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La Porta Magica a Roma – Augusto Vasselli

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In Roma,nel giardinetto contenuto dalla Piazza Vittorio Emanuele,addossata ai cosi detti Trofei di Mario,in realtà il castello di distribuzione dell’Acqua Felice, e fiancheggiata da due Bes, divinità alessandrine della fecondità, dissotterrati nella zona del Quirinale nel 1888, è muratoun portale, ovvero una incorniciatura di pietre, sormontato da un disco,che reca simboli e diciture alchimistiche, raro,anzi pressocchè unico, monumento architettonico di natura ermetica presente nel nostro Paese.

Questa Porta, chiamata poi Porta Magica, proviene dal muro di cinta della Villa Palombara,oggi scomparsa,di cui costituiva uno degli ingressi secondari posto a breve distanza dal cancello principale. Nel suo sito originario era allocata a non più di venti metri dall’attuale sistemazione; infatti il muro di cinta della Villa Palombara costituiva, per un tratto,uno dei lati della via di San Vito,che si prolungava sino a passare vicino al cennato castello dell’Acqua Felice.

La porta venne fatta inserire nel muro di cinta della sua villa dal marchese Massimiliano di Palombara nel 1656;la villa stessa era stata acquistata dal padre di questo personaggio,il marchese Oddone di Pietrasanta,nel 1620. Massimilianodi Palombara, uomo coltissimo dai più svariati interessi, fu anche Conservatore,ossia Consigliere Comunale,nel 1651 e nel 1677.La famiglia Palombara si estinse infine nel primo decennio del diciannovesimo secolo,e la villa fu acquistata da diversi personaggi.In seguito alla demolizione del muro di cinta,nel 1873 la porta fu smontata e conservata nei magazzini municipali,per essere poi rimontata poco tempo dopo nel luogo dove si trova attualmente,nella zona in cui anni dopo fu progettata e realizzata l’area urbanistica dell’attuale Piazza Vittorio Emanuele.

Il marchese Massimiliano fu sicuramente un “figlio di Ermete”, ovvero un adepto dell’Alchimia, l’arte mediante la quale si pretendeva di trasmutare i metalli vili in oro,mediante la cosiddetta Pietra Filosofale. La personalità di questo aristocratico, così come le sue ricerche e la stessa esistenza della Porta Magica, sarebbero però inspiegabili a prescindere dei rapporti che il Palombara intrattenne per decenni con la famosa regina Cristina di Svezia e con il suo seguito,un ambiente questo in cui l’arte,od illusione,alchimistica venne tenacemente coltivata.

Cristina Alessandra Wasa nacque nel 1626.·Incoronata regina a soli sei anni, regnò sulla Svezia per tre lustri,finche nel 1654 abdicò, convertitasi dalluteranesimo al cattolicesimo si stabilì in Roma,ove entrò in forma solenne il 20 dicembre 1655,durante il pontificato di Alessandro VII. Alloggiò dapprima in Palazzo Farnese poi in altre sedi. La bella e coltissima ex-regina raccolse attorno a se una corte composita,dove accanto a letterati,poeti,scienziati ed eruditi di gran valore,si notavano maghi,alchimisti,avventurieri e ciarlatani.

In quanto alla Porta Magica,essa venne fatta erigere dal Palombara in quell’anno 1656 in cui insieme alla ex-regina svedese e dal medico ed esoterista Francesco Giuseppe Borri,credette di aver colto il segreto della fabbricazione dell’oro alchemico. ·Il significativo monumento di cui ci occupiamo,insolitamente sobrio nelle formerispetto all’epoca,nella quale fioriva il barocco più elaborato,si compone di un’architrave,di due stipiti e di una soglia,sormontati da un disco recante il sigillo o stella di Salomone a sei punte,portante i simboli del Reame Celeste e dell’Oro,inserito quest'ultimo nel primo. I pilastri recano invece successivamente (guardando da sinistra), i simboli del Piombo o di Saturno,del Ferro o di Marte,del Mercurio o di Diana,dello Stagno o di Giove,del Rame Terrestre o di Venere,ed infine del Mercurio Celeste. ·Tali simboli rappresentano le fasi o Regimi successivi della Grande Opera,com’era chiamata la fabbricazione dell'Oro: regime di Saturno o nero, regime di Marte o bianco, regime di Diana o citrino, regime di Giove o giallo, Regime di Venere o rosso, regime del Sole od aureo.Sull'architrave è incisa in lettere ebraiche l'espressione RUACH ELOIM, ossia spirito divino:il fluido eterico che gli alchimisti ritenevano indispensabile alla formazione della Pietra Filosofale.

Sulla soglia invece è inciso il glifo del cosidetto Albero della Vita,od albero Sefirotico, uno schema dell'universo quale manifestazione divina,elaborato dai cabalisti ebrei della diaspora spagnola. Sui quattro lati della Porta sono incisi motti che,in maniera simbolica ed enigmatica,illustrano il processo di fabbricazione della pietra dei Saggi, com'era chiamata la Pietra Filosofale,ritenuta capace di operare il prodigio della Trasmutazione;segreto che il marchese volle fosse messo a disposizione di chiunque fosse riuscito ad interpretare simboli e diciture.

Ma da dove derivava questa conoscenza così riservata. Il Marchese di Palombara era un membro dell'ordine dei Rosacroce e apparteneva a un circolo culturale esoterico che si riuniva in palazzo Riario,posto alle pendici del Gianicolo ,nel cui ambito operavano illustri studiosi, che tra l’altro cercavano di compendiare in una sorta di sincretismo leprincipali culture: quella ebraica, evocato dalla stella a sei punte di Salomone e nell'iscrizione רוחאלהים("RuahElohim", "Spirito divino", ) il cristianesimo, la mitologia greca e romana.

Non a caso nel gradino della soglia è incisa la frase palindroma, sicuramente suggestiva: SI SEDES NON IS, che sicuramente vuole indicare che la porta simboleggia un passaggio attraverso il quale accedere ad altri piani di conoscenza, mediante una metodologia riservata agli adepti.

Certamente questa porta testimonia e trasmette ancora il messaggio della via alchemica, che seppur poco conosciuta, tranne che da pochi appassionati e da pensatori come Carl Gustav Jung o studiosi di occultismo come Julius Evola, offre ancora, a chi saprà utilizzarlo, uno strumento utile alla ricerca della conoscenza, che si rifà alla catena della Tradizione.

Per quanto possa sembrare fantastico ed irrazionale l’assunto, l'alchimia attrasse e catturò dall'antichità, e si può dire sino ai tempi moderni,importantissimi studiosi e menti di assoluta grandezza, nel contesto della cultura appartenente ad ogni epoca.Tra questitroviamo personaggi che furono insigni, anche per ben altreragioni al di là della “fabbricazione dell’oro”, come gli arabi Avicenna, Averroè e Geber, gli europei Alberto Magno,San Tommaso d*Aquino, Raimondo Lullo, Paracelso, Leibinitz,per non citarne che alcuni. Senza poi dimenticare papi come Giovanni XXII e sovrani quali Alfonso X di Castiglia, Carlo XII e Gustavo III di Svezia, i quali anch’essi furono fra gli adepti di quest’arte sottilmente fascinosa,e così potente nel mondo dell’immaginario umano.

  Augusto Vasselli Presidente onorario del Nuovo Corriere Nazionale (https://www.nuovocorrierenazionale.com/)

DECIMA FLOTTIGLIA M.A.S.: propaganda per la riscossa (XVIII parte) – Gianluca Padovan

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« Per 39 mesi alleati e nemici hanno proclamato il valore militare, le qualità guerriere, le virtù umane del nostro soldato, che ha affrontato per terra e sul mare, come nei cieli, le due più grandi Potenze moderne // L’8 settembre come il 25 luglio tradimento e insipienza, egoismo e viltà dei capi hanno compromesso l’esito della guerra, ma non hanno offuscato l’onore di chi l’ha combattuta // Quest’onore è restato la forza per la riscossa italiana e la garanzia della ripresa nazionale e internazionale del Paese. // Per questo la Decima combatte»

Decima Flottiglia M.A.S. - Volantino

    Voce tra le catene.

Il testo integrale del volantino sopra citato è un semplice pezzo di carta dai caratteri neri su fondo bianco. Trasversalmente sullo sfondo compare la scritta: 25 luglio / 8 settembre in campo rettangolare carta da zucchero chiaro, avvolto da un serpente di colore verde.

Questo “semplice pezzo di carta” è in realtà un frammento importante di storia patria e dovrebbe stare in museo. In un museo dedicato a chi s’è veramente battuto per l’Italia e il suo più che diviso e frastornato popolo. Il resto delle opinioni su cosa siano e dove devono o dovrebbero stare i frammenti della nostra vera storia, me lo si conceda, sono solo chiacchiere.

Ricapitoliamo brevemente la storia del colpo di mano intentato per incatenare l’unica forza combattente italiana in grado d’opporsi sia al tradimento dei “nominali” capi della massoneria italiana di casa Savoia, nonché del frammassone Pietro Badoglio, sia all’invasione dell’Italia.

 

In pratica sul finire del 1943 il segretario del Partito Fascista Repubblicano, Alessandro Pavolini, progetta di trasferire un cospicuo numero di soldati appartenenti al Reggimento San Marco, in quel momento facente parte delle formazioni combattenti della Xa M.A.S., nella costituenda G.N.R. (Guardia Nazionale Repubblicana). I motivi addotti sono che si desidera rafforzare la G.N.R. per combattere i “partigiani” stanziati in Piemonte, alleati degli angloamericani e avversi alla R.S.I. (vedere utilmente XIII parte).

 

Sulla “trasparenza” del direttivo della R.S.I. si riporta una seconda volta quanto Sergio Nesi ha scritto: «quella della necessità di inviare un migliaio di marò in Piemonte per combattere i partigiani era veramente un falso scopo, perché il vero scopo era quello di impossessarsi del tesoro della IV Armata. Questa grande unità, dislocata in Francia al momento dell’armistizio, era rientrata subito in Italia disperdendosi in formazioni più o meno grandi per tutto il Piemonte. Il generale Raffaello Operti era l’intendente della IV Armata e, disponendo dei fondi di quella grande unità, aveva iniziato l’organizzazione di un certo numero di ufficiali alle sue dipendenze. Il 9 novembre, il C.L.N. piemontese, costituitosi poco dopo l’armistizio, aveva nominato Operti come comandante militare unico (forse perché era l’unico ad avere in custodia la cassa della IV Armata). Operti in quei primi giorni di novembre aveva versato al Partito d’Azione una prima tranche di circa 40 milioni di franchi. Il 9 e il 12 dicembre due esponenti del C.L.N. (Passoni e Florio) si erano recati in provincia di Cuneo e precisamente a Narzole e avevano ritirato 149.844.269,70 franchi francesi e 30.000 lire italiane. Complessivamente, il generale Operti aveva versato al C.L.N. 190.114.659,70 franchi francesi e 12.030.000 lire italiane. Questo è il vero motivo della lotta antipartigiana, per la quale Pavolini, Ricci e Ferrini avevano cercato di impadronirsi dei marò della X» (Sergio Nesi, Junio Valerio Borghese un Principe un Comandante un Marinaio, op. cit., pp. 256-257).

 

All’atto pratico, attaccando la Decima, si è voluto smembrare un Corpo di Volontari autonomo, interamente italiano, non politicizzato e in grado di combattere anche in accordo con il Comando germanico. E questo ricordando che alcune decine di migliaia di italiani già combattevano volontariamente nelle fila tedesche a vario titolo.

Certamente il direttivo della R.S.I. intendeva possedere un esercito politicizzato, ma chiunque si era reso conto che tale esercito non si poteva creare in una manciata di mesi. Inoltre molti italiani non desideravano fare parte né di un “esercito politicizzato” e neanche di combattere nelle fila germaniche, ma solo ed esclusivamente battersi volontariamente per difendere il suolo patrio dall’invasione angloamericana.

Non solo: la primaria necessità, se si voleva effettivamente combattere, era di mettere in linea il più rapidamente possibile delle truppe in grado di affiancare l’alleato tedesco.

Oggi l’esame dei fatti storici non è un puro “esercizio accademico”, ma un lavoro che deve essere necessariamente svolto affinché si sappia finalmente che cosa successe in quei giorni. È necessario lavorare per estrapolare la verità dei fatti dalla solita “storia” dipinta certamente con differenti colori a seconda di chi la verga, ma sempre e comunque falsa nella sostanza.

Il primo quesito da risolvere è il seguente: qual’era il vero intento di Mussolini, Pavolini, Graziani, Ricci e Ferrini?

In pratica: il volersi creare un esercito politicizzato, cercando d’intralciare chi già combatteva, è stato solo l’ennesimo atto d’incapacità e di stupidità, oppure c’era dell’altro?

In ogni caso chi “pagò” fu l’ultima ruota, ovvero Ferruccio Ferrini che perse il comodo posto di lavoro, dopo il mancato tentativo di togliere di mezzo il Comandante Borghese.

    Si architettano chiacchiere sulla Decima.

Per una migliore comprensione della vicenda che porta prima all’arresto del Comandante Borghese (vedere utilmente le parti XIII, XIV, XV e XVII) e poi allo strascico controproducente che ne consegue, è utile prendere visione di altri documenti.

Ecco la trascrizione di un paio di testi dattiloscritti conservati presso l’I.S.E.C. (Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea, di Sesto San Giovanni). Il primo datato 21 maggio 1944 è sostanzialmente un elenco di accuse mosse nei confronti della Xa Flottiglia M.A.S. Il secondo è la puntuale risposta del Comandante Borghese (1), datato 31 maggio 1944.

    25653 [A matita in alto a destra] [Testo del foglio unico, dattiloscritto, non firmato] informazioni raccolte sul conto della x^flottiglia mas

1) Molti ufficiali sono di sentimenti badogliani; i sottufficiali e la truppa sono migliori, ma finiscono per seguire le direttive e gli atteggiamenti degli ufficiali; molti, specialmente ufficiali e sottufficiali, difronte alla loro responsabilità, dicono chiaramente “io tiro a campare” oppure “io sono qui per il 27”.=

2) le mense sono affidate a privati; di qui il malcontento della truppa, che si lagna di ricevere i viveri in quantità inferiore alle tabelle, che le economie non si sa dove vadano a finire, che spesso il rancio sia scarso mentre si allestiscono pesanti caldai di minestrone per i maiali in allevamento.

3) la truppa è abbandonata a sé stessa, non riceve istruzioni, ozia; pare che il “Barbarigo” sia partito per il fronte di Nettuno senza addestramento. Vi sono elementi arruolati da tempo che restano in caserma, mentre vengono avviati al fronte altri appena arruolati.

4) È insistente la voce secondo cui il maggiore Bardelli, comandante del “Barbarigo”, anziché starsene in linea con i suoi uomini, trascorrerebbe intere giornate a Cinecittà.

5) Si dice pure che alcune missioni belliche siano fallite perché effettuate con mezzi inefficienti.

6) Recentemente è stato dato l’ordine di ripristinare il vecchio saluto militare. L’ordine è partito dalla X^ e per qualche giorno i militari hanno salutato portando la destra alla visiera.

7) Alla X^ sono stati trovati manifestini sovversivi; ufficiali nelle ore di guardia, ascoltavano radio Londra; molti si “sono arruolati per mangiare”.

8) Un rilevante numero di appartenenti alla X^, fra cui molti ufficiali, sono antifascisti e antitedeschi.

9) Il contegno dei militari della X^ è oggetto di poco simpatici commenti da parte della popolazione. In occasione delle operazioni di rastrellamento cui hanno partecipato, hanno suscitato l’indignazione per avere compiuto cattive azioni e per le loro sparatorie inutili, che terrorizzano le persone, e fra l’altro hanno portato anche alla morte di una donna.

10) Presso il reparto di Sesto Calende, il Comandante Mario Arillo, comandante in 2^ della X^, ha pronunciato, durante un discorso al personale queste infelici parole: “Se vincono i tedeschi siamo perduti; se noi vinciamo con i tedeschi ci daranno qualche cosa; se vincono gli anglo americani non periremo”.

11) Il 5 corrente il Comandante Arillo, agli equipaggi riuniti in adunata ha detto fra l’altro: “L’offensiva aerea nemica ha sconvolto tutti…

[A piè di pagina, con pena stilografica, è stata vergata la nota seguente] Incaricato il Comte Borghese di svolgere inchiesta e riferire il più esattamente possibile su tutti i punti // [monogramma] 21 – 5 – 44 xxii     Risposta agli undici “capi di accusa”.

Il secondo documento firmato da Junio Valerio Borghese è sostanzialmente il testo che dev’essere servito per la stesura della risposta ufficiale alla richiesta d’informazioni riguardante la lettera contenente gli undici “capi di accusa”. Tutte le parti cancellate successivamente a matita sono state comunque riportate. Nella seguente trascrizione non figurano i punti delle «Informazioni raccolte»; in ogni caso tutti e cinque i fogli sono stati riprodotti e inseriti nel presente lavoro. Lo scritto non è scevro d’una certa ironia, dettata dal fatto che mentre c’è chi calunnia e trama, qualcun altro si batte e muore al fronte. Si denunciano anche gli attentati subiti dalla Xa Flottiglia M.A.S. e l’operato di “veri agenti provocatori spesso coperti da cariche pubbliche” all’occulto servizio della parte avversa.

    25648 [A penna a margine destro] [Testo del primo foglio, dattiloscritto] circa informazioni raccolte sul conto della 10^ flottiglia mas = Osservazioni del Comandante borghese
  1. – I sentimenti badogliani degli Ufficiali-Sottufficiali e marinai della X^ si manifestano attraverso questi fatti:

Per mare: n. 27 missioni di guerra contro il nemico compiute dai mezzi d’assalto // n. 36 missioni di guerra contro il nemico compiute dai M.A.S. e M.S.

