religione ebraica.
15 - Matteo, 26, 47-49; Marco, 14, 44-46; Luca, 22, 46-48 riportano versioni pressochè identiche del racconto del bacio di Giuda.
16 - Riportiamo alcuni riferimenti di Giovanni, per meglio evidenziare le discrepanze. Giovanni, 13,2: “Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota di tradirlo...”; 13,11: “Sapeva, infatti, chi lo tradiva, per questo disse “Non siete tutti puri”; 13, 21-30: “Dette queste cose, Gesù fu profondamente turbato e dichiarò: “In verità , in verità vi dico: uno di voi mi tradirà. I discepoli si guardavano l'un l'altro, non sapendo bene di chi parlasse. Ora, uno dei discepoli, colui che Gesù amava, si trovava a fianco a tavola con Gesù. Simon Pietro gli fece cenno di informarsi chi fosse quello di cui parlava. Ed Egli, chinatosi, sul petto di Gesù, gli disse: “Signore chi è?. Rispose Gesù: “E' colui a cui intingerò il boccone e glielo darò”. E, intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda, figlio di Simone Iscariota. Allora, dopo il boccone, Satana entrò in lui. Gli disse dunque Gesù: “Quello che devi fare, fallo presto”. Nessuno dei commensali capì perchè gli avesse detto questo; alcuni infatti pensavano che, poiché Giuda teneva la cassa, Gesù gli avesse detto: “Compra quello che ci occorre per la festa”, oppure che dovesse dare qualcosa ai poveri. Egli preso il boccone, subito uscì. Ed era notte. (S. Agostino commenterà con la celebre frase “Egli stesso era la notte”).
17 - Veronica Giuliani (1660-1727), al secolo Orsola, è stata badessa ed è considerata una delle più incisive mistiche italiane. E' venerata come santa dalla Chiesa Cattolica.
18 - Cfr. nota nr. 7
19 - Cfr. nota nr. 7

Luigi Angelino

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Una russa a Montparnasse: biografia intellettuale di Maria De Naglowska – 4^ parte – Francesco Innella

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Da Alessandria d’Egitto a Montparnasse

Maria De Naglowska si trasferì da Roma ad Alessandria d’Egitto e lì riuscì a riunire tutta la sua famiglia, tranne il marito sionista che si era risposato in condizioni di bigamia con una musicista ebrea. Si sposò un ingegnere svizzero. E in quel luogo la donna divenne conferenziera della società teosofica. La parola teosofia ( sapienza di Dio ) o ( Saggezza divina ) venne utilizzata per la prima volta dai “Settanta” che tradussero la Bibbia ebraica “binah” (comprensione, intelligenza ), ma fu la scuola fondata ad Alessandria d’Egitto da Ammonio Sacca ( 175 -242 d. c.) a farne un termine diffuso. La teosofia come la si intende attualmente, è il complesso delle conoscenze che stanno alla base di ogni religione, quegli insegnamenti essenziali comuni a tutte le religioni e che costituiscono quel comune denominatore e che permette di conciliare tutte le religioni mediante uno studio comparato. In breve gli insegnamenti teosofici sono le conoscenze del lato spirituale dell’uomo e delle grandi leggi della Natura dell’Universo che ne regolano l’esistenza.

La Società Teosofica fu fondata a New York il 17 nobre 1875 per opera della nobildonna Helena Petrovna Blavatsky. I tre principi e scopi su cui si fonda la teosofia sono:
1) Formare un nucleo di Fratellanza Universale dell’Umanità senza distinzione di razza,sesso,credo,casta o colore.
2 )Incoraggiare lo studio comparato delle religioni, filosofie e scienze.
3) Investigare le leggi inesplicate della Natura ed i poteri latenti dell’uomo.

I teosofi sostengono che la Verità va ricercata con lo studio, la riflessione, la purezza di vita, le devozioni agli alti ideali e considerano la Verità come una ricompensa alla quale mirare, non un dogma da imporre agli altri con autorità. I teosofi ritengono che la credenza deve essere il risultato dello studio individuale o dell’intuizione e non una sua premessa e che deve basarsi sulla conoscenza piuttosto che sulle affermazioni. I teosofi estendono la tolleranza a tutti, anche agli intolleranti, non come privilegio da conoscere, bensì come dovere da adempiere e cercano di rimuovere l’ignoranza non di punirla. I teosofi considerano ogni religione come un’espressione della Divina Sapienza.

La nobile russa, abbandonò l’Egitto e si trasferì a Parigi al quartiere di Montparnasse. La prima organizzazione urbanistica di questa popolosa zona ebbe origine con i programmi di espansione di Luigi XIV. Durante gli anni Venti e Trenta il quartiere rappresentò il punto di raccolta degli intellettuali che da varie parti del mondo si erano trasferiti a Parigi. Tra boulevard di Montparnasse e boulevard Raspail si incontravano Satre, Joyce, Henry Miller, Matisse, Modigliani i e Kandinskij. Lo scultore Bucher recuperò alcuni vecchi padiglioni dell’Esposizione Universale e ne fece atelier per artisti. E Maria De Naglowska stabilì il suo quartiere generale al ristorante la Coupole, dove incontrava i maggiori occultisti del suo tempo. Ogni mercoledì teneva conferenze esoteriche presso il suo studio al boulevard Raspil, 36 ed ogni sera si recava a Notre - Dame des Champs per effettuare esercizi di meditazione. Le sue conferenze erano sempre affollate ma poi si formò un piccolo gruppo di discepoli, di cui segnalo Marc Pluquet che scrisse la sua biografia, Lablatinière Claude, che poi si dedicò ai suoi studi alchemici e Camille Bryen., con loro la Naglowska costituì l’Ordine della Freccia d’Oro a cui diede il nome dell’omonima rivista La Fléche – Organe d’Action Magique.

Mentre l’esoterista russa animava le sue affollate conferenze alla Coupole, altri importanti personaggi frequentavano quel luogo agli inizi degli anni trenta. Salvator Dalì . Tristan Tzara e Diakonov Gala, la moglie del pittore spagnolo.  Figlia di un'alta carica dell'amministrazione russa, di religione ortodossa fu musa e moglie prima di Paul Éluard poi di Salvador Dalí (1). Fu fonte d'ispirazione per il pittore catalano e per molti altri artisti, durante la loro residenza a Parigi ed in Spagna. Gala nacque come Helena Diakonova nella città di Kazan, sulle rive del Volga, tra le steppe del Tatarstan nella Russia centrale europea, da una famiglia di intellettuali. Tra gli amici della sua giovinezza vi fu la poetessa Marina Cvetaeva. Nel 1913 trascorse un periodo in un sanatorio a Clavadel, in Svizzera, per trattare la sua tubercolosi. Lì incontrò Paul Éluard e lo sposò pochi anni dopo, nel febbraio 1917. Traslocò a Parigi ed ebbero una figlia di nome Cécile. Gala (pseudonimo datole dal marito) venne coinvolta nel movimento surrealista come musa del poeta e consorte. Gala fu l'ispirazione per molti artisti includendo lo stesso Paul Éluard, Louis Aragon, Max Ernste n. Breton, l'"ideologo del surrealismo", successivamente la trattò con disprezzo. Nel 1929 Éluard e Gala ed i loro amici, tra cui Bunuel visitarono un giovane pittore surrealista in Catalogna; Salvador Dalí. Presto cominciò la relazione amorosa tra Gala e Dalí, più giovane di 11 anni rispetto alla donna. Si sposarono civilmente nel 1932 e con una cerimonia religiosa nel 1958. Le venne praticato un intervento di isterectomia attorno alla data del primo matrimonio.

Salvador Dalí affermava che era la persona che lo aveva salvato dalla pazzia e dalla morte prematura. Infatti, dietro il suo genio artistico, si celava un uomo turbolento, insicuro e disorganizzato, ed era Gala che agiva come il suo agente, il tramite tra il genio ed il mondo reale. Nel fare questo ferì molte sensibilità, e venne accusata di comportarsi in maniera estremamente utilitaristica anche per il modo in cui gestiva gli affari, certamente fruttuosi anche in vita, del secondo marito. Gala ebbe molte relazioni extraconiugali, alle quali Dalí non si oppose, anzi, sembra le incoraggiasse, dato che egli stesso subiva il fascino del candaulismo e cercava di riempire di soddisfazioni una donna che era come una madre per lui. Lei aveva una predilezione per giovani artisti, e nella sua età matura spesso offriva costosi regali a quelli che le si accompagnavano. Nelle opere di Dalí, essa si guadagnò una posizione centrale nel pantheon delle più grandi e paradossali passioni d'amore che il mondo abbia mai visto. Gala veniva spesso usata come modello nei dipinti di Dalí, era anzi il Soggetto d'ispirazione del pittore, la sua principale modella ricorrente, qualche volta in ruoli religiosi come madonne, per esempio nel dipinto raffigurante la Madonna di Port Lligat. Numerosi dipinti di Dalí mostrano la sua totale sudditanza verso di lei (la pone infatti su un piedistallo). Gala morì in Spagna nel 1982 e venne sepolta nel castello di Púbol, nei pressi di Girona in Catalogna, che lo stesso Salvador Dalí aveva comprato per lei. E concludo questo capitolo con una riflessione. E possibile che le due donne, entrambe russe si siano conosciute nel ristorante francese ? Voglio immaginare che si siano incrociate e magari abbaiano pure parlato tra di loro, prima di dedicarsi ai loro diversi interessi..

La “ Magia sessuale “

Nel 1931, Maria De Naglowska pubblicò a Parigi la sua traduzione del libro di Pascal Beverly Randolph dal titolo :” La magia sessuale”. La traduttrice definì Randolph come una delle “grandi figure misteriose dell’occultismo del secolo XIX”. Egli sarebbe stato anche l’autore di vari romanzi –“ Astrotis”.”Dhoula Ball”. “She”. “Master Passion”. L’autore faceva parte della Fratellanza Ermetica di Luxor, ma da una scissione del gruppo, creò la Confraternita di Eulis Dopo la sua morte, divenne maestro della confraternita, nel 1922 il teosofo e rosacroce Clymer. Il testo ebbe la prefazione di Evola che pur tenendo presente che il libro aveva una funzione essenzialmente “ didattica “, in quando era rivolto ai fratelli di Eulis, si chiedeva quale fosse l’essenza e il fondamento della magia sessuale.  “Qual ’è l’essenza e il fondamento della magia sessuale? Bisogna partire dall’idea riconosciuta da ogni seria tradizione iniziatica, che la possibilità di provocare per via estramorale, magica determinati fenomeni e di influenze leggi e processi è condizionata essenzialmente ( a parte, cioè un insieme di coadiuvanti di varia natura, rituale, carismatica, ecc. ) da uno stato speciale nell’operatore, stato che potremmo chiamare di “autotrascendenza attivo”. Si tratta di superare, con l’una o l’altra tecnica, i limiti della coscienza puramente individuale legata all’organismo fisico e il suo stato mentale che potremmo chiamare autotrascendimento attivo.

Considerando più da presso o se si vuole, più tecnicamente le cose, per giungere a tanto occorre destare e usare la forza del sesso nella sua dimensione più profonda, elementare, andante di là delle semplici sensazioni e dalla stessa concupiscenza carnale. Congiungendosi, in questo presupposto, con una donna, nello sviluppo dell’orgasmo e nell’apice di esso può determinarsi uno stato di apertura, il contatto che per la sua stessa natura può rendere possibili azioni a carattere magico e sovrannaturale” . Ma Evola criticò la concezione della polarità dei sessi espressa da Randoolph. “ Un insegnamento che nel Randolph appare abbastanza distorto riguarda la polarità invertita dei sessi. Egli dice che mentre l’uomo è attivo sul piano materiale e per quello che riguarda il suo sesso fisico, egli è passivo sul piano mentale e nella testa ( donde i segni + e – messi nei disegni degli schemi delle varie posizioni erotiche, contenute nel testo ). Il contrario varrebbe per l’altro sesso. Le cose stanno in modo alquanto diverso: la donna è attiva per quel che riguarda il suo naturale potere sottile e magnetico di fascinazione e di attrazione, l’uomo è passivo nella sua semplice virilità fisica concupiscente, che in genere subisce quel potere. Ciò vale sul piano profano, per l’uomo e la donna comuni. Ma il principio , per chi vuol darsi ad esperienze magiche ed iniziatiche, è proprio di invertire questa polarità: l’uomo deve realizzare la virilità spirituale, deve polarizzare in senso positivo e attivo la sua essenza su un piano superiore – a meno che non si tratti di operazioni nelle quali l’iniziativa viene lasciata essenzialmente alla donna e che quindi abbiamo quale sfondo di una specie di ginecocrazia, come negli antichi Misteri della Donna.”

Evola, poi conclude la sua prefazione con il segnalare di come l’autore si dedicasse alla costruzione di specchi magici. I principi magici di Pascal Randolph che si esplicano nel testo sono molteplici e c’è un occulto legame con la magia femminista della Naglowska, forse l’esoterista russa fu sicuramente influenzata da Pascal Randolf Il mago sessuale, nel suo testo inizia a delineare alcuni oscuri principi magici che riporto.

Il “ Volitismo”. “ Ogni allievo che intenda penetrare i misteri di Eulis e quelli anseiretici deve imparare , per prima cosa a dominarsi in ogni circostanza tanto da poter procedere lungo la via della sapienza come un signore e non come uno schiavo. “ I secondo principio è il decretismo. “ E’ la capacità che l’allievo in magia deve acquisire. E’ la capacità di promanare ordini ineluttabili di indurre in altri desideri, pensieri e sentimenti di provocare dichiarazioni verbali.Il “ Posismo”. “ La realizzazione plastica dello stato recettivo o emissivo mediante una posizione speciale del corpo e un corrispondente orientamento zodiacale

“Il “ Tirocletismo”. “ Il potere di evocare che permette di mettersi in contatto con entità invisibili, e assai difficile da esercitare". E dopo l’esposizione si questi principi, il Pascal Randolph si addentra nella magia operativa, comincia ad analizzare l’uso di profumi, colori e suoni ed anche astrologici e descrive le principali operazioni magiche sessuali ed interessante è il capitolo conclusivo sugli specchi magici. “Ai giorni nostri molti occultisti non credono più nella possibilità di vedere in uno specchio magico personaggi e scene evocati da un mago.

Hanno perduto questa antica fede perché il loro sapere e le loro capacità sono insufficienti e non permettono loro di trovare, nelle esperienze tentate, la conferma di una possibilità reale”. Altri esperimenti di magia sessuale che non sempre riuscirono,furono praticati dall’ l’inglese Crowley, Il 3 settembre del 1914 egli realizzò il suo primo amplesso magico, in modo da ottenere una straordinaria forza d’attrazione per compiere nei migliori dei modi le pratiche magico – sessuali. Per il rito utilizzò Maria Maddingley che era una rispettabile donna sposata, fragile facilmente eccitabile. Crowley sostenne di aver praticato un coito “ altamente orgiastico” “ Io suppongo di aver ricavato un totale successo a giudicare da ciò che mi è occorso subito dopo.”In realtà questo successo non si ebbe, perché Crowley fece ricorso ad una prostituta di Piccadilly col la quale ebbe rapporti dalle 11 del mattino fino alle 22 delle sera, la donna rimase talmente soddisfatta da rinunciare al suo onorario. Una inaspettata malattia gli diede poi la possibilità di scrivere le sue esperienze sul diario magico, dove il mago inglese diede sfogo alla sua grafomania.

Francesco Innella

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L’Alba del Tempo: Deus Mundi – Stefano Mayorca©

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La nuova Era attende di manifestarsi, di effondere il suo calore trasmutando ogni cosa sulla Terra. L’Alba del Tempo si avvicina e il Deus Mundi attende di sentire pronunciare nuovamente il suo nome, gridato un tempo nelle Are sacrali, scandito ritmicamente dai sacerdoti-iniziati. Aspetta di tornare per seminare nelle le menti fertili e già feconde la forza radiante che nel numero sacro esprime il suo Mistero. Tutto vibra nella Luce infinita e mai finita della Creazione, luce che si fa vita, forma, Forza, immagine creata.

Paracelso definiva la facoltà immaginativa del mago: “La stella interiore”. Tale attività, correlata all’attività demiurgica e creativa delle stelle esterne, non va confusa con la fantasia, potere inferiore legato alle correnti lunari illusorie e disgreganti.

Il comparto immaginativo è una potenza creatrice di ordine solare orientata verso gli eidà, le idee paradigmatiche del vero mondo. Sempre Paracelso paragonava l’immaginazione a un magnete, che con la sua forza può attirare gli oggetti del mondo esterno all’interno dell’uomo. Questo potere di proiezione e creazione di immagini - vitalizzate, si badi bene - simboleggia le facoltà dell’alchimista, dello scultore o del fabbro interiore.

Democrito, il filosofo greco della natura, a cui si deve l’invenzione del concetto di microcosmo, affermava che le figure percepite con l’ausilio dei sensi, immaginate o semplicemente pensate, sono tutte entità materiali concrete le cui caratteristiche possono essere trasferite all’osservatore. L’anima stessa, secondo Democrito, sarebbe costituita da sottili atomi ignei. Seguendo la linea filosofica dei Neoplatonici, veniamo a sapere che la sfera visibile e tangibile rappresenta solamente lo stato grezzo della materia soggetta a numerose fasi e processi di raffinazione. 

Il magista, raggiunto il pieno del suo potere, è a tutti gli effetti un Dio capace di concretare matericamente creazioni interiori esteriorizzandole. La sua natura solare lo pone in ambito regale e quale signore degli universi paralleli crea forme, e il suo verbo è fecondante. La sua valenza solare, sostanza ignea, come una fiaccola che rischiara le tenebre dell’ignoranza e di una moralità profana, arde incessantemente come il fuoco d’amore rigenerante, che imperituro spande il suo seme sapienziale nei regni di Luce, oltre le soglie dell’infinito, dove l’iniziato-mago regna sovrano.

l’Uomo-Dio, il Magus, che con un potente atto volitivo scaccia l’oscurità interna e proietta al di fuori la Luce.

La consapevolezza è il risultato diretto di questa operazione e il suo dominio dona la possibilità di penetrare i simboli disvelandone l’occulto sapere. In noi sono racchiuse tenebra e luce, giorno e notte, poli opposti dell’anima e dello spirito. Separare la Luce dal buio vuol dire dividere le due polarità magnetiche (solve) e in seguito armonizzarle e unificarle (coagula), poiché l’oscurità non può essere eliminata ma solo dominata ed equilibrata. Allo stesso modo in cui le passioni non vanno estinte, ma altresì controllate, le due polarità di luce e di ombra devono essere sinergicamente dirette in modo che le forze ottenebranti non possano prevalere.

Il vero Dio non è lo spauracchio che giudica e punisce, e nemmeno colui che dispensa le gioie fittizie di ordine materiale, secondo presunti meriti personali. Il Deus è Luce, non misticismo privo di sostanza ed effimero, esaltazione dell’ego, concezione stagnante di dogmi obsoleti, è Causa ed eterno ritorno. La consapevolezza è l’unico mezzo, l’indispensabile strumento che concreta una presa d’atto, un vero risveglio, perché solo mediante il risveglio si può accedere alla vita interiore.

Colui che è desto percepisce ciò che gli altri non possono sentire e vedere. La coscienza, ormai risorta, concede il frutto preziosissimo che dischiude e mai chiude i battenti del Magistero magico. L’anima non si libra se non si attua un lavoro volto a rendere attiva la sostanza divina.

- Stefano Mayorca - Riproduzione Riservata

copertina: dipinto dell'autore stesso

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Gli Dèi e il Sacerdozio di Roma – Paolo Galiano©

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È opinione (fin troppo diffusa) presso gli studiosi di Storia delle Religioni che le divinità di Roma siano state plasmate a partire da quelle degli Etruschi e dei Greci, se non addirittura di popolazioni mesopotamiche, quasi che il popolo romano fosse stato incapace di avere una qualche idea su come si concepiscano gli Dèi, e che queste divinità altro non siano, nel migliore dei casi, che personificazioni delle forze della natura, dei procedimenti agricoli o di atti particolari della vita quotidiana. Sulla base di questa errata concezione Giano è un portiere che sorveglia chi entra e chi esce, Saturno è un protettore dell’agricoltura, Vertumno si occupa dei frutti autunnali, Vulcano è un fabbro zoppo, Vesta una brava donna che bada che il fuoco di casa rimanga acceso, Marte un guerriero coperto del sangue dei suoi nemici e Venere una donnina allegra. Un esame delle fonti originali e dei miti (1) conduce invece a risultati decisamente molto differenti: le divinità greche da cui vengono fatte derivare quelle romane hanno caratteristiche e funzioni che ne fanno figure del tutto discordanti rispetto a quelle degli Dèi romani, anzi nel caso degli Etruschi sono invece questi ad avere mutuato da Roma e dai Latini una parte del loro pantheon; il pantheon di Roma risulta in realtà costituito da figure archetipiche nelle quali si riconoscono le idee principiali costituenti la sfera divina che governa il mondo creato.

GLI DÈI DI ROMA
Gli Dèi di Roma non sono comparabili ad esseri umani come quelli greci, non vi è traccia per il periodo arcaico di una “mitologia degli Dèi”, non vi sono storie concernenti episodi della loro “vita” se non dopo che l’Urbe subì la “invasione culturale” dei greci, e testimonianza di questa non-mitologizzazione degli Dèi romani è l’assenza di statue che li raffigurano se non successivamente all’intensificarsi dei rapporti con le nazioni etrusca e greca, presso le quali invece gli Dèi erano rappresentati nelle statue e nei dipinti in forma umana e secondo le modalità espositive caratteristiche di questi popoli. Voler descrivere per esteso il vero significato di ciascuno degli Dèi di Roma è fuor di luogo in questo àmbito, per cui rimandiamo alle pubblicazioni che abbiamo definito “le biografie degli Dèi” (2) e in particolare al nostro saggio sulle feste romane (3), mentre qui riassumeremo solo i caratteri principali di alcune delle divinità di Roma.

- GIANO
Secondo gli autori latini Giano, del quale in Grecia non esiste un Dio corrispondente, è il primo e più antico degli Dèi di Roma: “Su questa terra che ora vien detta Italia regnò Giano che, come narra Igino sull’autorità di Protarco di Tralli, divideva paritariamente il potere con Camese, anch'egli indi¬geno (4), sì che il paese era chiamato Camesena e la roccaforte Giani¬colo” (5). la Prima Roma, che ebbe nome Antipolis. Per la recente storiografia archeologica (6) Giano è una divinità precedente l’arrivo dei Siculi sui colli di Roma: egli rimarrà sempre il primo Dio, anche se con il passare dei secoli gli stessi Romani non sapranno più decifrarne il significato sapienziale. La sua raffigurazione come Dio bicipite, probabilmente da riferire ad una fase preindoeuropea di occupazione dell’Italia (7), ne indica la funzione di Dio del passaggio, dell’entrare e dell’uscire dal mondo fisico come da quello spirituale, colui che conosce il passato ed il presente, signore dei prima, mentre Giove è signore dei summa (8): suo sacerdote è il Rex Sacrorum, il primo dei sacerdotes, il quale ha nelle cerimonie il posto e i riti che erano propri del Re, e Giano è per eccellenza la fonte della regalità e l’archetipo del Re, funzione che più tardi passerà a Juppiter.
Il nome stesso di Giano, Janus, indica il pas¬saggio, derivando dalla radice indoeuropea *ya (sanscrito yana = la via, latino ire = andare, come già aveva scritto Macrobio 9 ). In quanto primo e più antico, Giano è “colui che precede tutti gli altri Dèi, Ja¬nus Pater, il fuoco celeste che costituisce l’origine prima, il Principio di ogni generazione” (10), forse in origine ritenuto dai Romani come creatore dell’esistente, considerato che Ovidio dice di lui: “Io che ero stato mole rotonda ed informe / presi l’aspetto e il corpo convenienti ad un Dio” (11), passaggio dal non-differenziato al differenziato che indica la manifestazione della divinità in una forma concepibile per l’uomo. La capacità generatrice di Giano è connessa alla sua identificazione con il Sole e con il Fuoco cosmico grazie al quale viene in essere la creazione: “Certuni vogliono dimostrare che Giano è il sole, e quindi ‘gemino’ o duplice in quanto signore di ambe¬due le porte celesti: nascendo apre il giorno e tramontando lo chiude… La sua statua tiene nella mano destra il numero 300 e nella sinistra il 65 a simbolo della durata dell'anno, dominio specifico del sole” (12).