Perdite inflitte: 1 C.T. [caccia torpediniere] – 4 corvette Perdite subite: 6 mezzi d’assalto – 1 M.A.S. // 25 militari dispersi Decorazioni: 4 militari insigniti della Croce di Ferro di 2^ classe tedesca. Per terra: Battaglione Barbarigo in linea sul fronte di Nettuno dal 4 marzo Perdite subite: 33 caduti // 78 feriti // 19 dispersi // alla data del 12 maggio 1944 XXII° Decorazioni: 1 Croce di Ferro di 2^ classe conferita e 4 proposte Battaglione N.P. in linea con 100 uomini dal 15 marzo. Perdite subite: 1 ufficiale ed 1 graduato Decorazioni: 1 croce di ferro di 1^ classe conferita // e 6 croci di ferro di 2^ classe proposte Azioni di rastrellamento eseguite: n. 11 Perdite subite: 2 Ufficiali // 2 Sottufficiali // 1 Sottocapo In preparazione 4 battaglioni di volontari per il fronte italiano – di cui uno – Btg. “Lupo” – pronto fra 3 settimane. Totale perdite 10^ Flottiglia M.A.S. dall’8 settembre: - Deceduti per cause di servizio: n. 3 // ./.     25649 [A penna a margine destro] [Testo del secondo foglio, dattiloscritto] = 2 = - Deceduti in combattimento: 40 - Prigionieri o dispersi: 44 - Feriti di guerra: 78 TOTALE N. 165 Questi caduti per la causa sono probabilmente gli autori delle frasi: “io sono qui per il 27” e “io tiro a campare”.
  1. – Le lagnanze degli equipaggi per le mense sono dovute all’adozione delle nuove tabelle alimentari concordate fra Ministro FF.AA. e Autorità Germaniche; tali tabelle sono in effetto insufficienti al marinaio italiano. Di ciò possono fare fede gli Ufficiali della X^ Flottiglia M.A.S. – essendo il rancio alla Flottiglia unico per tutti fin dal 9 settembre 1943. Non si ha notizia dell’esistenza di maiali nell’interno della 10^ Flottiglia M.A.S.
  2. – L’addestramento degli equipaggi della X^ avviene attraverso a scuole appositamente attrezzate; Scuola di Ardimento – situata al Lido di Camaiore. // Scuola Pilotaggio Med. D’Oro Todaro – a Sesto Calende // Scuola Palombari e Sommozzatori – a Portofino // Scuola Gamma – situata a Valdagno // Scuola Paracadutisti – situata a Jesolo. // Tali corsi sono in funzione fin dal dicembre 943 =, risultano probabilmente sconosciuti all’informatore. // Il Barbarigo è partito per il fronte di Nettuno con addestramento superficiale e non ultimato – come è stato anche certificato dal Maresciallo Graziani durante sua ispezione a detto Battaglione prima della sua partenza. // Si è voluto che partecipasse alla battaglia per la difesa di Roma – anche se non completamente addestrato – perché in tale grave frangente almeno un battaglione appartenente alle FF. AA. Repubblicane fosse in linea a fianco degli alleati. // ./.
  25650 [A penna a margine destro] [Testo del terzo foglio, dattiloscritto] = 3 =
  1. – Il Comandante Bardelli – del Battaglione Barbarigo è il creatore comandante [a matita] del primo battaglione – e per ora unico – delle FF. AA. Repubblicane che sia sceso in linea contro il nemico. // Se non altro per questo, meriterebbe il rispetto degli italiani. // Ha dovuto recarsi spesso a Roma per provvedere personalmente all’approvvigionamento del materiale necessario per completare l’armamento e l’equipaggiamento del suo Battaglione, cosa che ha fatto con pieno successo malgrado le enormi difficoltà ed il nessun aiuto da parte dei rappresentanti delle FF. AA. Nella cosidetta città aperta di Roma. // Si fa osservare che Cinecittà – ove viene riferito il Comandante Bardelli trascorresse intere giornate – è stata trasformata in un grande magazzino della Todt.
  2. – Nessuna delle missioni eseguite è finora fallita: malgrado che i mezzi siano stati specie per le prime missioni – realmente poco efficienti – perché vecchi e rapidamente rimessi in ordine dagli stessi uomini della X^ - per la gran volontà di potere al più presto scendere in mare ad incontrare il nemico.
  3. – Tutti i militari della X^ salutano romanamente da quando è stato impartito l’ordine dal Ministero FF. AA.. La notizia è perciò totalmente e completamente falsa.
  4. – Non solo manifestini ma anche bombe a mano sono stati lanciati dai sovversivi contro la Decima. // ./.
    25651 [A penna a margine destro] [Testo del quarto foglio, dattiloscritto] = 4 =
  1. – Vedi numero 1
  2. – La popolazione della Spezia – ed in seguito quella di molte altre Provincie d’Italia – ha fattivamente voluto dimostrare la sua simpatia [sovrascritta a matita su altra parola, illeggibile] per i marinai della X^ – aprendo sottoscrizioni popolari per dotare la Flottiglia di nuovi mezzi d’assalto. Solo a Spezia – e con versamenti non superiori a L. 10 – la somma raccolta sorpassa il milione e mezzo. // Centinaia e centinaia di lettere pervengono al C.te Borghese per testimoniare l’ammirazione del popolo italiano per i suoi migliori figli = quelli che combattono nei ranghi della Decima.
  3. – Le parole citate sono effettivamente state dette dal Comandante Arillo – che ha ripetuto parola per parola quanto udito in una conferenza da un membro del governo sociale repubblicano. // Il Comandante Arillo è stato dal C.te Borghese ripreso per l’inopportunità di ripetere una tale frase in ambiente nel quale poteva essere male interpretata.
  4. – Non si ritiene poter prendere in considerazione la segnalazione – in quanto una frase monca – estratta da un discorso – non può dare l’idea del significato attribuitole dall’oratore.

OSSERVAZIONI CONCLUSIVE

  1. – Non posso celare l’amarezza che provo nel constatare quanto poco e male sia conosciuta la fattiva – costruttiva e feconda opera della gloriosa Decima Flottiglia M.A.S.: informazioni così grossolanamente false ed ingiuriose non dovrebbero essere considerate degne di attenzione e tanto meno di contraddittorio. // ./.
    25652 [A penna a margine destro] [Testo del quinto foglio, dattiloscritto] = 5 =
  1. – Mi è doveroso – nell’occasione – far presente che dal duce pervengono numerose segnalazioni di inconvenienti ed irregolarità attribuite agli appartenenti della Decima – tutte desunte da informazioni più o meno attendibili – mentre non è fino ad oggi pervenuto a questi bravissimi marinai un solo segno che il duce sia stato informato delle azioni di guerra a cui hanno preso e prendono valorosamente parte – alcuni cadendo per la Patria – molti altri guadagnandosi decorazioni al valore da parte dei germanici.
  2. Si ritiene infine Ritengo [parola a matita e parzialmente sovrascritta] necessario sia posta fine una volta per sempre al malcostume delle segnalazioni vaghe – anonime – e denigratorie =, colpendo inesorabilmente sotto imputazione di calunnia e diffamazione a carico delle FF. AA. Repubblicane i delatori – veri agenti provocatori spesso coperti da cariche pubbliche sotto cui nascondono loro interessato odio contro chi compie il proprio dovere per la Patria – quando la delazione appaia, come nel caso presente – dolosamente bugiarda.= //

Il Comandante J. Valerio borghese [sotto segue firma e a lato timbro: stato maggiore marina – repubblica sociale italiana – Ufficio del Sottocapo di Stato Maggiore Operativo] //

31 maggio 1944 XXII°     Considerazioni.

Anche dalle sole parole di Borghese rimane chiaro che si ha, oggi, rileggendo tali documenti, l’impressione di stare ad una “corte dei miracoli” rimessa in piedi solo ed esclusivamente per poter contenere gli entusiasmi e le spinte combattive di chi non si vuole arrendere e desidera battersi per l’Onore d’Italia.

Ovvero: il “direttivo” della R.S.I. si stava effettivamente dando da fare per arginare l’invasione dell’Italia o, come s’è già detto esplicitamente in precedenza, l’intento o gli intenti erano ben altri?

A conclusione di quest’ulteriore capitolo sulle vicende imbastite per limitare l’operatività della Xa Flottiglia M.A.S. si può trascrivere un passo di Nesi: «Non importavano gli effetti di quell’intervento della X Flottiglia M.A.S., praticamente irrisori nell’economia di quella grande battaglia. L’importante era di essere in mare, per testimoniare che la Flottiglia non si era arresa, non si era consegnata al nemico, che su nessuno dei suoi battelli era stato issato uno straccio nero o era stato dipinto sulle prore un cerchio altrettanto nero. La Decima avrebbe combattuto così per tutta la Marina, per lottare e cadere con onore, per restituire alla Marina quell’Onore perduto con la consegna della flotta senza combattere, con una vergognosa resa senza condizioni. La mano di un ignoto marò aveva tracciato con un gessetto sulla fiancata del primo autocarro un motto, che divenne immediatamente il motto di tutti i Mezzi d’Assalto: “Con poca prora per l’insidia vasta”, motto che riassumeva in forma poetica il pensiero del Comandante» (Sergio Nesi, Junio Valerio Borghese un Principe un Comandante un Marinaio, op. cit., pp. 288-289).

Motto che viene successivamente ripreso anche da Pasca Piredda.       Note.  

Il disegno del volto di Benito Mussolini e i documenti trascritti e duplicati provengono dall’I.S.E.C., Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea – Archivio Fondazione Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea (Isec), Sesto San Giovanni, Fondo Odoardo Fontanella, rispettivamente b. 50, fasc. 219 e b. 50 fasc. 218.

 

Il dogma del Ragioniere – Considerazioni sul limite del razionalismo di Lorenzo Merlo

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Il ragioniere ha una sola ontologia: ordinare, classificare, misurare. Non gli è concesso sentire che ogni catalogazione scambiata per realtà genera mondi artificiosi o superstizioni.

Precisazione

Il dogma del ragioniere, non toglie, né vuole, né potrebbe togliere nulla al valore del razionalismo. La prospettiva razionalista non è demoniaca di per sé. È piuttosto semplicemente da impiegare come strumento relativo, non più assoluto, affinché cessi di incarnare il monopolio dell’intelligenza. Da limitare a circostanze amministrative. Se necessario da sottomettere ad altre dimensioni umane, come quella affettiva, empatica, compassionevole, contemplativa, euristica, serendipidica. Tutte utili per liberare l’uomo dalle gabbie in cui si è rinchiuso attraverso reti di suggestioni intellettuali, che tendono a mantenerlo incompiuto nelle sue potenzialità, a privarlo del conoscere attraverso il sentire.

  Il limite in due punti Uno riguarda l’aspetto statistico.

Ogni nostra previsione, per quanto scientifica, è solo una delle molteplici possibilità. Essa appoggia, spesso inconsapevolmente, la propria dignità entro un ambito definito, i cui profili sono fortificati: non corruttibile da idee e forze estranee a quelle considerate per formulare la previsione stessa. Consideriamo solo la previsione/possibilità tratta dagli elementi considerati. Quelli che ci appaiono di più e che sono biologicamente e metafisicamente compatibili con il nostro bisogno e la nostra identità. Quelli che non la mettono a repentaglio. Diversamente sarebbe suicidio fisico, dialettico, emotivo. Questo avviene quando l’attenzione alle esigenze altrui diviene prevaricante.

Il secondo limite è relativo alla creatività ed è implicito nel precedente.

Questa sussiste ma limitata a quanto crediamo sia razionale. Ogni nostro motto considerato irrazionale è valutato negativamente in quanto non soddisfa i criteri logici dominanti. È perciò autocastrato, indotto all’aborto spontaneo. Così, una sensazione fuggevole, resta inosservata, nonostante l’informazione che conteneva, magari che stavamo lasciando un luogo dimenticando là qualcosa di nostro. È in quel prurito, malattia, visione, sogno che siamo il senso profondo delle cose, che siamo collegati all’infinito e all’eternità, che siamo dio.

Nei momenti di non accettazione di tutte le informazioni che il sentire permanentemente diffonde a noi, ci autolobotomizziamo di una dimensione umana della quale – ci hanno insegnato – è opportuno farne a meno. Ma è a noi stessi, alla nostra natura e missione che stiamo abdicando.

  Totalitarismo eletto

Bastano poche considerazioni su due aspetti relativi al tema del razionalismo – inteso come campo aureo della vita, delle scelte, delle relazioni – che già si avverte quanto quella predilezione limiti il campo dell’umano. Costringa l’immensa potenzialità di ognuno entro i violenti – ma silenti – canoni meccanicistici. Una sorta di mortificazione della nostra infinita profonda natura da parte dell’assassino seriale che ha un nome e un cognome: Norma Consuetudine.

https://www.youtube.com/watch?v=01i_yDpe7WU  

Eleggendo (consapevolmente) o subendo (inconsapevolmente) il razionalismo a Santo Graal della verità definitiva, ci poniamo sul naso delle lenti specifiche che implicano un giudizio sul mondo, sulla realtà e sugli uomini. Per porre rimedio, non si tratta di muoversi astenendosi dal giudicare – impresa antistorica e anch’essa prossima al disumano –, piuttosto di prendere coscienza dell’identificazione tra noi e quel giudizio stesso. Comunione che necessariamente si compie se presupponiamo l’esistenza di una realtà oggettiva, con caratteristiche proprie. Ovvero se non ci avvediamo che quelle peculiarità che riteniamo sue, corrispondono invece a nostre proiezioni. Se non ci avvediamo che queste ultime sono emanazioni della nostra cultura, ambiente, educazione, sentimento, emozione. Come se ci sentissimo esistere soltanto entro piramidi gerarchiche, soltanto operando per riconoscerle nel caos disordinato che ci impegna a classificarlo.

  Averci pensato prima

Ridurre l’universo a ciò che possiamo e sappiamo classificare, nominare, misurare ha un che di mostruoso, non servono grandi argomenti per sostenerlo. L’origine di tanta aberrazione e la sua perpetuazione restano tuttavia comprensibili. Ha legittime ragioni storiche.

Se è vero che la storia procede a balzi rivoluzionari, tutti caratterizzati da un nuovo che si fa spazio nel vecchio, si può condividere che l’epoca dei lumi affermava modalità di conoscenza e interpretazione della realtà appunto nuove rispetto all’epoca precedente. La nuova nomenclatura dello scibile, tanto fisico che metafisico, ha soddisfatto in lungo e in largo gli spiriti del tempo. La nuova moda, come il fuoco nella sterpaglia, si è estesa ovunque e velocemente. Ha preso tutti gli ambiti dello scibile. Ha ghettizzato e ridicolizzato le dimensioni più umane, quelle dove era ed è impotente. È riuscita a divenire cultura egemone e contemporaneamente a lasciare sul piatto del vero e del giusto, solo le parti che ritiene di essere riuscita a comprimere entro le sue artificiose, autoreferenziali categorie. Ha prodotto gli specialisti e ci ha indotto a credere in loro. Ora la loro parola conta più del nostro sentire. Forse qualcosa non va.

  Pensiamo sia giusto così

Il motivo della perpetuazione di tanto deragliamento da se stessi è a suo modo colluso con il mud del razionalismo, con la sua mente. È il nostro liquido placentare, la nostra madre, la nostra cultura, il nostro modo di interpretare la realtà. Esiste insieme a noi e senza certe consapevolezze non possiamo scoprire che è solo una nostra creatura, che non è la verità.

Perpetuiamo ciò che rientra nel nostro campo visivo. Entro quel campo ci poniamo domande e solo in quel campo cerchiamo le risposte. Ognuno ha da mantenere la propria identità. Cercare, accettare ciò che il canone maggiore considera inopportuno la può incrinare. Si va giù perciò secondo corrente, lasciando ad altri il compito di questuare, credendo che criticare l’universalità della cosiddetta scientificità della ragione sia semplicemente stupido, perché sbagliato!

  Il lato che ci nascondiamo

Certe modalità di tagliare fuori dalla realtà la parte che non vediamo, o quelle considerate pragmaticamente e positivisticamente vuote, possono andare bene in contesto amministrativo. Ma se le estendiamo a quello globale, vitale – tanto più se inconsapevolmente – i buoni principi rimangono teorici, la realtà quadra sempre meno, i problemi e i conflitti crescono, e così la necessità di impiegare la gerarchia per dirimersi, per trovare una rotta. Salvo nel caso in cui, la polizia segreta del razionalismo, non faccia sparire dal nostro cuore le tracce d’esistenza di altre modalità di conoscenza, affettive, olistiche, misteriche, energetiche. In quel caso, ci si avvia ad uno stato di polizia dove, per ragion di stato appunto, non c’è difficoltà, né senso di colpa, ad impiegare la forza del buon senso naturalmente, per condannare, espropriare, eliminare. E per mantenere alta la bandiera della vera verità.

  Anime morte.1

Con l’idea razionalista in testa, Architetti, Urbanisti e Politici hanno creato palazzi e quartieri non solo popolari. Per ogni appartamento, hanno previsto e realizzato tutto quello che serviva; così in ogni quartiere. Ma hanno dimenticato del tutto che non basta avere il bagno e la cucina se l’accesso è una gimcana tra battenti; hanno tralasciato la dimensione umana per realizzare urbanistiche prive di rispetto, di vitalità, di crocicchi e centri. Hanno creduto che razionalità fosse tutto, che funzionalità ne fosse inclusa; che curvare una via come un serpente potesse bastare a sollevare dall’alienazione chi avrebbe dovuto percorrerla e abitarla. Della dimensione energetica non se ne sono curati, e di conseguenza per la sua dimensione estetica. Sdraiati sulla loro lounge chair Eames con un drink a lato e un libro in mano, sotto la calda luce di una lampada Arco Castiglioni, nel sottofondo della filodiffusione da una Cubo Brionvega l’hanno creduta superflua. Togliendo così, senza patema alcuno - in quanto privi di opportuna consapevolezza - dignità, rispetto, onorabilità alle persone là destinate. Persone evidentemente diverse da loro.

I loro non luoghi adatti al solo transito anonimo, lo dimostrano. E se di energia ne avessero sentito parlare, se ne avessero sentito la presenza o avvertito l’assenza, avrebbero probabilmente cacciato via quella stupida idea, come è giusto che sia con un nemico dell’Intelligenza.

  Anime morte.2 Prendiamo la Giustizia, amministrativa appunto, quella espressa dalle leggi, tra cui ad personam.

Chi ha detto che altre modalità che hanno attraversato la storia non corrispondano di più alla giustizia di quanto non possa un giudice rosso o nero, un avvocato acuto o scarso? La tradizione giudaico-islamica prevedeva la vendetta; quella cristiano-orientale l’accettazione e il perdono. Entrambe si appoggiavano all’etica non agli interessi. Entrambe sono in grado di connotare, di volta in volta, quanto avvenuto, non potrebbero mai pensare che la giustizia è uguale per tutti, semmai l’opposto. Ma non lo è neppure nei nostri tribunali laici, neppure per chi ritiene di attenersi ai fatti e alla legge. La stessa giurisprudenza ne è contraddizione e così i gradi di giudizio. Sugli scranni dei giudici è scritta una pretesa disumana, alla quale tutti noi vogliamo credere, secondo il dogma della ratione.

  Anime morte.3

Così la Scuola, fucina di esperti e specialisti. Destinati a mantenere l’establishment così com’è. Territorio dove filtrare l’idoneità all’irreggimentazione secondo canoni valutativi pedestri e aberranti. Reti inidonee, quelle sì, a trattenere e a filtrare lo spirito delle persone, le doti uniche che ognuno porta in sé. Ma assolutamente performanti per selezione, per creare scemi e intelligenti, adatti e disadattati, meritevoli e inutili.

E la Salute poi, ridotta ad essere sintomo, la sola cosa che la farmacia e la medicina siano in grado di vedere e in complicità di produrre. Delle vere cause delle patologie non ne hanno idea.

Processi di presunto sviluppo che non hanno nulla a che fare con l’uomo. Salvo che nel suo momento intellettuale o sintomatico, ovvero le dimensioni più superficiali, quelle meno idonee a cogliere le profondità dell’oceano che siamo.

  Anime morte.4 Ma è così ovunque si guardi, a qualunque livello si voglia portare l’attenzione. Prendiamo il fatto.

Il fatto al quale attenersi, affinché giornalisti e razionalisti siano felici di esistere, non esiste senza di noi e da noi dipende. Noi conteniamo e creiamo il fatto e il fatto ci contiene. Il fatto è nella relazione, da solo non è autosufficiente, neppure con la terapia intensiva, con la quale ogni soccorritore razionalista vorrebbe tenerlo in vita.

Il fatto è con noi un’unità indivisibile. Scomporla – grande, celebrato processo analitico, dal quale, con i nostri mezzi tecnico-scientifici, con il nostro razionalismo, crediamo di poterci astrarre – non porta che all’illusione di essere giusti e benevoli dei con il potere di amministrarlo, distribuirlo, farlo proprio o attribuirlo. Il fatto, non contiene, né esprime alcuna oggettività, non supera alcuna interpretazione. È lui stesso un’interpretazione. L’uomo ha dato un nome alle cose per farle esistere, uccidendo così i miti dei quali quelle stesse cose erano espressione.

In un incidente, a parte l’aspetto formale di due auto che si toccano, entrambi potranno dire che qualcuno è andato loro contro. Quell’unico fatto accaduto non è per niente uno, sono due, uno per narrazione.

  Delirio di onnipotenza

Con la dialettica razionalista, si costruiscono poteri e domini; si delegittima; si creano i diritti lasciando che i doveri e l’etica, vadano alla deriva come un inutile relitto, si da e toglie dignità alla bisogna. Quale altro fondamento si può trovare sotto le poltrone di chi serenamente afferma che business is business? E come non vedere contemporaneamente che da quel punto si allungano prospettive di guerra in forma varia?

Soprattutto si imbavaglia l’universo creativo nascosto dentro gli uomini. La cui emersione non richiede studio e competenza ma libertà dal conosciuto. In quale altro modo si potrebbe tenere a bada interi popoli, fargli credere che produrre di più è importante, convincerli che se seguiranno la sola via, allora si meriteranno ferie e pensione?