- SATURNO
Altra divinità antichissima nel pantheon romano è Saturno, che non ha in comune con il greco Kronos se non il rapporto con il tempo, mentre non ne condivide altre caratteristiche, quali ad esempio il divorare i suoi figli. Saturno, al quale venne dedicato alle pendici del Campidoglio il primo altare di Roma al tempo di Saturnia, la Seconda Roma, altare a lui dedicato dagli Aborigeni che avevano cacciato i Siculi dalla regione (13), trae il suo nome dalla radice indoeuropea *sat (14), da cui deri¬vano in latino satis e satur, termini indicanti pienezza e soddisfazione, conseguenti all’abbondanza dei campi coltivati grazie alle tecniche da lui insegnate agli uomini, tra cui l’uso del concime (15), e sates (16), i campi seminati, in quanto a lui si attribuiva la conoscenza delle tecniche agricole: “A lui si fa risalire la pratica del trapianto e dell'innesto nella coltivazione degli alberi da frutta e la tecnica di ogni altro procedimento agrario” (17). Da qui trae origine la rappresentazione di Saturno con il falcetto (che diventerà la falce quando Saturno sarà confuso con il greco Kronos, divinità del trascorrere del tempo), per Macrobio (18) donato dallo stesso Giano al Dio, e segno della ricchezza, perché il falcetto è in rapporto non con la semina dei campi ma con la raccolta di quanto da essi prodotto. In un certo senso Saturno dà inizio al tempo, in quanto se Giano è “al di fuori della storia” ed è il Dio che dà inizio (19) al processo che porterà alla Roma storica ed assiste immutabile ed imperturbabile agli avvenimenti con una presenza costante ma “al di sopra delle parti”, Saturno è, per così dire, all’inizio della “storia mitica” (20), poiché costitui¬sce il principio della civiltà, ma egli è anche alla fine del tempo, come dimostra la sua posizione calendariale con i Saturnalia posti al centro del mese di Dicembre e subito prima delle celebrazioni dedicate alla Dèa che conclude l’anno, Angerona, il che lo rende anche una divinità “pericolosa”. Questa sua “qualità pericolosa” è chiarita da Gellio, il quale riferisce (21) di aver trovato nelle preghiere pubbliche (“conprecationes Deum immortalium, quae ritu Romano fiunt”) riportate nei Libri Pontificales e in molte antiche orazioni il nome di una “qualità del Dio”, Lua Saturni, cioè la “Dissoluzione di Saturno”, chiamata da altri Autori Lua Mater (22). La “qualità” di un Dio corrisponde ad una sua fun¬zione considerata come divinità a se stante, così come Salacia è lo “Scaturimento” delle sorgenti sotterranee di Nettuno, Neriene Martis è la “Virilità” di Marte, ecc.: questa “qualità” di Saturno entra in modo particolare in azione nella cerimonia con cui si distruggevano le armi prese al nemico. Può sembrare a prima vista strano che la “dissoluzione” possa essere la “qualità” di una divinità apparentemente pacifica e civilizzatrice per eccellenza, ma Saturno è in realtà un Dio “pericoloso” per il suo essere, come si è detto, il “Dio della fine” temporale dell’anno che coincide con la fine di ogni legge posta a stabilire i limiti della convivenza civile, lasciando aperta la via alla libertà assoluta (23), libertà appunto pericolosa perché può essere mal utilizzata da chi non sa usarne nel modo dovuto.

- VERTUMNO
Vertumno o Vortumno, considerato uno degli Dèi “minori” di Roma (se mai un Dio può essere definito minore), è un Dio così arcaico che di lui poche tracce rimangono nell’archeologia, nella letteratura e nella religione di Roma, tanto da poter pensare che si tratti di quello che gli antropologi definiscono un deus otiosus, un Dio di tale antichità che le sue funzioni sono state trasferite ad altri Dèi e di lui è rimasto nel ricordo poco più che il nome. Il suo nome secondo Devoto (24) sarebbe passato dal vocabolario protolatino nel vocabolario protoetrusco in una fase antichissima di formazione del linguaggio, dando origine a Voltumna o Veltumna, il Dio venerato nel Fanum Voltumnae a Volsinii, mentre non esiste una divinità a lui corrispondente nel mondo greco (il semidio Proteo ha caratteri del tutto diversi da Vertumno). Ovidio in Metamorfosi XIV e Properzio in Elegie IV, 2, a cui rimandiamo, ci dànno gli elementi per comprendere chi sia in realtà Vortumno, un Dio antichissimo, conosciuto in Roma dal tempo degli ultimi re di Alba Longa della stirpe di Ascanio (25), in origine aniconico (26), non una divinità agricola dell’Autunno come si crede ma il signore dell’eterno mutamento (27), ed infatti il suo nome deriva secondo Devoto dalla radice verbale indoeuropea *wert, che dà in latino vertere e vortere “volgere” e in antico indiano parole con significato di “essere” ma anche “esistere”; secondo Radke (28) invece il nome deriverebbe da *vorta,*ur-tā o da *vortus, *or-tu, indoeuropeo *uŏr, *uĕr, che si ritrova in parole aventi significato di “amicizia, sicurezza, unione fra gli uomini e gli Dèi” e quindi “adempimento, esaudimento, cerimonia religiosa”, per cui Vortumno sarebbe “colui che porta o avvia il *vorta (compimento, esaudimento) del rito”, funzione che lo potrebbe collegare a Giano in quanto questi è il primo Dio invocato nelle formule rituali.

È stato osservato che questa sua capacità di trasformarsi si manifesta solo attraverso immagini umane o divine (può trasformarsi anche in Apollo e in Bacco, stando alle parole di Properzio 29), ma non di animali o di fenomeni meteorologici o altro ancora, a differenza di Zeus e del greco Proteo. La capacità di Vortumno di “vertere in omnia”, secondo un’altra etimologia del suo nome come Vert-umnus = vert-(in)-omnis (30), non comprende solo la sfera degli esseri umani e divini ma si estende anche ad una funzione più ampia, quella di tutela sul buono e cattivo andamento delle fortune dell’individuo. Infatti Orazio (31) ci conserva un curioso modo di dire latino: “È nato con tutti i Vertumni sfavorevoli”, chiarito da Elio Donato (32), grammatico del IV secolo d.C., il quale nel suo commento all’opera di Terenzio spiega che la frase “Di bene vertant”, “che gli Dèi la mandino buon fine”, si spiega con il fatto che “il potere che gli eventi vadano nell’uno o nell’altro modo era per gli antichi una prerogativa di Vortumno”, perché “il Dio che presiede agli eventi affinché vadano secondo i desideri di ognuno è Vortumno”. Ma esiste un’ulteriore significato di questa divinità: la particolare localizzazione della statua di Vortumno sulla via triumphalis eretta nel Vicus Tuscus (di cui era ritenuto autore il mitico artefice Mamurio Veturio), la posizione del suo tempio sull’Aventino tra l’Armilustrium e il sepolcro di Tito Tazio, co-reggente insieme a Romolo della Quarta Roma, e non ultimo i caratteri dell’etrusco Veltumna, raffigurato nello specchio di Tuscania come un giovane Dio guerriero (33), consentono di ipotizzare che in una fase arcaica della storia di Roma Vortumno avesse un ruolo anche guerriero, di cui si è poi persa ogni traccia, e in particolare fosse connesso alle cerimonie del trionfo militare.

- VULCANO
Anche nel caso di Vulcano i suoi caratteri originari sono andati perduti con il sopraggiungere della interpretatio graeca, con cui Vulcano venne identificato con Efesto, e sono forse recuperabili per mezzo di quanto scritto dagli autori latini e dai luoghi di culto in cui veniva venerato, nonché da un esame degli eroi considerati suoi discendenti, i “figli di Vulcano”, e delle fratrie di fabbri a lui connesse per l’attività di forgiatori dei metalli con il fuoco. La connessione di Vulcano (34) con il fuoco è insita nell’etimologia del nome: gli Autori moderni lo rapportano alla radice *ulka da cui “tizzone” (35), sottolineandone il carattere igneo; Varrone (36) invece lo fa derivare da fulgur e fulmen: “Vulcano è detto così dalla grande forza e violenza del fuoco”, significato che ben lo connette alla furia vulcanica di cui diremo più oltre, mentre lo Skeat (37) lo fa derivare dal sanscrito varchar con significato di “luminoso”. Il “fuoco” di Vulcano è un fuoco al tempo stesso protettore e distruttore, il che lo rende un Dio “pericoloso”, ed infatti a lui era stato dedicato un altare antichissimo da Tito Tazio (38) ma nell’area del Foro Romano prima che esso esistesse, quindi fuori dell’abitato della Roma romulea. Sull’ara Volcani (identificata dal Coarelli (39) con quello che viene erroneamente chiamato Lapis niger) fin dall’età monarchica venivano bruciate le armi prese al nemico (40)ma in particolare quelle di chi si era offerto nella devotio quando colui che si era votato alla distruzione del nemico offrendo la propria vita era invece sopravissuto all’impresa (41): qui si rivela il doppio carattere di Vulcano, la cui capacità distruttiva per mezzo del fuoco doveva essere rivolta contro l’esterno, cioè contro il nemico, come anche, sul piano magico, contro le armi “pericolose” del devotus, “pericolose” perché caricate magicamente di volontà distruttiva. Accanto alla funzione di protettore di Roma Vulcano aveva presumibilmente anche quella di iniziatore dei giovani, come si potrebbe dedurre dal fatto che egli era considerato il padre dei Cabìri, degli Onnes, dei Calìbi e delle Telchinie, fratrie di Dèi o sacerdoti esperti nell’arte metallurgica ma anche aventi attività profetica e, almeno per alcuni di esse, connesse a rituali iniziatici. I fabbri, per la loro attività, possiedono i segreti della preparazione del ferro e dei metalli, segreti che vengono trasmessi solo ai loro discepoli, e sono rappresentati da quei “gruppi di personaggi mitici – Telchini, Cabìri, Cureti, Dattili – in rapporto assai stretto con il mondo ctonico (venivano presentati in caverne), con i metalli che lavoravano, con la musica e la danza, con la magia, con i culti misterici e i riti iniziatici giovanili” (42).

Dalla sua connessione con le attività sotterranee dei fabbri che traevano dalle profondità della terra i minerali da lavorare si potrebbe dedurre che Vulcano fosse il Dio del Fuoco sotterraneo, il fuoco dei vulcani ancora attivi al tempo della Roma storica: secondo gli Autori che hanno scritto della Saturnia Tellus (in particolare Di Nardo 43) egli sarebbe l’immagine dell’attività distruttiva del Monte Albano, per cui l’espressione di Festo circa l’offerta a Vulcano nel rituale privato (44) di piccoli pesci in cambio di esseri umani viene da essi interpretata come sostituto dei sacrifici umani fatti al Dio per scongiurare i tremendi effetti distruttivi delle eruzioni. Si noti che le vittime a lui destinate dovevano essere offerte in olocausto, cioè bruciate completamente, a differenza di quanto accadeva nel consueto sacrificio offerto agli altri Dèi. Da tutto quanto brevemente esposto risulta evidente che Vulcano non si limita ad essere un semplice fabbro e pure zoppo (questo per la contaminazione con l’Efesto greco) ma era figura di un Dio creatore e protettore, forse collegato ai rituali iniziatici propri delle fratrie di fabbri, probabilmente con i caratteri di un “fuoco sotterraneo” ed interiore capace di proteggere e di distruggere.

- VESTA
In apparenza Vesta compare nella storia archeologica di Roma nel periodo monarchico, quando viene costruito il suo tempio nell’area tra le pendici del Germalo e il Campidoglio; in realtà essa non era una nuova Dèa importata dalla Grecia, come alcuni autori pensano identificandola con Hestia, ma l’ultima personificazione divina di una serie di Dèe che erano venerate fin dalla più remota antichità, alle quali era attribuita una “specializzazione” del ruolo sacrale: “Vesta appare come la traduzione in culto pubblico e civico di una più antica divinità della terra, che permane come culto privato e segreto della casa del re: il culto di Ops, che potrebbe quindi essere intesa come la Vesta della dimora dei capi pre-urbani e proto-urbani succeduti a Caco sul Germalus (la Ops di Caco era Caca, venerata in seguito non a caso dalle Vestali). Vesta appare come il fuoco del focolare centrale della città, non sappiamo se coincidente con il fuoco del focolare del re” (45). Alle parole di Carandini dobbiamo obiettare che in primo luogo Vesta non è il “fuoco” ma il “focolare” sede del fuoco, in secondo luogo, per la sua condizione di Madre e Vergine, essa non coincide con una “divinità della terra”, funzione che spetta a Tellus, a Cerere e ad altre divinità consimili, ma è la “potenzialità creatrice” che attende l’azione di un “potere creatore” per generare non sul piano materiale (le messi o il bestiame) ma su quello immateriale del Potere la figura archetipica del Rex. È da rilevare che Vesta è l’ultima divinità romana a rimanere aniconica, come lo erano state tutte le altre in precedenza; come scrive Ovidio: “Fui a lungo così stolto da pensare esistesse una statua di Vesta, / ora ho imparato che nulla vi è sotto il tetto emisferico [del suo tempio]” (46). Forse per questa sua aniconicità, come suppone il Dumézil (47), essa non figura su alcuna moneta romana dell’antica serie detta “della prora di nave” (48). Vesta è divinità specifica deI Latini, i quali, soli tra tutte le popolazioni di ceppo indoeuropeo migrate nella penisola italica, ebbero e conservarono fino ai tempi storici il sacro culto del focolare (assente tra gli altri italici come presso i germani 49) e un corpo di sacerdotesse che di esso fossero le custodi.

Per quanto riguarda poi la derivazione di Vesta dalla greca Hestia, il Giannelli, pur essendo un assertore di tale identificazione, deve infine ammettere che “pur essendo la Vesta di stato romana, come divinità, una derivazione della κοινη εστια delle città elleniche, sarebbe vano tentare qualsiasi ravvicinamento tra il servizio del focolare di stato in Roma e quello dei Pritanei della Grecia… Le dissomiglianze fra il culto di Vesta presso il popolo Romano e quello delle κοιναι εστιαι nei Pritanei delle città greche sono oltremodo notevoli” (50). Mentre Hestia deriva da una radice *sueit con significato di “bruciare”, per cui Hestia è *suit-tia “il fuoco del focolare”, Vesta è da *wes (51), “abitare, dimorare” e quindi è la divinità della casa stessa, la quale in un certo senso custodisce tra le sue pareti il focolare. Se Vesta è il Focolare, ad essa deve corrispondere un Dio che sia il Fuoco (52) che vi arde, e se Vesta è Madre del popolo romano (53) il suo corrispondente deve avere le caratteristiche del Padre creatore, ma è arduo sapere il suo nome, perché nulla di certo possiamo dirne. Possiamo però ipotizzare che il Dio-Fuoco correlato a Vesta possa essere Giano, facendo nostre le parole di Baistrocchi: “Tale attribuzione dovrebbe con ogni verosimiglianza essere riservata a colui che precede tutti gli altri Dèi, Ianus Pater, il fuoco celeste che costituisce l’origine prima, il Principio di ogni generazione” (54). Dumézil conferma il rapporto tra Giano e Vesta e lo dimostra dal punto di vista rituale (55): il Rex Sacrorum è il sacerdote di Giano e il Pontefice Massimo, per la sua stretta correlazione con Vesta e le sacerdotesse vestali, può essere considerato il sacerdote della Dèa, e in tal caso l’ordine in cui i cinque sacerdoti principali, il Rex Sacrorum, i tre Flamini maggiori e il Pontefice Massimo, prendevano posto nei banchetti sacri manifesta in modo chiaro che il sacerdote di Giano è il primo e quello di Vesta l’ultimo; analogamente da altri scrittori romani viene affermato che nelle preghiere e nei sacrifici il primo posto spetta a Giano e l’ultimo a Vesta (56), in quanto il primo apre, essendo questa in modo eminente la sua funzione, e la seconda, punto di contatto tra il mondo degli Dèi e quello degli uomini, chiude ogni atto religioso. La capacità generatrice di Giano è connessa alla sua identificazione con il Sole, come scrive Macrobio (57): “Il sole, prosciugando l'umidità, diede ori¬gine alla vita… Per questo anche noi chiamiamo Giano padre, venerando con tale nome il Sole”. A differenza di quanto scrive Baistrocchi, che “la Dèa impersonava anche la maternità esuberante e prolifica”, ricordiamo che Vesta non è collegata, neanche nei miti tardivi, alla procreazione ma è sempre Vergine e tale rimane pur avendo l’appellativo di Madre, come afferma Dumézil “A differenza di Tellus e di Cerere, che sono fecondanti, produttrici, essa non presiede che all’elaborazione dell’alimento e ciò che le interessa è il pane, non il grano”, quasi agisse come motore immobile e passivo della Creazione.

- VENERE
Venere è forse la divinità che più di tutte ha subìto gli effetti negativi dell’interpretatio graeca e dei contatti tra Roma e le culture del Vicino e del Medio Oriente, con uno scadimento delle sue funzioni da Dèa della Grazia divina e signora della Vittoria e della regalità al ruolo di protettrice degli accoppiamenti, con tutte le varianti erotiche connesse dal matrimonio alla prostituzione. Nel nome della Dèa ritroviamo il suo più arcaico e profondo significato: per gli autori classici Venere veniva fatto derivare da vincire = “avvincere, unire” (58), etimologia tarda che la collega al mondo dell’eros, mentre il suo nome va invece riportato ad un neutro astratto *venus sostantivizzato al femminile, il cui significato è espresso dal verbo venerari, come chiarisce Dumézil (59): “Venerari è ‘cercare di piacere’, ‘rendere dei favori al Dio’, sperando di riceverne in cambio, senza negoziazione, un’altra forma di cortesia, la venia divina. [Venerari] non designa propriamente un atto religioso di amore, di bhakti: la pietà romana non comporta effusioni”, e venerari è letteralmente “esercitare la venus” nei confronti di un Dio, non secondo quel rapporto che potremmo chiamare “giuridico” che lega il romano alle sue divinità né tanto meno fideistico ma chiedendo ad esse un favore, una buona disposizione verso di sé. Venere è la signora della Grazia come potere magico (venia) che viene incontro alle richieste dei suoi fedeli, e questa forma del potere si rivela nella parola venenum (da venes-uom), che prima di divenire “veleno” nell’accezione attuale del termine è in realtà “filtro”, significante l’azione oscura della pozione magica e per esteso la modalità misteriosa con cui essa agisce. Questa azione di Venere è quella che altrove abbiamo chiamato “il potere venusiano”, che costituisce l’aspetto opposto alla modalità quasi contrattuale con la quale il romano chiede al suo Dio di realizzare ciò che domanda, il do ut des in cui si ha uno scambio potremmo dire alla pari tra uomo e divinità.

Il dominio di Venere, basato sul rapporto tra l’uomo che la venera e la Dèa che concede la venia, è quello della “grazia divina” e del “potere magico”, per cui può essere assimilata alla egizia Iside, la Signora della magia il cui nome si scrive in geroglifico con il simbolo del trono in quanto dispensatrice della regalità. Essa è la personificazione del potere femminile di cui parla Valeria alle donne romane per fermare Coriolano nella sua marcia contro la città: “[Noi donne ] possediamo una forza che non è posta nelle armi o nella forza delle mani, da questa ce ne esenta la natura, ma nella benevolenza e nella persuasione” (60). È il potere potenziale della Femmina che diviene potere in atto mediante l’azione del Maschio. La sua partecipazione ai due rituali dei Vinalia (61) nei quali Venere è unita a Giove, connessi all’uso magico e sacrale del vino quale sostituto del sangue dei sacrifici, costituiscono a nostro avviso l’espressione della religione di Roma nel simboleggiare in senso anagogico e non metaforico l’unione del Maschile e del Femminile.

- MARTE
Se Venere è figura del potere del Femminile (62), Marte è espressione del potere al maschile: Dio antico e comune a tutti i popoli latini, presso i quali, a quanto è dato sapere, si ritrovano sia il Flamen martialis che i sacerdoti Saliares che gli sono propri (63), egli è in origine aniconico, rappresentato da una lancia o da un giavellotto, e solo più tardi viene raffigurato con sembianze umane. Tutte le varianti del suo nome nelle diverse lingue latine (Mars, Mamers, Marmar) sono riportabili ad un Mauors- derivante a sua volta dalla radice indoeuropea *mar- da cui il sanscrito marikis, lucente (64), per cui Mars sarebbe “il Dio splendente”, quindi una divinità avente carattere solare e celeste, e d’altronde il Carmen Saliare gli attribuisce il tuono e lo chiama “Dio della luce” (65), titoli solitamente propri di una divinità uranica. Forse è per tale motivo che, come abbiamo suggerito in una nota precedente, uno dei rituali connessi all’uso sacrale del vino, i Meditrinalia, spetta a lui solo, rendendolo così pari a Giove. Marte è quindi una figura complessa, che si può ricostruire solo conside¬rando secondario l’aspetto meramente guerriero, che è divenuto il suo attributo principale a causa della interpretatio graeca come forma latina di Ares: Marte è una divinità celeste che esplica la sua attività sul mondo creato mediante il mantenimento dell’ordine, se neces¬sario anche con le armi, proteggendo l’esterno della città come i campi dei suoi cittadini, allontanando ciò che è male, i nemici umani ma anche le forze negative o comunque pericolose: “Tutta la sua funzione si esercita sulla periferia: indifferente alla na¬tura di ciò che la sua vigilanza protegge, egli è la sentinella che opera al limite, sulla frontiera, ed arresta il nemico” (66). Questo lo si vede chiaramente nel suo aspetto di custode dei confini dei campi e dei possedimenti dell’agricoltore nel sacrificio pri¬vato del suovetaurilia, funzione nella quale è chiamato a tenere lontane le intemperie e le malattie dai campi e dagli animali, non a garantirne la fecondità e la crescita, perché queste sono azioni richieste ad altre divinità esclusivamente agricole (67). Altra azione del Dio è la sua tutela sui giovani maschi, che vengono iniziati come guerrieri sotto la sua potestà e per tale motivo egli è anche la guida divina del ver sacrum, l’emigrazione dei giovani di una città nati nell’anno in cui un grave evento aveva turbato l’ordine della nazione: la consacra¬zione di un’intera generazione è posta sotto la sua vigilanza af¬finché giunga senza pericolo alla mèta che la volontà divina le ha assegnato e l’ordine venga così ricostituito.