  Flusso congelato

La cultura razionalista domina. L’egemonia è assoluta. Essa limita così, entro le proprie categorie, l’universo, la verità, gli uomini. Costringe la libertà a muoversi nel suo campo. Tutte le scelte, le valutazioni sono sua diretta discendenza.

Ma non si tratta di pensare di eliminare ciò che la storia ha prodotto. Le ragioni sufficienti c’erano e delegittimarle non fa che deragliare il discorso. La modalità razionalista semmai è da circoscrivere, ovvero da impiegare opportunamente, non assolutamente. Un processo di aggiornamento che avverrà con l’estendersi della consapevolezza dei limiti razionalistici. Se il razionalismo fosse su un banco da lavoro dell’umanità, dovrebbe essere un attrezzo tra molti, non l’unico. Come ogni altro, quando è necessario diviene indispensabile. Infatti, solo lui fornisce il miglior servizio in contesto amministrativo, cioè nella concezione bidimensionale della realtà, quella inetta a cogliere il flusso o il respiro dal quale emergono i mondi; quella idonea a misurare e valutare la modalità statica di essi.

In contesto volumetrico, ovvero quell’ambito dove cogliamo che gli elementi che esprimono la loro azione sono innumerevoli e impediscono una conta e una logica piana, l’applicazione dello strumento razionalistico non ha potere di studio, penetrazione, predizione. Ne ha di più l’empatia, la compassione, l’ascolto, il sentire, la visione, la contemplazione, la meditazione. Strumenti di non misurazione ma di accettazione, olistici e globali, sferici. La cui forma se la vediamo corrisponde alla nostra. Ma in quel caso significa che siamo tornati all’amministrazione, che ancora pensiamo ci sia una verità raggiungibile, che abbiamo nuovamente ridotto alla bidimensione il volume multidimensionale della vita.

Anche per accedere alle consapevolezze, per cogliere la concezione volumetrica non è necessario un corso d’apprendimento. Quel modo lo sappiamo già, sebbene arrugginito e sotto strati di disuso, esso emerge con certezza in modo direttamente proporzionale alla nostra serenità, apertura, equilibrio, forza, capacità di essere amore.

Per questo le oscillazioni azionarie della borsa o l’azione d’attacco di una squadra e ogni evento umano e biologico, per quanto le si voglia avvicinare sul vetrino del microscopio razionalista, non saremo in grado di prevederne gli esiti. È per questo che la madre, ma non il giudice, perdona il figlio, del quale già sapeva cosa avrebbe commesso.

  Progresso über alles

Quando le comunità erano minute e ognuno sapeva tutto, non era necessaria l’insegna del fabbro e del sentiero per la sorgente. Ora, senza indicazione non sappiamo dove andare, senza scuola non sappiamo imparare, senza indicazione non sappiamo dove guardare. Forse è maturo il momento per recuperare l’umano che abbiamo gettato via con ciò che abbiamo creduto fosse solo acqua sporca. Di tutte le nostre magiche potenzialità utilizziamo quelle dell’uomo timorato dalla norma. Lì trova il suo terreno d’azione, lì si sente forte fino a sottomettere chi in quel modesto campo energetico neppure ci vorrebbe giocare. L’uomo timorato è facilmente organizzato e in costante assetto per pianificare e anticipare la vita. La sua autostima non risiede in lui ma nel successo delle sue azioni, nell’affermazione della sua figura.

  Genealogia del crollo

Con l’egemonia del razionalismo abbiamo dato agio al capitalismo di estendersi come un unguento necessario ai dolori dell’umanità. Ora siamo al liberismo che gli ha messo il turbo. Passaggi che si spiegano attraverso la consapevolezza che le ragioni di capitalismo e liberismo – come altre infrastrutture sociali, politiche, economiche, istituzionali – hanno evoluto se stesse appoggiandosi su leve di tipo narcisistico-cognitivo-analitico. Architetture razional-speculative, totalmente intellettualistiche che hanno eletto il simbolico in sostituzione della natura, dell’uomo. Che hanno fatto dimenticare il sacro sostituendolo con succedanei sempre più mercificati e sempre più effimeri. Alla stregua di bolle finanziarie che esistono indipendenti dal denaro che le ha originate.

Una dimensione nella quale non v’è più traccia dello spirito della natura globalmente inteso. Artificio dopo artificio ci si è dimenticati della dimensione olistica dalla quale proveniamo. Ora pensiamo che la realtà che constatiamo, sia la sola possibile e quella alla quale attenersi. Ora non vediamo la biografia, le scelte che ne sono state ad arbitrario supporto, né immaginiamo che altre decisioni possano favorire altra cultura e valori rispetto a quelli oggi disponibili.

  Modalità del giudicare Vanno ricordati alcuni momenti nodali affinché la critica al razionalismo si impregni di propositività.

Dicevamo inizialmente che «... non si tratta di muoversi astenendosi dal giudicare – impresa anch’essa prossima al disumano –, piuttosto di prendere coscienza dell’identificazione tra noi e il giudizio stesso».

È qui il momento dirimente: prendere coscienza della nostra consuetudine di giudicare il mondo e la contemporanea credenza che quel giudizio lo rappresenti veramente, per quello che è.

È il primo passo che predispone al secondo: è la fede in ciò che esprimiamo che comporta un’identificazione con il giudizio che diamo o che ci viene dato. Accondiscendendo all’identificazione con il giudizio sulla realtà, abdichiamo a noi stessi. Ovvero, ci conformiamo, ci limitiamo in forme e dimensioni limitanti.

Il terzo è che ciò agevola lo scontro come modalità ordinaria delle relazioni in quanto siamo necessariamente obbligati a difendere la nostra posizione, la nostra affermazione, la nostra realtà.

Il quarto riguarda l’eureka sulla presa di coscienza dei primi tre: Ma se le cose stanno così, dov’è l’alternativa? In cosa consiste? Come detto l’alternativa non dirige in una impossibile, disumana, ricerca di non giudicare. Semmai, appunto in quella di non separazione dal giudizio, di presa di distanza. E ciò, nonostante gli argomenti razionalistici che possiamo addurre per non farlo.

Compiuta la presa di coscienza della nostra proiezione sulla realtà di caratteristiche che non ha, credendo poi le siano proprie, abbiamo a disposizione la soluzione.

Quinto: in una parola, accettazione. Giudicare secondo l’abitudine che abbiamo descritto, tende a separare. Liberarsi da quella dinamica psico-razionalista, che offre all’io tutto ciò di cui necessita per la propria autostima, ci permette di entrare nel campo dell’accettazione. Un dominio dove continueremo ad avere ed esprimere la nostra opinione ma in modo via via più distaccato. Dove saremo perciò in grado di accettare e mantenere la dignità d’essere di ciò che non è a nostra misura e convenienza; dove potremo scoprire quanto malessere generava la vecchia modalità e quanto benessere ci porta la nuova. Quanto una tenda a separare e l’altra a unire.

Domina tutto il percorso evolutivo, un sesto punto. Riguarda l’assunzione di responsabilità. Siamo totalmente, individualmente i responsabili della realtà con la quale abbiamo a che fare. Siamo noi ad avere eletto quella razionalistica, solo noi possiamo detronizzarla. Il nostro benessere, quello che sentiamo non potrà mai essere sostituito da alcun argomento razionalistico, neanche pronunciato da uno specialista luminare.

  Due precisazioni

Qualcuno potrà pensare che accettare è un morire, che è una mortificazione della passione. È vero, ma solo se razionalisticamente inteso. È invece il contrario se riconosciuto nella sua potenza di benessere. È metterci tutto, senza la dispersione energetica e tossica dello stress e della paura, sapendo che se andrà diversamente dallo sperato, non saremo afflitti dalla delusione e manterremo intatte le nostre doti creative, per ripartire. Sapendo che quel fallimento è una fortuna, perché è lì che troveremo un sacco da imparare. Sapendo che se così non facessimo, manterremmo le medesime predisposizioni a commettere il medesimo errore.

«... l’ordine che voi vedete nella creazione è quello che ci avete messo voi, come un filo in un labirinto, per non smarrirvi. Infatti l’esistenza ha il suo proprio ordine, tale che nessuna mente umana possa abbracciarlo, poiché la mente stessa non è che un fatto in mezzo agli altri.

[...]

L’arco dei corpi orbitanti è determinato dalla lunghezza della loro pastoia, disse [...]. Lune, monete, uomini.»

Cormac McCarthy, Meridiano di sangue, Einaudi

  Il ragioniere

Il ragioniere si rende impossibile vivere il qui ed ora, la migliore condizione per gestire le situazioni della vita, imprevisti inclusi, con la migliore disponibilità creativa a risolverli e o gestirli, con la migliore attitudine a superare le difficoltà. La sua condizione ordinaria è entro ciò che lui chiama passato e futuro. Vive pensando a ciò che è stato e a ciò che dovrà essere. Tempi che sono territori virtuali nei quali non c’è serenità: l’identificazione con rimpianti e aspirazioni la impedisce. Nei quali non ha mai a che fare con la vera natura di se stesso – che spesso neppure ha mai conosciuto – ma solo con l’idea di se stesso, facilmente farcita di modelli per lui ideali, che può arrivare a venerare o a uccidere. Egli è permanentemente rinchiuso nelle sue idee che crede di evincere dal mondo. Non vede che con quelle stesse idee lo esaurisce il mondo. Non si avvede del filtro che adotta per sceglierle o crearle. Non riconosce neppure che con quelle stesse ha generato il suo stesso io. Non sospetta ci siano altre realtà presenti in quello che osserva. Nelle quali smetterebbe di perseverare nel suo spiegare e spiegarsi il mondo. Nelle quali non potrebbe che tacere contemplando le dinamiche energetice che prima gli erano occulte.

Il ragioniere è infatti nella verità, o alla sua ricerca. Un progetto prioritario, indispensabile per gestire la vita. Sembra un ottima cosa, tuttavia così facendo decapita e uccide se stesso secondo i dogmi che più l’hanno affascinato. Con la verità dalla sua, prevede come deve e non deve essere la vita. Impugna una specie di timone per dirigere le relazioni. Se si innamora può per esempio rinunciare a esprimere il proprio sentimento sotto il maglio di qualche timidezza dietro la quale ancora si trovano sue convincenti idee ad impedirglielo. E se lo esprime non si lancia a rivedere il proprio sistema di convinzioni razionalistiche, visto che l’innamoramento come tutta la natura non è comprimibile né trasmissibile, neppure quando qualcuno sostiene di poterlo ridurre a molecole sgusciate da qualche ghiandola linfatica.

Psicologicamente considerato, il ragioniere, è una persona che cerca sicurezza, anzi, senza sicurezza non si muove, non sceglie, non fa, non dice. La trova nel suo bagaglietto di dogmi che porta sempre con sé. Ne fa una casa. Un po’ come i camperisti. Manche offre sicurezza a tutti queli della sua stirpe pizzicagnola e notaia, a tutti i burocrati della vita, che pure il tempo libero hanno misurato e reso produttivo.

Il ragioniere conosce le etichette, sa come si deve fare a tavola, nelle feste, coi parenti, coi figli, coi superiori e gli inferiori, i diversi. Nei libroni dei suoi dogmi è previsto tutto. Tuttavia, crede nel dialogo, ma è proprio quello interiore in particolare a mantenerlo e trattenerlo nello stato bidimensionale in cui si trova la sua stretta concezione.

Le sue abitudini sono semplicemente la cosa giusta. Non ha ragione di riconoscere il flusso canonico che le contiene e lo contiene. Nel suo intimo non c’è motivo di uscirne, e il fatto di essere sempre uguale a se stesso non lo disturba, anzi. Perciò non vede che non sogna ciò che è altro da lui, se non per temerlo o prenderne le distanze. Non ha direzioni di vita che non siano la sua. Quelle che crede essere le sue scelte godono di un’ampiezza limitata alle sue abitudini, e sono compiute per mantenerne la solidità.

La sua vita corre su binari e si ferma solo secondo moduli che qualcuno ha precompilato in sua vece. Se ciò gli genera stress, prima di tutto non se ne avvede, in seconda battuta si rivolge allo specialista – figura invidiabile nel mondo del ragioniere – per avere la medicina giusta.

Il suo stile va dall’imbellettato al rigido, dal vincolato al deterministico.

Chi istiga i suoi confini corre dei rischi. Sotto la bandiera de la legge non si discute, può essere ucciso o giudicato – che sono tutti la medesima cosa – di anarchismo. Tutto il resto con il quale avrebbe potuto estendere i propri orizzonti (ritagliati dallo scenografo), con il quale avrebbe potuto evolvere, non lo vede. Senza dimenticare che l’anarchico non è quello delle bombe e del disordine, è il contrario del ragioniere.

Avendo già la chiave di lettura, il mondo che può elaborare e col quale può interagire è limitato alla condizione materiale dell’energia. Anche per la metafisica, che tratta e maneggia solo ed esclusivamente con logica, espressione positivistica delmaterialismo. Concentrato su se stesso è pronto a difendere i suoi dogmi per il bene di tutti. L’infinito per lui sta tutto in un simbolo, non una presenza della magia, una mappa con la quale navigare tra le dimensioni dell’essere.

  Scherzo!

Il ragioniere non esiste, quantomeno allo stato puro. E anche se esistesse, non è di quello che si tratta qui. Esistono metatipi, incarnazioni di tutti i generi, almeno a coprire la maggioranza delle persone. Il ragioniere e i suoi dogmi sono un po’ in tutti noi. Ma non in misure permanenti: variano. Per stato d’animo, paure, pretese, circostanze strette e ampie.

A ben guardare non mancano le occasioni in cui amiamo i binari e la libera rotta del mare e del cielo che invece che alla bellezza, ci portano al timore dell’ignoto.

Dunque? Consapevoli di non poterci sottrarre mai del tutto al dogma del ragioniere, al recondito desiderio di pianificare a misura una vita quantomeno priva di stenti e pene, possiamo meglio riconoscere lo stato profondo del prossimo, possiamo meglio riconoscere quando siamo noi ad impugnare qualche dogma come fosse giusto, come fosse un diritto inalienabile. Consapevoli di tutto questo possiamo escogitare come ridurre o evitare di rimetterci in marcia per qualche crociata personale e non contro qualche infedele. Possiamo evolvere e creare società capaci di vivere secondo natura piuttosto che secondo un’ideologia acquisita e inconsapevolmente eletta stella polare. A volte consapevolmente.

Non sbarca lo straniero – Enrico Marino

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Ormai è di tutta evidenza che sulla questione dell’immigrazione sono state dette molte bugie e costruite molte fortune criminali. Le immagini volutamente pietose, i servizi creati ad arte, il “montaggio” dei filmati, le sapienti inquadrature di donne e bambini, le storie strazianti raccontate, tutto è frutto di una ben orchestrata strategia di disinformazione e di propaganda immigrazionista. Ed è chiaro anche chi siano i beneficiari di tutti questi traffici, a partire dalle oligarchie mondialiste fautrici del meticciato universale fino agli interessi del grande capitalismo nazionale, attento a promuovere forme di dumping salariale, continuando poi col Vaticano e le cooperative che gestiscono gli immigrati, fino alle ONG che operano come taxi del mare e, spesso, ricevono finanziamenti opachi o vengono direttamente sovvenzionate da speculatori internazionali del calibro del magnate Soros.
Una di queste ONG è “Emergency”, fondata dal milanese Gino Strada che ne è il leader indiscusso, che è una macchina per fare soldi con un volume di affari milionario, che in 18 anni di attività ha chiuso in perdita solo quattro volte, ma che negli ultimi esercizi ha sempre chiuso in attivo, quintuplicando di fatto gli utili. Non a caso c’è chi si pone il problema se “Emergency” debba essere collocata fra le Onlus o piuttosto, visti i suoi bilanci, essere considerata un’impresa commerciale a tutto tondo. Il confine fra imprese che operano senza scopo di lucro e imprese commerciali è ormai sempre più difficile da individuare e questo ha ingenerato l’affollarsi di un numero sempre maggiore di attività che si affacciano al grande business del cosiddetto “Terzo settore” e che, grazie alla scarsa sorveglianza delle autorità controllanti, riescono ad ottenere agevolazioni fiscali e appalti usufruendo per di più di donazioni di privati che, a loro volta possono detrarle dal loro reddito tassabile. In questo business vengono attratti anche personaggi di dubbia moralità che sono pronti a fiutare anche il verificarsi di fenomeni di interesse sociale e perfino di calamità. In questo l’organizzazione di Strada, che si vanta di non avere finanziamenti pubblici per evitare condizionamenti di alcun tipo, ma occulta le entrate del proprio bilancio mentre pare accettare milioni di euro di contributi dal governo dichiaratamente islamista di Khartoum, sarebbe una delle più attive nella “gestione” delle guerre e delle varie catastrofi umanitarie.
E non a caso Strada, con un passato da comunista come Gentiloni nel movimento extraparlamentare di Mario Capanna, è uno dei più forsennati sostenitori dell’accoglienza e della tratta degli immigrati dall’Africa in Europa. E con lui sono tanti gli esponenti del bel mondo, della moda, del cinema e della Tv, i vip dello spettacolo e del giornalismo e gli intellettuali progressisti che, in queste ore, hanno inveito contro il neo ministro dell’Interno, Salvini, per la vicenda legata alla nave Aquarius, arrivando a minacciare di abbandonare l’Italia divenuta oramai il paese dell’intolleranza e del razzismo.
L’azione del ministro, che ha impedito l’attracco nei porti italiani della nave di Sos Mediterranée, ha suscitato travasi di bile e reazioni isteriche da parte di tutto il mainstream di sinistra e cattolico progressista, ma ha provocato reazioni scomposte anche a livello internazionale dopo che in Francia Gabriel Attal, portavoce del partito di governo La Republique En Marche, aveva definito “vomitevole” la scelta dell’esecutivo Lega-M5s di chiudere i porti e lo stesso presidente Macron aveva qualificato “cinico” il comportamento del governo italiano nel caso della Aquarius.
La richiesta di scuse ufficiali, i toni “ingiustificabili”, il rischio di “compromettere le relazioni tra Italia e Francia” annunciato dal ministro Enzo Moavero Milanesi all’ambasciata transalpina, sono state la logica conseguenza di tali sconsiderate dichiarazioni e dal governo italiano è arrivato un logico rifiuto, quello del ministro dell’Economia, Giovanni Tria, che ha annullato il viaggio oltralpe in programma per incontrare l’omologo Bruno Le Maire.
In compenso l’azione del ministro Salvini pare abbia ricevuto l’approvazione del governo tedesco e l’apprezzamento di Vienna, della Polonia e dell’Ungheria. In un’intervista rilasciata alla radio pubblica, rilanciata dal quotidiano Repubblica, il presidente ungherese Viktor Orban si è espresso in merito alle nuove posizioni assunte dal governo italiano sul tema immigrazione, dicendosi pronto ad aiutare l’Italia. L’aiuto offerto però, diversamente da quanto si potrebbe pensare, non consisterebbe nell’assunzione, da parte di Budapest, di una quota di rifugiati, ma in un ausilio nelle procedure di espulsione.
La retorica immigrazionista sostiene che l'Italia ha bisogno degli immigrati per crescere socialmente, economicamente e culturalmente, perché siamo un paese con una crisi demografica immensa. Ma la disoccupazione giovanile è oltre il 40%, i giovani non possono formare una famiglia, la pressione fiscale è al 42% e a sinistra pensano di risolvere la nostra drammatica condizione sociale portando in Italia milioni di disperati senza alcuna formazione dai paesi sottosviluppati del terzo mondo, che sono i primi a chiedere assistenza e sussidi. Costoro pensano di risolvere i nostri problemi economici garantendo alle cooperative il business della gestione degli immigrati. Pensano di integrare riempiendo le baraccopoli del Sud Italia di braccianti schiavizzati, così da alimentare il caporalato e i business della malavita. Pensano di compensare i numeri dei giovani italiani che espatriano o il nostro calo demografico importando in sostituzione migliaia di africani. Ma gli africani hanno la loro coscienza identitaria non qui ma altrove e, anzi, hanno diritto a non essere culturalmente sradicati. Viceversa gli abitanti dei quartieri più poveri in Italia e in Europa, hanno diritto a non essere sradicati dalle loro usanze da parte di un’immigrazione invadente e culturalmente eterogenea. Sono le fasce sociali più deboli, è il popolo delle periferie urbane, che portano il peso dell’immigrazione con la perdita di valore del lavoro manuale. La svalutazione del lavoro in questi anni è stata possibile solo grazie all’esercito di riserva costituito dagli immigrati. È logico che le élites economiche siano favorevoli all’immigrazione. Le libera dall’incombenza di delocalizzare dove c’è disperazione, portando la disperazione direttamente qui, licenziando o comprimendo al massimo i salari e i diritti dei lavoratori italiani.
Mentre per crescere socialmente, economicamente e culturalmente, l'Italia deve ridurre il debito pubblico, abbassare la pressione fiscale e creare lavoro e maggiore benessere per le famiglie italiane, per sostenere la natalità e con essa lo sviluppo del Paese, non sommare disoccupazione straniera a disoccupazione italiana, al costo esorbitante di circa 5 miliardi l'anno di debito pubblico, innescando una bomba culturale e sociale che tra qualche anno potrebbe esplodere riducendo le nostre città alla stregua delle banlieu francesi.
Per questo non basta richiamarsi alla solidarietà europea né pretendere la distribuzione degli immigrati in Europa. Non si può risolvere un problema semplicemente dislocandolo altrove. Se in casa avete una stanza infestata dagli scarafaggi, la soluzione non consiste nel redistribuirli nelle varie stanze dell’appartamento, ma nell’eliminarli. E gli esseri umani, al di là di ogni retorico pietismo, se arbitrariamente, in sovrannumero e con arroganza si impossessano di territori e spazi non loro, possono essere più nocivi di qualunque altra calamità. Chi non ha diritto a essere considerato profugo, non può essere accolto né inviato in un altro Paese europeo, ma va immediatamente e risolutamente respinto. I progressisti, come ultima e disperata obiezione, pongono la difficoltà pratica a operare questi respingimenti. Una obiezione, però, che rafforza l’idea che tutte le operazioni di scrematura tra profughi reali e finti vada effettuata direttamente in Africa, prima che possano partire, evitando che partano, bloccando ogni battello entro le acque territoriali africane. Se non si impediscono le partenze, e di conseguenza gli arrivi, il problema della gestione dei clandestini sul territorio europeo resterà irrisolto.
Dal punto di vista del diritto del mare, infatti, i respingimenti delle imbarcazioni che trasportano i clandestini sono resi quanto mai difficili dalle tutele dei così detti diritti umani e dai limiti imposti dalle Convenzioni di Ginevra e di Amburgo (Principio di non-refoulement ovvero principio di non respingimento) che risultano talmente pregnanti da eliminare, in concreto, qualsiasi margine di operatività all’esercizio lecito del potere di interdizione nei confronti degli immigrati irregolari, al punto che il concetto di “attività in mare” potrebbe abbracciare soltanto azioni come il soccorso o il contrasto alle attività illecite di smuggling o trafficking (contrabbando).
Di contro, la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare stabilisce all’articolo 19 che il passaggio di una nave nelle acque territoriali di uno Stato è permesso “fintanto che non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero”. Quindi se c’è il sospetto che la nave possa violare le leggi sull’immigrazione italiane, il diritto internazionale permette alle autorità italiane di impedire l’accesso della nave nelle acque territoriali, ovvero di chiudere i porti. Inoltre, il Codice della navigazione stabilisce (all’articolo 83) che il ministero dei Trasporti possa vietare, “per motivi di ordine pubblico, il transito e la sosta di navi mercantili nel mare territoriale”.
Ma il blocco dei porti resta comunque un provvedimento estremo e non privo di pericoli. Immaginiamo cosa sarebbe potuto accadere se il divieto che ha impedito alla nave di Sos Mediterranée di dirigersi con gli immigrati in Sicilia avesse causato qualche vittima a bordo. Uno sciacallo come Edoardo Albinati, premio Strega nel 2016, ha dichiarato di aver sperato che morisse un bambino sull'Aquarius per danneggiare il governo e la sua azione di interdizione all’immigrazione irregolare, a dimostrazione della infamità dei buonisti intellettuali organici ai progressisti e alle sinistre.
Per questo, ancor più necessarie diventano l’apertura di hot-spot direttamente in Africa e la cooperazione con quei Paesi dai quali proviene la maggior parte dei clandestini.
Solo bloccando all’origine quelle partenze, potremo impedire l’ingresso di irregolari nel nostro territorio. Prevenendo e aggirando gli obblighi di soccorso e non respingimento e le connivenze tra malavita, ONG, cooperative, sinistre e cattolici progressisti, che continueranno a infettare le coscienze e la vita sociale battendo ossessivamente sulle tematiche dell’accoglienza, del pietismo e dell’umanitarismo più ipocrita.
Enrico Marino

Svastica, simbolo sacro universale – Costanza Bondi e Marco Morucci

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Non si avventuri nella lettura di questo libro chi pensi di trovarsi di fronte a un testo politico. Si tratta infatti di un excursus simbolico, tema tanto caro agli autori, che analizza il simbolo sacro ancestrale per eccellenza: lo svastica, termine rigorosamente al maschile, in quanto esprime il concetto sanscrito del Su Asti Ka = “ciò che è bene”.

Svastica, quindi, come simbolo presente in tutte le culture primigenie, nelle sue insite espressioni del continuo divenire (il panta rei di Eraclito e Cratilo), ma anche della ruota solare, perciò del percorso circolare del Sole attorno alla Terra, nell’alternanza perpetua delle stagioni con i propri punti di svolta che coincidono con solstizi ed equinozi. E, pure, lo svastica in quanto molteplicità dell’Uno, l’energia in perpetuo movimento, l’osmosi immanente tra mondo materiale e mondo spirituale, vita umana e vita universale, ciò che è in cielo così in terra. L’analisi, toccando Oriente e Occidente, parte dai primordi della civiltà umana per poi passare a Etruschi, Greci, Romani, Cretesi, nativi d’America, buddismo e bramanesimo, esoterismo e sequenze simboliche. “Un saggio unico nel suo genere – come l’ha definito l’editore Adriano Forgione – il primo in Italia che affronta in modo così completo la genesi e il valore di questo remoto simbolo universale”, arricchito dalla prefazione del docente di Storia e Letteratura greca all’Università di Perugia Donato Loscalzo e dalla postfazione del critico d’arte Andrea Baffoni.

Si evince che, nell’excursus del testo, abbiamo cercato di sintetizzare lo svastica in quanto argomento di studio, d’altronde amplissimo, entro limiti ragionevolmente comprensibili, allo scopo di divulgare il concetto– e conseguentemente di renderlo accessibile anche ai non specialisti della materia – per cui, come sovente sostenuto anche dallo storico Emanuele Mastrangelo, rimuovere simboli e personaggi dal loro Zeitgeist significherebbe esporsi a qualsiasi critica di stampo moralista. E la morale, aggiungiamo, si sa, cambia al cambiare delle epoche. Resta il fatto che i simboli parlano un linguaggio universale, o meglio: i simboli in essi stessi parlano. E parlano indipendentemente dall’uso che, poi, l’uomo ne faccia (si prenda, come esempio su tutti, il simbolo universale pre-cristiano della croce); torna, quindi, valida la convinzione che i simboli siano per la mente ciò che gli attrezzi sono per le mani. Ogni studio dei simboli, di qualsiasi simbolo e in qualsiasi forma, rappresenta, infatti, sempre il tentativo di restituire la storia – indipendentemente dal risultato ottenuto – sia ai nostri antenati che ai nostri nipoti. Tentativo, peraltro, che non deve perdere di vista l’assunto socratico del “sapere di non sapere” che ci porta, quindi, a non accettare e assumere mai nulla di scontato e, tanto meno, al rinunciare di porsi domande a causa di pregiudizi.

“Chi ama la verità, non segue l’opinione.” Platone

Quando l’oggetto di una discussione viene considerato come “notizia a priori”, ne nasce un pre-concetto – o un pre-giudizio – per cui la notizia stessa viene generalmente percepita e assunta in quanto “verità”, poiché basata su sensazioni ed emozioni di natura soggettiva (culturale) e non su un’analisi oggettiva riguardo alla veridicità dei fatti. Si tratta di ciò che, dal punto di vista sociologico, viene oggi definito col neologismo di post-verità (nel quale rientrano, per esempio, pure le bufale mediatiche, attualmente tanto di moda) per cui, anche fornendo smentite inoppugnabili, una volta che la notizia o la credenza siano entrate in circolazione diviene pressoché impossibile cambiare la convinzione su cui le stesse si basano.

“Al di là dell’esperienza sensibile, esiste una verità eterna e immutabile.” sant’Agostino

Ciò che a noi, qui, interessa è lo svastica in quanto simbologia universale e ben augurale, la cui positività concettuale risale – come abbiamo cercato di evidenziare nel testo – a civiltà così antiche, le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Positività che ancora oggi perdura, tranne in quegli stati d’Europa che, per le ragioni storiche a tutti note, ne hanno decretato la damnatio memoriae. Forniamo, allora, una panoramica che documenta la dimostrazione del collegamento tra popoli di continenti diversi, per un nuovo percorso di lettura della ricerca storica, che vede come Asia, Africa, Europa, America e Oceania testimonino, ognuna nel proprio articolarsi di reperti, la presenza di un tessuto comune e condiviso. Risollevare, oggi, anche solo dal punto di vista culturale e quindi archeologico, lo studio della storia di un simbolo come lo svastica potrebbe dar adito, nel contesto attuale, ad interpretazioni, se non deliberatamente artefatte, come minimo distorte. Pare, pertanto, ovviamente chiaro che – lungi, qui, dal doverci perdere in partigiane e inutili esplicazioni – abbiamo lasciato al Lettore (quello veramente interessato) la libertà di porsi con coscienza rispetto a questo simbolo trascendente e al suo altissimo valore spirituale.

Il termine svastica deriva dalla locuzione sanscrita composta dalle tre seguenti parole:

SU(v)                   ASTIKA

nel significato risultante di ciò che è bene. E qual è il bene massimo per l’uomo che, essendo un animale sociale, deve muoversi all’interno del κόσμος, il cosmostutto e totalein quanto assetto organizzato mondiale?

La pace, ovviamente, che senza la cooperazione tra individui non potrebbe esistere.

Simbolo formato da 4 braccia uguali che si uniscono per mano, è rappresentato a volte in forma curvilinea, altre con terminazioni a segmento.

Nel blog “The Buddha Garden” durante la disquisizione dal titolo “Please help me to understandwhat the swastika on Lord Buddha’schestrepresents” questo, il commento di uno dei partecipanti: “In my home country of Thailand (whichwasheavilyinfluenced by Buddhist and Hindu culture and borrowsmuchformallanguage from Sanskrit and Pali), when wegreetsomeone, wesay Sawasdee Kha. In essence, wesay “Swastika” to you when wewant to say “GoodMorning” or “GoodAfternoon”. Infact to NOT say “Swastika”would be consideredvery rude in Thailand!!!” Appunto, il Suvastka = ciò che è bene = l’augurio di una vita lunga e sana. Riassumendo dagli Archetipi Alfabetici (X-Publishing 2016), il Suvàstka che chiameremo svastica, già conosciuto dalle prime civiltà terrestri, attraversa indenne il globo e le generazioni tutte fino ai giorni nostri, subendo solo in Europa, per gli evidenti motivi storici a tutti noti, una damnatio memoriae dalla II Guerra Mondiale in poi, che ne proibisce l’utilizzo in più di uno stato, tramite normative sancite per legge. Ciò premesso, lo svastica era presente in Asia ancor prima delle età dei metalli, dove tuttora rappresenta il Principio per brahmanesimo, buddismo, induismo, jainismo, shinotismo, tantrismo e altre sette minori.

In Cina, corrisponde all’ideogramma wan e significa le 10.000 cose= tutto ciò che esiste ed esiste tutto insieme nella creazione= pienezza, perfezione, pace, uguaglianza di opportunità万.

In Giappone, è il mangziou = 10.000 anni = creazione compiuta, infinito, perfezione.

In Africa, è la mano di scimmia, conosciuta anche tra i pellirossa come ruota solare = mandala (poi ripresa dal buddismo) e di cui il reperto più antico al mondo è un oggetto paleolitico scoperto nel sud del continente. In pratica, è l’immagine del Grande Spirito in cui la forma della ruota semplifica l’infinità del divino, nell’unione tra uomo e universo, come dall’esempio della ruota forata. Per le popolazioni indigene americane, era il segno dell’armonia spirituale e delle forze tra loro abbinate che regolano la vita, oltre che simbolo dei 4 punti cardinali e delle 4 piante sacre di fagiolo, mais, tabacco e zucca.

Interessante, ancor più, come lo stesso numero 4 comunque ricorra anche nelle fasi solari della giornata – alba, mezzogiorno, tramonto, sera – ma pure nelle fasi della vita umana – infanzia, gioventù, maturità, vecchiaia – e dell’alternarsi dei due solstizi ai due equinozi.

In araldica, è il nodo di Salomone ⌘ meglio noto come nodo di Bowen, frequente nei ritrovamenti paleocristiani. Forse non ve ne siete accorti, ma… chi utilizza un computer Apple, ogni volta che nella tastiera digita il tasto in basso a sinistra cmd = command (detto mela), si vede riproposto abitualmente il segno grafico del nodo di Salomone. Questo simbolo, richiamando le origini scandinave dell’intreccio dei nodi che vanno a formare semicerchi, era già in uso tra le fila dell’esercito di Saint John col nome diGorgone Loop. Proprio perché in seguito sarà utilizzato nelle cartine del Nord Europa per delineare i siti degni di interesse turistico (per questa sua particolarità di informativa iconografica), negli anni ’80 sarà scelto come uno dei tasti di comando Mac. Quando rappresentato in senso polare, lo svastica è sinistrorso, in senso solare è destrorso: ecco spiegato l’utilizzo del simbolo in doppia iconografia, cioè con i bracci che ruotano o a sinistra o a destra.

Il tempo ciclico delle 4 stagioni è inoltre raffigurato dallo svastica-Orsa-Maggiore

Primavera: è Est Sud Ovest

Estate: è Nord Ovest Sud Est

Autunno: è Ovest Nord Est

Inverno: è Sud Est Nord Ovest

In ogni parte del mondo svastica ha i lsignificato del concetto originario di idea del movimento rotatorio che è proprio della Terra che gira intorno ad un asse mobile. Per cui, tutto ciò che nasce dal movimento può perpetuarsi solo attraverso il movimento stesso: ecco, quindi, il motivo per cui lo svastica-Sole viene raffigurato sempre inclinato.

Ma il digramma più semplice a 4 punte, rappresentante con i vertici delle stesse un cerchio immaginario, è la rosa dei venti: 4 punti cardinali corrispondenti ai venti Tramontana da Nord (0°), Levante da Est (90°), Ostro da Sud (180°) e Ponente da Ovest (270°). Se poi tra questi 4 punti cardinali principali fissiamo i punti intermedi, appare automaticamente il grafico che possiamo vedere in calce e che è chiamato stella cardinale a 8 punte.

La lunghezza dei bracci della rosa dei venti varia, infatti, al variare della frequenza del vento a cui corrisponde la relativa direzione. Il suo utilizzo risale alle popolazioni agricole antiche che, per necessità di sopravvivenza, dovettero codificare la connessione imprescindibile che sussiste tra la direzione da cui soffia un determinato vento e i fenomeni naturali, quali: caldo e freddo, siccità e umidità.

Noto anche col nome di nodo infinito, nella forma primitiva, questo segno lo si ritrova in una tomba etrusca del III sec a. C. rinvenuta a Sovana di Grosseto, precisamente nell’iscrizione che riporta il nome del committente del Cavone (= una via cava sotterranea). Inoltre, nella greca del mosaico pavimentale del calidarium della Domus del Menandro, a Pompei, ma pure su sigilli a stampo delle civiltà protoasiatiche meridionali, che tra il XXVI e il IXX sec a. C. scrivevano in lingua indo (lingua non ancora decifrata della quale oggi si conoscono quasi 5000 segni).

Quanto all’aureola nella sua derivazione diretta dallo svastica-nimbo, ci interessa quella distintiva del Cristo Redentore, irradiato dalla stessa luce divina soprannaturale, così come lo videro i discepoli nella sua trasfigurazione al monte Tabor: “E si trasfigurò davanti a loro; il suo volto divenne brillante come il sole, e le sue vesti bianche come la luce”. L’aureola del Salvatore porta al suo interno la croce ed è tipica anche del Cristo Pantocratore, colui che tutto crea, di Gesù Bambino Redentore, dell’Essente che a Mosè risponde “Io sono colui che sono”. Le prime tracce del nimbo/aureola sul capo di Cristo compaiono sugli affreschi catacombali del IV secolo, così come testimonia la chiesa di San Callisto in Roma. Due secoli dopo, lo stesso nimbo subirà l’usanza di essere contrassegnato anche con una croce all’interno del disco solare, oppure con un agnello che sostituisce la figura del Dio Salvatore. Sarà il tempo a concedere lo stesso privilegio anche alla Madonna, prima, e agli apostoli poi, mentre nella realtà dei fatti tale condizione di privilegiata appartenenza a Cristo è rappresentata dalla tonsura monacale.

Certo è che gran parte della fortuna di tale iconografia la si deve anche al ἘνΤούτῳΝίκα = in hoc signo vinces.

Varie le narrazioni in merito alla genesidell’episodio, delle quali quella accreditata a furor di popolo sembrerebbe questa: durante i preparativi della battaglia contro il nemico Massenzio, Costantino e il proprio esercito avrebbero assistito a un evento prodigioso per cui sarebbe apparsa in cielo all’interno del sole, quindi in pieno mezzogiorno, la scritta = ἘνΤούτῳΝίκα = in questo segno vincerai. In effetti, così avvenne e Costantino, sconfitto Massenzio il 28 ottobre 312 a Saxa Rubra, entrò trionfalmente in Roma e fu finalmente proclamato imperatore unico d’Occidente.L’idea concettuale della locuzione in questo segno vincerai era rappresentata, infatti, dalla croce all’interno di un sole splendente a significare appunto ciò:se abbraccerai la fede di Cristo avrai anche onori militari.

Al fine di evitare conflitti di prestigio, partendo dal concetto di cooperazione

= azione condivisa di più personeche hanno come scopo

il perseguimento di una finalità comune

fu studiata la forma per la creazione della famosa Tavola Rotonda del ciclo arturiano, conosciuto anche come Materia Britannica, cioè il ciclo di leggende celtiche, riguardanti per lo più l’epopea di re Artù. In una tavola così disegnata, in effetti, nessuno avrebbe potuto occupare un posto di predominanza rispetto agli altri, tanto meno il re che, in tal modo, si equiparava ai propri cavalieri – a tutti, nessuno escluso – in ogni scelta da prendere. A conferma, infatti, che mancassero i posti del capotavola.

Se re Artù nasce nel 475 e muore nel 537 in Gran Bretagna, in Irlanda abbiamo una coeva religiosa cristiana, badessa e poi santa, considerata la prosecutrice dell’opera di san Patrizio: santa Brigida. A noi, qui, riguarda quanto allo svastica-croce con cui viene ritratta in tutte le effigi antiche e moderne. Narra la leggenda che la santa fu chiamata al capezzale di un moribondo al fine di convincerlo alla conversione, almeno in punto di morte. Lei, allora, si sedette al fianco del suo letto e, pregando, iniziò a intrecciare una croce con dei giunchi che aveva trovato abbandonati lì in terra, sul pavimento della camera. Il moribondo, incuriosito, le chiese cosa stesse facendo. Iniziò quindi una conversazione tra i due, che si concluse con la conversione dell’uomo: il quale chiese, addirittura, il battesimo. Da quel giorno, un po’ come avviene per le nostre palme, il 1° febbraio è usanza per i cattolici irlandesi di bruciare la croce a forma di svastica (in giunco o in paglia o in legno) dell’anno precedente e costruirne una nuova, così nell’imperituro.