Per riassumere quanto abbiamo detto potremmo definire (per quanto un Dio possa essere “definito”) Giano come il signore del “passare”, spirituale o materiale che sia, Saturno l’ordinatore della realtà, Vortumno il Dio del “mutare”, del fluire, del trasformare, Vulcano il “Fuoco”, forse da intendersi come “fuoco sotterraneo”, Vesta il “luogo” dove si manifesta il Fuoco sacro, potenzialità di creazione che genera rimanendo vergine con l’azione creatrice del Fuoco, Marte la “maschilità” che protegge e difende, Venere la “grazia” che l’uomo ottiene dagli Dèi, il punto di collegamento fra i due mondi, così come, per fare altri esempi, Apollo è il “medico”, colui che previene e ripara i danni che la creatura umana o l’insieme del popolo possono subire, Cerere il “luogo” dove ciò che muore si tramuta in nuova vita, che siano i semi dei cereali o gli Antenati.

IL SACERDOZIO A ROMA
Per completare queste note sugli Dèi di Roma dobbiamo brevemente accennare al rituale con cui si rendeva il dovuto onore agli Dèi, il che ci introduce a un discorso complesso sul sacerdozio: a Roma è possibile distinguere un culto privato, spettante alla singola gens o alla familia (sacra gentilicia) o al pater familias (sacra privata), da un culto pubblico (sacra publica) amministrato da specifiche classi sociali (si pensi ai rituali della parte femminile della societas quali quelli di Mater Matuta o di Bona Dèa), o dalla classe sacerdotale (68)(sacerdos da sacer unito alla radice *dhē, da cui il verbo facio) che agiva in nome e per conto della civitas e dei suoi cives.

I sacerdoti, cooptati dal collegium o dalla sodalitas in cui entravano a far parte (69), con la sola eccezione del Rex sacrorum, dei Flamines e delle Vestali che dovevano essere nominati direttamente dal Pontefice Massimo, e in origine tratti dalla classe patrizia, erano “quasi sempre organizzati in collegi o sodalitates, non costituivano una casta, né una classe; non godevano di particolari esoneri, ma al tempo stesso non essendo I'esercizio di una carica sacerdotale incompatibile con alcuna altra attività (tranne che nel caso del Flamen Dialis), potevano di norma continuare a svolgere la vita abituale di qualunque cittadino romano” (70), in particolare ricoprire cariche civili. Era loro richiesta la cittadinanza romana, l’irreprensibilità della condotta, l’integrità fisica e la nascita legittima da genitori liberi. “Quale che fosse la classe sociale di provenienza, a tutti erano richiesti determinati requisiti: la cittadinanza romana, la nascita legittima e l’integrità fisica e morale. I vari sacerdoti erano nominati per cooptazione all’interno dello stesso collegio, ad eccezione del Rex sacrorum, dei Flamini e delle Vestali, che venivano nominati direttamente dal Pontefice Massimo” (71).

Queste brevi considerazioni fanno comprendere come a Roma il rapporto tra uomo e sacro costituente la base dell’azione rituale non fosse appannaggio esclusivo di una classe distinta, come si ha ad esempio nelle religioni cosiddette abramitiche, Ebraismo, Cristianesimo e Islam, ma in qualche modo era pertinenza di tutto il popolo romano senza distinzione di sesso. I sacerdoti dovevano compiere un rito e il rito (da *rta, “misura”, iranico arta, “ordine cosmico che fonda la verità” 72), qualunque esso sia, cruento o incruento, è un’azione da compiere secondo norme rigorosamente codificate per mettere in contatto il sacerdote con la divinità, non in modo fittizio e allegorico ma reale, affinché sia stabilito e mantenuto in atto l’ordine della pax Deorum. Entrare in contatto con il Divino richiede una preparazione che si può ottenere solo attraverso l’esercizio di una via iniziatica e non semplicemente perché si ha l’etichetta di “sacerdote” incollata sulla toga. Un singolare esempio di come si debba intendere il rapporto che si viene a creare tra il sacerdote e il suo Dio lo possiamo leggere in queste parole scritte da una mistica cattolica contemporanea, Madre Trinidad della Santa Madre Iglesia (73): “Dove sono gli angeli per dare a Dio la gloria che gli dà il sacerdote di Cristo? Dov’è una creatura creata che sia innalzata alla dignità terribile di far scendere dai cieli il Dio vivo? Quando mai si è vista tutta la corte celeste, prostrata volto a terra in attesa sorprendente, adorare questo momento terribile in cui tu, sacerdote, pronunci su questo pezzetto di pane le parole di consacrazione e di vita che fanno correre qui rapido, davanti al tuo comando, lo stesso Dio intoccabile a introdursi in quell’ostia bianca per essere offerto da te all’immensità della Maestà divina?”.

Se, come scrive “Rutilio”, ”I sacerdoti [pubblici] erano pubblici magistrati, cui non si chiedeva alcuna preparazione specifica, né li si sottoponeva a riti di iniziazione”(74), dobbiamo arguire che il neo sacerdote doveva essere già iniziato di per sé per poter gestire il rapporto con il sacro, e tale iniziazione gli poteva solo provenire da quanto aveva compiuto in precedenza, in altre parole si trattava dell’iniziazione cominciata nell’adolescenza e proseguita fino al periodo di giovane adulto quando, maschio o femmina che fosse, entrava a far parte della societas romana con quello che supponiamo fosse l’ultimo rito, il passaggio per il Tigillum sororium del mese di Ottobre, “luogo” del compimento dell’iter iniziatico dei giovani e delle giovani sotto la protezione di Janus Curiatius e di Juno Sororia (75). Ne deriva, poiché l’espletamento di un rito era compito sia dei sacerdoti pubblici sia dei privati, che a Roma fosse normale per tutti, o almeno per gran parte dei suoi cives sia maschi che femmine, la condizione iniziatica.

Note:
1 - Come abbiamo più volte sottolineato in altri lavori, il termine “mito” va inteso nel suo reale significato, non “fantasia”, accezione che viene data nell’àmbito della cultura moderna per ignoranza della sostanza delle parole, ma secondo la definizione di Attilio Mordini: “Il termine mythos significa, almeno nel senso originario, parola, parola che si manifesta dal silenzio nell’atto segreto dell’iniziazione ai Misteri; e cela, ma al tempo stesso porge discretamente e rivela, la verità che nel gran silenzio primordiale è racchiusa” (MORDINI Il Tempio del Cristianesimo, Vibo Valentia 1979, p. 10).
2 - GALIANO Vesta, il Fuoco di Roma, Roma 2011; Mars Pater, Roma 2014; Venere, la Grazia divina, Roma 2014; Diana e Apollo, la selva e l’Urbe, con M. Vigna, Roma 2015; Vulcano, il Fuoco sotterraneo (in preparazione).
3 - GALIANO e VIGNA Il tempo di Roma, Roma 2013.
4 - Camese per Macrobio è di sesso maschile, mentre per molti autori latini è una regina, divenuta successivamente moglie di Janus:
5 - MACROBIO Saturnalia I, 7, 19.
6 - CARANDINI (La nascita di Roma, Dèi. Lari. Eroi e uomini all’alba di una civiltà, Torino 1997, pp. 113–137) nel dare un inquadramento storico alle origini di Roma, pone nell’Età del Bronzo Medio (1750 – 1350 a.C.) il primo insediamento stabile sul Campidoglio, al quale corrisponderebbe, sempre secondo Carandini, un abitato analogo sul Gianicolo, del quale però ancora non è stata trovata traccia (probabilmente situato nella sua parte più alta, la zona di Porta San Pancrazio, in coincidenza dell’antico tracciato viario, attuale via Aurelia). È da notare che la cronologia presentata da Carandini corrisponde quasi perfettamente a quella stabilita centotrenta anni prima da Camillo Ravioli nel suo Pensieri e studi diversi, parte I: Cronologia primitiva, stampato a Roma nel 1862, cioè in un periodo nel quale le tecniche di ricerca e le conoscenze archeologiche del sito di Roma erano di gran lunga inferiori alle attuali.
7 - DUMÉZIL Jupiter Mars Quirinus, Torino 1955, ritiene che “la sua figura bifronte può essere l’utilizzazione acciden¬tale di un tipo plastico mediterraneo” (p. 341); non vi sono nelle tradizioni indoeuropee figure di Dèi bicipiti, salvo la Dèa Aditi la quale è detta “dai due volti” perché è posta all’inizio e alla fine di ogni sacrificio (DUMÉZIL La religione romana arcaica, Milano 1977p. 293).
8 - Così VARRONE secondo la citazione di Agostino in De civ Dèi VII, 9.
9 - MACROBIO Saturnalia I, 9, 11: “Janus da ire, perché il mondo va sempre muovendosi in cerchio e partendo da sé stesso a sé stesso ritorna”. Prima dell’affermarsi di questa tesi etimologica, Janus era fatto derivare da una radice *dei, *dia con significato di “brillare”, da cui sarebbero derivati (D)ianus, Di(vi)ana e Diana, tesi successivamente rigettata per motivi etimologici (D’ANNA Il Dio Giano, , Scandiano 1992, p. 23) e che si basava su di una affermazione di Nigidio Figulo riportata da MACROBIO Saturnalia I, 9, 8: “Nigidio dichiarò espressamente che Apollo è Giano e Diana è Giana, cioè Iana divenne Diana per l'aggiunta della lettera d che spesso viene premessa alla i per eufonia”.
10 - BAISTROCCHI Arcana Urbis, considerazioni su alcuni rituali arcaici di Roma, Genova 1987, p. 190; per il complesso argomento del significato di Giano e del suo rapporto con Vesta rimandiamo ad un’attenta lettura del capitolo V del testo di Bai¬strocchi pp. 188–248 e a GALIANO Il Fuoco di Vesta, Roma 2011.
11 - OVIDIO Fasti I, vv. 111-112.
12 - MACROBIO Saturnalia I, 9, 9–10.
13 - Per alcuni Saturno è un Dio non degli Aborigeni ma dei Siculi: Brex, nel suo Satur¬nia tellus, Roma 1944 p. 23, riporta l’etimologia stessa del nome dei Siculi alla sikala, il falcetto di Saturno.
14 - DI NARDO ne Il preistorico culto infero del Vulcano laziale, Velletri 1942, p. 33 dà un’interessante etimologia del nome:“Saturno (da Sat = il saturo, Ur = il fuoco), figlio del fuoco celeste Ur-an e di Vesta, il focolare terrestre” (sottolineature nel testo); identificando il Dio con il Vulcano Albano, vede nei tre figli che non furono divorati da Saturno (in realtà il mito è riferito al greco Kronos) le tre bocche fiammeggianti del vul-cano: “Vulcano-Summano (Giove infero), Nettuno-Tritone (il vulcano sorto dal mare, l’Enosigeo cioè lo scuotiterra) e Pluto (da pilum = pilastro) il Re dell’Ade, sinonimi del Saturno stesso nascosto o latente nel Lazio”.
15 - Per tale motivo Saturno era identificato con Sterculius o Stercutus, il cui nome deriva chiaramente dallo “sterco” come concime per i campi.
16 - VARRONE De lingua latina V, 64.
17 - MACROBIO Saturnalia I, 7, 25.
18 - MACROBIO Saturnalia I, 7, 27.
19 - Il Carmen Saliare chiama Janus con l'appellativo di Consivius, a indicare che, come “se¬minatore”, egli rappresentaù la causa prima della generazione.
20 - Che con Saturno abbia inizio la storia lo dimostrava secondo Macrobio Sat I, 8,4 la pre¬senza delle statue dei Tritoni sul frontone del suo tempio: “Sul frontone del tempio di Saturno furono posti dei Tritoni con trombe, perché dai suoi tempi ad oggi la storia è chiara e quasi parlante, mentre prima era muta, oscura e sconosciuta, come dimostrano le code dei Tritoni immerse nella terra e nascoste”. La connessione di Saturnus con i Tritoni è per noi un ulte¬riore simbolo della sua attività ordinatrice sulla creazione, raffigurata nel dominio del Dio sulle Acque simbolo della potenzialità generatrice; per questo i Romani lo consideravano il più grande degli Dèi, come scrive Macrobio Sat I, 7, 16: “Voi Romani celebrate Saturno con grandissimo onore, forse più di tutti gli altri dèi”.
21 - GELLIO Noctes atticae XIII, 23, 2. Così ne scrive DUMÉZIL La religione romana arcaica, Milano 1977, p. 347: “Anteriori ai libri dei Pontefici, tanto antiche che il loro significato risulta talvolta incerto, sono le Entità femminili che le ‘comprecationes Deum immortalium, quae ritu romano fiunt’ congiungono a numerose divinità importanti, delle quali esse esprimono, sotto un certo aspetto, una fondamentale modalità d’intervento [quella che noi chiamiamo “qualità”]: ‘Lua Saturni, Salacia Neptuni, Hora et Virites Quirini, Maia Volcani, Herie Junonis, Moles et Nerio Martis’. Il medesimo processo si nota anche nel rituale umbro di Iguvium (Tursa Çerfia)”.
22 - LIVIO Historiae VIII, 1: “Il Console Gaio Plauzio [sconfitti i Volsci]… diede le armi dei nemici a Lua Mater”.
23 - Ricordiamo che nei Saturnalia i servi prendevano il posto dei padroni ed era lecito il gioco d’azzardo, altrimenti severamente proibito per tutto il resto dell’anno.
24 - DEVOTO Nomi di divinità etrusche III: Vertumno, in “Studi Etruschi” n° 14, 1940, pagg. 275-280; FERRI Voltumna-Vertumnus, in Ou pan ephemeron. Scritti in memoria di Roberto Pretagostini (a cura di Braidotti, Dettori e Lanzillotta), vol. 2, Roma, 2009 pagg. 993-1009, pag. 994.
25 - Così Ovidio.
26 - Properzio: “Non m'allieto d'un tempio d'avorio, / è sufficiente per me poter vedere il Foro romano… / Tronco d’acero ero, frettolosamente sgrossato con la roncola, / un povero Dio nell’amata Urbe già prima di Numa”.
27 - Sempre Properzio: “Sono chiamato il dio Vertumno per la deviazione del fiume; / oppure poiché v'è l'uso di recarmi i primi frutti al mutare delle stagioni, / credete che da qui derivi il culto del Dio Vertumno…/ Tu, menzognera fama, mi nuoci; il significato del mio nome è diverso: / credi soltanto al Dio che parla di se stesso. / La mia natura è adatta ad assumere tutte le forme”.
28 - HARMON Religion in the latin Elegist, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt (a cura di TEMPORINI), Berlino-New York 1986, parte II vol. 16 pag. 1963.
29 - PROPERZIO Elegiae IV, 2: “Cingimi il capo di una mitra, ruberò la parvenza di Bacco,se però mi darai un plettro, la ruberò a Febo”.
30 - L’interessante etimo viene fatto notare da BETTINI Vertumnus: a God with no identity, in “I quaderni del Ramo d’Oro on-line” n° 3 (2010) pagg. 320-33, pag. 324.
31 - ORAZIO Sat II, 7, 24-25.
32 - Queste osservazioni su Vortumno sono basate sul lavoro di BETTINI Vertumnus cit.
33 - Per questo e per altri motivi l’etrusco Veltumna sembra aver mantenuto caratteri più arcaici rispetto al romano Vertumno, ormai quasi dimenticato a Roma.
34 - Notiamo come curiosità linguistica che la trasposizione del nome del Dio in quello del monte che erutta lava avviene in Italia nel Quattrocento e la prima citazione della parola “vulcano” nel significato attuale la si ritrova nella Hypnerotomachia Polyphili di Francesco Colonna del 1499, in cui il termine viene riferito all’Etna: “lo insaziabile vulcano Ethna”.
35 - CARANDINI La nascita di Roma cit. pag. 133 nota 27.
36 - VARRONE De lingua latina V, 10: “Ignis a gnascendo, quod huic nascitur et omne quod nascitur ignis succendit; ideo calet ut qui denascitur cum amittit ac friges Ab ignis iam maiore vi ac violentia Vulcano dictus. Ab eo quod ignis propter splendorem fulget, fulgur et fulmen, et fulguritum quod fulmine ictum”.
37 - SKEAT Etymological Dictionary of the English Language s.v. “Volcano”.
38 - Come scrive VARRONE De lingua latina V, 10, 74l’altare era dedicato a Summanus e a Vulcano: “Sono di lingua sabina le are votate e dedicate a Roma da Tito Tazio: come dicono gli annali, le votò a Ops, Flora, Vediovis e Saturnus, Sol, Luna, Volcanus e Summanus, Larunda, Terminus, Quirinus, Vortumnus, Lares e Diana Lucina”.
39 - COARELLI Il Foro Romano – età arcaica, Roma 1983, vol. I pp. 161–178.
40 - Si veda ad es. LIVIO Histotiae I, 37: “Tarquinio mandò a Roma bottino e prigionieri [cioè i Sabini sconfitti] e, dato fuoco alle spoglie nemiche secondo il voto che aveva fatto a Vulcano, continuò a spingere l’esercito nel territorio sabino”.
41 - DUMÉZIL La religione romana arcaica cit. pp. 284–285.
42 - CARDINI Alle radici della Cavalleria medievale, Firenze 1981 p. 55.
43 - Per Di Nardo e il vulcano Albano rimandiamo a GALIANO Roma prima di Roma, Roma 2016 (20111).
44 - FESTO: “Questo tipo di piccoli pesci veniva dato al Dio in sostituzione di anime umane” (in COARELLI Il Foro Romano cit. p. 163); vedi anche VACCAI Le feste di Roma antica, Roma 1986 (Roma 19271). p. 172 e nota 1 e SABBATUCCI La religione di Roma antica, Milano 1988, p. 199.
45 - CARANDINI La nascita cit. p. 518.
46 - OVIDIO Fasti, VI 295-296: “Esse diu stultus Vestae simulacri putavi / mox didici curvo nulla subesse tholo”.
47 - DUMÉZIL La religione cit. p 287 nota 16.
48 - Si tratta di una delle più antiche monetazioni romane (circa 225 a.C.), basata sui sottomultipli della libra, per cui è anche nota come serie “librale” (La moneta di Roma, a cura di CATALLI, Novara 2010, pp. 72-75), nella quale sono raffigurati in ordine discendente di valore monetale Giano, Saturno, Minerva, Ercole, Mercurio e Roma (non Bellona, come ritiene Dumézil, ibidem p. 192 nota 8).
49 GIANNELLI Il sacerdozio delle Vestali romane, Firenze 1913, p. 13 nota 1. Non ostante sia stato scritto ormai più di un secolo fa, il testo di Giannelli rimane molto interessante per il copioso materiale in esso contenuto.
50 - GIANNELLI Il sacerdozio cit. p. 27 e nota 6.
51 - DEVOTO Origini indoeuropee - Il lessico indoeuropeo, Firenze 1962, Tabelle, n° 441.
52 - Sul Fuoco sacro, sui rituali ad esso connessi nell’India vedica e il loro rapporto con Roma rimandiamo all’importante articolo di FILIPPANI RONCONI Agni-Ignis, metafisica del Fuoco sacro, in “La Cittadella” anno I, 2001, 4.
53 - Colui che aveva rapporti sessuali con una sacerdotessa vestale era accusato di incestum.
54 - BAISTROCCHI Arcana Urbis, considerazioni su alcuni rituali arcaici di Roma, cit. p. 190.
55 - DUMÉZIL Jupiter, Mars, Quirinus cit. pp. 342-349.
56 - Dumézil riporta tra le altre conferme della sua asserzione la serie delle divinità invocate nelle preghiere degli Atti dei Fratelli Arvali, alcuni passi di Ovidio e di Cicerone ed altre possibili concordanze, per cui si rimanda al luogo citato.
57 - MACROBIO Saturnalia I, 17, 42.
58 - VARRONE De lingua latina V, 10: “Non quod vincere velit Venus, sed vincire”.
59 - DUMÉZIL La religione cit. pp. 366–367.
60 - DIONISIO D’ALICARNASSO Storia di Roma arcaica VIII, 39, 2.
61 - Le offerte del vino vengono effettuate in due diversi momenti con la libazione rituale a Giove e a Venere nei Vinalia Priora del 23 Aprile e nei Vinalia Rustica o Posteriora del 19 Agosto, ai quali a nostro parere vanno aggiunte le Quinquatrus Minusculae del 15 Giugno dedicate al solo Giove e i Meditrinalia dell’11 Ottobre dedicati al solo Marte. Di questo abbiamo scritto in Marte e Giove: l’offerta del vino, pubblicato su Simmetria online nel 2014.
62 - Ovviamente Roma conosce molte e differenti espressioni del “potere femminile” che qui però non possiamo trattare: da Ops a Cerere, da Mater Matuta a Fortuna molteplici sono le forme che il “potere femminile” assume a Roma, a dimostrare, se ce ne fosse la necessità, come la sua religione ben sapesse che maschile e femminile sono due forme di espressione dell’unica Realtà superiore, che non possono prevaricare l’una sull’altra degenerando in uno stupido maschilismo o femminismo, deteriori e soprattutto inutili.
63 - Sono conosciuti a Tivoli i Saliares di Ercole, ma essendo Ercole non una divinità del commercio, come affermano gli autori moderni, ma un Dio guerriero come Marte; scrive infatti Macrobio: “Tale Dio anche presso i Pontefici è identificato con Marte” (Saturnalia III, 12, 5). Ercole va tenuto distinto dal greco Herakles, che è un semidio e non un Dio come Ercole: infatti il suo nome è composto con quello di un’altra divinità, “la gloria di Hera”, a significarne la dipendenza, il che non può essere concepibile per un Dio.
64 - LEWIS e SHORT Latin Dictionary, Oxford 1879, sub voce.
65 - Frammento 2 del Carmen Saliare: “Cume tonas, Leucesie, prae tet tremonti / quot ibet etinei deis cum tonarem”. Il testo, scritto in latino arcaico del IV sec. a.C., può essere approssimativamente così tradotto: “Quando tuoni, o Luminoso, davanti a te tremano / tutti gli Dèi che lassù ti hanno sentito tuo¬nare”.
66 - DUMÉZIL Jupiter Mars Quirinus cit. pag. 194.
67 - Ancora oggi la maggior parte degli Autori considera Marte una divinità agricola, pregiudizio al quale già si era opposto Dumézil in particolare in Jupiter Mars Quirinus cit.
68 - Numerosi i testi e i saggi che trattano dei sacerdozi e dei sodalizi romani a cui per brevità rimandiamo, ricordando, oltre gli articoli più avanti citati, i testi di HUBERT Antichità pubbliche romane e idem Antichità private romane, Milano 1986 (riedizione anastatica della traduzione del 1902, ma sempre valido), e di “CLAUDIO RUTILIO” Pax Deorum, Scandiano 1989 (prima edizione Messina 1983).
69 - Fino al 367 a. C., quando con la lex Licinia Sextia i viri sacris faciundis furono portati da due a dieci, metà dei quali plebei. In seguito dal 104 a. C. furono eletti nei comitia calata da 17 tribù scelte a sorte fra le 35 che componevano la societas romana (“RUTILIO” p. 45).
70 - SANTI I viri sacris faciundis, Atti del II incontro di studio del “Gruppo di contatto per lo studio delle religioni mediterranee”, Roma 10-11 Maggio 2005, p. 172.
71 - Sacerdotes publici populi romani quiritium, in “Acta Bimestria populi romani”, anno I n° VI, Aprile-Maggio 2011, pp. 19-20.
72 - DUMÉZIL La religione cit. p. 85.
73 - Madre Trinidad della Santa Madre Iglesia Il grande momento della Consacrazione, Città del Vaticano 2000, p. 7 (sottolineiamo: “con licenza ecclesiastica”).
74 - “CLAUDIO RUTILIO” Pax Deorum cit. p. 43.
75 - Di tale rito abbiamo scritto in GALIANO Il tempo di Roma, Roma 2013, pp.333-337.