    Costanza Bondi e Marco Morucci Per info ed acquisto del testo: http://www.booxtore.it/index.asp?itemId=3467

La “prospettiva eurasiatica” di Franz Altheim – Claudio Mutti

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Il lettore italiano non specializzato ha potuto fare conoscenza con una parte della produzione di Franz Altheim (1898-1976) – latinista, storico del mondo antico, archeologo – soltanto agli inizi degli anni Sessanta, quando furono tradotti Der unbesiegte Gott1 e Gesicht vom Abend und Morgen: Von der Antike zum Mittelalter2. Di questo studioso, infatti, negli anni precedenti in Italia era apparso ben poco. Eppure Franz Altheim, allievo di Walter F. Otto e sodale di Leo Frobenius e Károly (Karl) Kerényi, fu uno dei “primi e più autorevoli interpreti delle iscrizioni rupestri della Val Camonica, databili fra il IV e il I secolo a.C., ma attestanti la presenza di una cultura indoeuropea più antica”3, sicché sarebbe stato normale che nel nostro paese venissero resi accessibili anche gli studi nei quali si trovano esposti i risultati delle sue ricerche su tali incisioni, documento della migrazione transalpina dei Latini: Vom Ursprung der Runen4Italien und die dorische Wanderung5Italien und Rom6Geschichte der lateinischen Sprache7.

A occuparsi di Altheim, fin dagli anni Quaranta, fu Julius Evola, che recensì Italien und die dorische Wanderung in maniera tempestiva ed “entusiastica”8, segnalandone l’autore anche per la sua “pregevolissima e organica Storia della religione romana9 e lo fece collaborare al “Diorama Filosofico”, la pagina culturale del quotidiano cremonese “Il Regime Fascista”10. Il medesimo Evola, che aveva conosciuto l’autore di Italien und die dorische Wanderung all’epoca in cui questi collaborava col Deutsches Ahnenerbe – verosimilmente a Halle, dove una sua conferenza “certo aveva riscosso l’immediata simpatia del prof. Altheim”11 – a metà degli anni Cinquanta pubblicò ancora qualcosa dello studioso tedesco12 e inserì nel piano editoriale dei Fratelli Bocca la Römische Religionsgeschichte13, che però poté apparire in italiano, presso un altro editore, solo quarant’anni più tardi14.

Tornando allo studio sulle incisioni della Val Camonica, ricordiamo che in esse Altheim aveva riscontrato somiglianze formali con l’arte rupestre del Bohuslän, nella Svezia meridionale, che nel 1936 era oggetto di studio da parte di una missione del Deutsches Ahnenerbe15 guidata da Herman Wirth (1885-1981). Commentando alcuni brani di Italien und Rom da lui stesso tradotti, Adriano Romualdi (1940-1973) sintetizza la tesi di Altheim nei termini seguenti: “All’Altheim preme di sottolineare il legame stilistico che avvince il Nord e il Sud lungo un asse che segna la direttrice di marcia dei campi d’urne. È un asse che lega insieme mondo germanico e mondo latino da una parte ma che, dall’altra, si riallaccia alla Grecia dorica”16. Ma i graffiti della Val Camonica rinviano ad orizzonti più ampi: la figura del carro a quattro ruote ad uno o più piani trainato da cavalli è un prodotto di quello che Altheim chiama “il mondo cavalleresco euroasiatico”17, poiché un analogo tipo di carro è attestato anche in Crimea e nella Persia degli Achemenidi. Dal medesimo ambito culturale provengono anche altri elementi che compaiono in Italia assieme alla tecnica equestre, come “sonagli e piastrine di bronzo, pendenti e campanelle (la cui origine, attraverso la civiltà di Halstatt, risale allo sciamanismo delle tribù di cavalieri euroasiatici) (…) Anche il mito dei bambini-lupo, impersonato a Roma da Romolo e Remo, deriva alla fine dal mondo sciamanico”18.

Appare evidente che la ricerca storica di Altheim si indirizza verso un “allargamento degli orizzonti in prospettiva eurasiatica”19, obiettivo da lui esplicitamente enunciato in un saggio del 1939: “Noi dobbiamo abituarci a pensare non a una cultura, ma alle culture, agli imperi e ai grandi spazi”20. D’altronde, se già l’indagine della protostoria europea ci rimanda ad uno scenario geografico più ampio, la necessità di riferimento alla dimensione eurasiatica diventa ancor più evidente qualora si vogliano considerare i processi storici che segnarono il passaggio dall’età antica a quella medioevale. Così Altheim, al pari di altri studiosi, come ad esempio l’ungherese András (Andreas) Alföldi (1895-1991), ci invita a “guardare oltre le frontiere dell’Impero, verso quelle tribù nomadi di origine non germanica – Sarmati, Unni, Slavi – che direttamente o indirettamente contribuirono a cambiare il modo di vivere dell’Europa dopo il secolo III d. C.”21. Il mondo antico infatti venne investito da un unico grande movimento che “prese l’avvio tra i cavalieri nomadi delle steppe euro-asiatiche, abbracciò contemporaneamente imperi di antica civiltà come il Siam e la Cina e trascinò dietro a sé i Germani dell’est; invase la penisola arabica ed assunse la sua forma definitiva nell’Africa del Nord, sino a raggiungere alla fine l’impero romano”22.

A questa epoca di crisi, nella quale appare “il volto della sera e del mattino”, si riferiscono gli studi di Altheim sugli Unni23. Dopo la pubblicazione di Hunnische Runen, in cui vengono identificate come unne le iscrizioni runiche degli oggetti d’oro puro ritrovati nel 1791 nella località ungherese di Nagyszentmiklós (oggi Sânnicolau Mare, in Romania, a sud del corso del Maros e a nord di Viminacium), vede la luceAttila und die Hunnen. Richiamando espressamente la prospettiva storiografica di Polibio, che abbraccia l’ecumene unificata politicamente da Roma – “tutto lo spazio compreso tra le Colonne d’Ercole e le porte dell’India o le steppe dell’Asia centrale”24 -, Altheim indica alla storiografia odierna l’esigenza di tener conto della sostanziale unità del continente eurasiatico, paradossalmente evidenziata dalle recenti vicende del secondo conflitto mondiale. Quest’ultimo infatti, “coi suoi fronti in Europa, in Africa, sul Pacifico e in Asia, ha singolarmente evidenziato a ciascuno l’unità senza barriere di tutto ciò che in questo spazio rientra nel divenire storico”25. Così gli Unni, protagonisti di una cavalcata transeurasiatica iniziata dalle sponde del Lago Baikal e terminata ai Campi Catalauni, se in Asia condizionarono per secoli il destino dell’Impero di Mezzo, in Europa aprirono la strada alle invasioni e all’insediamento di tutta una serie di popoli affini: Avari, Ungari, Bulgari, Cazari, Cumani, Peceneghi. “Il coronamento fu l’avanzata dei Mongoli. La storia degli Unni prefigura in maniera esemplare i destini degli altri popoli turchi”26. In ogni caso, la Volkerwanderung unna diede l’avvio a tutta una catena di eventi storici: “l’inizio delle invasioni, la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, il tentativo di fondere in unità politica e culturale i popoli di cavalieri appena giunti ed i Germani, gl’inizi dell’epopea germanica e il risveglio di un raggruppamento romano-germanico”27.

Alla figura di Attila, il condottiero d’origine asiatica che fonda un impero in Europa, fa speculare riscontro la figura di Alessandro Magno, il discendente di Achille che porta la civiltà greca fino all’Indo, al Syr-Darya, ad Assuan ed al golfo di Aden, inaugurando una nuova fase nella storia dell’Eurasia. La monografia su Alessandro28 esordisce così: “Alessandro e l’Asia rappresentano, nella storia universale, due poli che, in apparenza, non hanno nulla in comune. (…) Tuttavia Alessandro è inconcepibile senza l’Asia. L’uomo d’azione aveva bisogno di un campo d’attività; era necessaria una materia ad un uomo che era nato per plasmare. Quel che più importa, l’Asia non ha mai dimenticato il conquistatore che con un gesto appassionato si è impadronito di lei: (…) il seme da lui gettato nel fertile suolo di questo continente doveva continuare a vivere”29. Questo libro di Altheim non si limita perciò a rievocare la campagna di conquista del sovrano macedone, ma delinea soprattutto la storia di un retaggio spirituale trasmesso all’Oriente. Infatti “l’ellenismo asiatico non significa soltanto una nuova tappa, più grande, nella marcia trionfale dell’ellenismo: significa anche l’ellenizzazione dei popoli dell’Asia centrale. (…) Fino al Medio Evo, la scrittura greca e le forme greche furono elementi costitutivi delle civiltà asiatiche che sarebbero nate su un terreno così fecondato. Nessun intervento esterno penetrò mai così in profondità nella vita dell’Oriente”30.

Né Altheim trascura di considerare il punto di vista geopolitico, presentandoci l’impero di Alessandro come il tentativo di collegare i paesi rivieraschi del Mediterraneo orientale con quelli che costeggiano il Golfo Persico e l’Oceano Indiano: “Come più tardi i Califfi, così Alessandro si sarebbe trovato davanti alla necessità di unire un impero marittimo sudeuropeo ad un impero marittimo sudasiatico per mezzo di un ponte terrestre: l’Iraq”31.

Mentre il libro su Attila e quello su Alessandro non sono mai stati tradotti in Italia, Der unbesiegte Gottha avuto fino ad oggi due diverse edizioni italiane. La prima, quella di Feltrinelli, fu preceduta da una recensione dell’edizione tedesca scritta da Evola per il “Roma” nel 1957, in un periodo di intensi contatti fra i due studiosi32. Evola coglie nello studio di Altheim (apparso in quello stesso anno nella collana enciclopedica dell’editore Rowohlt di Amburgo) la dimostrazione del fatto che “l’irruzione di un elemento straniero a Roma”, nella fattispecie la graduale penetrazione di un culto solare “già molto diffuso fra i popoli del Mediterraneo orientale, in ispecie in Siria”, non significa affatto che Roma “venne meno alle sue più strette tradizioni per accogliere e adottare culti, costumi e dèi stranieri”. Al contrario: dopo essere stato depurato dei suoi tratti più spuri ed equivoci, il culto nato fra le popolazioni nomadi dell’Arabia diviene un culto romano di Stato e il dio Sole “si confonde col dio più caratteristico della pura tradizione romana, Giove capitolino”33. Questo fatto, che René Guénon avrebbe potuto definire nei termini di “un provvidenziale intervento dell’Oriente” a favore di Roma, poté verificarsi per la ragione che il culto solare della tarda antichità romana rappresentava la riemergenza di una comune eredità primordiale.

Ma la teologia solare elaborata dai neoplatonici, a parere di Altheim, non è a sua volta priva di relazione col monoteismo islamico. “Il messaggio di Maometto – egli scrive – era infatti incentrato sul concetto di unità ed escludeva che la divinità potesse avere un ‘compagno’, ricalcando così le orme degli antecedenti e conterranei Neoplatonici e Monofisiti. L’impeto religioso del Profeta riuscì quindi a far emergere con accresciuta forza ciò che prima di lui altri avevano sentito e anelato”34.

   Note:

1. F. Altheim, Der unbesiegte Gott, Rowohlt Verlag GmbH, Reinbek bei Hamburg 1957. Prima ed. it.: Il dio invitto, Feltrinelli, Milano 1960. Seconda edizione: Deus invictus. Le religioni e la fine del mondo antico, Introduzione di Giovanni Casadio, Postfazione di Luciano Albanese, Edizioni Mediterranee, Roma 2007.

2. F. Altheim, Gesicht vom Abend und Morgen. Von der Antike zum Mittelalter, Fischer Bücherei, Frankfurt am Main – Hamburg 1955. Ed. it.: Dall’Antichità al Medioevo. Il volto della sera e del mattino, Sansoni, Firenze 1961.

3. E. Montanari, Introduzione a Storia della religione romana, Settimo Sigillo, Roma 1996, p. 15. (Presso il medesimo editore: F. Altheim, Romanzo e decadenza, Settimo Sigillo, Roma 1995).

4. F. Altheim – E. Trautmann, Vom Ursprung der Runen, Klostermann, Frankfurt am Main 1939.

5. F. Altheim – E. Trautmann, Italien und die dorische Wanderung, Pantheon, Amsterdam 1940.

6. F. Altheim, Italien und Rom (ristampa di Italien und die dorische Wanderung del 1940), 2 voll., Pantheon, Amsterdam-Leipzig 1941; 2a ed. 1943; 3a ed. 1944.

7. F. Altheim, Geschichte der lateinischen Sprache, Klostermann, Frankfurt am Main 1951.

8. A. Branwen, Ultima Thule. Julius Evola e Herman Wirth, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2007, p. 89.

9. J. Evola, rec. di Italien und die dorische Wanderung, “Bibliografia Fascista”, XVI, 2, Febbraio 1941; ora in: J. Evola, Esplorazioni e disamine. Gli scritti di “Bibliografia Fascista”, vol. II, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1995, p. 108. Oltre a questa recensione ne era già apparsa un’altra l’anno precedente: J. Evola, Ricerche sulle origini. La migrazione “dorica” in Italia, “Il Regime Fascista”, XV, 1 novembre 1940, p. 3; ora in: J. Evola, Il “mistero iperboreo”. Scritti sugli Indoeuropei 1934-1970, Fondazione Julius Evola, Roma 2002, pp. 53-55.

10. F. Altheim, Sulla concezione romana del divino, “Il Regime Fascista”, 26 luglio 1942.

11. G. Casadio, Franz Altheim: dalla storia di Roma alla storia universale, introduzione a F. Altheim, Deus invictus, cit., p. 28.

12. Per esempio: F. Altheim, Cesare, “Monarchia”, 1, Aprile 1956; ora in: J. Evola – F. Altheim, La religione di Cesare, “Quaderni del Veltro”, Edizioni di Ar, Padova 1977.

13. ” (…) dell’opera principale [di Altheim] si sta preparando una traduzione presso l’editore Bocca” (J. Evola, “Italia” volle dire la “terra dei tori”?, “Roma”, 17 giugno 1955; ora in: J. Evola, I testi del Roma, Edizioni di Ar, Padova 2008, pp. 238-239).

14. F. Altheim, Storia della religione romana, Settimo Sigillo, Roma 1996 (ed. tedesca: Walter de Gruyter, Berlin 1956). L’edizione segnalata da Evola in “Bibliografia Fascista” è quella in 3 voll. uscita a Berlino fra il 1931 e il 1933; l’edizione in corso di traduzione nel 1955 era verosimilmente quella in 2 voll. uscita a Baden-Baden nel 1951-1953.

15. Sulle attività dell’Ahnenerbe, cfr. C. Mutti, Le SS in Tibet, Effepi, Genova 2011, pp. 5-9. Per quanto in particolare riguarda il sostegno dato dall’Ahnenerbe alle ricerche di Altheim, cfr. V. Losemann, I “Dioscuri”: Franz Altheim e Karl Kerényi. Tappe di una amicizia, in: AA. VV., Károly Kerényi: incontro con il divino, a cura di L. Arcella, Settimo Sigillo, Roma 1999, pp. 17-28. Al rapporto di Altheim con l’Ahnenerbe sono dedicate diverse pagine di una monografia ad effetto, d’impronta piuttosto giornalistica, originariamente destinata ad un pubblico nordamericano: H. Pringle, Il piano occulto. La setta segreta delle SS e la ricerca della razza ariana, Lindau, Torino 2007.

16. A. Romualdi, Franz Altheim e le origini di Roma, in: Gli Indoeuropei. Origini e migrazioni, Edizioni di Ar, Padova 2004, p. 165.

17. F. Altheim, Storia della religione romana, cit., p. 30.

18. F. Altheim, Storia della religione romana, cit., pp. 29-30.

19. G. Casadio, Franz Altheim: dalla storia di Roma alla storia universale, cit., p. 15.

20. F. Altheim, Die Soldatenkaiser, Klostermann, Frankfurt am Main, 1939, p. 12.

21. A. Momigliano, Il cristianesimo e la decadenza dell’Impero romano, introduzione a: AA. VV., Il conflitto tra paganesimo ecristianesimo nel secolo IV, Einaudi, Torino 1968, p. 8.

22. F. Altheim, Dall’Antichità al Medioevo. Il volto della sera e del mattino, cit., p. 10.

23. F. Altheim, Hunnische Runen, Niemeyer, Halle 1948. Attila und die Hunnen, Verlag für Kunst und Wissenschaft, Baden-Baden 1951. F. Altheim – R. Stiehl, Das erste Auftreten der Hunnen. Das Alter der Jesaja-rolle. Neue Urkunde aus Dura-Europos, Verlag für Kunst und Wissenschaft, Baden-Baden 1953. F. Altheim – H. W. Haussig, Die Hunnen in Osteuropa, Verlag für Kunst und Wissenschaft, Baden-Baden 1958. F. Altheim et alii, Geschichte der Hunnen, 5 voll., De Gruyter, Berlin 1959-1962.

24. F. Altheim, Attila et les Huns, Payot, Paris 1952, p. 5.

25. F. Altheim, Attila et les Huns, cit., p. 6.

26. F. Altheim, Attila et les Huns, cit., p. 225.

27. F. Altheim, Attila et les Huns, cit., p. 6.

28. F. Altheim, Alexander und Asien. Geschichte eines geistigen Erbes, Niemeyer, Tübingen 1953.

29. F. Altheim, Alexandre et l’Asie. Histoire d’un legs spirituel, Payot, Paris 1954, p. 5.

30. F. Altheim, Alexandre et l’Asie. Histoire d’un legs spirituel, cit., p. 9.

31. F. Altheim, Alexandre et l’AsieHistoire d’un legs spirituel, cit., p. 157.

32. Tra il 1954 e il 1958 Evola inviò ad Altheim diciotto lettere, attualmente conservate in archivi privati.

33. J. Evola, Nuove esplorazioni della Romanità. Il Dio invitto, “Roma”, 24 giugno 1957; ora in: J. Evola, I testi del Roma, cit., pp. 317-319.

34. F. Altheim, Deus invictus. Le religioni e la fine del mondo antico, cit., pp. 115-116.

  Claudio Mutti  

La Terra Guasta. Thomas S. Eliot poeta cristiano (1^ parte) – Roberto Pecchioli

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A conclusione di un processo avviato con l’illuminismo, antroposofia della Dea Ragione, la civiltà europea si è organizzata senza Dio, se non contro di lui. Dio è morto, come proclamò tra angoscia e aspettativa dell’Oltreuomo Friedrich Nietzsche. La nuova umanità ha dapprima messo sull’altare se stessa, quindi la Merce, il Consumo, succedanei del vero demiurgo, il danaro. Estenuato, sull’orlo di una crisi di nervi, l’ateo post moderno razionale ha poi finito per intronizzare il Nulla. Di qui disperazione, corsa all’effimero, smarrimento, perdita di direzione.

Specchio di questa perdita è l’arte. Spogliata di ogni trascendenza, si è dapprima centrata sull’uomo, per stancarsene presto, come dimostrano le arti figurative. La letteratura, in particolare la poesia, dialogo costante con il totalmente altro, sguardo gettato al di là dell’orizzonte, ricerca di verità, non è sfuggita alla regola della modernità, contribuendo a disseccare le fonti dello spirito, respingendo ogni possibilità di dialogo con l’Eterno. Tacere l’indicibile, l’incommensurabile, imperativo “logico” prescritto da Wittgenstein, è diventato la regola.

Tra i pochi che si sono sottratti al materialismo, condotta obbligata verso l’esito nichilista, fu uno dei giganti della poesia del Novecento, Thomas Stearns Eliot. Nato nel 1888, americano presto approdato in Inghilterra, patria dell’anima e terra degli antenati, ha percorso un itinerario intellettuale opposto a quello della maggior parte degli artisti del secolo. L’intera sua opera può dirsi cristiana, anche se la conversione ufficiale all’anglo cattolicesimo giunse alla metà degli anni 20, successiva al suo capolavoro poetico, La terra desolata, che è del 1922, agli Uomini Vuoti (1925) e alla prima prestazione giovanile, il Prufrock, del 1917.