Paolo Galiano

"Questo saggio è estratto con il permesso dell'autore da 'Almanacco scientifico n° 3 - Atti del Convegno Religione e religioni', pubblicato dalle edizioni Simmetria, Roma 2018"

 

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I Cicli Cosmici e i Tempi Ultimi: il Kali Yuga e il ritorno dell’Età dell’Oro – Valerio Avalon

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E' nostra intenzione presentare a breve una relazione articolata sul progetto che stiamo portando avanti da un paio d'anni a questa parte. Tale progetto si chiama "New Earth Circle Project" e si prefigge l'obiettivo di diffondere la cultura Tradizionale, sviluppando i temi principali di alcuni culti misterici, in particolar modo europei. Oggi però vorremmo concentrarci su un argomento cardine comune a tutte le tradizioni e alle correnti di pensiero spirituali del pianeta: il reale scorrere del tempo in contrasto alla percezione lineare, comune e diffusa nell'uomo moderno. Le grandi tradizioni, sia orientali che occidentali, hanno sviluppato un'interpretazione precisa dello scorrere del tempo, in particolar modo legato ai grandi Cicli Cosmici: il dipanarsi delle ere dell' umanità lungo una linea discendente in 4 tappe, ognuna delle quali contraddistinta da un metallo che le raffigura. Questa concezione, passando attraverso "i mondi in collisione", porta un grandissimo messaggio di speranza in una nuova Età dell'Oro dopo il Ragnarok.

Il nostro obiettivo non è quello di svelare chissà quali verità o segreti imponderabili, ma quello di indurvi a mettere in discussione tutto ciò che diamo quotidianamente per scontato. Se alla fine della lettura di questo articolo, avrete più domande che risposte, allora avremo svolto al meglio il nostro lavoro. Per poter smantellare le nostre apparenti certezze e poter sviluppare la potenzialità di compiere il primo passo lungo un sentiero evolutivo, la prima cosa che dobbiamo demolire è il concetto lineare dello scorrere del tempo in linea retta. A partire da un punto A verso un indefinito punto B. Questo concetto, per noi oggi assodato e scontato, in realtà è figlio diretto della Rivoluzione Industriale e della contestuale necessità di piegare le menti delle masse dell'epoca ad accettare turni di lavoro segmentati di 8 ore (spesso anche più di 8). Basta prendere un qualsiasi libro di storia della sociologia per rendersene conto. In questo modo avvenne lo strappo definitivo tra l'umanità, la Natura e il Sacro. Fino all'800, l'uomo seguiva i ritmi della Terra, del Sole, del Cielo e degli Astri: ritmi circolari dove tutto torna. Sempre. Infatti, in realtà, il tempo scorre in modo ciclico. O meglio a spirale. Per essere ancora più precisi, a doppia spirale. Tutto ciò che ha a che fare con lo scorrere del tempo e il suo computo, in Natura e nell'Esistenza, è ciclico:

- le stagioni
- le stelle
- le maree
- la luna
- le mestruazioni
- il ciclo giorno/notte
- il ciclo sonno/veglia
- le migrazioni
- le fioriture
- il mito

Questi erano gli strumenti che usava l'uomo per contare lo scorrere del tempo quando ancora non esistevano gli orologi. Un approfondimento particolare andrebbe dedicato ai miti nordici e al Ragnarok, ma purtroppo non è questa la sede per tale discussione. Per ora ci basti sapere che nell'escatologia vichinga, è prevista alla fine di questo ciclo una distruzione per via del Fuoco, alla quale seguirà una nuova rinascita della terra (che tornerà ad essere verde e bella e a donare messi spontaneamente) e dell'umanità seguendo gli insegnamenti dei figli degli dei sopravvissuti e delle Rune (quali chiave delle Leggi dell'Esistenza). E' sorprendente come questo archetipo di rinascita dopo la distruzione si riscontri in tutto il pianeta, in culture e tradizioni diverse e lontane tra di loro nello spazio e nel tempo. Lo stesso Platone nel "Timeo" si preoccupò di affrontare le distruzioni cicliche del pianeta, una volta per Acqua e una volta per Fuoco.

Siccome la più grande Legge di Corrispondenza afferma che "Così in alto, così in basso", o anche "Così in cielo, così in terra", risalendo il sentiero evolutivo e di riscoperta appena intrapreso, scopriamo che nelle più antiche scuole misteriche, sia occidentali che orientali, si è sviluppata la cosiddetta "Dottrina dei Cicli Cosmici": se il tempo per l'uomo sulla Terra scorre in modo circolare, allo stesso modo deve accadere la stessa cosa sul piano celeste. Tale dottrina infatti afferma che il tempo a livello cosmico scorre in maniera circolare, dipanandosi lungo ere e cicli lunghissimi, ma che portano in loro un concetto di "Ri-voluzione", ossia di ritorno al punto di origine.  Questi cicli, poggiandosi sulla corrispondenza tra il Cerchio ed il Quadrato nella Geometria Sacra, solitamente si suddividono in 4. Che a loro volta trovano corrispondenza più immediata nelle 4 stagioni. Tant'è che il movimento di riferimento di base, ossia la Precessione degli Equinozi, già nell'antichità venne definito "Anno Platonico".

Ossia, secondo Platone appunto, tale era il tempo che impiegavano le stelle a tornare esattamente e perfettamente al loro punto di partenza.
Scoperto "ufficialmente" da Ipparco di Nicea intorno al 150 A.C., la Precessione degli Equinozi è un movimento astronomico che dura circa 25'920 anni. E' un moto retrogrado apparente del Sole, che ogni anno giunge al suo punto equinoziale di Primavera con qualche secondo di anticipo. Proiettandolo nella fascia dello zodiaco, si genera un movimento all'indietro per il quale, ogni 2160 anni circa, tale punto passa da un segno all'altro. Anche questo è un argomento affascinante e complesso che richiederebbe un maggiore approfondimento, ma non essendo questa la sede, per il momento accontentiamoci di questa striminzita sintesi. Sulla base della durata del movimento di Precessione, le scuole di pensiero occidentali e orientali hanno sviluppato la Dottrina dei Cicli Cosmici, che riporteremo sinteticamente di seguito:

Occidente
- Età dell'Oro
- Età dell'Argento
- Età del Bronzo
- Età del Ferro

Oriente
- Krita Yuga
- Treta Yuga
- Dvapara Yuga
- Kali Yuga

Anche qui ci stiamo tenendo su una linea estremamante sintetica, ma che per il momento ci basta per procedere nel nostro ragionamento. All'inizio di ogni Ciclo o Manvantara (Epoca di Manu), si manifesta il Legislatore (Manu, o Uomo Adamitico) che dà la Legge, o Dharma, al Ciclo. Essa si manifesta attraverso Archetipi e Leggi dell'Esistenza. Ogni passaggio da un'Età all'altra, o da uno Yuga all'altro, porta con sè un Decadimento dall'Alto verso il Basso, dallo Spirito verso la Materia. Ogni Età, ogni Yuga, sviluppa delle potenzialità umane in modo tale che alla fine l'intero ciclo, o Manvantara, ha avuto compimento. E l'umanità ha espresso tutte le possibilità che le sono proprie secondo il Dharma, o Legge, che ha retto il Ciclo. Attraverso un moto discendente, allontanandoci dal punto di partenza della Creazione, ci allontaniamo dalla Perfezione e dall'aderenza a tale Legge, generando barbarie, disfacimento e Caos. Questo perchè, come spiega Mircea Eliade, le riproduzioni terrene e umane di questi Archetipi, mostrano una tendenza al deterioramento e alla decadenza.

Già dagli anni '40 filosofi e testimoni della Tradizione come Guénon ed Evola, hanno disquisito e argomentato con esattezza il fatto che ci troviamo nella parte finale e più avanzata del Kali Yuga di questo Manvantara (o se preferite, Età del Ferro di questo Ciclo). Quindi ci troviamo nel punto più distante dalla Creazione, dall'Inizio: La Legge e gli Archetipi rimangono uguali a loro stessi, ma l'aderenza dell'Uomo ad essi è completamente deteriorata. E' proprio per questo motivo che diviene fondamentale in quest'epoca festeggiare e reiterare i Miti e i Riti. In questo modo possiamo rinnovare e rivivificare le forme archetipiche originarie in noi.  Quindi? Cosa succederà ora? Ci stiamo avvicinando ad un punto di svolta epocale e la soglia verso la quale ci stiamo dirigendo è come un Giano Bifronte che guarda contemporaneamente in due direzioni:

da una parte la Fine, dall'altra l'Inizio
da una parte il Buio, dall'altra la Luce
da una parte la Confusione, dall'altra l'Ordine
da una parte la Distanza dalle Leggi, dall'altra l'Aderenza al Dharma.

Tutto bello, interessante e affascinante certo, ma resta la questione di come riportare tutto ciò nella nostra dimensione quotidiana. Cosa farsene di tutte queste nozioni?

Cominciamo con il dire che questo momento storico di grande crisi epocale, ci offre la possibilità di avere degli ampi spazi di manovra. Mai nella storia dell'uomo come dall'inizio dell'epoca di Internet c'è stata una così grande accessibilità alla Conoscenza. Ma alla Conoscenza, al Sapere, deve corrispondere un'Azione illuminata e diretta da quel Pensiero. Dobbiamo curarci di dare respiro alla nostra dimensione interiore, ripristinando un Polo Spirituale che faccia da vettore, da punto di riferimento al quale tendere. Sviluppare una relazione con il Sacro diventa quanto mai urgente. Riscoprire i Cicli naturali e riconnetterci ad essi. Affrancarci dalla percezione frammentata e lineare del tempo attraverso tutti gli strumenti che la Tradizione ci mette a disposizione:

- la Ruota dell'Anno
- la Meditazione
- la Montagna
- le Virtù
- la Disciplina
- il Sacrifico (nel senso latino della parola, ossia "sacrum-facere", rendere Sacro)
- il Dono di sè
- le Rune

L'etimologia della parola "crisi" è greca e significa "scelta". Ci viene data quindi in quest'epoca di crisi la possibilità di compiere delle scelte precise, e sono le scelte, prima ancora delle azioni, che ci determinano. Giunti a questo punto, si potrebbe manifestare in noi la necessità di fare delle scelte, di schierarsi. Divenire Esempio. Tornare ad affondare in maniera salda le radici nelle nostre Tradizioni Europee. Diventare come il sacro frassino Yggdrasill della mitologia nordica, asse dell'universo, che durante il Ragnarok verrà scosso in profondità, ma senza crollare riuscirà a passare attraverso il Fuoco della distruzione per sopravvivere, mantenendo il suo asse perfettamente centrato. Possiamo in quest'epoca regalare a noi stessi il destino eroico di restare in piedi in mezzo alle rovine e diventare dei "ponti". Fare in modo che nulla vada perduto del corpus dottrinario, esperienziale e spirituale della Tradizione, affinchè arrivi a chi verrà dopo di noi e li renda strumenti perfetti per far ripartire la nuova Età dell'Oro.

Come accennavamo all'inizio, la mitologia nordica in questo è molto precisa: quando si estinguerà il Fuoco della distruzione appiccato dal gigante Surtr, tornerà dal regno dei Morti Baldr (il figlio luminoso di Odino), il quale custodisce i segreti delle Rune e delle Leggi dell'Esistenza. Egli si riunirà a suo fratello Vidar, ai figli di Thor e ad un Uomo e ad una Donna, scampati al disastro al riparo di un bosco sacro. Lì, ritroveranno in mezzo all'erba le Rune (Archetipi) e gli Scacchi (simbolo del ripristinare un nuovo Ordine). Il mondo risorgerà verde e bello come non mai e la terra donerà le messi spontaneamente. Sarà l'inizio della prossima Età dell'Oro. Nella peggiore delle ipotesi, se non ci sarà dato di giungere oltre, avremo condotto un cammino ascendente in senso contrario alla decadenza del mondo moderno. Proprio come fa il Sole nel suo moto di Precessione: mentre nell'universo tutto gira in un senso, miracolosamente qualcosa gira in senso contrario. Torniamo ad osservare il Sole e a farlo rinascere ciclicamente dentro di noi ad ogni Solstizio d'Inverno. Così ebbe ad affermare Ezra Pound:

"Rinnovatevi con il Sole, e con ogni Sole rinnovatevi"

Valerio Avalon

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DECIMA FLOTTIGLIA M.A.S.: propaganda per la riscossa (XXVII parte) – Gianluca Padovan

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«… l’Inghilterra, che, per quanto poté, non tollerò di soffrire nel 1940 i danni derivanti dalla pace separata della Francia e rispose facendo la guerra al governo di Pétain. Pétain, replicando agli attacchi di Churchill, dichiarò che questi poteva essere giudice degli interessi del suo Paese, non di quelli della Francia e ancor meno del suo onore. Ma l’Inghilterra rispose attaccando e distruggendo a Mers-el-Kébir la flotta francese, che aveva rifiutato di arrendersi; s’impadronì, nonostante la sanguinosa resistenza degli equipaggi, delle navi da guerra e delle grandi navi mercantili francesi che si trovavano nei porti inglesi; colò a picco l’incrociatore Rigault, cannoneggiò la corazzata Richelieu, bombardò Dakar e Marsiglia»

Sergio Nesi, Decima Flottiglia nostra…, 2008

Italia “alle ortiche”.

Per comprendere la situazione dell’Italia nel settembre 1943 e le conseguenze che ne derivarono nell’immediato futuro è utile prendere visione delle condizioni dettate dal così detto “armistizio corto” (Short Military Agreement), in pratica della resa incondizionata firmata dal Generale di Brigata Giuseppe Castellano per conto del Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio e quindi per conto del re Vittorio Emanuele III.

Stando ai testi che compongono l’Armistizio corto e l’Armistizio lungo, si capisce che si tratti, in realtà, di una capitolazione. O, se si vuole, di una resa incondizionata. Per quanto riguarda il significato delle parole si deve, prima di tutto, ricorrere al Vocabolario della Lingua Italiana per poi passare, uno per tutti, al Il Dizionario di Diritto Internazionale Bellico del 15 marzo 1941.

Si lascia poi ogni valutazione al Lettore, ma ricordando quanto già espresso nella VI parte: l’ingresso improvviso del regno d’Italia in guerra aveva causato la perdita del miglior naviglio mercantile (1).

Dal Vocabolario della Lingua Italiana.

- Armistizio: è la «Cessazione delle operazioni di guerra tra eserciti belligeranti, e quindi anche l’accordo con il quale due o più belligeranti convengono, attraverso i comandanti supremi delle rispettive forze operanti, di sospendere le ostilità, spesso per dar tempo allo svolgimento delle trattative» (Istituto della Enciclopedia Italiana, Vocabolario della Lingua Italiana, Vol. I, Roma 1986, p. 276).

- Capitolazione: si tratta dell’«Accordo, concluso fra i comandanti di forze armate belligeranti, con il quale un corpo di truppe o una piazzaforte si arrendono al nemico» (Ibidem, p. 615).

- Resa: è «L’azione, il fatto di arrendersi, come cessazione di ogni resistenza di fronte al nemico» (Istituto della Enciclopedia Italiana, Vocabolario della Lingua Italiana, vol. III**, Roma 1991, p. 1366). La resa può essere a condizioni, oppure incondizionata o a discrezione; in casi particolari con l’onore delle armi.

- Resa incondizionata: «quando il vinto trovandosi nell’impossibilità di dettare condizioni alla propria resa, si assoggetta a priori a qualsiasi imposizione del vincitore» (Istituto della Enciclopedia Italiana, Vocabolario della Lingua Italiana, Vol. II, Roma 1987, p. 821).

Dal Dizionario di Diritto Internazionale Bellico.

Il Dizionario di Diritto Internazionale Bellico del 15 marzo 1941 recita invece:

- Armistizio: «È l’accordo con il quale due o più belligeranti decidono di sospendere le ostilità. Tra le convenzioni fra belligeranti esso è il più complesso e il più usato, e se le norme convenzionali non compiutamente lo fissano, è però ben regolato dalla consuetudine. È da porsi prima di tutto in chiaro che con la cessazione delle ostilità in seguito ad armistizio non viene meno lo stato di guerra e di conseguenza rimangono intatti tutti i diritti e i doveri dei neutrali e dei belligeranti. Fissato così che l’armistizio non è una pace, esso si può distinguere in generale o parziale, a seconda che la sospensione delle ostilità sia stabilita per tutti i teatri di guerra, o soltanto per una parte molto più importante di essi (v. Sospensione d’armi o tregua); in genere al primo è connesso anche un’importanza politica (negoziati per la pace, per sedare una rivoluzione interna ecc.) che il secondo non ha. Questa distinzione ha grande importanza specialmente riguardo a chi spetti di concludere l’armistizio, nessun dubbio essendo che questo, qualora sia generale, può essere concluso solo dai Governi belligeranti o dai loro delegati, mentre, se è parziale, basta il comandante in capo delle forze armate o chi per esso. E che l’armistizio generale debba essere concluso dai Governi e dagli stessi ratificato invece che dai comandanti militari si spiega appunto con la preminente parte politica compresa in esso [etc.]» (Enrico Serra, Giuseppe Sperduti, Giancarlo Venturini, Walter Zannini -a cura di-, Dizionario di Diritto Internazionale Bellico, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, Milano 1941, pp. 42-43).

- Capitolazione: «È una convenzione fra belligeranti con la quale è stipulata la resa totale o parziale delle truppe. È un vero e proprio accordo, anche se talvolta la sua forma è orale, e come tale va distinto dalla semplice “resa a discrezione” (v.). La capitolazione stessa contiene in genere quali sono gli obblighi dei contraenti ed ogni altra indicazione al proposito, e solo nel caso di mancanza di contenuto specifico si deve ricorrere al significato che la pratica internazionale attribuisce a questo istituto. Alla data di entrata in vigore della convenzione, l’esercito o la fortezza o la nave che ha capitolato non solo ha l’obbligo di cessare ogni attività offensiva ma deve anche consentire che i difensori vengano fatti prigionieri di guerra. L’avversario ha il diritto di ricevere in consegna tutte le opere militari, le armi, le munizioni ecc. come e dove si trovano al momento della stipulazione e la distruzione da parte del capitolante è lecita solo sino al momento dell’entrata in vigore della convenzione e non più dopo [etc.]» (Ibidem, p. 64).

- Resa a discrezione: «Così si chiama l’arrendersi delle forze armate – tutte o parte – di un belligerante, senza concludere prima col nemico una capitolazione (v.). Chi si arrende a discrezione ha l’obbligo di gettare le armi e non può pretendere dal belligerante avversario un trattamento diverso da quello che le norme internazionali assegnano ai prigionieri di guerra. La volontà della resa a discrezione si manifesta in genere, con l’alzare la bandiera bianca o con altra idonea manifestazione. Il nemico, dopo essersi reso conto che il segnale è stato eseguito dietro ordine dell’autorità, e non è un atto personale di chi lo compie, ha il dovere di sospendere il fuoco» (Ibidem, p. 184).

- Sospensione d’armi o tregua: «Come esprime il nome, si tratta di una convenzione fra belligeranti (v.) allo scopo di far cessare temporaneamente le ostilità. In senso lato essa è compresa solitamente nell’armistizio (v.), anche perché le convenzioni dell’Aja non conoscono che quest’ultimo. Tuttavia la pratica e la dottrina fanno una distinzione fra armistizio e sospensione d’armi o tregua: quest’ultima consiste strictu sensu in una cessazione delle ostilità tra forze navali o terrestri o aeree nemiche, per un tempo brevissimo e circa un oggetto d’importanza locale oltreché momentanea [etc.]» (Ibidem, p. 195).

Il testo del Dizionario di Diritto Internazionale Bellico non contempla la semplice voce resa. In ogni caso si rammenti che cosa recita l’Armistizio Corto al punto n° 6: «Resa immediata della Corsica e di tutto il territorio italiano, sia delle isole che del continente, agli alleati [etc.]».

RESA INCONDIZIONATA: Armistizio Corto di Cassibile.

I “prodromi” sono già stati scritti nella VIII parte.

Il giorno 3 settembre 1943 sono presenti alla firma della resa incondizionata: «On. Harold Macmillan, Ministro Residente britannico presso il Quartier Generale delle Forze alleate; Robert Murphy, rappresentante personale del Presidente degli Stati Uniti; Royer Dick, Commodoro della Reale Marina britannica, Capo di Stato Maggiore del Comandante in Capo del Mediterraneo; Lowell W. Rooks, Magg. Gen. Dell’Esercito degli U.S.A. Sottocapo di Stato Maggiore, C-3, presso il Quartier Generale delle Forze alleate; Franco Montanari, interprete ufficiale italiano; Brigadiere Kenneth Strong, Sottocapo di Stato Maggiore, G-2, presso il Quartier Generale delle Forze alleate (testo tratto da: http://www.andreaconti.it/alternat/storia02.html).

testo dell’«armistizio corto» firmato dal generale castellano il 3 settembre 1943 a cassibile

Il testo è tratto dal lavoro di: Emilio Canevari, Graziani mi ha detto, Magi-Spinetti Editori, Roma 1947, pp. 328-330.

Comunque, il testo della resa incondizionata ritenuto valido all’epoca e quindi anche ai giorni nostri è in lingua inglese (2).

Sicilia, 3 settembre 1943

Le seguenti condizioni di armistizio sono presentate dal Generale Dwight D. Eisenhower Comandante in Capo delle Forze Alleate il quale agisce per delega dei Governi degli Stati Uniti e della Gran Bretagna e nell’interesse delle Nazioni Unite e sono accettate dal Maresciallo Pietro badoglio Capo del Governo Italiano

  1. - Cessazione immediata di ogni attività ostile da parte delle Forze Armate Italiane.
  2. - L’Italia farà ogni sforzo per negare ai tedeschi tutto ciò che potrebbe essere adoperato contro le Nazioni Unite.
  3. - Tutti i prigionieri e gli internati delle Nazioni Unite dovranno essere consegnati immediatamente al Comandante in Capo alleato e nessuno di essi potrà ora o in qualsiasi momento essere trasferito in Germania.
  4. - Trasferimento immediato della flotta italiana e degli aerei italiani in quelle località che saranno designate dal Comandante in Capo alleato, con i dettagli di disarmo che saranno fissati da lui.
  5. - Il naviglio mercantile italiano potrà essere requisito dal Comandante in Capo alleato per supplire alle necessità del suo programma militare-navale.
  6. - Resa immediata della Corsica e di tutto il territorio italiano, sia delle isole che del continente, agli Alleati, per essere usato come base di operazioni e per altri scopi a seconda delle decisioni degli Alleati.
  7. - Garanzia immediata del libero uso da parte degli Alleati di tutti gli aeroporti e porti navali in territorio italiano, senza tener conto dello sviluppo dell’evacuazione del territorio italiano da parte delle forze tedesche. Questi porti ed aeroporti dovranno essere protetti dalle Forze Armate italiane finché questo compito non sarà assunto dagli Alleati.
  8. - Immediato richiamo in Italia delle Forze Armate italiane da ogni partecipazione alla guerra in qualsiasi zona in cui si trovino attualmente impegnate.
  9. - Garanzia da parte del Governo italiano, che se necessario impiegherà tutte le sue forze disponibili per assicurare la sollecita e precisa esecuzione di tutte le condizioni dell’armistizio.
  10. - Il Comandante in Capo delle Forze alleate si riserva il diritto di prendere qualsiasi misura che egli ritenga necessaria per la protezione degli interessi delle Forze alleate per la prosecuzione della guerra, e il Governo italiano si impegna a prendere quelle misure amministrative o di altro carattere che potranno essere richieste dal Comandante in Capo, e in particolare il Comandante in Capo stabilirà un Governo militare alleato in quelle parti del territorio italiano ove egli lo riterrà necessario nell’interesse delle Nazioni alleate.
  11. - Il Comandante in Capo delle Forze alleate avrà pieno diritto di imporre misure di disarmo, di smobilitazione e di smilitarizzazione.
  12. - Altre condizioni di carattere politico, economico e finanziario che l’Italia dovrà impegnarsi ad eseguire saranno trasmesse in seguito.