Profondamente religiosi sono i suoi drammi teatrali, Assassinio nella cattedrale, sulla vita e morte di Thomas Becket, ministro del re inglese Enrico II, e Cocktail Party, ultima importante opera di Eliot (1950). Un altro grande componimento, pur con esiti artistici inferiori alle opere dianzi citate, furono i Cori della Rocca, scritti nel 1934 su richiesta della chiesa inglese per promuovere la costruzione di nuovi edifici religiosi nelle periferie operaie.  Amico di Ezra Pound fin dal 1915, esponente dell’“imagismo’” che rinnovò le lettere britanniche, considerò il poeta dei Cantos come suo “miglior fabbro”, dal verso dantesco dedicato al poeta provenzale Arnaut Daniel, creatore del linguaggio poetico dei trovatori. A Pound, Eliot dedicò la Terra desolata, poema rimaneggiato nella forma e largamente tagliato dall’amico ed estimatore.

Il profondo amore per Dante e il Medioevo italiano è alla base del titolo del poema, The waste land, sempre tradotto come “terra desolata”, ma probabilmente ispirato da un verso dantesco: “in mezzo mar siede un paese guasto (Inf. XIV, verso 94). Guasto come il senso delle disperata accidia che pervade l’opera. Guasto come il mondo intero, privo di significato, in cui al crollo dei valori tradizionali non segue la nascita di nuovi principi. Un mondo di morti viventi, che il poeta, già interiormente cristiano, coglie nel momento dell’esodo, dell’attesa indistinta di un secondo avvento. Significativo dello squallore che diventa guasto è il legame tra la Terra desolata e il poema premonitore del genio eliotiano, il Canto d’amore di J. Alfred Prufrock, in cui l’io narrante è il poeta ventottenne che parla di sé come di un vecchio senza speranze, disilluso, in bilico tra autoironia e disperazione, sino a prorompere nel verso “No, non sono il principe Amleto”.

Il mondo guasto è lo stesso sperimentato nella giovinezza spesa in un’atmosfera di religiosità falsamente puritana, mascherata nell’esteriorità degli atti, soddisfatta del successo mondano, di cui era espressione il fratello maggiore. In radicale contrasto con quell’ambiente, alla ricerca di valori permanenti, il giovane Eliot sembrò trovarli nell’opera di un filosofo inglese del tempo, Francis H. Bradley, avversario dell’utilitarismo, dell’edonismo e del formalismo kantiano, convinto dell’insussistenza di valori individuali fuori dalla comunità.

Dalla fine degli anni 10, Eliot scrisse diverse recensioni di teologia e di indagine religiosa per il periodico International Journal of Ethics, a comprova di come la ricerca spirituale fosse presente nell’animo suo ben prima della conversione. Simbolo di questa fase di passaggio dal vuoto di un mondo guasto alla lenta consapevolezza salvifica della verità cristiana è il personaggio di Sweeney, figura tragica e insieme grigia, immagine dell’uomo medio mediocre, con la sua miseria morale, l’assenza di principi. Sweeney vive squallide avventure, il suo stesso nome richiama il maiale (swine, suino), la sua esperienza si risolve in un nefasto, meccanico senso della vita: “nascita, e copula, e morte”.

Il momento di svolta di Eliot avviene con la composizione del Gerontion, in cui il tema della rinascita, dell’uscita dal mondo guasto si definisce nell’attesa della pioggia, l’acqua che salva, purifica, rigenera: “Eccomi qui, vecchio in un mese arido/mentre un ragazzo mi legge, aspettando la pioggia.”

E’ la medesima attesa di un’intera civiltà che pervade e conclude la Terra desolata, preludio di una poetica che, dopo la conversione, si sarebbe trasformata progressivamente in meditazione religiosa. Esplicita diverrà la condanna per la fredda, materialistica intellettualità del deismo in cui crebbe, in favore di una religiosità fondata sull’incarnazione, la rivelazione e il riconoscimento della limitatezza dell’essere umano. Negli anni 30 Eliot accettò due commissioni dal vescovo di Chichester, che portarono ai Cori della Rocca, una sorta di sacra rappresentazione medievale dagli esiti poetici diseguali, e alla pièce teatrale Assassinio nella cattedrale. La vicenda di Thomas Becket, martire del Medioevo, arcivescovo ucciso da sicari reali nella sua chiesa di Canterbury fu concepita come una tragedia greca in era cristiana, con le donne in funzione di coro e l’immagine del Purgatorio dantesco.

Tutta la cultura di Eliot fu volta a mettere in relazione, legare, presentare idee e immagini nitide, pure, delineate, secondo la prassi letteraria dell’imagismo che egli chiamò “correlativo oggettivo”. La sua ricerca, letteraria, morale, filosofica, spirituale avanzò negli anni sino a un verso rivelatore di East Coker, uno dei Quattro Quartetti, l’ultima opera capitale del poeta: “I vecchi dovrebbero essere esploratori”.

Viene alla memoria un verso leopardiano della Quiete dopo la tempesta: “e chiaro nella valle il fiume appare.” Il cammino di Eliot ci sembra simile: nel Prufrock ogni cosa è indistinta, banale la condizione del protagonista, drammatico il grigiore morale della vita di un’umanità divenuta certa dell’inesistenza di altri universi, insostenibile la ripetitività dei gesti, delle azioni, la noia inevitabile dell’annegamento dentro la realtà, espresse anche nell’iterazione delle frasi. “Perché già tutte le ho conosciute, conosciute tutte. / Ho conosciuto tutte le sere, le mattine, i pomeriggi/ Ho misurato la mia vita con cucchiaini da caffè;// E ho conosciuto tutti gli occhi, conosciuti tutti. / E ho già conosciuto le braccia, conosciute tutte.” La contemporaneità, sembra dirci Eliot, si risolve in noia, guasto, desolazione. Non appare, dopo la tempesta, il fiume sereno della fede nutrito di speranza.

Parla in Prufrock l’uomo contemporaneo, animale ammaestrato che corre nella gabbia, costretto a esperienze sempre nuove, forzato a alzare continuamente l’asticella, prigioniero di una corsa per sfuggire il fantasma del Nulla. Uomini alla deriva come detriti, la superbia che ammutolisce di fronte al nichilismo. Nella Volontà di potenza (che ormai sfuma nel suo contrario) Nietzsche così definisce il nichilismo, già analizzato nel personaggio di Bazarov da Turgenev in Padri e figli: “significa che i valori supremi si svalutano. Manca lo scopo. Manca la risposta al perché. Il nichilismo radicale è la convinzione di un’assoluta insostenibilità dell’esistenza.” Il XX secolo, e con più accanimento il primo tratto del XXI tacciono sui perché, li escludono accanitamente, si accontentano di scoprire le leggi fisiche della natura per utilizzarle a scopo di dominio.

Non vi è chi non veda l’aridità di un mondo siffatto, ricacciato talvolta nella superstizione come antidoto alla perdita dei valori. Nella Terra desolata tale è il ruolo di Madame Sosotris, la chiromante raffreddata ed imbrogliona, chiamata “la donna più saggia d’Europa”. La metafora della Terra desolata ricalca e chiarisce la lirica Gerontion, il tema dell’attesa di pioggia, la rigenerazione, l’avvento, insieme con la necessità di attraversare il presente per ricercare la salvezza nel Tempo.

Desolazione è innanzitutto sterilità. Il poeta ricorre alla leggenda del Graal, alla figura del Re Pescatore, reso impotente da una mutilazione o dalla malattia. La maledizione sarà scacciata solo all’arrivo di un cavaliere che chiederà il senso dei vari simboli che gli vengono mostrati. C’è un passaggio dalla sterilità fisica a quella spirituale che Eliot non sa ancora risolvere, ma diventa preludio della rigenerazione a seguito della (ri)scoperta del senso cristiano della vita, raggiunta nelle opere successive. Nella Terra Desolata centrale è la figura di Tiresia, l’indovino cieco, la concitazione di un incontro che si dispiegherà nell’aspettativa finale di rigenerazione, anticipata nell’allegoria della “morte per acqua”, cui è affidata la funzione di evidenziare la forza del pentimento (l’acqua che lava la colpa) indiscutibilmente cristiana.  Solo aspettativa, tuttavia, giacché la Terra desolata ha un finale sospeso, la speranza non è ancora approdata alla certezza: “Riuscirò alla fine a porre ordine nelle mie terre?”.

La circolarità è forse la cifra più netta del pensiero di Eliot; si respira un’aspirazione alla nascita, al ritorno, la formazione di una spiritualità nella desolazione sacrificale del deserto. “Prega per noi ora e nell’ ora della nostra nascita.” Particolare è l’incipit della Terra desolata, una sorta di maledizione alla primavera (Aprile è il mese più crudele, genera lillà da terra morta), sino all’elogio inaspettato dell’inverno, che “ci mantenne al caldo, ottuse con immemore neve la terra, nutrì con secchi tuberi una vita misera.” Salta agli occhi l’analogia con l’Europa orientale e la Russia, il cui inverno di materialismo ateo e collettivista ha paradossalmente conservato lo spirito profondo dei popoli, sino alla rigenerazione successiva, al contrario dell’Occidente guasto, irrimediabilmente ferito da un altro materialismo, quello consumista e individualista.

La speranza, tuttavia, balugina tra i frammenti della desolazione, in cui, simile al risorto di Emmaus, qualcuno ci affianca silenzioso: “chi è il terzo che sempre ci cammina a fianco? / Se io conto, ci siamo soltanto io e tu insieme /Ma se io guardo innanzi a noi per la strada bianca/ c’ è sempre un altro che ti cammina a fianco. “Degli stessi mesi della Terra desolata è un’altra lirica, Gli uomini vuoti. Non c’è più lo sguardo che vede l’Altro, ma riaffiora l’uomo del presente corrotto, vuoto, impagliato. “Siamo gli uomini vuoti/ siamo gli uomini impagliati / che appoggiano l’un l’altro/ la testa piena di paglia” Un’umanità transumante senza forma, ombre senza colore, paralizzate, dai gesti meccanici.

Colpa della vita condotta nella dialettica del profitto e della perdita, la triste partita doppia tesa al conseguimento dell’Avere che li ha privati dell’anima. Il corpo non è che un guscio sostenuto con i puntelli dell’impagliatura, ovvero i riti, i miti, le sciocche credenze della società guasta. Sono venuti meno gli occhi, il mezzo per stabilire la conoscenza diretta del mondo, e di sé per mezzo del mondo. Nell’ultima parte, un barlume di speranza riappare, ma resta un girotondo, poiché “fra il gesto è l’atto cade l’Ombra, perché Tuo è il Regno”, invisibile agli uomini vuoti, impagliati, senza occhi, lontani dalla trascendenza, incapaci di vedere immersi nella greppia quotidiana. Il poema termina con una lucida epigrafe della modernità, un verso ripetuto tre volte: “E’ questo il modo in cui il mondo finisce/ non già con uno schianto ma con un piagnisteo.”

L’itinerario di Eliot ha molto in comune con un opera assai popolare della letteratura inglese, quella sorta di preghiera penitenziale che è il Viaggio del Pellegrino di John Bunyan, contemporaneo di Milton. Tutta l’opera successiva è impregnata della fede riconquistata, a partire dal colto Animula del 1930, amplificazione del canto XIV del Purgatorio, in cui Marco Lombardo prende posizione sul tema della libertà e del libero arbitrio, ricordando vigorosamente le responsabilità umane, non divine delle colpe degli uomini.

Un discorso a parte meritano i Cori della Rocca, spesso trascurati dalla critica, l’opera militante dell’intellettuale cristiano. Come nella tragedia greca, essenziale è il ruolo del coro, contrappunto e voce morale di un’epoca che si è liberata di Dio. L’invenzione infinita, l’esperimento infinito, portano conoscenza del moto, non dell’immobilità; conoscenza del linguaggio, ma non del silenzio. Conoscenza delle parole e ignoranza del Verbo. “Tutta la nostra conoscenza ci porta più vicini alla nostra ignoranza”. Pure, gli uomini delle periferie cui si rivolge Eliot, non ne vogliono sapere: abbiamo troppe chiese e troppo poche osterie. La società si è costruita su valori di individualismo estremo, che hanno condotto alla perdita di ogni senso di comunione, perfino di convivenza e vicinato. L’estraneità degli alveari urbani e suburbani ci frusta e Eliot si chiede: Ma voi avete edificato bene, che ora sedete smarriti in una casa in rovina?

In un coro successivo, si celebra la ricostruzione di Gerusalemme sotto la dominazione persiana, “con una spada in mano e la cazzuola in un’altra”. La vita è lotta, dunque, innanzitutto nella dimensione spirituale, dimenticata la quale l’umanità smarrisce se stessa: “Là dove non c’è tempio non vi saranno dimore. / Sebbene abbiate rifugi e istituzioni/ alloggi precari dove si paga l’affitto.” Il settimo coro enuncia una verità drammatica, peculiare del mondo contemporaneo. Gli uomini evitano le scelte, né accettano né negano Dio, semplicemente lo ignorano. Hanno spostato l’oggetto dell’adorazione, il Denaro, il Potere, e prima la Classe o la Razza. C’è una terzina potente e indignata nel settimo coro: “quando la Chiesa non è più considerata, e neanche contrastata, e gli uomini hanno dimenticato tutti gli dei, salvo l’Usura, la Lussuria e il Potere”.

Folgorante è anche il giudizio sul presente: gli uomini d’oggi non “deporranno la croce, perché mai l’assumeranno. “E comunque, la Chiesa, la Rocca, ma anche la Straniera, dov’è? La risposta di Eliot è un’angosciosa domanda su cui meditò Luigi Giussani: è l’umanità che ha abbandonato la chiesa, o è la chiesa che ha abbandonato l’umanità? Deserto e vuoto, e tenebre sopra la faccia dell’abisso. Ma la vita si rigenera, si ricostruisce, sempre nascono nuovi edifici. La conclusione della Rocca è quanto di più religioso sia stato scritto da un poeta nell’ultimo secolo: “e noi ti ringraziamo che la Tenebra ricordi a noi la luce, o Luce invisibile”. Purché la caverna di Platone non abbaia completamento accecato gli uomini vuoti, gli uomini impagliati.

L’intera opera di Eliot è attraversata dalla certezza che vi è un ordine oltre la dissoluzione, il cui culmine poetico sono i Quattro Quartetti, una successione di meditazioni teologiche e cosmologiche. Trovata la fede, la ricerca procede sui suoi fondamenti, rivisitando i luoghi significativi per il poeta, inseriti nel tempo e nello spazio concreto, se davvero vuole comprendere il senso della propria presenza del mondo, concepirne la permanenza fuori dallo spazio e dal tempo. Un’operazione assai diversa dalla constatazione della “gettatezza” (geworfenheit) esistenziale di un Martin Heidegger. “Essere consapevoli significa non essere nel tempo/Però solo nel tempo può l’attimo nel roseto / …/ e essere ricordato. “

La profondità dei Quartetti (intitolati a luoghi legati alla vita del poeta) muove dall’indagine sulle contrapposte filosofie di Eraclito e Parmenide. Per l’uno, l’essenza delle cose è il divenire, per l’altro il reale “è”, poiché se fu non è, e così non è se dovrà essere in futuro. (Frammenti). In Eliot la soluzione è nella bellezza dell’arte, la quale, pur inserita nel tempo, è immagine dell’eterno, misura ordinatrice, non esoterica ma non immediatamente rivelata, intuita, attinta con occhi immateriali. Un altro tema cui non è estranea la fede è il ritorno, il compimento del ciclo, tanto in termini spirituali che materiali.

Ne è simbolo il Quartetto East Coker, dal nome del villaggio inglese da cui partirono per l’America gli antenati del poeta nel XVII secolo, a cui egli fa ritorno sino a farne il luogo della sua sepoltura: “nel mio principio è la mia fine e nella mia fine è il mio principio”, in epigrafe il motto della dinastia cattolica degli Stuart. In un altro quartetto, Dry Salvages, viene introdotta l’immagine del fiume – probabilmente il Missouri della sua infanzia – simbolo del tempo distruttore, rammemoratore di cose che non durano, strumento infido di commerci fini a se stessi. Ma il fiume procede verso l’eternità rappresentata dal mare; ancora il motivo della purificazione rappresentato dall’acqua, con una elevata preghiera alla Vergine, figlia del suo figlio in termini danteschi, affinché con la sua purezza pontificale, punto di incontro, ponte tra il tempo, l’uomo e il divino, interceda in favore di tutti coloro che solcano il mare dell’esistere, compresi quelli che hanno fatto naufragio.

Thomas S. Eliot fu anche un grande animatore artistico, dominò per decenni il panorama culturale inglese, e la funzione catartica, rigeneratrice dell’arte fu una costante del suo orizzonte. L’arte deve determinare una serenità complessiva volta a favorire un ordine della realtà. Critico intransigente della società contemporanea, di cui antivedeva gli sbocchi nichilisti ed egoistici, pubblicò anche un saggio intitolato L’ idea di una società cristiana. Testo dalle ambizioni politiche più che filosofiche, enuncia con precisione le idee che hanno compromesso la nozione di cristianità, quelle democratiche e quelle liberali. Queste ultime hanno costruito una società in cui l’uso delle risorse naturali (e delle persone degradate a risorse umane) si è trasformato in sfruttamento a vantaggio di pochi; le prime, lungi dal rappresentare un’alternativa esistenziale, propongono di estendere all’infinito il medesimo sfruttamento. Una marmaglia, spiega, non cesserà di essere marmaglia perché è ben nutrita, ben alloggiata e ben disciplinata. Si avvertono gli echi dell’avversione eliotiana allo stalinismo e al nazismo. Per contro, la sua idea di tradizione è, per così dire, dinamica: “La tradizione, da sé sola, non è sufficiente; deve essere criticata continuamente e aggiornata sotto la supervisione di ciò che io chiamo ortodossia. “

In conclusione, un’opera di straordinario rilievo artistico e di elevata tensione morale, la cui lettura ci sentiamo di consigliare, magari nelle edizioni con testo a fronte, al fine di apprezzarne, per chi è in grado, il terso, classico inglese. Quella di Thomas Stearns Eliot fu una vita di altissime, energiche prestazioni intellettuali al servizio di una visione spirituale dell’uomo, intimamente cristiana. Molto originale è la ragione del suo rifiuto della riforma protestante, considerata un’aberrazione dottrinale, aver proceduto da un’unica rivelazione a tante spicciole rivelazioni quanti sono gli uomini che scelgono di leggere le scritture.

L’approdo fu il canone di una cattolicità diffusa, intesa come tragitto verso l’unità morale del popolo cristiano, innanzitutto delle genti europee che accolsero il messaggio dell’uomo di Nazareth. Unita alla portentosa eredità di Atene e al rigore romano, ne fecero la civiltà comune di un continente oggi morente, terra guasta, desolata di uomini vuoti, impagliati per aver smarrito se stessi insieme con il loro Dio.

ROBERTO PECCHIOLI

DECIMA FLOTTIGLIA M.A.S.: propaganda per la riscossa (XIX parte) – Gianluca Padovan

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«Che vuole l’Italia? / 1) i suoi confini naturali per la sicurezza del suo popolo / 2) le colonie per il lavoro e la prosperità dei suoi figli / 3) il suo posto nel mondo per l’esercizio della sua missione di civiltà / 4) il diritto – che le dànno 3000 anni di storia – della “parità tra i pari„ con tutti gli Stati, nella ricostruzione del mondo. / La R.S.I. rappresenta il regime popolare italiano, e costituisce una garanzia per i popoli con la sua sana, operosa e realistica democrazia. / Questi sono gli ideali per cui la “Decima” combatte»

Volantino della Decima Flottiglia MAS

    Bollo: un altro segno lasciato dalla Decima.

Nella XVI parte si è parlato dei bolli e della loro importanza. Ed anche questa volta, prima di concludere l’argomento riguardante l’arresto del Comandante Junio Valerio Borghese e la successiva promozione a Sottocapo di Stato Maggiore della Marina Nazionale Repubblicana (XIII, XIV, XV, XVII e XVIII contributi), si torna su di un particolare aspetto dei documenti d’archivio.

Innanzitutto i documenti costituiscono una solida base su cui condurre le indagini storiche. Per quanto concerne la Storia della Xa Flottiglia M.A.S. si può apprezzare la profusione di tanti e differenti timbri approntati in un arco temporale assai breve a testimonianza delle tante unità da combattimento sorte in brevissimo tempo. Pertanto nelle prossime settimane seguiranno altre parti solo ed esclusivamente dedicate ai documenti e ai bolli.

  Volontari per l’esercito nazionale.

A differenza dell’elefantiaco e inconsistente apparato militare architettato da Ferruccio Ferrini (XVII e XVIII contributi), la Xa Flottiglia M.A.S. era letteralmente “decollata” e già verso il termine del 1943. Difatti il senso del dovere verso la Patria e il “richiamo” del Sangue avevano fatto sì che nelle fila della Decima confluissero a getto continuo sempre nuovi e motivati Volontari.

Tutti sapevano che la lotta era disperata, ma altrettanto certamente vi era la consapevolezza che occorreva battersi anche per riscattare l’onore dell’Italia, infangato dalla massoneria nazionale alle dipendenze di quella inglese e americana, e dai suoi “capi” tra cui figuravano i Savoia, Badoglio e buona parte dello Stato Maggiore.

A dispetto delle tante malelingue fiorite come muffe nel tempo i risultati conseguiti dalla Decima furono e rimangono chiari e incontrovertibili: questo a ulteriore dimostrazione, semmai ve ne fosse stato (e ve ne sia ancora oggi) di bisogno, che le chiacchiere e i tradimenti hanno vita breve, perché essi causano senz’altro danni, ma il tempo li consegna infine alla Storia e sempre per quello che sono stati.

Oggi, al di là di facili entusiasmi e di “pulsioni pilotate”, bisogna esaminare la Storia per quello che è stata, non per quello che ci piacerebbe che essa avrebbe potuto essere.

Ha scritto Giorgio Giorgerini: «I reparti terrestri della X MAS furono piuttosto numerosi: grazie all’affluenza di migliaia di volontari vennero costituiti battaglioni, compagnie e gruppi, comandati indifferentemente da ufficiali della Marina – sia di Stato Maggiore sia di corpi tecnici – o dell’Esercito. L’equipaggiamento, non dovizioso, era il migliore di cui si potesse disporre all’epoca nel Nord Italia. Mancavano mezzi corazzati da combattimento e la motorizzazione era limitata ad alcuni autocarri di vario tipo. Il nome di alcuni battaglioni è ancor oggi ricordato con rispetto per la loro condotta in combattimento sui fronti di Anzio-Nettuno, del Senio, sulle linee di estrema difesa dall’invasione slava dell’Istria, della Venezia Giulia e del Friuli» (Giorgio Giorgerini, Attacco dal mare. Storia dei mezzi d’assalto della Marina italiana, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2007, p. 313).

  La marcia continua con il Maestrale-Barbarigo.

Il numero unico La marcia continua, a cura dell’Ufficio Stampa del Partito Fascista Repubblicano, è stato recentemente ristampato. La copia, come l’originale, è priva del luogo d’edizione ed è datata «28 OTTOBRE XXIII». Escluse le quattro di copertina, il numero si compone di 50 pagine (24,5 x 32 cm), di cui 48 pagine sono numerate.

Si tratta indubbiamente di testi che contengono chiara propaganda, ma sono altresì composti per dare una precisa e incontrovertibile informazione: in Italia si combatte per la difesa del suolo patrio contro l’invasore angloamericano e i loro mercenari.

La pagina n. 28 è dedicata al Battaglione Barbarigo (disegno verde, caratteri neri e bianchi), mentre quella seguente riguarda la Xa Flottiglia M.A.S. in generale. In esse figurano i nomi di alcune delle unità militari della Decima che si batterono sempre con valore.

  Ecco la trascrizione del testo a pagina n. 28:

«LA MEDAGLIA DI / BRONZO AL V. M. / AL GAGLIARDETTO / DEL BATTAGLIONE / BARBARIGO / Armato essenzialmente di coraggio / e di fede, chiedeva di essere inviato / al fronte di Nettuno per riscattare / l’onore della Patria tradita. / Al fianco dell’alleato fedele in tre / mesi di asperrimi combattimenti / contendeva fino all’estremo alle / orde travolgenti dei nuovi barbari il / possesso di Roma immortale, dando / luminosa prova di strenuo valore e / consacrando con il sangue dei mi- / gliori, il diritto sacro dell’Italia alla / vita ed alla rinascita / Fronte di Nettuno / 4 marzo – 3 giugno 1944-XXII» (Ufficio Stampa del Partito Fascista Repubblicano -a cura di-, La marcia continua, Numero unico, 28 Ottobre, s.l. 1944, Ristampa del Centro Studi Propaganda, 2017, p. 28).

L’articolo «Quelli della X», non firmato, con il disegno in verde a pagina n. 29, così recita:

«“Decima”! fu il grido che un reparto lanciò verso il cielo l’alba del 9 settembre. E fu un giuramento. / Mentre tutto l’Esercito regio si dissolveva nell’avvilimento della più vergognosa capitolazione, quattrocento uomini ritrovarono in se stessi la forza di reagire all’infamia; mentre ovunque le bandiere gloriose che avevano conosciuto le più fulgide vittorie ed erano state, su tutti i campi di battaglia testimoni dei più grandi eroismi, venivano ammainate in ogni parte d’Italia e spesso lacerate dall’insulto supremo dell’idea che esse rappresentano, in uno dei tanti golfi della Patria, la bandiera della Decima Massi levava lenta sul pennone, fino in cima, tra gli squilli della tromba, nel quadrato di uomini di cui gli occhi lucidi più del solito, tradivano l’intima emozione, le sofferenze del loro cuore affranto. / L’alzabandiera della Decima fu così non la solita cerimonia di tutti i giorni, in quell’alba settembrina, ma fu il primo segno di una riscossa che non tarderà ad agitare gli animi dei migliori. In quel grido di guerra fu il primo anelito di una gioventù spiritualmente sana di ricominciare d’accapo, da quello stesso giorno, un lavoro di un secolo che i traditori avevano distrutto di colpo. E questo nel nome di una tradizione che è fra le più fulgide dei nostri reparti armati, nel nome della tradizione di gloria della Decima Mas che uomini di ardimento crearono, che Caduti numerosi arricchirono con il loro sacrificio. / Le gesta di questi uomini sono state finora poco conosciute: il tradimento già in atto all’inizio della guerra non ha mai permesso infatti, sotto il pretesto del segreto militare, fosse reso di pubblica ragione questo eroismo che giorno per giorno si compiva sui mari, nelle più lontane basi del nemico, nei più aspri confronti con le superiori forze inglesi. Non si voleva, rivelando i sacrifici coronati da vittoria di questi uomini, inorgoglire il popolo italiano il quale privato di un alimento di fede e di certezza, più facilmente avrebbe accolto supinamente l’infamia che si stava perpetrando ai danni della Patria. Ma la storia non si può cancellare; e le gesta della Decima oggi stanno ad indicare agli italiani la via del vero onore che è via di virtù e di sacrificio. / Nel corso della guerra ben 7 medaglie d’oro e 86 medaglie d’argento hanno adornato i petti dei Caduti e dei viventi. Le basi di Alessandria, Gibilterra, Suda, Algeri, Mar Nero, Ladoga, hanno visto gli scafi guizzanti portarsi temerariamente a poca distanza dalle navi e sganciare contro di esse il siluro mortale, fra una rete di fuoco che la difesa cercava di porre ad ostacolo agli audaci. / La Queen Elisabeth, la Valiant, l’incrociatore York, le petroliere e i trasporti che innumerevoli sono andati a finire sotto i colpi dei siluri, negli abissi del mare sono altrettante tappe di questo cammino di gloria. / I Caduti sono stati tanti ma essi non sono morti invano. A coloro che sono rimasti essi hanno insegnato che la vita è soprattutto un dovere verso la Patria, prima di essere un diritto. / La Decima costituì in tal modo, il 9 settembre dello scorso anno il primo reparto dell’Esercito repubblicano il quale si formerà man mano nello spirito di un sentimento di onore e di una tradizione di gloria che la Decima aveva saputo mantenere intatto nei tristi giorni della capitolazione. E il grido lanciato quell’alba, di fronte al mare tante volte solcato, fu una promessa solenne. / Dopo l’alza bandiera, la medaglia d’oro Valerio Borghese Comandante della Decima Flottiglia Mas, non parlò ai suoi uomini; non era necessario ribadire con le parole ciò che ciascuno aveva ormai deciso nell’intimo del proprio cuore. Ognuno al proprio posto, la guerra continuava al fianco degli alleati germanici. / Le azioni di guerra furono subito riprese; e il mare // nostro provò la gioia d’essere ancora solcato da scafi portanti alta la bandiera tricolore. Nella notte del 21 al 22 febbraio il Mas del sergente Chiarello e del marò Candiolo penetrò nella rada di Anzio e ivi lanciò un siluro di morte contro un caccia avversario che lentamente si inabissava. Il Mas venne inseguito da una corvetta nemica che cercava disperatamente di raggiungerlo per affondarlo e colpire così gli audaci. Chiarello allora decise di fermarsi; la prospettiva di una nuova vittoria lo attirava maledettamente. Appena a tiro giusto una mina antinave venne lanciata e la corvetta inglese, colpita, si piegava sul fianco e scompariva fra le onde, mentre dal Mas vittorioso si lanciava alto nel cielo il grido “Decima”! / Altre azioni furono condotte con eguale valore; nuove glorie si aggiunsero a quelle del passato; la Decima entrò così nel cuore di tutti gli italiani. Il guardiamarina Baglioni il 29 aprile affondò una corvetta; Nesi mandò a fondo il 13 maggio una grossa unità. / Intanto i reparti si moltiplicavano; da tutte le parti dell’Italia libera dall’invasore i giovani accorrevano per combattere nei ranghi della Decima. E non solo il mare fu testimone di gloria; anche le campagne intorno ad Anzio ben presto conobbero il grido di guerra dei fanti del mare. Il Barbarigo infatti qui combattè contro gli anglo-americani e combattè con onore come gli stessi germanici riconobbero nei loro bollettini di guerra. E per l’onore caddero ancora tanti della Decima, con il sorriso sulle labbra, perché quelli della Decima non temono la morte. Essi hanno infatti come fregio una morte che stringe tra le labbra una rosa: “sorella morte, di te non temiamo”, così dicono i fanti del mare. / Il Comandante Borghese fu sempre più orgoglioso dei suoi ragazzi; essi rappresentano infatti il fior fiore della giovinezza italica e del volontarismo. Sono quelli dei mezzi speciali d’assalto del gruppo Sciré, della Scuola Piloti Todaro, della Scuola di Ardimento Giobbe, del gruppo Moccagatta, della squadriglia siluristi del gruppo nuotatori e paracadutisti, dei sommozzatori, dei gruppi speciali Gamma e Maiali. Di questa magnifica gioventù non solo la guerra volle il suo contributo immancabile di sangue; anche i traditori dell’interno la privarono dei migliori. Cadde così il Comandante Bardelli e numerosi altri; ma il loro sacrificio è vendicato dai battaglioni Serigo, Sagittario, Freccia, Celere, Fulmine, Colleoni, coadiuvati dalla batteria S. Giorgio. / Intanto il miracolo si compiva; si riformavano ovunque i nuovi reparti armati che in Germania affineranno il loro addestramento alla guerra. Ovunque fu un rifiorire di speranze; l’Italia non poteva morire. Finché essa infatti sarà capace di esprimere uomini come questi, il suo avvenire è certo qualunque destino la contingenza riservi. / E la “Decima” continua nel cammino generosamente scelto in quella lontana mattina del 9 settembre; in quello stesso golfo ogni giorno la stessa bandiera di quel giorno si alza fra gli squilli di tromba e questa volta un sorriso di gioia illumina gli occhi di quelli della Decima. Il grido consueto di Decima si leva ancora alto nel cielo e le onde lo portano lontano per il mare. E in quel grido è l’Italia che cammina verso la sua nuova grandezza» (S.N., Quelli della X, in Ufficio Stampa del Partito Fascista Repubblicano -a cura di-, La marcia continua, Numero unico, 28 Ottobre, s.l. 1944, Ristampa del Centro Studi Propaganda, 2017, p. 29).

  Per la difesa del Patrio Suolo.

Consultando il sito web ufficiale della “Associazione Combattenti Xa Flottiglia MAS” (associazionedecimaflottigliamas.it) possiamo leggere i dati essenziali riguardanti i Battaglioni più noti della Decima:

- Btg Barbarigo (già Maestrale) - Btg Freccia - Btg Fulmine - Btg Lupo - Btg Valanga - Btg N.P. (Nuotatori Paracadutisti)   Sono inoltre menzionati: - Gruppo Artiglieria da Campagna Colleoni - Gruppo Artiglieria da Campagna Da Giussano - Gruppo Artiglieria da Campagna San Giorgio - Servizio Ausiliario Femminile (S.A.F.) Xa   Parlando di bolli si possono qui ricordare (1): CASTAGNACCI. Indicato come Battaglione, è costituito a La Spezia nel marzo del 1944.

SERENISSIMA. Indicato come Battaglione, è costituito a Venezia nel febbraio del 1944 e destinato alla difesa della Laguna Veneta.

Tutti i bolli qui presentati provengono dall’Archivio di Stato di Milano (2).

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  NOTE   1) Per quanto riguarda i reparti combattenti della Decima si può consultare sul web: http://xoomer.virgilio.it/ramius/Militaria/xmas_reparti_costituiti.html  

2) Archivio di Stato di Milano; Tribunale Militare per la Marina in Milano (Repubblica Sociale Italiana), Procedimenti archiviati.

Autorizzazione alla pubblicazione. Registro: AS-MI. Numero di protocollo: 2976/28.13.11/1. Data protocollazione: 29/05/2018. Segnatura: MiBACT|AS-MI|29/05/2018|0002976-P.

 

Donne e streghe tra superstizione, odio e realtà – Lucrezia Iris Martone

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Come leggiamo nei nostri manuali scolastici (1), il grande scontro tra l’offensiva protestante e la controffensiva cattolica è accompagnato dal dilagare di un fenomeno che, per le sue dimensioni e caratteristiche, è diventato quasi il simbolo di un’epoca: la caccia alle streghe. Migliaia di persone in tutta Europa vennero condannate a morte per stregoneria, soprattutto tra il 1550 e il 1650 circa: un periodo che, paradossalmente, coincide con l’estrema fioritura del Rinascimento e con la fase montante della rivoluzione scientifica. Cerchiamo di capire qualcosa di più su questo fenomeno, rispondendo a queste domande:

1) Cosa si credeva esattamente sulle streghe e sul loro operato? Analizzeremo queste credenze, evidenziando quelle che sono rimaste vive ancora oggi nel folklore e nella cultura popolare;

2) Come operavano gli inquisitori? Leggeremo alcuni brani del manuale per cacciatori di streghe per eccellenza, il Malleus Maleficarum, che venne pubblicato nel 1486 e che fu un vero e proprio “best-seller”; da esso trarremo inoltre informazioni sulla concezione della donna in quell’epoca;

3) Come si svolgeva il processo? Metteremo a confronto le indicazioni riportate nel Malleus con quelle scritte in un manuale più tardo, l’Instructio pro formandis processibus in causis strigum, sortilegiorum et maleficiorum, del 1620, e vedremo come la procedura era cambiata nel segno di una maggiore cautela;

4) Come operava l’Inquisizione romana? Dagli studi più recenti sono emerse delle caratteristiche che la distinguono nettamente rispetto ai tribunali che operavano in altre zone d’Europa, in Germania, per esempio. Scopriremo come uno dei sacramenti che assumiamo anche noi oggi, la confessione, sia stato uno dei principali strumenti d’indagine per quel tribunale.

  1. La società del le streghe come società segreta

La credenza nella stregoneria e la conseguente persecuzione delle streghe, senza dubbio uno dei fenomeni più inquietanti della vita europea, non riguarda soltanto il periodo compreso tra la metà del XVI e la metà del XVII secolo, come si dice solitamente (periodo in cui in realtà toccò il suo acme), ma si colloca già prima, nel XV, e dura fino al XVIII secolo. Notizie sulle scorribande notturne di certe compagnie di donne e sugli scopi cui esse miravano sono reperibili in realtà già negli scritti dei canonisti medievali dal secolo X al XII; ma è alla fine del XII secolo e ai primi anni del XIII che risale il consolidamento di talune credenze nell’opinione popolare e il caratterizzarsi di specifici motivi stregonici. La ricerca sulla stregoneria, quindi, pone come termine a quo il secolo XIII. Tuttavia, le fonti dirette per lo studio della stregoneria moderna, abbondanti per il secolo XVI e i successivi, sono molto scarse per il XIV e non abbondano nella prima metà del XV. Nella stregoneria moderna confluiscono due credenze: quella nelle striges, note già nell’antichità classica, e l’altra, di età medievale, nella “società di Diana o di Erodiade”.   Tra le credenze e i culti pagani che durarono per tutto il Medioevo e, proscritti dalla Chiesa, si rifugiarono nella magia e nell’astrologia, il culto di Diana ebbe un posto preminente. Identificata con la luna, essa amava per sua natura la notte e nello stesso tempo incarnava una delle forme di Ecate, la dea della magia, adorata con riti misteriosi. Nel suo culto avevano importanza grandissima i rettili e gli animali immondi, i filtri, le composizioni disgustose e le formule magiche. Gli antichi credevano che Ecate apparisse di notte al pallido lume della luna, insieme con la schiera delle sue donne, anime di morti senza pace, e che comparisse ai quadrivi delle strade; di qui l’idea che ai quadrivi si corresse soprattutto il rischio di incontrare il diavolo o coloro che avevano rapporti con esso. Quest’idea è documentata ancora nell’Italia dell’‘800: dalle ricerche di Placucci (tra i precursori dello studio scientifico del folklore), che condusse un’inchiesta, dietro richiesta ufficiale napoleonica, sui costumi e le credenze delle popolazioni soggette, pubblicata nel 1818 con il titolo Usi e costumi de’ contadini di Romagna, risulta tra le altre la credenza che, se si sta fermi in mezzo a un crocevia nella notte di San Giovanni Battista, tenendo il collo appoggiato a un forcone, si vedranno passare le streghe.

Al posto di Diana si può trovare anche Erodiade, la figlia di Erode (il suo vero nome è Salomè), che aveva chiesto a Erode la testa del Battista, e per questo era stata condannata a vagare col Maligno. Forse di qui deriva il legame tra le streghe e la notte di San Giovanni, di cui si è detto sopra e che compare in altre credenze vive ancora in età contemporanea, come l’idea che abbiano una maggiore inclinazione a diventare streghe le bambine nate nella notte di Natale o, appunto, in quella di San Giovanni (il 24 giugno).   Dall’esame delle fonti medievali risulta che la Chiesa, benché ravvisasse diavoli nella figura di Diana e di Erodiade, e chiamasse seguaci di Satana coloro che all’una o all’altra si accompagnavano, si limitava a ritenere quelle credenze illusioni ispirate dal demonio e minacciava soltanto pene spirituali; il popolo inoltre credeva che le seguaci non avessero scopi criminali nelle loro scorrerie notturne, e si limitassero a entrare nelle case per curiosare dentro le pentole o le botti, in cerca di mense ben imbandite.   Dai processi svoltisi tra il 1300 e il 1500, compare una concezione più articolata sulle streghe e sul loro operato. Le donne che venivano processate e torturate affinché confessassero, si rifacevano nelle loro deposizioni a quello che comunemente si diceva sulle streghe. Vediamo come rispondevano a domande come le seguenti:

Come si diventa streghe?