Le condizioni di questo Armistizio non saranno rese pubbliche senza l’approvazione del Comandante in Capo Alleato. Il testo inglese sarà considerato il testo ufficiale (1).

Per il Maresciallo Pietro Badoglio, Capo del Governo italiano / F.to Giuseppe Castellano, Gen. di Brigata addetto al Comando Supremo Italiano / Per Dwight Eisenhower Generale dell’Esercito degli U.S.A. / Comandante in Capo delle Forze Alleate / F.to Walter B. Smith, Magg. Gen. dell’Esercito degli U.S.A. / Capo di Stato Maggiore (Emilio Canevari, Graziani mi ha detto, op. cit., pp. 328-330).

Successivamente alla firma dello Short Military Agreement, il giorno 29 settembre 1943, in acque maltesi e a bordo della nave da battaglia inglese Nelson, è firmato l’Atto Condizioni aggiuntive di armistizio con l’Italia, ovvero il cosiddetto “armistizio lungo”. Inoltre si discute la necessità che l’Italia dichiari guerra alla Germania.

Note

1) Ed ecco la prima parte di quello che diverrà il “punto n. 5” della “resa incondizionata corta”, testo è già stato trascritto nella XII parte.

A proposito dell’immediata perdita di parte del naviglio mercantile ecco che cos’hanno scritto Carlo De Riso e Roberto Fabiani: «Prima ancora di cominciare, la battaglia era già stata perduta a metà. Si sa che Mussolini decise il giorno dell’entrata in guerra in maniera cervellotica, con l’unico scopo di riuscire a sparare qualche fucilata prima che i tedeschi arrivassero a Parigi. Ma già da maggio avvertiva gli Stati Maggiori che a partire dal 5 giugno 1940 qualunque giorno era buono. In quel momento, il 35 per cento della flotta mercantile italiana si trovava fuori dal Mediterraneo: si trattava di 212 navi, ovviamente le migliori, le più veloci e adatte alla navigazione oceanica, che giravano il mondo per procurare al Paese valuta pregiata. L’avviso di “pericolo di guerra” con l’ordine di rientro venne diramato solo il 5 giugno, con la conseguenza che tutte quelle belle navi finirono internate in porti neutrali o catturate. Clamoroso l’episodio del piroscafo Rodi, rimasto in mani inglesi… a Malta. E anche questo, fra gli infiniti altri, va detto a gloria dello Stato Maggiore Marina» (Carlo De Riso, Roberto Fabiani, La Flotta tradita. La Marina italiana nella Seconda Guerra Mondiale, De Donato-Lerici Editori, Roma 2002, p. 95).

Vogliamo parlare d’idiozia oppure di tradimento? Alternative non ve ne sono.

2) Testo “valido” della resa incondizionata:

«The following conditions of an Armistice are presented by General dwight d. eisenhower, Commander-in-Chief of the Allied Forces, acting by authority of the Governments of the United States and Great Britain and in the interest of the United Nations, and are accepted by Marshal pietro badoglio, Head of the Italian Government:

  1. Immediate cessation of all hostile activity by the Italian armed forces.
  2. Italy will use its best endeavors to deny, to the Germans, facilities that might be used against the United Nations.
  3. All prisoners or internees of the United Nations to be immediately turned over to the Allied Commander-in-Chief, and none of these may now or at any time evacuated to Germany.
  4. Immediate transfer of the Italian Fleet and Italian aircraft to such points as may be designated by the Allied Commander-in-Chief, with details of disarmament to be prescribed by him.
  5. Italian merchant shipping may be requisitioned by the Allied Commander-in-Chief to meet the needs of his military-naval program.
  6. Immediate surrender of Corsica and of all Italian territory, both islands and mainland, to the Allies, for such use as operational bases and other purposes as the Allies may see fit.
  7. Immediate guarantee of the free use by the Allies of all airfields and naval ports in Italian territory, regardless of the rate of evacuation of the Italian territory by the German forces. These ports and fields to be protected by Italian armed forces until this function is taken over by the Allies.
  8. Immediate withdrawal to Italy of Italian armed forces from all participation in the current war from whatever areas in which they may now be engaged.
  9. Guarantee by the Italian Government that if necessary it will employ all its available armed forces to insure prompt and exact compliance with all the provisions of this armistice.
  10. The Commander-in-Chief of the Allied Forces reserves to himself the right to take any measure which in his opinion may be necessary for the protection of the interests of the Allied Forces for the prosecution of the war, and the Italian Government binds itself to take such administrative or other action as the Commander-in-Chief may require, and in particular the Commander-in-Chief will establish Allied Military Government over such parts of Italian territory as he may deem necessary in the military interests of the Allied Nations.
  11. The Commander-in-Chief of the Allied Forces will have a full right to impose measures of disarmament, demobilization and demilitarization.
  12. Other conditions of a political, economic and financial nature with which Italy will be bound to comply will be transmitted at later date.

The conditions of the present Armistice will not be made public without prior approval of the Allied Commander-in-Chief. The English will be considered the official text.

Marshal PIETRO BADOGLIO – DWIGHT D. EISENHOWER

Head of the Italian GovernmentGeneral, U. S. Army, Commander in Chief Allied Forces

By: GIUSEPPE CASTELLANO – By: WALTER B. SMITH

Brigadier General, Italian High Command – Attached to The Major General, U. S. Army Chief of Staff

Present:

Rt. Hon. HAROLD MACMILLAN British Resident Minister, AFHQ

ROBERT MURPHY, Personal Representative of the President of the United States

ROYER DICK, Commodore, R. N., Chief of Staff to the C. in C. Med.

LOWELL W. ROOKS, Major General, U. S. Army, Assistant Chief of Staff, G-3, AFHQ

FRANCO MONTANARI, Official Italian Interpreter

Brigadier KENNETH STRONG, Assistant Chief of Staff, G-2, AFHQ» (testo tratto da: http://www.andreaconti.it/alternat/storia02.html).

Sulle imprese della Decima Flottiglia MAS si può consultare il sito dell’Associazione:

associazionedecimaflottigliamas.it

N.B.: I bolli a corredo provengono da: Archivio di Stato di Milano; Tribunale Militare per la Marina in Milano (Repubblica Sociale Italiana), Procedimenti archiviati. Autorizzazione alla pubblicazione. Registro: AS-MI. Numero di protocollo: 2976/28.13.11/1. Data protocollazione: 29/05/2018. Segnatura: MiBACT|AS-MI|29/05/2018|0002976-P.

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Una russa a Montparnasse: biografia intellettuale di Maria De Naglowska – 5^ parte – Francesco Innella

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Maria De Naglowska e Il culto gnostico della Madre Divina

Il culto della Grande Madre risale al Neolitico e forse addirittura al Paleolitico se si leggono in questo senso le numerose figure femminili steatopigie (cosiddette "Veneri") ritrovate in tutta Europa, di cui naturalmente non conosciamo il nome. Lungo le generazioni, con gli spostamenti di popoli e la crescita di complessità delle culture, le "competenze" della Grande Madre si moltiplicarono in diverse divinità femminili. Per cui la Grande Dea, pur continuando ad esistere e ad avere culti propri, assumerà personificazioni distinte, per esempio, per sovrintendere all'amore sensuale (Ishtar-Astarte-Afrodite pandemia-Venere), alla fertilità delle donne (Ecate triforme, come 3 sono le fasi della vita), alla fertilità dei campi (Demetra / Cerere e Persefone / Proserpina, alla caccia (Kubaba, Cibele, quindi Artemide-Diana). Inoltre, siccome il ciclo naturale delle messi implica la morte del seme, perché esso possa risorgere nella nuova stagione, la grande dea è connessa anche a culti legati al ciclo morte-rinascita e alla Luna, che da sempre lo rappresenta (i più arcaici di questi riti sono riservati alle donne, come quello di Mater Matuta o della Bona Dea). Ad esempio, nelle feste e nei misteri in onore del gruppo Demetra / Cerere Persefone / Proserpina, il suo culto segna il volgere delle stagioni, ma anche la domanda dell'uomo di rinascere come il seme rinasce dalla terra. L'evoluzione teologica della figura della Grande Madre (giacché nulla va perduto, nel labirinto della mitologia) venne costantemente rappresentata da segnali di connessione tra le nuove divinità e quella arcaica. Finché le religioni dominanti ebbero carattere politeistico, un segno certo di connessione consisteva nella parentela mitologica attestata da mitografi e poeti antichi (ad esempio, Ecate è figlia di Gea; Demetra è figlia di Rea). Altro carattere che permette di riconoscere le tracce della Grande Dea nelle sue più tarde eredi, è poi la ripetizione di specifici attributi iconologici e simbolici che ne richiamano l'orizzonte originario. Ad esempio: il dominio sugli animali, che accomuna i leoni alati che accompagnano Ishtar, la cerva di Diana e il serpente ctonio della dea cretese; l'ambientazione tra rupi (o in caverne, a ricordare il carattere ctonio della divinità originale) e boschi, o presso acque; il carattere e i culti notturni.

Anche nel mutare delle religioni, la memoria della divinità arcaica, "signora" di luoghi o semplicemente di bisogni umani primari, si mantenne e si trasmise lungo le generazioni, dando luogo a culti forse inconsapevolmente sincretistici (le cui ultime propaggini possono essere considerate, ad esempio, le molte Madonne Nere venerate in Europa). Nell'area mediterranea ne conosciamo i nomi e le storie, nelle diverse civilizzazioni in cui si impose, dall'epoca protostorica:

in area mesopotamica (V millennio a.C.): Ninhursag
in area anatolica (II millennio a.C.): Cibele
in area greca: Gea
in area etrusca: Mater Matuta
in area romana: Bona Dea o Magna.

La variante nordica della Grande Madre, portata fino alle Isole britanniche da migrazioni di popoli pre-achei verso nord ovest, è secondo Robert Graves la Dea Bianca della mitologia celtica (colei che a Samotracia si chiamava Leucotea e proteggeva i marinai nei naufragi).L'universo cultuale della Grande Madre prevedeva anche, benché non sempre, figure maschili, inizialmente descritte come figure plurime o collettive (come i Dattili di Samotracia).

L'evoluzione di tali figure e la loro progressiva personificazione individuale sembrano confermare per sottrazione l'idea di un'origine matriarcale della civilizzazione, sia per la forte accentuazione di "figlio della dea" - e la dea rimanda alla Grande Madre, anche se ha un altro nome - che viene attribuita a talune divinità maschili particolarmente legate alla terra (Dioniso, per tutte); sia perché la modifica e l'individuazione in senso patriarcale del pantheon sono attestate in epoca relativamente tarda, quando gli uomini avevano preso coscienza della propria potestà generatrice; sia, infine, per il rapporto misterioso che corre tra la Grande Dea e il suo compagno, caratterizzato dall'essere minore di lei, per età e per poteri, e che spesso si presenta, almeno inizialmente, come una figura di giovane amante, assai simile ad un figlio (si veda in proposito la coppia Cibele-Attis).Lugansk, Ucraina (datazione ignota) Nella psicologia di Jung la Grande Madre è una delle potenze luminose dell'inconscio, un archetipo di grande ed ambivalente potenza, distruttrice e salvatrice, nutrice e divoratrice. In Erich Neumann, che più di tutti gli allievi di Jung dedicò i propri studi ai vari aspetti del femminile, l'archetipo della Grande Madre (tendenzialmente conservativo e nemico della differenziazione) è il principale ostacolo allo sviluppo del Sé individuale, che per conquistare la propria parte femminile deve sviluppare le proprie capacità di separazione ed autoaffermazione.

Per gli gnostici cristiani, Sophia è un elemento centrale per la comprensione cosmologica dell'Universo. Sophia è la componente femminile di Dio, e coincide con lo Spirito Santo della Trinità. Ella è, pertanto, al tempo stesso Sorella e Sposa di Cristo poiché, così come Cristo, Ella viene da Dio [Dio inteso dunque come Padre e come Madre al tempo stesso, poiché Origine e Generatore dei due principi, maschile (Cristo) e femminile (Sophia)]. Sophia risiede in tutti noi sotto forma di Scintilla Divina e Cristo fu inviato sulla terra per accendere la scintilla divina (pneuma o gnosi) che è nell'uomo, risvegliandolo dagli inganni del mondo e del Demiurgo. Nella tradizione gnostica, il nome Sophia è, assieme a quello di Cristo, attribuito all'ultima emanazione di Dio. Nella maggior parte, se non in tutte le versioni della religione gnostica, Sophia provoca un'instabilità nel Pleroma, contribuendo alla creazione della materia. Il dramma della redenzione di Sophia attraverso Cristo o il Logos è il dramma centrale dell'universo.

Pressoché tutti i sistemi gnostici del tipo siriano o egiziano insegnavano che l'universo ebbe inizio da un Dio originario, inconoscibile, definito come Padre o Bythos o Monade. Esso può essere associato anche al concetto di Logos dello stoicismo, o dell'esoterismo, o a termini teosofici come Ain Sof nella Qabbalah o Brahma nell'Induismo. Nello gnosticismo cristiano era noto come il Primo Eone. Da questo inizio unitario, l'Uno emanò spontaneamente altri Eoni, entità accoppiate, in una sequenza di potenza sempre inferiore. L'ultima di queste coppie fu quella formata da Sophia e Cristo. Gli Eoni, tutti insieme, costituivano il Pleroma o la pienezza, di Dio, e così non dovrebbero essere visti come entità diverse da Lui, ma come astrazioni simboliche della natura divina. Ora nel testo di Maria De Naglowska, c’è questa affiliazione gnostica della madre Divina ed è” la Dottrina del Terzo Termine della Trinità “
“La Divinità e triplice: Il Padre, Il Figlio e la Madre………….
Il Figlio si separa dal Padre e si divide in due. Egli è duplice. La Madre procede dal Padre e dal Figlio e li contiene entrambi: essa è triplice solo il ,Padre è omogeneo……….
I tre aspetti della Trinità – il Padre, il Figlio e la Madre – sono successivi nel tempo ma simultanei nella loro Eterna Presenza nelle regioni non connesse al piano della divisione e della molteplicità…………
La successione – Padre, Figlio, Madre – si giustifica così.

Il Padre è il Principio Maschio, che compie l’atto della negazione dello Spirito Unico: è l’amore orientato verso la carne. Il Figlio è il principio della seconda negazione, quella che nella carne respinge la carne; è l’amore orientato verso l’irreale, l’amore del cuore infecondo. Il Figlio non è né Maschio né Femmina: Egli è al di qua dei due sessi divini. A causa di ciò Egli è al di là degli esseri sessuati. La Madre è il ristabilimento del principio Maschio nel senso inverso. Essa afferma lo Sprito Unico, e il suo amore, che parte dalla carne, si orienta verso la realizzazione spirituale. Essa consola e glorifica il Figlio, perché concretizza nella vita semplice il suo sogno di sublime purezza. Ma sicuramente in questa concezione gnostica l’esoterista russa fu sicuramente influenzata da un circolo occulto già presente a Parigi dal 1920, il Circolo di Astarte, che si proponevano di ripristinare il culto del Dio Madre e di annunciare il Paracleto che si sarebbe rivelato come Sophia Nostra Signora lo Spirito Santo, Colei - che –Deve - Venire.

Il femminismo magico

L’esoterismo della Naglowska che ebbe uno sviluppo autonomo e che fu appreso in maniera del tutto casuale nella sua vita difficile, esula dai campi della tradizione ed entra in quello della massima trasgressione, da qui fu poi creata l’accusa di satanismo la stessa accusa che fu rivolta anche a Crowley. Ma la donna non era una adoratrice del diavolo, secondo quella che è una visione cattolica, ma una adepta di un femminismo magico - sessuale sfrenato di un audacia senza freni, che attaccava il moralismo della mentalità del tempo. Secondo Alexsandrian l’idea direttrice era la polarizzazione inversa dei sessi. Il cervello dell’uomo aveva la caratteristica, di emettere un elettricità negativa, mentre quella della donna positiva E in base a questa concezione, l’uomo e la donna potevano aumentare la carica del loro desiderio sessuale, che andava cavalcato come se fosse un cavallo focoso. L’uomo, poi doveva rimanere secco e non emettere il seme. E quest’atto sessuale era indicato con la metafora del “divorzio “. Adrien Peladan, affermava, successivamente a Pascal Randolph “ che la donna era destinata alla fecondazione uterina e non alla creazione cerebrale, ma era dotata di un cervello maschile che fecondava quello dell’uomo per effetto della proiezione del pensiero della donna……” Si tratta di tematiche che avevano lo scopo di rendere autonomo il ruolo della donna. Ma per gli scopi della magia sessuale , la Naglowska scrisse un testo importante, in cui tutta la tematica da me evidenziata nel capitolo prendono corpo. I “ Le sacerdotesse dell’amore”.

“Un testo sacro, la cui origine si perde nella notte dei tempi, rivela quando segue…….Le sacerdotesse dell’amore saranno vergini: esse non conosceranno il frutto proibito. Le si accoglierà tra le giovinette che il sole non ha corrotto, tra le donne i cui sogni sono di una purezza lunare ed esse stesse simili ad arpe, di cui vibrano e suonano tutte le corde, mentre le dita abili dell’arpista le sollecitano una per una, per farne sprigionare la melodia. Le si bagnerà con piante preziose, in acqua dolce e profumata e si avrà cura della loro pelle per mezzo di essenze aromatiche, sapientemente preparate secondo le formule sperimentate dai maghi.

Si farà attenzione con scrupolo che nessun maleficio venga gettato sulle sacerdotesse in formazione per mezzo di incontri profani, affinché la loro crescita non venga deviato e il loro sviluppo sia preservato da qualsivoglia turbamento morboso. Non le si imporrà nessun lavoro che potrebbe nuocere all’armonico sviluppo dei loro corpi, e le si proibirà severamente ogni posa o atteggiamento antiestetico. Le sacerdotesse dell’amore verranno esposte regolarmente all’azione benefica dei raggi lunari, nelle notti della prima quindicina di ogni lunazione. Le giovani sacerdotesse formeranno allora delle processioni e dei girotondi notturni, cantando dei ritornelli che commuovono l’anima. Le più esperte si dedicheranno a danze più complesse, al ritmo di musiche composte dai Maghi.

Nelle ore calde del mezzogiorno, quando l’azione del sole è particolarmente forte, le sacerdotesse in formazione si riposeranno nella loro sala comune, e tutte le tendine saranno abbassate. I Maghi preposti alla loro educazione, seduti al centro della sala, manterranno l’ordine e la disciplina necessari per la salvaguardia del principio femminile; quando le donne saranno cadute in sonno profondo, causato dalla sua influenza, il Mago orienterà i sogni della sacerdotessa verso lo scopo che riterrà opportuno. Ogni ora segnata sul quadrante dell’orologio universale ha il suo scopo e il suo significato. I Maghi lo sanno e si conformano. Al tramonto il mago sveglierà le donne e le interrogherà sul contenuto dei sogni. Fornirà loro le necessarie spiegazioni e si intratterrà con esse su argomenti suscettibili di svegliare in ciascuna il desiderio di involarsi altrove, in regioni migliori. Ciò perché la sacerdotesse dell’amore sono destinate a preparare l’avvenire dell’Umanità. Il loro compito non è quello di occuparsi delle vicende della società profana, che subisce quel destino che ha determinato il loro stesso passato, ma di coltivare la Conoscenza interiore e di custodire la sacra Fiamma che illumina i nuovi sentieri.”

La Naglowska si era ispirata alle prostitute sacre. La prostituzione sacra era una pratica in voga nelle civiltà antiche, soprattutto orientali e medio-orientali (babilonesi, fenici e assiri), ma non mancano attestazioni in Grecia (a Corinto: cfr. Strabone, Geografia, VIII, 378) e altrove (a Erice cfr. Cicerone, In Caecilium oratio, 55): del resto, il verbo greco-antico κορινθιάζομαι [pr. korinthiàzomai] significava "frequentare prostitute".

La motivazione principale che diede origine e impulso alla pratica della prostituzione sacra era il tentativo di immagazzinare l'energia vitale: nel tempio, il sacerdote (a volte il fedele stesso) si univa carnalmente alla sacerdotessa, celebrando con la loro unione un rito inneggiante alla dea dell'amore (Ishtar, Afrodite e altre ancora) in modo tale da propiziare la fertilità delle donne della comunità e, indirettamente insieme a essa, la prosperità economica della comunità stessa. I riti di accoppiamento sacro venivano celebrati di solito dietro versamento di un obolo (ecco perché si parla di prostituzione): le prostitute sacre, dette ierodule, però non si arricchivano poiché tutto quanto veniva offerto era accumulato con il tesoro del tempio. La prostituzione sacra è menzionata anche nella Bibbia (Deuteronomio 23, 18-19), dove viene stabilito il divieto per gli uomini e le donne di Israele di prendere parte a tale pratica. Rievocazione simbolica di una ierogamia (matrimonio sacro) e dell'unione dell'umanità con la divinità, era un rito di fertilità che si praticava in connessione con un tempio. Ne erano spesso protagoniste fanciulle vergini di buona famiglia, oppure anche schiave, o sacerdotesse del tempio, che nella maggior parte dei casi si univano a stranieri. Sulle origini dell'usanza e sulle caratteristiche che assumeva nelle diverse località in cui veniva praticata sussistono molti punti oscuri. Alcune località erano la Fenicia, Corinto, Erice (in Sicilia) e Locri. Una descrizione dettagliata delle modalità della prostituzione sacra è riferita da Erodono.

Francesco Innella

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Stalin per 5 Minuti! – Gianluca Padovan

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«La letteratura su Stalin e la sua era è sterminata. Gli stessi studiosi dello stalinismo ammettono tranquillamente di non averne visionata neppure la metà. In questo mare magnum, ricerche serie e meticolosamente documentate coesistono con sciatte compilazioni di aneddoti, dicerie e montature, raffazzonate alla bell’e meglio»

Oleg V. Chlevnjuk, Stalin, 2015

Ha da venì baffone?

Tanto si scrive e meno si sa. Ma è poi così necessario sapere tanto? Ritengo che i dettagli possano essere utili e talvolta meritino persino il tempo che gli si dedica. In realtà nulla è utile se i punti principali non sono chiaramente esposti.

Oggi la “storia” è fatta di talmente tante parole che l’obiettivo rimane chiaro: non dare le informazioni basilari affinché si sappia che cosa è successo e soprattutto che cosa sta succedendo.

Ma non mi dilungo, perché i cinque minuti che la storia di “Stalin” merita passano in fretta. Faccio scattare il cronometro… mi raccomando leggete in fretta, tutto d’un fiato e… partenza!

La nascita di un nome: Soso.

La prima domanda da porsi è la seguente: quando principia la vicenda? Ma la risposta non è così scontata. Esaminiamone una “rosa”… di queste “possibilità”.

  1. Giuseppe Džugašvili nasce nel 1879 in Georgia (fonte: Nicholas V. Rjasanovskij, Storia della Russia, Garzanti Editore, Milano 1968, p. 564).
  2. Iosif Vissarionovič Dzugašvili, alias “Stalin”, nasce a Gori in Georgia nel 1879 e muore a Mosca nel 1953 (fonte: Rizzoli-Larousse, Enciclopedia, vol. 20, RCS, Milano 2004, p. 359).
  3. Maurice Pinai, invece, così scrive il nome e cognome di “Stalin”: Ioseph David Vissarianovich Djugashvili-Kochha. Anche riportato, ma tra parentesi: Giuseppe Vissarionovic Stalin (fonte: Maurice Pinay, Complotto contro la Chiesa, Linotypia-Tipografia Dario Detti, Roma 1962, p. 19 e seg.). Inoltre: «Djougachvili - che è il suo vero nome - significa figlio di Djou e Djou è una piccola località della Persia, dalla quale emigrarono verso la Georgia molti portoghesi, anticamente colà esiliati a causa della loro onestà tutt'altro che specchiata. È ormai definitivamente provato, però, che nelle vene di Stalin scorreva sangue ebreo, pur non avendo egli né confermato, né smentito le voci che erano cominciate a correre in proposito (in nota: Bernard Hutton: Rivista francese Constellation, n° 167 del marzo del 1962) (Ibidem, p. 31). Secondo altre fonti il significato del suo nome sarebbe “figlio di Giuda”.
  4. Gislero Flesch, studioso messo all’indice, ma indubbiamente più vicino ai fasti di “Stalin” degli altri autori qui citati dal momento che pubblica quanto segue nel 1942, così principia: «La scheda riempita dal colonnello di gendarmeria Sciabelski, il 17 giugno 1902, sul detenuto Josif Vissarionovič Giugašvili, arrestato per provocazione di sanguinosi tumulti, reca i seguenti connotati: “Statura 2 arscin, 4 versciok e mezzo [in nota: circa m. 1,62. L’arscin equivale a cm. 71,119; il versciok a cm. 4,445]. Corpulenza: media. Età: 23 anni. Segni particolari: secondo e terzo dito del piede uniti. Aspetto esteriore: volgare. Capelli: bruno-scuri. Barba e baffi: bruni. Naso: diritto e lungo. Fronte: diritta [?] ma bassa. Volto: lungo, abbronzato, segnato dal vaiolo”, per cui la polizia lo soprannomina il “Butterato”» (fonte: Gislero Flesch, Stalin alla luce della psicologia criminale, Casa Editrice del Libro Italiano, Roma 1942, p. 15).
  5. Lo storico contemporaneo Chlevnjuk dice invece che tal «Ioseb D=uga&vili (così all’anagrafe)» nasce il 6 dicembre 1878 a Gori in Georgia, ovvero un anno prima di quanto ufficialmente dichiarato da tanti (fonte: Oleg V. Chlevnjuk, Stalin. Biografia di un dittatore, Mondadori Editore, Milano 2016, p. 23). Inoltre: «La madre, Ekaterine o Keke (Ekaterina in russo) Geladze, figlia di servi della gleba, era nata nel 1856. Nel 1864, dopo l’abolizione della servitù, la famiglia si era trasferita a Gori dove, all’età di diciott’anni, Keke era andata in moglie a un calzolaio, Besarionis o Beso (Vissarion in russo) Džugašvili, di sei anni più anziano. I loro primi due figli morirono in tenera età; Ioseb (Soso) fu il terzo» (Ibidem, p. 24). In ogni caso le notizie di Chlevnjuk non sono prese direttamente dagli archivi, ma bensì tratte da altri autori. Comunque dal suo libro ne ricaviamo un po’ di più, su questo “Ioseb-Soso-Stalin”.

Un gioco tra compagni.

Qualcheduno afferma che la rivoluzione bolscevica fu un’avventura ben riuscita, un “bel gioco”.

Sarà vero?

Ognuno viva pure con le proprie convinzioni, io per primo.

Posso ricordare che nel 1918 i Membri del Consiglio dei Commissari del Popolo (primo Governo comunista di Mosca) erano 19, di cui probabilmente solo 3 non-ebrei. Ovviamente “Stalin”, che fa parte del Consiglio in qualità di “Commissario delle nazionalizzazioni”, non è tra questi ultimi tre (Maurice Pinay, Complotto contro la Chiesa, op. cit., p. 19).

I Russi, magari, dormivano pure e qualcheduno afferma che il “gioco” fu per loro salutare. Indubbiamente gli Zar non erano tra i governanti più illuminati della Terra e un po’ se la sono andata a cercare. Altrettanto indubbiamente la così detta “rivoluzione russa” è stata innanzitutto un genocidio costato alla sola Russia decine di milioni di morti ammazzati. Da questo gigantesco bubbone pestilenziale gli effetti deleteri nel resto dell’Europa e del Mondo non si sono fatti attendere.

Inoltre, proseguendo nei dati di fatto già pubblicati agli inizi degli anni Sessanta del XX secolo, si ricordi che molti “rivoluzionari” sovietici erano iscritti in Massoneria (http://www.ereticamente.net/2018/02/falce-e-maglietto-gianluca-padovan.html).

Lew Davidovic Bronstein, alias Trotsky.

Sul conflitto Trotsky – Stalin le chiacchiere sono infinite. Ma ecco, ancora una volta, il calzante Pinay:

«È risaputo ormai che l’antisemitismo ostentato da Stalin non era altro che una mascheratura dei suoi veri sentimenti. Lo sterminio di ebrei (trotskisti) da lui ordinato per consolidare e assicurare il potere fu portato a termine da altri ebrei. In realtà, quindi, la lotta tra l’ebreo Trotsky e l’ebreo Stalin non fu altro che una contesa tra bande ebree rivali per assicurarsi il governo comunista, da loro stessi creato; ossia una vera e propria lite in famiglia» (Maurice Pinay, Complotto contro la Chiesa, op. cit., p. 35).

Dai GULag ai Laogai.

Si ricordi che il leitmotiv del XX secolo, nonché di questo XXI, è che Stalin fosse georgiano purosangue e avesse vessato gli ebrei. In realtà Stalin era ebreo e in seno al gruppo ebraico di potere vi erano, come già detto, insanabili lotte. Ragion per cui Stalin riempì anche la Siberia di milioni di ebrei deportati innanzitutto dalle terre russe. Poi fu la volta degli ebrei polacchi quando le truppe sovietiche invasero la Polonia nel corso della Seconda Guerra Mondiale. E via così.

Per quanto riguardano ancora una volta le cifre dei morti ammazzati e l’élan avventuroso e sognatore di taluni “rivoluzionari”, Gianantonio Valli, uno scrittore “nostrano” con i piedi per terra, venuto a mancare da poco, riporta dati, cifre, nomi e cognomi (Gianantonio Valli, Giudeobolscevismo. Il massacro del popolo russo, Edizioni Ritter, Milano 2014, pp. 363-393).

Ecco, comunque, un paio di trascrizioni, utili a porsi leciti dubbi su talune “verità storiche”.

  1. Un gruppo di ebrei conservatori emigra a Berlino dopo il golpe bolscevico e pubblica il lavoro a più mani intitolato “La Russia agli ebrei”: «In essa Levin non cela, correttamente e onestamente, che “l’accertamento delle responsabilità ebraiche per la partecipazione al movimento bolscevico [provoca] solitamente negli ambienti ebraici irritazione e incomprensione» (Gianantonio Valli, Giudeobolscevismo. Il massacro del popolo russo, op. cit., p. 388).
  2. Deportazioni sovietiche dalla Polonia: «la deportazione, oltre agli Urali, in Siberia e nel Kazakistan, di 2.500.000 cittadini polacchi – cioè polacchi etnici, ebrei, bielorussi, ucraini, ecc. – tra i quali 1.000.000 ebrei migrati volontariamente o deportati (…). 400.000 di tali ebrei morirebbe durante il terribile viaggio e 300.000 nei campi» (Ibidem, pp. 415-416).

I “campi” sono i GULag, acronimo di Glavnoye Upravlenye Lagerei (Direzione principale dei campi, ovvero dei così detti “campi di lavoro”). Istituiti nel 1926 in Russia da “Djougachvili-Stalin”, sono rimasti attivi fino agli anni Novanta del XX secolo, “ospitando” milioni di prigionieri, molti usciti solo da morti. Non si dimentichi la favorevole impressione suscitata da questi “luoghi di rieducazione” nel presidente del Partito Comunista cinese Mao Zedong (Shaoshan 1893 – Pechino 1976), il quale a sua volta ha provveduto a istituire i campi di lavoro denominati Laogai. Pare che in essi siano transitati ad oggi circa cinquanta milioni di “birichini da rieducare”. Inutile dire che anche in tale frangente molti sono usciti solo con “i piedi in avanti”.

Attenzione, i Laogai sono ancora in funzione in questo XXI secolo!

Detto questo, ognuno può riconoscere o riscoprire in sé stesso una idea, una ideologia, l’élan giovanile che gli fa propendere per un colore piuttosto che un altro, o una fede religiosa o un semplice sentire. Bene, sfido chiunque a dimostrare che gli esempi del “baffone” (“Stalin”) e del “faccione” (“Mao”) fossero validi e da perpetuare nei decenni o nei secoli. In questo XXI secolo è ora che anche i nostri “storici” o presunti tali comincino a scrivere la Storia per quella che è stata.

Il “pezzo da novanta” Nikola Salomon Chruščëv.

Ma i crimini contro i popoli non cessano con l’esalazione dell’ultimo respiro del “baffone”. Ricordiamo ora il “compagno Salomon” successore di “Butterato-Stalin”. Nikola Salomon Chruščëv (Kalinovka 1894 – Mosca 1971), alias Nikita Sergeevič Chruščëv diverrà niente popò di meno che Presidente del Consiglio dei Ministri dell’U.R.S.S. e Segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Lo ritroviamo ovviamente citato anche da Pinay: «Nicola Salomon Kruscev, attuale capo del Partito Comunista Sovietico, membro del Politburò dall’anno1939 cioè dall’anno in cui Malenkov venne eletto membro dell’Orgburò. È fratello della moglie di Malenkov, ossia dell’ebrea Pearl-Mutter. Kruscev è quindi in realtà ebreo e si chiama Pearlmutter» (Maurice Pinay, Complotto contro la Chiesa, op. cit., pp. 33-34).

Difatti scrive Averardi nella sua Introduzione: «Come conciliare il socialismo con l’arcipelago Gulag? la libertà con i rinoceronti del dogmatismo? le laudi del culto di Stalin con il marxismo? e i milioni di morti ammazzati, comunisti e non comunisti, intellettuali e contadini e operai, con il mito della rivoluzione del ’17? Come spiegare che per altri venti anni questi crimini siano stati giustificati, spiegati, negati non dalle vittime impotenti ma da uomini liberi?» (Giuseppe Averardi (a cura di), I grandi processi di Mosca 1936-37-38, Rusconi Libri, Milano 1977, p. 14).

Passati i 5 minuti (era ora!).

Oggi qualcheduno rimesta sulla fine torbida di “Djougachvili-Stalin”, a cui andò di traverso la bottiglia di vodka, per inscenare l’ennesimo teatrino. Ma, siamo sinceri, a noi che ce ne cala di come morì? Ricordiamolo per quello che è stato: un criminale che ha avuto appoggi (tanti) e fortuna (anche troppa).

Ma, infine, anche un altro “alias” storico è trapassato e ce lo ricordiamo per la morte e la distruzione che portò e per l’intento di fare “terra bruciata” anche dell’Europa: si tratta di Temugin (o Temucin) alias Gengis khān (circa 1167 – 1227). Attenzione: si dice che costui, come “Stalin”, avesse un anello particolare: un rubino con la svastika, ma non per questo era un nazionalsocialista! E tantomeno un “brav’uomo”.

Scrive ancora Ghislero Flesch, a proposito dell’audace inclinazione del “nostro” Djou, alias “Kocha-Stalin”: «Torvo, laconico, incurante della vita (deviazione dell’istinto di conservazione, propria a molti criminali), diviene il predone temutissimo del Caucaso. Rivivono così in lui, operanti e moltiplicati, gli spiriti briganteschi del padre, per forza di una eredità criminale diretta omologa. Svaligiare uffici postali e gioiellerie e banche, assalire e uccidere, per far denaro in ogni modo e trasmetterlo alle casse del partito, sono imprese naturalissime per colui che Lenin, allora entusiasta, chiama il “georgiano leggendario”» (Gislero Flesch, Stalin alla luce della psicologia criminale, op. cit., p. 72).

Ora, sforati i tempi prefissati dei “5 minutini”, passiamo ad altro.

Ad altro di decisamente più pregnante e indubbiamente da ricordare.

Il grande sacrificio.

La “storia” che va per la maggiore è che, regnante “Djou-Stalin”, la Germania del III Reich attaccò fraudolentemente la Russia con la quale aveva stretto un patto. Scellerato per l’appunto? Ma in effetti che cos’è successo?

La realtà dei fatti storici è che la Russia si apprestava a invadere l’Europa. L’obiettivo di “Kocha-Stalin” era di fare di tutt’Europa un mondo slavo. Ma, ricordiamocelo, l’ideale panslavista non era certo suo.

Pertanto si arginò e si stroncò l’invasione russa che mirava a conquistare l’intera Europa.

Vanno ricordati i sacrifici della Germania e con essa l’Austria, del loro popolo, dei Soldati Italiani, nonché di tutti coloro che si batterono contro il bolscevismo anche e soprattutto nelle fila delle Waffen SS.

Non ci credete? Tre libri per tutti scritti dal russo Vladimir Rezun alias Viktor Suvorov parlano del piano di Stalin per conquistare l’Europa: “Il rompighiaccio”, “Il giorno M” e “L’ultima Repubblica”.

Si caldeggia vivamente le lettura dell’articolo «Come i Sovietici “persero” la Seconda Guerra Mondiale. La rivelazione del piano di Stalin per la conquista dell’Europa», pubblicato sul sito web della Federazione Nazionale Combattenti della Repubblica Sociale Italiana, recensito da Daniele W. Michaels e tradotto a cura di Gian Franco Spotti.

(http://fncrsi.altervista.org/La_rivelazione_del_piano_di_Stalin.htm).

Se qualcheduno pensa che oggi le cose siano cambiate perché Vladimir Putin è biondo si ricordi che appartiene alla Loggia massonica Golden Eurasia, mentre Angela Merkel appartiene alle Logge Golden Eurasia, Parsifal e Valhalla.

Se gli americani possiedono parecchi droni, i russi hanno i soldati per raggiungere (almeno sulla carta) Portogallo e Spagna da una parte, Italia (fino alla Sicilia) e Grecia da quell’altra.

Intanto la Russia ci vorrebbero riprovare per l’ennesima volta contro la Finlandia, ma il tenace e valoroso popolo Finlandese ha resistito e ci si augura che in eterno resista!

Il 22 giugno 1941.

Gianantonio Valli ci ha lasciato un libro chiaro e inequivocabile: “Operazione Barbarossa. 22 giugno 1941: una guerra preventiva per la salvezza dell’Europa”.

Dopo aver parlato nel dettaglio delle forze in campo, Valli scrive: «Al proposito già Suvorov (II) aveva concluso, con un certo humor nero: “Se l’operazione ‘Barbarossa’ fosse stata posticipata ancora una volta, per esempio dal 22 giugno al 22 luglio, Hitler non si sarebbe dovuto ammazzare nel 1945, ma prima. Esistono non pochi elementi a indicare che la data d’inizio dell’operazione sovietica ‘Groza’ (Tempesta) fosse il 6 luglio 1941”» (Gianantonio Valli, Operazione Barbarossa. 22 giugno 1941: una guerra preventiva per la salvezza dell’Europa, Effepi, Genova 2009, p. 45).

Per quanto concerne le “considerazioni strategiche” leggiamo serenamente altre informazioni attinte da Suvorov:

«“Non sappiamo dove sia nata la leggenda che il 22 giugno 1941 Hitler ha iniziato la guerra all’Est e costretto l’Unione Sovietica alla guerra. Se, al contrario, ascoltiamo coloro che in quei giorni, ore e minuti furono in effettivo stretto rapporto coi massimi capi sovietici, il quadro è tutt’altro: il 22 giugno Hitler ha scompaginato i piani di guerra sovietici perché ha portato la guerra nel paese nel quale il 19 agosto 1939 era stato partorito un altro piano. Ai capi sovietici Hitler non ha permesso di condurre la loro guerra, come avevano progettato, e li ha costretti a improvvisare e fare ciò cui non erano preparati: difendere il loro paese”» (Gianantonio Valli, Operazione Barbarossa, op. cit., pp. 77-78).

Oggi si taccia di “revisionista storico” chi cerchi di liberarsi dalle menzogne scritte da chi ha il potere del denaro e conseguentemente della carta stampata. In realtà i veri revisionisti sono coloro che hanno scritto a loro uso e consumo (o meglio hanno fatto scrivere a penne prezzolate) una storia artefatta e quindi fraudolentemente falsa.

Hans Rudel: Pilota d’Acciaio!

Il soldato tedesco più decorato della Seconda Guerra Mondiale (e probabilmente il Soldato più decorato sul campo nel XX secolo) è il pilota tedesco Hans Ulrich Rudel. Che cosa fece? Sul fronte russo compì circa 2530 missioni di volo, con circa 500 carri armati sovietici distrutti. E questo senza contare una nave da battaglia affondata e altro ancora.

Ecco che cosa scrive a proposito dei primi giorni dell’attacco tedesco denominato “Operazione Barbarossa” e sulle basi d’aviazione sovietiche piene di bombardieri statunitensi come i Martin.

«Fin dai primi voli notammo innumerevoli opere di fortificazione lungo la frontiera; spesso queste posizioni sono profonde centinaia di chilometri nell’interno della Russia; talvolta i lavori sono ancora in corso. Sorvoliamo aeroporti quasi approntati; su alcuni di essi i russi stanno terminando le piste di cemento; su altri già si vedono velivoli in attesa… non sappiamo bene di che cosa. Così, presso la strada di Witebsk, un vasto campo appare gremito di bombardieri Martin; ma tutti questi apparecchi sono fermi: i russi mancano di benzina o di personale. Vedendo sfilare sotto di noi a perdita d’occhio trinceramenti, strade militari ed aeroporti, non possiamo impedirci di pensare che è stata una gran fortuna l’aver preso l’iniziativa delle operazioni. È evidente come i russi abbiano organizzato le zone di frontiera quali basi per una offensiva contro l’Europa, cioè contro la Germania, che è ormai rimasta l’unica nazione forte da combattere in Europa Occidentale; se il nostro Comando Supremo avesse lasciato loro il tempo di terminare quei preparativi, sarebbe stato senza dubbio molto difficile, e forse improbabile, fermare il famoso “rullo compressore”» (Hans Rudel, Il pilota di ferro, Longanesi & C., Milano 1971, p. 22).

Così Rudel chiude il proprio libro di ricordi epici e dolorosi, con parole decisamente attuali:

«I fatti vi sono narrati per quello che valgono, con scrupolosa verità e con assoluta fedeltà. Dedico il libro ai morti di questa guerra e alla nostra gioventù, che sta soffrendo dell’orribile confusione del dopoguerra. Essa non deve perdersi d’animo. Ma aver fede nella Patria e fiducia nell’avvenire, perché solo chi si dà per vinto è veramente perduto».

NOTE

- Le due immagini di Iosif Vissarionovič Dzugašvili con la manina infilata nel cappotto sono state tratte da:

https://neovitruvian.wordpress.com/2016/02/22/la-mano-nascosta-che-ha-manipolato-la-storia/

- Le immagini d’epoca identificate come fig. 1, 2 e 16, provengono dal citato libro di Gislero Flesch, Stalin alla luce della psicologia criminale.

- Vedere inoltre uno scritto di Maurizio Blondet, dove si riprendono gli studi di Gianantonio Valli:

https://www.maurizioblondet.it/lenin-anche-massone-oltre-ebreo/

L'articolo Stalin per 5 Minuti! – Gianluca Padovan proviene da EreticaMente.

La bussola e la mappa – Vittorio Varano

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Abbiamo l'abitudine dell'astrazione, che non consente l'attenzione ( che consiste nel guardare senza generalizzare ) ; quando ci poniamo le due domande approssimativamente equivalenti “l'essere umano è o non è immortale ?” e “l'essere umano ha o non ha un'anima ?”, siamo naturalmente portati a supporre che la risposta giusta sia una delle due contrarie, o quella affermativa ( “l'essere umano è immortale” ossia “l'essere umano ha un'anima” ) oppure quella negativa ( “l'essere umano non è immortale” ossia “l'essere umano non ha un'anima” ) ; ma entrambi gli enunciati sono ellittici, ed esplicitando i quantificatori logici andrebbero riformulati così : “ogni essere umano è immortale” ( ossia “ogni essere umano ha un'anima” ) e “nessun essere umano è immortale” ( ossia “nessun essere umano ha un'anima” ) ; risulta evidente che non è applicabile il principio aristotelico del terzo escluso, perché tra il quantificatore universale affermativo “ogni” e il quantificatore universale negativo “nessun” c'è il quantificatore esistenziale “qualche”, a cui corrisponde la possibilità intermedia “qualche essere umano è immortale” ( ossia “qualche essere umano ha un'anima” ). Estendendo la questione dagli esseri umani fino ad includere tutti gli esseri, viventi e non, animati o inanimati, la domanda diventa questa : “gli enti appartengono solo alla dimensione materiale o anche alla dimensione spirituale ?” ; anche in questo caso commettiamo lo stesso errore : se siamo materialisti crediamo che tutti gli enti appartengano solo alla dimensione materiale, se siamo spiritualisti crediamo che tutti gli enti appartengano anche alla dimensione spirituale, e scartiamo l'ipotesi che alcuni appartengano solo alla dimensione materiale, altri solo a quella spirituale, ed altri ancora ad entrambe ( semplificando per comodità espositiva, altrimenti sarebbero : materiale, animica, spirituale, materiale-animico, animico-spirituale, materiale-animico-spirituale ). Gli oggetti ostruenti asportabili occupano come elementi ornamentali e riempitivi gli spazi che restano vuoti nei punti in cui non combaciano completamente e s'incastrano male i mattoni del muro del mondo. Il mondo è un arazzo ricamato con filo di lana grezza su pannelli di stoffa tessuta a grana grossa, un paesaggio dipinto ad affresco sulle pareti interne del palazzo dove l'uomo è imprigionato, costruite come le mura ciclopiche che le civiltà arcaiche edificavano in epoche remote con blocchi e lastroni di pietra di forme irregolari, senza calce e malta a cementarli. Nel palazzo ( che più che un palazzo è un castello ( che più che un castello è una reggia )) si susseguono ambienti diversi : camere, cantine, corridoi, cortili, giardini, locali, saloni, sgabuzzini, stanze e vani vari, etc. ma non s'incontra neppure una porta. Il groviglio intricato in cui si snoda la loro sequenza disegna sul pavimento del palazzo il tracciato di un labirinto pieno di vicoli ciechi, in agguato dietro ogni angolo, dopo ogni svolta una strada interrotta, la fine di una direzione, una barriera naturale oppure una barricata artificiale che blocca il cammino.

La difficoltà di muoversi nei suoi cunicoli spinge alcuni a sedersi a gambe incrociate e chiudere gli occhi, non rendendosi conto che la ricerca di un rifugio personale in cella d'isolamento è un ripiego rispetto al progetto di fuga dal carcere : non si tratta di ignorare il mondo ma di uscirne, di incedere fuori dei suoi confini inoltrandosi realmente all'esterno ; attenuarne l'evidenza non è attuare l'evasione : la presa di coscienza del carattere illusorio del mondo ha un'efficacia limitata al livello cognitivo, e neanche l'eventuale conseguente ( ammesso e non concesso che il nesso ci sia ) venir meno dell'attaccamento emozionale nei suoi confronti, costituisce un effettivo risveglio salvifico, ma tutt'al più una liberazione esclusivamente affettiva. Gli osservatori del cielo ( Pitagora, Parmenide, Platone, Plotino, etc. ) e i coltivatori della terra ( Anassimene, Anassimandro, Anassagora, Aristotele, etc. ) non sono due corporazioni in competizione, perché per raggiungere una meta ci vogliono due cose : una bussola e una mappa ; gli osservatori del cielo ci forniscono la bussola, i coltivatori della terra ci forniscono la mappa. Secondo i terrestri, la maggior vitalità del pianeta rispetto al satellite, è un dato di fatto immediatamente evidente, che neppure vale la pena di stare a discutere : è sufficiente darsi un'occhiata intorno, per rendersi subito conto che qui si è letteralmente circondati dalla vita, e solo una stirpe di stravaganti come i lunari può ostinarsi a sostenere la superiorità del paesaggio dove abitano ( che è oggettivamente uno sterile deserto, mai innaffiato né dal cadere della pioggia, né dal disciogliersi di nevi e di ghiacciai, né dall'alzarsi delle onde di marea degli oceani, né dallo straripare dei fiumi ) rispetto alla lussureggiante rigogliosità di un globo immerso nell'acqua, intriso d'acqua, da essa fecondato e reso fertile. Però, dal punto di vista dei lunari, il problema, in questi termini, è malposto : non si tratta di mettere a confronto i due corpi celesti, ma i loro abitanti. Che la terra sia un cosmo vivo e la luna invece sia un enorme sasso ( morto se un tempo fu vivo, o fin da sempre inanimato, se quella attuale è la sua condizione originaria ), è del tutto fuori discussione ; ma proprio per questo i lunari sono più vivi dei terrestri, perché non potendo contare su una vita esterna da cui estrarre le sostanze nutritive per alimentare il proprio calore organico, sono obbligati a mantenere costantemente acceso in sé un fuoco autonomo. Insomma, ciò che i lunari rinfacciano ai terrestri, è il loro rapporto di dipendenza, la loro natura di specchi, capaci soltanto di riflettere qualcosa che già esiste ; in un certo senso, per entrambi il mondo è un libro, ma mentre per gli uni è un libro da scrivere, per gli altri è un libro da leggere ; l'errore comune ad ambedue è il non considerare che sia per scrivere che per leggere non serve né fuoco né acqua ( non dobbiamo dimenticare che quella che brucia dentro i lunari è una fiamma invisibile che illumina soltanto l'interiorità, perché essendo immateriale non oltrepassa la circonferenza della psiche, e si proietta esclusivamente sul non trasparente schermo dell'ego, rivolto a ritroso verso il centro della sfera ) ; la conseguenza è che l'effettiva misura della vitalità è la vicinanza alla sorgente della luce.

Siccome la luce viene dal cielo, lungo la storia sono esistiti alcuni terrestri ( scomunicati come eretici dai propri complanetari ) che, convinti così facendo di diminuire la propria distanza da esso, staccatisi dal suolo si sono sollevati a mezz'aria per spostarsi sulla luna, che stando a quanto dicono, sarebbe collocata a metà strada tra qui e lì. La replica della stragrande maggioranza della popolazione è che il cielo è dovunque, e che non è dunque possibile esserne lontani, né più né meno, né molto né poco. L'errore comune ad ambedue è confondere il sole col cielo, e credere che a generare la luce sia ogni suo punto, e non piuttosto uno ben preciso ; la conseguenza è che l'effettiva misura della vitalità non è la vicinanza al cielo ma al sole. E così alla buon'ora si giunge alla conclusione, e si capisce perché la disputa andrà avanti a oltranza : quando la luna si trova tra il sole e la terra, ad aver ragione sono i lunari ; viceversa, se nell'allineamento tra i tre è la luna che viene a trovarsi sul lato opposto , è la terra ad occupare una posizione mediana, e la ragione passa dalla parte dei suoi abitanti. Il motivo del mancato accordo è la mancanza di memoria, che determina l'umana tendenza ad immaginare il futuro estendendo il presente ed applicando al domani le condizioni dell'oggi ; chi invece conosce la totalità del tempo perché custodisce il ricordo, sa che il presente non è una prosecuzione del passato ma un suo rovesciamento, e può perciò profetizzare che il futuro non sarà una prosecuzione del presente, ma un rovesciamento del rovesciamento, cioè un ritorno del rimosso, non dall'inconscio ( personale o collettivo che sia ) ma dall'Infinito.

La conoscenza concreta del mondo è condizione per poter avere i punti di riferimento e il relativo senso dell'orientamento, necessari a indirizzare i propri passi fino a individuare gli sportelli che sigillano gli sfiatatoi dei condotti d'aerazione, in cui è possibile introdursi, e percorrerne tutta la lunghezza fino all'estremità opposta, che sbocca sull'atmosfera da cui il palazzo, come fosse il polmone di un fumatore, pompa il poco ossigeno che filtrando attraverso il catrame da cui le sue cellule sono incrostate, arriva a noi ( che saremmo i globuli rossi in attesa negli alveoli cancerosi ) soffocati dalla sua insufficienza. I coperchi in questione sono gli oggetti ostruenti asportabili, che sembrano a volte cose ( reliquie, suppellettili liturgiche, accessori consacrati nel corso di cerimonie religiose o benedetti per essere usati in pratiche devozionali come i rosari, strumenti magici magnetizzati come amuleti e talismani, libri come testi sacri, poemi epici, trattati filosofici e teologici, opere d'arte che siano capolavori destinati ad avere una durata millenaria, etc. ) a volte persone ( sacerdoti, confessori, mistici, individui illuminati, conservatori di tesori e depositari di segreti e di misteri, guardiani della soglia con enigmi da far risolvere e parole d'ordine da chiedere e prove a cui sottoporre, combattenti della guerra santa, maestri di verità ed esempi di virtù, architetti, musicisti, pittori, poeti, scultori, che siano stati scelti dalle Muse per svolgere la propria attività al Loro servizio, etc. ) a volte luoghi ( tombe di martiri, santi ed eroi ; chiese, eremi, conventi, monasteri, logge e templi ; sedi di organizzazioni iniziatiche, di confraternite e scuole di perfezione e di sapienza, etc. ) ma non sono mai né cose né persone né luoghi, perché ( contrariamente alla maggior parte delle cose, che sembrano cose e sono cose ; contrariamente alla maggior parte delle persone, che sembrano persone e sono persone ; contrariamente alla maggior parte dei luoghi, sembrano luoghi e sono luoghi ) non formano un tutt'uno con lo sfondo, non sono fusi ad esso - lo erano, prima che fossero, da forbici nei cui anelli non sono infilate dita, ritagliati dal grande foglio di carta del cosmo, e resi simili a pezzi mancanti di un puzzle o tessere staccate da un mosaico a martellate – ed anche qui in assenza di mani impugnanti.

Da un punto di vista fisico non c'è differenza fra vapore-condensato e ghiaccio-liquefatto : è sempre acqua. Ma da un altro punto di vista il vapore-condensato non è ghiaccio-liquefatto, e l'acqua non è la stessa a prescindere dal fatto che sia vapore-condensato o ghiaccio-liquefatto, ma una certa acqua è l'una o l'altra a seconda del caso, a seconda del modo in cui si è formata, perché ogni cosa è due cose compenetrate : la presenza e la provenienza di cui il suo orientamento mantiene la memoria, perché ciò che occupa la posizione mediana ( l'acqua ) è rivolta verso l'alto se è salita dallo stato solido ( il ghiaccio ) oppure è rivolta verso il basso se è discesa dallo stato gassoso ( il vapore ). Se ne ha un esempio nell'Eucaristia : lo stesso liquido che prima della consacrazione è spremuta d'uva ( prodotto della terra ), transustanzia nel Sangue di Cristo ( Spirito Santo solidificato, “piovuto” dal Regno dei Cieli ) ; quello che era un oggetto ostruente ( il calice colmo di vino ) viene asportato mediante l'atto sacramentale. Ma contrariamente a quanto afferma la teologia cattolica, a rimuovere l'occlusione è il celebrante, la cui inadeguatezza e indegnità invaliderebbe l'operazione compiuta, cosicché il comunicando, che accostasse al calice le labbra, non ci troverebbe quell'ossigeno luminoso, che è il Soffio che esce dalla Bocca di Dio, da travasare nella propria gola, ma alcol. Questa tesi, sostenuta dal vescovo di Numidia Donato e condannata dal concilio di Cartagine ( una delle tante mosse nella secolare partita a scacchi, giocata dalla chiesa apostata contro il suo stesso Fondatore, guidata da una lucida e lungimirante strategia di sistematico smantellamento del suo lascito o passaggio delle consegne per quel cambio della guardia in grande stile che fu la sua Ascensione ) ha implicazioni importantissime. Per quanto riguarda il rapporto col passato : la successione apostolica è come una cinghia di trasmissione, che per funzionare deve essere continua, ma la regolarità della sequenza non basta ad assicurare che sia ininterrotta, perché il fatto che ogni anello sia agganciato al precedente non garantisce che tenga : finché non sia stato saldato può sempre sfilarsi, spezzando così la catena in quel punto ; ma la saldatura è la santità, che non è una ciliegina senza la quale può comunque esserci una torta : in questo caso la torta è intrinsecamente torta-sotto-la-ciliegina, né più né meno di quanto la ciliegina sia intrinsecamente ciliegina-sulla-torta. Per quanto riguarda il rapporto col presente : la fede non è credenza ma potenza ; la fede può smuovere le montagne perché è una forza magnetica e serve ad agire ; non c'è inconciliabilità tra la visione religiosa della vita e la sua concezione magica : il cristianesimo ha ereditato dall'ebraismo la proibizione delle cosiddette “pratiche occulte”, ma è un pregiudizio giudaico dovuto esclusivamente all'esigenza che ebbe Mosè di costringere il popolo d'Israele a separarsi irreversibilmente da ogni cosa che rischiasse di rievocare una Saggezza che andava rigettata perché percepita come egiziana. Per quanto riguarda il rapporto col futuro : il comandamento evangelico “siate perfetti come è Perfetto il Padre vostro che è nei Cieli” ha come suo presupposto la perfezione potenziale dell'essere umano, ed avalla più verosimilmente il cabalismo rinascimentale di Pico della Mirandola, che non il tomismo, col quale ha un'affinità di molto minore ; il futuro non è post-mortem ma tutt'al più posdomani, non in un'altra esistenza ma in un'altra giornata, appena girato l'angolo, alla portata non del peccatore pentito che fa penitenza confessando le sue colpe e chiedendo perdono nella speranza che il Signore accolga la sua supplica ( e soprattutto che il sacerdote lo assolva ), ma di chiunque allunghi le mani per afferrarlo, impegnandosi in un lavoro finalizzato allo sviluppo armonico dell'uomo in accordo con la volontà divina ma non in attesa di ricevere la grazia come un dono immeritato bensì con lo sforzo cosciente e la sofferenza volontaria.

Il significato delle metamorfosi che avvengono nelle leggende non è riducibile alla saggezza dozzinale secondo cui “l'apparenza inganna”, perché questo è vero fino a un certo punto : non sempre lo fa ; la verità non è che “niente è come sembra” ma che “non tutto è come sembra” : tra centinaia di oggetti dall'aria familiare si nascondono quelli che l'eroe dovrà trovare affinché la sua impresa abbia esito favorevole, e tra migliaia di comuni mortali in cui ci imbattiamo quotidianamente ci può capitare di fare l'incontro non solo con uomini straordinari ma addirittura con un dio in incognito ; equidistanti da ambedue le reductio ( ad-unum aut ad-nullum ) favole e storie sacre non cominciano “c'è sempre stato” o “non ci sarà mai” ma “c'era una volta”, “in quel tempo”. L'agnizione finale con cui si concludono è la scoperta di un'ontologia antologica che include solo il meglio, al contrario del catalogo onnicomprensivo d'un collezionista compulsivo.

Vittorio Varano

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L’insegnamento speciale del Tögal – VI parte – Luca Violini

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Nello Dzogchen abbiamo a questo proposito una nuova riformulazione del corpo energetico: più che dei tre canali si parla di un sistema a cinque canali poiché il canale centrale viene ulteriormente suddiviso. In questo sistema abbiamo Avadhuti noto come il canale centrale dei mezzi efficaci, di colore bianco, parte della cima del cervello e termina nei genitali. Viene identificato con il midollo spinale ma in realtà è un canale che scorre all’interno del midollo spinale. Il Kundarma il canale della saggezza, rosso di colore che parte dal cervello e arriva ai genitali. Viene identificato con l’aorta o meglio con un canale che scorre all’interno dell’aorta. Uma il canale centrale, unione dei mezzi efficaci e della saggezza: esso è il canale che arriva in cima all’apertura di Brahma fino ai genitali e corre parallelo e in mezzo ai due canali sopramenzionati:il Kyangma a destra rosso ed il Roma a sinistra giallo. Questo sistema è molto interessante perché due aspetti del canale centrale sono legati alla nostra dimensione psichica ordinaria: Avadhuti e Kundarma, uno all’interno del midollo spinale, l’altro all‘interno dell’aorta. In questo contesto fa di nuovo capolino il canale che unisce il cuore sede dello Stato Naturale ai polmoni dove si manifesta la mente ordinaria. Secondo alcuni Maestri questo canale si unisce al Kundarma secondo altri all’Avadhuti. Ad ogni modo abbiamo due aspetti del canale centrale la cui emanazione materiale sono l’aorta e il midollo spinale. Sarebbe più corretto dire che il midollo e l’aorta sono come una sorta di scudo di membrana all’interno del quale questi due canali sottili operano. Anche il canale centrale in realtà è un sorta di membrana all’interno dei quali si trovano dei canali molto speciali che compaiono solo nello Dzogchen. In questi canali circolano i venti di saggezza e costituiscono la base della pratica del Thodgal. Essi sono la sorgente primordiale della nostra vitalità psicofisica, poiché dalla loro radiazione prende forma il Kunzhi Namshe e la visione karmica, ma anche i condotti dove i bindu primordiali si esteriorizzano e diventano la base per la dissoluzione della visione karmica.

Nello Dzogchen ci sono quattro canali speciali e in essi si producono e si sviluppano tutte le visioni di chiarezza. Il primo cannale è chiamato il grande canale d’oro. Il secondo i fili di seta bianca, il filo finemente ritorto e il quarto il tubo di cristallo. Il primo cannale collega il cuore con il canale centrale a livello del cuore dove si trova l’essenza della luce dello Stato naturale e dove tutti i riflessi esistono spontaneamente con le divinità pacifiche. Da li il canale d’oro sale fino al cervello dove risiedono spontaneamente le divinità irate. Inoltre ha delle ramificazioni ciascuna delle quale sostiene i tigle. Il secondo canale i fili di seta bianca internamente è fine bianco: inizia al livello del cuore nel cannale centrale e risale la colonna vertebrale lasciando il canale all’altezza del collo. Da li si sposta lungo la parte del cervello e si divide in due rami. Uno di essi si collega all’occhio destro e produce ciò che chiamiamo la visione esterna. L’altro risale fino alla corona in cima alla testa dove sostiene la comparsa della grande consapevolezza al di là del pensiero. Quando la visione è stata perfezionata questo rame sostiene i nove tigle impilati l’uno sull’altro dentro il canale. Il terzo canale il filo finemente ritorto inizia nel canale centrale e poi scende fino alla base quindi risale di nuovo attraverso il centro delle quattro ruote (il chakra dell’ombellico del cuore della gola e della corona) e passa all’esterno del cervello fino ad arrivare all’occhio sinistro. Esso sostiene tutte le visioni della chiara luce naturale che risplendono di luce spontanea. Infine, il tubo di cristalli collega il cuore agli occhi e permette a tutte le visioni di dissolversi nella natura. Longchenpa distingue due aspetti dei canali di luce: il primo sono i canali che permettono all’energia primordiale di estrinsecarsi all’esterno e gli altri due servono per portare la luce nell’intero corpo.

Lo Dzogchen quindi descrive in modo innovativo il corpo sottile e postula che il nostro corpo materializzato sia la conchiglia della pura gnosi che scorre incontaminata in un sistema di canali e fa una radicale distinzione tra i tre canali dei Tantra che definisce i canali dell'esistenza ciclica e canali del Thodgal definiti come i canali della realtà trascendente. Questi canali luminosi del Thodgal sono la sorgente primordiale dei tre canali dell’esistenza ciclica che sono un in ultima analisi dei rivestimenti esterni dei canali del Thodgal. Khenpo Chodrak uno degli ultimi Khenpo del Monastero Dzogchen del Tibet identificava i canali centrali dell’aorta e del midollo spinale come i canali centrali grossolani, mentre i canali di luce del Thodgal con gli aspetti sottili. Questo è punto centrale nei sistemi tantrici vi è un canale centrale in cui far confluire i venti provenienti dal canale destro e sinistro i prana-karmici per trasformarli in prana della saggezza e allo stesso tempo sciogliere i nodi che i canali formano quando si incrociano nel canale centrale. Viceversa nello Dzogchen i venti karmici si dissolvono ma non si trasformano applicando i metodi del Thodgal. Pertanto, nello Dzogchen vi sono cinque canali attraverso cui la luce radiante si manifesta e sono i quattro canali di luce dove circola il prana puro e il quinto è il canale tra cuore e polmoni dove si manifesta la mente ordinaria: in realtà questi canali si diramano in tutto il corpo e pertanto in modo un pò new age potremo dire che in realtà siamo esseri di luce intrappolati in questa realtà materiale.

 

I venti nel Thodgal

Iniziamo con i Tantra. Per ricapitolare quanto visto finora è utile usare la metafora del cavallo, del sentiero , del cavaliere. Il cavallo è il prana. Il sentiero rappresenta i canali che si trovano nel corpo. Il cavaliere sono i bindu e per estensione la mente. Del sentiero ci siamo già occupati passiamo adesso al cavallo. Il Prana denota ciò che possiede forza energia e la parola tibetana è Lung che letteralmente significa vento. Il Prana è l’energia che muove le cose, materiali e immateriali. E’ la sostanza, l’energia da cui tutte le cose si formano, è l’energia del Kunzhi la base di tutto. E’ la base di ogni entità, dell’esistenza ciclica ma anche del Nirvana. E’ indistruttibile ed è la vita. A livello più sottile è indifferenziata, non localizzata e non duale. La sua prima diversificazione avviene nelle cinque pure luci, troppo sottili perché si possano percepire. Associamo questa energia alla Lettera A e all’elemento Spazio. A questo proposito la lettera A è anche associata al rigpa. Ecco perché nello Dzogchen compare la lettera A circondata dai cinque colori. Tuttavia possiamo fare esperienza dei prana più grossolani legati più all’elemento aria. Così come, almeno per i tibetani, tutte le vocali e le consonanti derivano dalla A. Questi prana grossolani derivano dal prana della base e sono innumerevoli. I venti più importanti sono dieci e sono legati alla nostro sviluppo embrionale. Il primo prana ad avere luogo è il prana della vita associata alla coscienza deposito. Qui è opportuno aprire una parentesi: nei Tantra esiste una mente e un vento sottile che non si distruggono al momento della morte ma trasmigrano di vita in vita. Questa mente e vento sottile si mischiano con il costituenti bianco e rosso del padre e della madre. Molte scuole tantriche buddhiste tibetane le associano alla coscienza deposito del Cittamatra, altre come la scuola Ghelupa asseriscono che questa mente e questo vento sottile siano estranee alle classificazioni dei sutra e che soprattutto non possano essere identificati con il Kunzhi Namshe. Ad ogni modo, al vento della vita è legato all’elemento spazio e alla sillaba A. E’ la forza vitale dell’individuo. Padroneggiare questa energia conferisce di trasferire la propria coscienza in un altro individuo. Da esso procede il vento discendente collegato all’elemento acqua nei sistemi bonpo e all’elemento terra nei sistemi Buddhisti. Nei sistemi Bon viene indicato con la sillaba mam nei sistemi Buddisti con la sillaba li. Secondo il tantrismo il vento discendente risiede nel chakra segreto, presiede l’orgasmo nonché alcuni poteri yogici mondani come il cammino veloce e la lievitazione e l’eliminazione degli ostacoli. Similmente viene generato il vento ascendente. Il prana ascendente attiva i sensi, ci permette di udire di sentire e vedere, è anche l’energia sottostante i pensieri. Apre il praticante alle dimensioni di esistenza superiore e alle esperienze di Beatitudine e di pace. Nella tradizione Bonpo è in relazione alla terra e alla sillaba Kham mentre nei Tantra Buddhisti è legato all’elemento fuoco e alla sillaba Ri. Poi il Vento simile al fuoco: questo vento risiede nell’ombelico ed è legato all’esperienza della Beatitudine e al fuoco interiore del Tummo. Nei Bonpo è legato alla sillaba Ram nei Tantra Buddhisti invece al vento e alla sillaba Li. Infine, abbiamo il prana pervasivo, che accresce le percezioni e i poteri yogici. Nella tradizione Bonpo è associato all’acqua e alla lettera Yam: nei Tantra Buddhisti all’elemento acqua e alla sillaba u. Questi sono i cinque venti radice. Nei Tantra si distinguono altri cinque prana secondari: il prana dell’elemento terra, dell’elemento fuoco, dell’elemento acqua, dell’elemento aria, dell’elemento spazio. Dal momento del concepimento fino alla nascita questi dieci venti si accrescano e si rafforzano. Dopo la nascita i venti incominciano impercettibilmente a perdere forza e vigore fino a dissolversi dopo aver superato i cento anni. Questo tipo di classificazione è uno dei principali ma ce ne sono altri. Di forme del prana ce ne sono infinite, perché per ogni tipo di prana esiste una mente o un’attività mentale inseparabile. Perciò nei sistemi tantrici oltre i dieci summenzionati tipi di prana si concentrano su altri tipi di prana .Nella tradizione Bonpo del Tantra madre si descrivono altri nove tipi prana:

1) Il prana dello spazio della natura del Bon. E’ l’essenza che pervade ogni cosa sia la materia sia la mente. E’ difficile comprenderlo se rimane un concetto astratto. E’ la qualità aerea dell’essenza che pervade ogni cosa .E’ il prana nella sua forma più sottile. E’ il prana allo stato potenziale piuttosto allo stato manifesto. E’ il prana dello spazio della natura del Bon. E’ la qualità aerea della consapevolezza innata.
2) Il prana della beatitudine della saggezza primordiale. L’Area sottile e piena di beatitudine che genera la saggezza. Questo prana si attiva quando si vive un esperienza profonda di saggezza durante la meditazione. E’ il Prana che si sperimenta durante la pratica del tummo o quando si dimora permanentemente nello Stato Naturale.
3) Il prana della consapevolezza innata auto-originata Questo prana fa si che si manifesti spontaneamente e senza alcuno forzo l’autoconsapevolezza ovvero la consapevolezza innata che è consapevole di se stessa.

4) Il prana del cavallo della mente. E’ la forza che anima il movimento dei pensieri e alimenta la mente analitica. E’ con questo tipo di prana che le pratiche di tipo Shine e di concentrazione tentano di imbrigliare questo tipo di prana: calmando la mente noi abbiamo accesso allo stato più sottile della mente e più profondo del sé, lo stato libero dai pensieri.

5) Il prana della forza del Karma. Questo prana è quello che ci fa muovere durante la fasi di passaggio della vita e della morte: particolarmente attivo nel sogno nel sonno e nel Bardo.

6) Il prana delle afflizioni mentali grossolane. Il vento che trasporta le emozioni più grezze come la rabbia,l’avidità, la gelosia e l’orgoglio.

7) Il prana che disturba gli umori del corpo. L’eccesso o lo scompenso di questo tipo di prana sono gli scompensi e delle malattie.

8) Il prana della forza dell’esistenza. Questo prana riguarda anche le leggi naturali.

9) Il prana che distrugge l’era cosmica. E’ il prana che può creare disastri naturali.

Gli ultimi due prana sono considerati prana-karmici collettivi. Secondo il Buddhismo oltre al karma personale esiste un karma collettivo che deriva dalle cause e dalle condizioni di un gruppo di persone. Tra i venti karmici spesso menzionati vi sono i venti che supportano l’idea del sé, il vento del desiderio mondano. Non si deve comunque pensare che tutti i venti karmici siano negativi. I testi parlano ad esempio dei venti che accompagnano le idee virtuose e la meditazione sulla vacuità. Una caratteristica dei Tantra Nyngmapa e Bonpo è che quando si riconosce la natura della mente si conosce il prana della consapevolezza e tutti i venti karmici si interrompono. I Tantra focalizzano la propria attenzione sul numero di cicli di respirazioni e ispirazioni. I testi indicano che vi sono circa 21600 respirazioni in un giorno. Il Vento Karmiko Universale entra nel nostro corpo attraverso i due canali laterali e attraverso questi fluisce nel canale centrale e nei canali che costituiscono il nostro corpo sottile. Qui il vento si caratterizza a seconda del canale in cui scorre. Il vento Karmiko viene in relazione ai tre canali principali considerato in tre aspetti : il vento solare il vento lunare e il vento neutro: Il vento solare nel sistema Bonpo passa attraverso la narice sinistra e nei Tantra Buddhisti a destra. E’ il vento solare. Nella tradizione occidentale questo vento è un vento positivo ed è considerata maschile. In India invece corrisponde al periodo di essiccamento e di morte e viene considerato femminile. Sostiene infatti l’elemento rosso della madre che predomina nel canale destro secondo la tradizione Buddhista. E’ legato alla beatitudine . La ragione per cui è considerato un vento velenoso va ricercata nel fatto che il periodo tra il solstizio d’inverno e quello di estate nel subcontinente indiano è un tempo di crescente disseccamento culminante nell’ardente caldo secco della stagione calda. In quel periodo la combinazione di vento e caldo potrebbe essere letale per chiunque: in India è noto come sentiero settentrionale. Il sentiero meridionale è invece corrisponde al secondo semestre, è la stagione delle piogge, la stagione vivificante della vita. E’ associato alla luna e all’energia maschile. E scorre sul lato desto nei Bonpo e sinistro per Tantra Buddhisti. Quel vento è legato alle esperienze della chiarezza. Abbiamo un terzo tipo di vento che scorre nel canale centrale: il vento di Rahu che scorre nel canale centrale. E’ un vento neutro legato all’esperienza della non concettualità .

Questi tre venti che trasportano esperienze di beatitudine chiarezza e vacuità sono di capitale importanza nei Tantra, i quali, infatti, cercano di convogliare il vento della beatitudine della chiarezza della non concettualità. Da questa esperienza nasce la saggezza che comprende la vacuità e i venti si trasformano in venti di saggezza. Il vento solare lunare fluisce nei canali laterali per 10,462.5 al giorno e il vento di Rahu per 675 al giorno. Questo mette in risalto quanto le nostre disposizioni di animo e anche certe esperienze meditative dipendono da quale qualità del vento Karmiko scorra. C’è di più il Tantra del kalachakra ci mette ancora in più relazione con il mondo esterno considerando la posizione dei pianeti esterni. Ecco perché anche l’astrologia gioca un ruolo essenziale in certe pratiche in certi riti. Da questo rapido tratteggio possiamo notare che i Tantra da una parte enfatizzano una vitalità che possediamo dalla nascita, ma d’altra, anche che questa vitalità, questa energia che ci tiene vivi viene anche dall’ambiente esterno, a sottolineare in certi Tantra l’impossibilità di distinguere realmente tra una realtà interna ed esterna. Abbiamo visto che i venti sono distinti i Venti karmici e saggezza: i venti karmici sono i venti associata all’attività ordinaria mentale sia virtuosa e che non virtuosa; venti di saggezza sono quelli che accompagnano la mente che percepisce la vacuità, la mente del Buddha. Nei Tantra i venti di karmici vengono trasformati in venti di saggezza. Nei Tantra perciò non sono la stessa cosa.

 

I venti nello Dzogchen

Nello Dzogchen invece c’è un diverso concetto. Non c’è alcuna distinzione tra venti karmici e venti di saggezza. I venti karmici sono i venti saggezza che circolano all’interno dei canali del corpo sottile, canali che vengono definiti distorti. Il nostro corpo come la nostra visione karmika è frutto di un errore, che ha prodotto la formazione della nostra condizione attuale come un composto di corpo e mente. E ’ questa visione illusoria che ha portato i venti a fluire in un determinato modo creando così i canali dove la mente e i venti circolano dando vita alla visione karmika che noi percepiamo. Questo processo come abbiamo visto non coinvolge un singolo essere ma tutti gli esseri che vagano nel Samsara, la cui iterazione ha prodotto una visione karmika collettiva supportata da un prana-karmico. Questa visione karmika ha prodotto il mondo come lo vediamo è questa visione ha portato il vento di saggezza ad alimentare la visione di questo mondo ad essere la sua benzina . L’Essere Samasarico facendo parte anche di questo mondo condiviso viene alimentato da questo prana che ci appare distorto dall’ignoranza. Lo Dzogchen dice che questo prana esterno e collettivo in un canale s’incontra con la radianza del rigpada vita alla mente avvinta a questa visione karmica .Ma secondo lo Dzogchen all’interno di noi continua a splendere e scorrere l’energia in modo incontaminato in canali puri (i canali del Thodgal). Attraverso delle semplici pratiche del riconoscimento della natura della mente possiamo eliminare questo circolo vizioso e permettere a questa energia interiore, questo prana di manifestarsi verso l’esterno. E' questa proiezione dell’energia della saggezza verso l’esterno a liberarci da questo potere distorcente dell’ignoranza facendo scomparire gradualmente la dimensione samsarica. Se i metodi iniziali coinvolgono metodi per bloccare la mente anche giocando con il controllo del prana, la pratica della grande Perfezione non punta a un mero quietismo. E’ invece un processo dinamico dove la dimensione pura dall’interno si manifesta verso l'esterno; un processo dinamico dove la visione illusoria si dissolve come le nuvole nel cielo.

Luca Violini

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Adolfo Wildt la forma dell’anima – Emanuele Casalena

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Aprile 1945 i partigiani assaltano la Casa dei Fasci milanesi, li accoglie il busto bronzeo di Benito Mussolini, unico baluardo alla canea sfascista. Oltre quella maschera da lottatore “a brutto muso” c’è di più, c’è la sfida  di un uomo contro la storia dell’Italia serva, di dolor ostello, proprio il ruolo al quale vogliono restiturla quei partigiani. Lui serra le mascelle, aggrotta le spracciglie, divarica le nari come un drago, sporge le labbra, mostra il mento a prua, schernisce il nemico al pari di una fiera pronta ad aggredire gli avversari interni ed esterni della Patria. Quel Duce in lega tenne duro alle picconate, quei crateri aperti sembravano i tagli di L. Fontana, ma niente ne aveva scalfìta l’autorevolezza, intatta ci appare la vis sposa di quella forma violata, perché, ed un mistero di Wildt, le sue sculture sono vita oltre la figura anzi sono la psyché che imbeve di se la materia.

[caption id="attachment_29869" align="aligncenter" width="625"] Adolfo Wildt, busto di Mussolini, bronzo, 1923[/caption]

«È morto Adolfo Wildt, scompare uno spirito delicato e umanissimo» con questo corsivo un po’ manierista, Mario Sironi commentava su Il Popolo d’Italia la scomparsa dell’artista meneghino  il 12 marzo del 1931 a Milano (broncopolmonite come Sironi). Aveva d’un pelo varcato i 63 anni essendo nato, nella città Ambrosiana, il 10 marzo 1868 ( rif. Enciclopedia Italiana del 1937 ) generato dal papà d’una famiglia di  remota origine svizzera ma trapiantata nella città meneghina da duecento anni. Lui era il primogenito di numerosa prole, saranno in tutto sei i figli della coppia Wildt, il babbo faceva da guardiano a Palazzo Marino, ci sovviene l’impiego di Luca Cupiello nel Natale scritto da Edoardo De Filippo, teneva ‘a chiave d’ô portone, era un uomo di fiducia,  ma di soldi assai pochi, tanto che Adolfo, finita la III elementare,  fu messo a bottega da un barbiere (come Lorenzo Viani), il picinin c’aveva solo nove anni. Dallo scopare capelli e peli di barbe, passò a un laboratorio orafo, osservava quel lavoro sulla cera, la modellazione, i processi di fusione. Per sua fortuna approdò allo studio d’uno scultore scapigliato Giuseppe Grandi, amico di T. Cremona e D. Ranzoni, celebre  per il monumento alle Cinque giornate di Milano e quello a Cesare Beccaria, lì ci rimase per circa due anni. A tredici è presso un altro antiaccademico Federico Gaetano Villa dal quale apprese l’arte di levare cioè scalpellare il marmo.

Frequentò la Scuola superiore d’arte applicata di Brera, a seguire il Corso di Disegno e Figura della prestigiosa Accademia fino al 1886, distinguendosi per l’eccezionale competenza tecnica nella  scolpitura che gli schiuse le porte del circuito artistico milanese nonché l’ammirazione d’ un Rockerduck prussiano, tal Franz Rose, collezionista d’arte, mecenate e amico, col quale firmerà, nel 1894, un contratto protrattosi per 18 anni fino alla morte del suo datore di lavoro (1912). Quello stipendio fisso rappresentò la serenità economica visto che l’Adolfo, nel ’91 aveva compiuto il gran passo di  metter su famiglia sposando Dina Borghi, che gli darà tre figli, Artemia, Francesco e Alma. Donna assai bella da lui ritratta nel ’92 per il busto in marmo“La Vedova” esposto alla Società d’Arte Moderna di Roma nel ’94 con il consenso della critica destando l’ammirazione appunto di Franz Rose che lo volle come artista ad personam

La miscela di Wildt, in quel frangente, era già un’elaborazione personale di vari ingredienti partendo da Michelangelo, per tecnica più tormento, passando per il simbolismo di Renato Bistolfi intriso d’inquietudine esistenziale più il luminismo di Medardo Rosso termine di riferimento dell’arte plastica scapigliata.

[caption id="attachment_29870" align="alignleft" width="150"] Adolfo Wildt, La Vedova, busto in marmo, 1892[/caption]

[caption id="attachment_29871" align="alignright" width="150"] A. Wildt, ritratto di Franz Rose[/caption]

Franz Rose gli tolse le spine di Milano (poche mostre, critiche malevole) proiettandolo sul palcoscenico europeo, soprattutto quello germanico, espose infatti  a Monaco di Baviera, Zurigo, Berlino, Dresda con applausi scroscianti, ottenendo commesse in “quantità industriale” per il suo laboratorio di Corso Garibaldi, 97 a Milano. Ammirava Rodin, si legò in amicizia col pittore, incisore svizzero Albert Welti allievo di Arnold Blöklin (quello delle Isole dei morti), amico di Hermann Hesse, fortemente influenzato, nella su opera, dai miti nibelungici e dal sublime della natura. Forse la gran mole di lavoro, ma soprattutto la modalità di scultura richiesta,  lo spinsero nella caverna della depressione. Fu crisi artistica profonda, la perfezione classicista della forma non era più nelle sue corde, bisognava tentare la “scolpitura” dell’anima, togliere la materia che la soffocava, ogni sovrastruttura, aprire il bozzolo della crisalide, sgomberare le macerie  e liberare finalmente la farfalla affidandole gli arnesi per formare se stessa. Nelle sue vene d’artista adesso scorre il sangue  della Secession viennese di G. Klimt, un altro ingrediente del suo personalissimo stile di artista. Il dolore arcaico, l’angoscia della precarietà esistenziale costretta nelle maschere del viver quotidiano, il giudizio in gabbia della sua stessa arte, producono il crack. L’essenza della crisi diventa plastica dell’angoscia, Wildt approda al porto nordico dell’ espressionismo, un suo espressionismo testimoniato con la Maschera del dolore (un autoritratto) del 1909 o Vir temporis acti del 1911 solo per citare due sue opere sulla poetica del dolore.

Sono gli spasmi d’uno spirito inquieto il soggetto che contorce il marmo dei volti, apre alle smorfie della bocca aperta respiro dell’anima, cava gli occhi piegandone le palpebre o serrandole perché l’esterno non entri, gli zigomi sono cigli sporgenti sull’ombra di gote scavate, c’è una sofferenza terminale che non può vedere fuori, non gli interessa, ma preme da dentro come un fuoco. Una lezione di anti-impressionismo, una strada assai diversa dal luminismo naturalista  anche di Medardo Rosso, una via tragica percorsa con in pugno lo scalpello.

Ha un senso quel dolore? Non è una prova redentrice dell’anima, un’abluzione nell’acqua bollente purificatrice del male a fidejussione d’ una futura palma di vittoria. Il dolore non ha giustificazione, attenuanti, eppure esso è il nocciolo duro dell’esistenza, non ha un senso, semplicemente è la cifra dell’esserci. Questa formulazione di Schopenhauer si cuce con l’altra di Pirandello, grande estimatore dello scultore com’anche D’Annunzio, proprio sul tema delle maschere. Parrebbe il dramma della polverizzazione dell’io di quel Uno, nessuno, centomila dove è impossibile conoscere persino se stesso, ma Wildt vuole recuperarlo quell’ego fissandolo in una forma, unica modalità per eternarlo, certo non assoluta, ma quella temporale dell’hic et nunc, domani lo spirito ne assumerà un’altra, l’essere attraverserà nuovi stadi di vita, l’arte però può compiere il miracolo di  cancellare quel nessuno storicizzando l’io pellegrino.

[caption id="attachment_29872" align="alignleft" width="150"] A.Wildt, Maschera del dolore, 1909[/caption]

[caption id="attachment_29873" align="alignright" width="150"] A. Wildt, busto del Vir temporis acti, versione del 1914[/caption]

La depressione si sfalda, la nuova strada intrapresa parte dalla morte di Franz Rose e guarda caso dell’amico Welti entrambi se ne vanno nel ‘12, occorre, fra l’altro rimboccarsi le maniche perché lo stipendio di £ 4.000 l’anno sfuma.

L’anno seguente gli viene conferito il Premio Principe Umberto per il progetto della fontana La Trilogia, oggi nascosta in una nicchia nel parco della villa Reale ( Belgiojoso Bonaparte ) in via Palestro a Milano. Opera assai travagliata, partorita già nel 1902 per ornare un padiglione del parco del castello di Dölhau di Franz Rose. Quella prima versione, I beventi, venne distrutta dallo scultore stesso sopraffatto dalle critiche sferzanti ricevute all’Expo milanese del 1906, proprio questo fatto, dicono, fu il virus che ingenerò la crisi depressiva dell’autore. Il gruppo che ammiriamo oggi è del MCMX (1910) com’è inciso sulla targa con dedica PER-ROSE-DOEHLAV, titolo:” IL SANTO-IL GIOVANE-LA SAGGEZZA.

Il lavoro sul blocco di marmo da Candoglia ebbe inizio nel 1908, “Da due blocchi di marmo da 290 quintali, incominciai a trarre la mia Trilogia. Per la verità vi dirò che nessuno scultore al mondo osò mai affrontare 290 quintali di marmo”. L’opera fu definitivamente ultimata nel 1912 anno del decesso del suo mecenate che l’aveva già acquistata.. Esposta alla Triennale di Brera ottenne il Premio Principe Umberto con un solo voto contrario, finalmente un riconoscimento dalla sua Milano.

Il gruppo è composto da  tre figure simboliche accanto ad una sorgente d’acqua, a sinistra il Santo scheletrico, emaciato con i palmi delle mani aperte coglie l’acqua che sgorga volgendosi verso il giovane inginocchiato che torce il busto sotto lo scroscio della fontana aprendo la bocca per dissetarsi, vicino a lui, indifferente agli altri, un uomo più anziano, simile a un fauno, in posizione chiasmica, con un corpo ellenistico, calmo, sereno sorseggia la sua acqua.

Quest’opera Mario Sironi suggeriva di osservarla attentamente per “capire e ammirare tutta la nobiltà di questo artista, la sua forza tumultuosa, la sua passione avida e fanatica, e insieme tutta la complessa raffinatezza plastica, innamorata della classicità e spinta ad emularla, ripetendone con ardore inesausto le preziosità consunte, gli splendori delle patine sulla materia trasfigurata, le crudeli e incisive fermezze dei cavi, contrapposte alle gonfie e galvanizzate turgidezze dei pieni”.

[caption id="attachment_29874" align="aligncenter" width="625"] Adolfo Wildt, fontana della Trilogia, 1912[/caption]

L’acqua del Santo rimanda al pozzo della Samaritana dei Vangeli, quella per il giovane è forza vitale, gioia, energia, se la lascia scrosciare su tutto il corpo, per l’anziano è simbolo di vita equilibrata ( la stesa postura lo dice) priva di eccessi, stadio della saggezza.

La guerra taglia il lavoro, le commesse svaniscono in una Milano che lo amava e lo odiava al contempo, Adolfo si volge allora all’illustrazione grafica  usando soprattutto  la tecnica incisoria. Dal 1918 nasce un nuovo Wildt, depurato dai tormenti espressionisti, la sua scultura si fa ascetica, ieratica come nella Madre adottiva opera tecnicamente perfetta ma algida, impersonale.

A 51 anni arriva a sua prima personale, siamo alla Galleria di Lino Pesaro, il successo è arrivato ora, Wildt può contare sull’appoggio della critica da Raffaello Giolli a Vittorio Pica alla Vergine rossa Margherita Sarfatti cavalcando l’onda del “ritorno all’ordine”e uscendo dalla tirannia della povertà. Segue un triennio di esposizioni itineranti per l’Italia fino al 1922 anno di nascita del gruppo Novecento, lui non è né tra i sette fondatori né tra gli espositori, ma aderisce alle tematiche della ricerca di una via nazionale all’arte sintesi di tradizione ed avanguardie. Nel frattempo aveva messo su una scuola del marmo che contava tra gli allievi Lucio Fontana, erano corsi serali poi assorbiti didatticamente dall’Accademia di Brera. Dalla capacità unica di torcere le membra fino a strizzarne fuori l’anima ( osservazione di U. Ojetti ), lo scultore evolve verso una serenità arcaica, purificata dal dinamismo barocco della materia per recuperare l’idea nella sua purezza, operazione non priva di rischi d’anoressia plastica proprio per la neutralità dei soggetti, pensiamo alla Concezione del 1921 dal chiaro sapore nordico, lirismo lucido della Vergine, mani congiunte in modo da simulare la vagina con davanti il Bimbo dorato ( è nato un Re)  novello Apollo dell’umanità come testimoniano i raggi solari che sprigionano dal capo, le mani vanno sugli occhi, congiunto alla testa materna Giuseppe sembra proferire dalla bocca aperta un verso di stupore. E’ la famiglia come tema, stupore dinanzi al miracolo della vita, quell’Ohhh è di Giuseppe o dell’Alto Fattore?

[caption id="attachment_29875" align="alignleft" width="150"] Adolfo Wildt, Concezione, 1921[/caption]

[caption id="attachment_29876" align="alignright" width="150"] Adolfo Wildt, L’orecchio, 1922[/caption]

L’orecchio fu un “oggetto” fortunato, negli anni ’30 Wildt  ne realizzò una copia in bronzo,  serviva da citofono di un palazzo di via Serbelloni, 10 accompagnato ancor’oggi da una leggenda metropolitana, se si bisbiglia un desiderio nel suo padiglione questo si avvera.

Il male di esistere, negli anni ’20 è un ricordo dell’io fissato nei marmi, ora  si indaga sulla vita, la sua epifania, i temi sono la maternità mediata da  Maria o il mistero dell’unità con Dio investigato nel S. Francesco, un’opera del 1925 che conobbe diverse versioni ma tutte distanti dall’iconografia classica cattolica. Il santo è un’emaciata scultura gotica medioevale, levigata fino alla trasparenza, priva, volutamente, di ogni superfluo, pura essenza di una spiritualità che traspare dall’esile corpo che la contiene e la trasmette. Un’interpretazione del Santo che fu aspramente giudicata anche dai critici vicini all’artista. “«Chi potrebbe genuflettersi davanti a questo San Francesco del grande e buon Wildt, con un barbiglio da pecorella, cogli occhi da bimbo tardivo e stupefatto?” scriverà Ugo Ojetti in occasione della Mostra d’Arte Sacra tenutasi a Roma nel ’34.

Comunque la perizia tecnica di Adolfo coniugata con amicizie importanti meneghine come Ugo Bernasconi, Gaetano Previati; Giovanni Scheiwiller che diverrà suo genero (sposò Artemisia), l’industriale Giuseppe Chierichetti, suo committente e mediatore per il Monumento alla Vittoria ad Appiano Gentile ed un altro a Valduggia, gli spalancarono le porte di commesse ufficiali importanti soprattutto nella ritrattistica. E’ presente alla XII Biennale di Venezia con 50 opere (!) ricevendo il premio della città per La famiglia ma anche la velenosa stroncatura di A. Soffici, come dire che il rapporto con la critica d’arte resta conflittuale tra elogi e bocciature. Arrivano i ritratti di Re Vittorio Emanuele III ( forse assai ironico ), di Arturo Toscanini che lo avvertiva come una presenza ingombrante tanto da donarlo alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, poi di Papa Pio XI censurato da C. E. Oppo con un “ che Dio ci perdoni” fino ai bronzi raffiguranti il Duce compresa quella maschera in marmo commissionatagli da M. Sarfatti nel 1923. Peccati mortali che lo condannarono all’oblio anche per il presunto simbolismo delle sue composizioni non allineate alla scultura moderna ad es. di Arturo Martini o al neoclassicismo sponsorizzato a M. Piacentini.

Le cose non ci paiono proprio così, questione di stile, unico il suo, Wildt fu un altro esploratore orfico dell’uomo dall’io che urla il dolore, alla sacralità degli affetti, toccando le corde dell’eroismo e della lotta atavica dell’uomo per darsi un passo più veloce della morte, niente delle elitarie, rarefatte, malinconiche atmosfere del simbolismo borghese.

 

[caption id="attachment_29877" align="aligncenter" width="625"] Adolfo Wildt, Monumento Körner, 1929[/caption]

Emanuele Casalena

Bibliografia
Cataloghi mostre:

"Wildt, l'anima e la forma da Michelangelo a Klimt"Musei di San Domenico, Forlì, 28 gennaio 2012 - 24 giugno 2012

Adolfo Wildt (1868-1931). L'ultimo simbolista”Galleria d'arte moderna di Milano, 27 novembre 2015 - 14 febbraio 2016.

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