 1. Occorre trovare una strega bene addestrata, una “maestra strega” e, entrata nelle sue grazie, prometterle di esserle fedele compagna nell’arte della stregoneria. Nei processi di metà XVII secolo si afferma che può essere una strega a condannare una ragazza alla stregoneria marchiandola con un sigillo sulla spalla sinistra (che gli inquisitori cercavano come segno inequivocabile);

2. la maestra bagna con la saliva le labbra della ragazza, e le ordina di andare al fonte dove ha ricevuto il Battesimo e dire che rinuncia all’autorità e alle leggi date da Dio e dalla Chiesa;

3. l’iniziata deve battere il capo tre volte contro il fonte e chiamare il diavolo con gli appellativi di signore e padrone, invocando il suo aiuto fino alla morte;

4. deve tornare dalla maestra strega, la quale le unge le tempie e le palme delle mani con un unguento preparato con il cadavere di un bambino nato morto o morto senza battesimo e, evocato il diavolo, le fa ripetere l’apostasia, cioè la rinuncia alla propria religione;

5. le due si recano in volo a Benevento, dove c’è un noce indicato come luogo per le riunioni delle streghe, e qui l’unguento viene benedetto dal diavolo; 6. viene invocato Maometto, il capo delle streghe, che compare con l’aspetto di un uomo bello e vestito di nero, con cui giocano e si divertono, fanno canti e balli; alle riunioni possono partecipare anche altri diavoli, che portano tutti nomi che non siano di Santi, come Cesare, Filippo ecc.

Queste riunioni sono chiamate sabba. Per alcuni studiosi questo termine deriva dall’ebraico sabbath, il sabato, che era considerato, come altre usanze semitiche, l’origine di tutte le perversioni; per altri, da sabae, capre, l’animale maledetto in cui si incarnava il demonio, o sotto la cui pelle si nascondevano le baccanti, durante i riti orgiastici. Secondo la tesi di Murray (2) “sabba” risalirebbe al verbo s’esbattre, divertirsi: sabba come festa, rave di popolo per gioire, mangiare, divertirsi.

Come sono organizzate?

Le streghe sono così organizzate: sono raccolte in tante squadre, secondo i luoghi di provenienza, e ciascuna squadra è comandata da una strega-capitano o “patrona”, a cui sono affidate 20, 25 o anche 30 o 40 “scolare”. La strega-capitano resta in carica tre anni, allo scadere dei quali è confermata o sostituita, e l’elezione avviene sempre al noce di Benevento. Comandante supremo di tutte le squadre è la “regina”, cioè la “patrona maggiore”, quella che governa tutte le streghe. Almeno una volta durante il triennio del loro ufficio, le “patrone” devono andare a visitarla: si devono recare da lei nel mese di marzo, camminando a piedi di giorno e di notte, e la visita deve essere fatta rinunciando a un’importante faccenda. A sua volta, la regina ha il compito di assegnare alle streghe comandanti il territorio dove dovranno svolgere la loro attività, oltre a insegnare l’arte della stregoneria, e le “scolare” che saranno ai loro ordini.

Cosa fanno le streghe?

Producono unguenti o polveri capaci di far ammalare, impazzire o morire coloro a cui vogliono nuocere. Di notte, possono entrare nelle case: il diavolo sceglie le case dove ci sono lattanti e apre le porte alle streghe. Queste si portano appresso una gatta nera, nata in marzo; le streghe prendono le sue sembianze per entrare nella casa (di qui deriverebbe l’interpretazione di segno infausto che si dà comunemente se un gatto nero ci attraversa la strada), per controllare che le persone dormano e per spegnere eventuali lumi; quando la via è libera, la gatta torna dalla strega e le monta sulle spalle. Allora la strega trova il bambino, e prende a succhiargli il sangue dal naso, dalle orecchie e dall’ombelico; il sangue che non ingoia, lo ripone in un bossolo, poiché le potrà essere utile per la preparazione di pozioni. Oltre che agli esseri umani, le streghe possono nuocere al raccolto agricolo – perché sanno agire sugli eventi atmosferici, provocando temporali, grandine ecc. che possono avere effetti disastrosi – oppure al bestiame, sottraendo il latte alle mucche per esempio, o rendendo sterili le femmine. Si comprende quindi come le streghe fossero considerate un potenziale nemico per l’intera società del tempo, potendo colpire con i loro malefici quelle che erano le principali fonti di reddito per le comunità.

Cosa protegge dalle streghe?

Se davanti al lume arde un’immagine di Gesù o della Madonna; se in casa c’è un campanello; se c’è una chiesa vicino all’abitazione; se ai letti o alle pareti sono attaccate croci di foglie di palma o rami d’ulivo o pane benedetto, si può dormire sonni tranquilli.

Queste credenze sono durate a lungo, tanto che, soprattutto nella gente di campagna, persistono ancora molto vive le stesse idee sulle streghe che troviamo documentate negli atti dei processi e nella letteratura demonologia. Le streghe colpiscono ancora soprattutto i bambini e gli animali da lavoro, e sono responsabili delle perturbazioni atmosferiche. Rispetto alle credenze diffuse nei secoli precedenti, spiccano alcuni elementi: 

 - il forcone: è strumento per individuare le streghe (come si è detto, nella notte di San Giovanni Battista, si deve star fermi in mezzo a un crocevia, appoggiando il collo a un forcone: si vedranno passare le streghe) e allo stesso tempo per difendersi da esse (collocare sotto il letto un forcone, prima di coricarsi, rende inefficaci le loro arti; 

- il sale: come spiega Jean Bodin (Demonomania, II, 2), il sale è elemento di purezza, perché «non si corrompe, né putrefà giammai e conserva le cose da corruttione e putrefattione, e il diavolo non cerca se non la corruttione e dissolutione delle creature come Iddio la generatione». Si crede inoltre che nei sabba che si tengono sotto il noce di Benevento, vengono imbanditi lauti banchetti, dove però tutte le vivande mancano di sale. Un poemetto ottocentesco in ottave, edito a Napoli, Storia della famosa Noce di Benevento, di un anonimo, narra, tra l’altro, che un contadino che aveva seguito la moglie al banchetto beneventano, accortosi che i cibi erano insipidi, aveva chiesto del sale; ciò finì col procurare la morte sua e della moglie.

Da recenti ricerche svolte a Benevento risulta che il popolo crede ancora che le streghe vadano alla riunione a cavalcioni di una scopa, e da lì passino nelle case a “sturpià peccerille e peccerelle”, dicendo le magiche parole: “Sotto l’acqua e sott’u vientu, sott’a noce ‘e Beneviento”. Nella parte subappenninica della provincia di Foggia l’antica formula magica è diventata un modo di dire. Infatti, di coloro che sfidano l’inclemenza del tempo e non hanno paura di camminare per la campagna la notte, la gente dice: “Sott’ a iacqu’ e sott’ a vent’ a noce de Bunevent”. In Sicilia si crede che ogni noce, non solo a Benevento, ma anche nell’isola, sia luogo di convegno delle streghe, tanto che è diventato proverbio che la noce fa male: “nuci, noci”. Credenze analoghe si trovano in tutt’Italia, non solo al Sud, ma anche nel Vicentino, e nei territori di Bergamo e Brescia. Le regioni italiane che ancora oggi conservano le più vive credenze sulle streghe sono le zone di montagna delle antiche diocesi di Como e di Trento, dove molte località portano ancora nomi che ricordano i congressi notturni (es: “Val de le stries” in Val Gardena, “Sas di stria” in Ampezzo). Nel Trentino si distinguono ancora oggi tre categorie di streghe: le nate streghe, votate al diavolo prima della nascita, nel qual caso recano un segno diabolico (una macchia scura) in qualche parte del corpo; le streghe inconsapevoli, toccate da qualche strega prima che siano battezzate; le streghe volontarie, quelle che in età matura si sono date al diavolo sapendo quel che facevano. Riguardo al primo gruppo, è credenza che siano fatalmente streghe quelle nate la notte di San Giovanni o la notte di Natale a mezzanotte; quest’ultima è creduta nel Veneto la notte preferita dalle streghe per insegnare ad altre persone incantesimi e sortilegi, perché i giorni santi sono i più adatti a offendere il Signore.

  1. Il Malleus maleficarum e la concezione della donna

È il 1484 quando papa Innocenzo VIII promulga la bolla Summis desiderantes in cui la stregoneria viene indicata come forma di eresia, e con cui il pontefice dà l’avallo alla caccia alle streghe. Due anni dopo, due inviati del pontefice, i domenicani Jacob Sprenger e Heinrich Institor, pubblicano il Malleus Maleficarum, che diventerà il testo ufficiale dell’Inquisizione sulla stregoneria, uniformando per tre secoli il rito di centinaia di processi. Il Malleus spiega prima di tutto perché sono le donne le più colpite dalla stregoneria e da Satana. Esiste una ragione “naturale”: la struttura fisica difettosa. La donna infatti è stata creata da Dio a partire dalla costola dell’uomo che è curva e storta. Imperfetta per natura, quindi, la donna deve per forza di cose recare danni al genere umano. A riprova dell’imperfezione femminile, il Malleus riporta il seguente aneddoto: la moglie di un tizio era annegata in un fiume e non si riusciva a ritrovarne il corpo; il marito fu visto mentre lo cercava risalendo la corrente. Alla gente che gli chiedeva perché la cercasse in senso contrario al fiume, egli rispose: «Questa donna in vita fece sempre l’esatto contrario delle mie parole. Ora la cerco all’inverso, perché è probabile che anche dopo morta sia andata all’opposto del consueto».   Il fatto è che il male sta nel nome stesso della donna:

Femina dicitur a fe et minus, quia semper minorem habet et servat fidem… Mala ergo mulier ex natura cum citius in fide dubitat, etiam citius fidem abnegat, quod est fundamentum in maleficiis.

Questa etimologia, assolutamente fantastica, si ritrova nel quarto libro dell’Acerba di Cecco d’Ascoli in un’invettiva contro le donne; non sappiamo se sia Cecco l’autore di questa etimologia, ma sappiamo che trasse non poco dalle enciclopedie medievali per la compilazione dell’opera, che rispecchia lo stato del sapere comune dell’epoca.   Il diavolo fece peccare Eva ed Eva sedusse Adamo, che quindi fu indotto al peccato da lei e non dal diavolo: da ciò si deduce che la donna è peggiore del diavolo e più amara della morte. Poiché le streghe sottoscrivono patti espressi o taciti col demonio, a contrario degli eretici (i quali però sono i più inclini e idonei a prestare giuramento a Satana), l’eresia delle streghe giunge al più alto livello di malizia. Il nome stesso di “maleficae” rivela la vera natura delle streghe: «maleficae dictae sunt a male de fide sentiendo». Le streghe dunque hanno cattive opinioni della fede, per questo sono anche eretiche e la loro colpa è doppiamente grave. I due autori riepilogano le ragioni che spingono la donna verso la stregoneria: la donna è più credula e più inesperta dell’uomo; è più curiosa; il suo temperamento è più impressionabile; è più cattiva; è più portata a vendicarsi; cade più spesso nella disperazione; infine, è più loquace, e se una delle sue amiche è strega, fa presto a dirlo alle altre.

Sprenger e Institor si chiedono poi se le streghe siano sorte solo in tempi moderni. Esse sono sempre esistite, tuttavia nell’antichità erano i diavoli che possedevano le donne contro la loro volontà: esse erano quindi maleficiatae, non maleficae, cioè erano vittime del diavolo e non potevano nuocere a nessuno fuorché a se stesse. Invece, nei tempi moderni, le donne, per la cattiveria dell’animo e la dissolutezza dei costumi, desiderano e cercano il demonio: la stregoneria del XV secolo, concludono gli autori, ha appestato il mondo come una terribile malattia.

L’antifemminismo dello Sprenger e dell’Institoris è un fenomeno del tempo, sorto da una realtà sociale, più che da un tema letterario o da un pregiudizio religioso. Non è una caratteristica esclusiva della fine del Medioevo. In Sant’Agostino, in Ugo da San Vittore, la cui autorità fu grande in tutto il Medioevo, in Pietro Lombardo, i cui Libri sententiarum (del 1150 circa) furono il testo teologico più diffuso, in San Tommaso, la donna rappresenta la parte inferiore dell’umanità e l’uomo la parte superiore. Le invettive contro le donne sono un genere diffusissimo nella letteratura medievale. Al principio del XIII secolo i vizi e i difetti del carattere femminile erano stati enumerati in una lunga serie di proverbi volgari, che portano il titolo latino di Proverbia quae dicuntur super natura feminarum. Il culmine dell’antifemminismo è rappresentato da un’opera attribuita a Andrea Cappellano (principio XIII secolo) che raccoglie in una summa tutte le invettive antifemministe del Medioevo. Come si spiega tale odio verso la donna? Secondo il Novati, tali sentimenti non sono che la naturale, spontanea conseguenza dell’aborrimento per la vita mondana: chi mirava al distacco assoluto dalle cose terrene trovava nella donna il più grave degli ostacoli e in essa rappresentati tutti i più forti legami che avvincono l’uomo alla vita: l’amore, il matrimonio, la famiglia. In un codice del XIII sec., un poemetto inizia così:

Si Christum queris, vultum fuge mulieris.

3. La procedura inquisitoria dal Malleus (1486) all’ Instructio (1620)

Come si è detto, il Malleus maleficarum costituì un vero e proprio manuale per gli inquisitori: esso forniva indicazioni precise per tutte le fasi del processo, dalla denuncia alla condanna. Prima di iniziare il processo, gli inquisitori devono prendere delle precauzioni: non farsi toccare dalle streghe, evitare il primo sguardo delle accusate, portare addosso sale esorcizzato nella Domenica delle Palme ed erbe benedette. Il processo si apre in seguito ad accusa, a denuncia o per inquisizione d’ufficio. Quest’ultimo modo ha inizio facendo affiggere alle porte della chiesa una citazione generale, in cui la commissione inquirente ordina che, entro un certo numero di giorni, tutti coloro che abbiano notizie di stregoneria presentino le loro denunce e i loro sospetti, minacciando ai contravventori pene ecclesiastiche e temporali. Si ascoltano quindi le denunce e bastano due testimoni a giustificare l’avvio del processo. Possono essere assunti come testimoni contro l’imputata, mai in sua difesa, anche eretici, scomunicati, infami, spergiuri, assassini; si fa eccezione per i suoi nemici dichiarati, ma sono tali e tante le cautele che il giudice deve usare prima di riconoscere in una persona un nemico dell’imputata, che questa eccezione è quasi svuotata di significato. Procedendo contro un’accusata, il giudice deve badare a tre cose: alla fama di lei, agli indizi o all’evidenza del fatto, agli interrogatori dei testimoni. Circa gli indizi, ogni cosa era ritenuta buona: se l’accusata conduceva una vita irregolare, era indizio di rapporti col Maligno; se era di condotta irreprensibile, allora cercava di nascondere la sua cattiveria sotto il manto della bontà; se all’arrivo dell’inquisitore si allontanava da casa sua, si aveva l’indizio della fuga; se restava, era segno che il diavolo le aveva impedito di fuggire. Quando tutti e tre gli elementi concorrono contro l’accusata, si dà inizio al processo, che va trattato – come gli autori avvertono più volte – sommariamente (simpliciter et de plano).   Al momento dell’arresto, la casa dell’accusata deve essere perquisita in ogni angolo con la massima diligenza, e devono essere arrestate anche compagne o serve con lei, perché si presume che ne conoscano i segreti. È opportuno sollevarla da terra, mettendola per esempio su una lettiga di giunchi: le confessioni rese nei processi e l’esperienza dei giudici testimoniano che le streghe, catturate in questo modo, non possono trarre vantaggio dal cosiddetto maleficium taciturnitatis, il maleficio del silenzio che il diavolo usa per evitare che le streghe confessino.   L’imputata può indicare un difensore, ma non è detto che il giudice le assegni la persona da lei indicata; inoltre l’accusata non ha il diritto di conoscere i nomi dei testimoni. Se il difensore insiste, ed è gradito ai giudici, gli si possono palesare, ma con alcune “cautele”: per esempio, gli si dà l’elenco dei nomi dei testimoni e separatamente la copia delle deposizioni, badando o che la serie dei nomi non corrisponda all’ordine delle deposizioni, o che gli atti contengano circostanze non deposte. E poiché l’elenco dei testimoni viene richiesto per opporre contro alcuni o tutti l’eccezione della “inimicizia capitale”, il giudice potrà chiedere all’imputata, sin dal primo interrogatorio, se abbia nemici di tal fatta; e siccome di solito la risposta è negativa, dopo di ciò l’imputata non potrà più sollevare quell’eccezione, né potrà sollevarla il suo difensore. Durante l’interrogatorio, l’accusata può confessare subito la sua colpa, e in tal caso il processo è brevissimo, oppure può negare tutto, e allora bisogna ottenere la confessione a tutti i costi. Prima cercano di convincerla il giudice o persone di sua fiducia, anche promettendole la grazia; se ciò non basta, si passa alla tortura, che ha il principale scopo di allontanare il diavolo che può aiutare la strega a non sentire il dolore e a non confessare. Erano vari i sortilegi per non sentire dolore: si poteva bere una certa pietra, la menfite, tritata nell’acqua o nel vino; oppure il latte di una madre e di una figlia mescolato insieme, o mangiare focacce impastate con quel latte; oppure ancora inghiottire del sapone sciolto nell’acqua. C’erano infine delle formule da pronunciare prima di essere torturate, tratte per lo più dalla Bibbia o dai Vangeli e opportunamente modificate. Queste formule potevano essere scritte su dei bigliettini che le streghe potevano nascondere tra i capelli; per questo, i giudici potevano farle radere totalmente. Se la donna moriva durante la tortura, lo Sprenger e l’Institoris scagionavano completamente il tribunale, gettando tutta la colpa addosso al diavolo: Satana si era ripreso la preda, e se questa è stata degna di tanto favore, il motivo è che aveva commesso enormi delitti. Il più delle volte la condanna si risolve nella pena di morte.

Nel 1620 viene compilata una Instructio pro formandis processibus in causi strigum, sortilegiorum et maleficiorum del Sant’Uffizio, che condanna la procedura corrente per le streghe e gli stregoni, prendendo le mosse dai continui errori commessi dagli inquisitori nei processi. Vediamo quali sono questi errori e quali indicazioni fornisce l’Instructio.

L’errore principale e peculiare di quasi tutti i giudici è di passare all’inquisizione, alla carcerazione, e spesso anche alla tortura, senza prove sufficienti contro gli accusati. Nel caso di un malato o di un morto per maleficio va usata ogni accortezza nell’interrogare il medico che l’ha curato, e poi si deve richiedere il parere di un medico più dotto ed esperto. Se i medici hanno giudicato che c’è stato o può esserci stato un maleficio, il giudice può istruire il processo. Le donne carcerate per maleficio siano tenute in celle separate, perché spesso si sono trovate molte che hanno detto il falso contro se stesse in fatto di apostasia, credendo di uscire più presto dal carcere. Non sia consentito ai carcerieri o a chiunque altro di suggerire alle donne quello che dovranno dire al giudice, perché si è visto che così istruite hanno confessato cose che neppure si sono sognate. Si proceda subito dopo l’arresto a un’attenta perquisizione della casa della carcerata e si ordini il sequestro della roba sospetta (olio in vasetti, grasso, polveri ecc.), che sarà affidata ai periti onde accertare se può servire a uno scopo che non sia quello malefico. Si prelevino pure gli oggetti che possono giovare all’inquisito, come immagini sante, libri di preghiere, palme benedette ecc. Spesso accade che i familiari del malato, pensando a un maleficio, trovino strani gomitoli nei materassi del loro congiunto e corrano a portarli al giudice come prova di un intervento del maligno. Il giudice stia bene attento alle materie di tali gomitoli, in genere piume o lana, i quali possono essersi formati rivoltando tutti i giorni i materassi per rifare il letto, oppure può averli lasciati il materasso per incuria. La formazione dei gomitoli per cause naturali è più frequente nei materassi di piume. Se i gomitoli nascondono aghi, l’inquisitore si ricordi che dove ci sono donne, dappertutto ci sono aghi (ubi sunt mulieres, acus ubique abundant), ed è facile trovarli fin nei letti. Non si proceda nemmeno in base alla fama che certe donne hanno di essere streghe poiché, a causa dell’odio popolare contro di esse, succede che una donna, specie se vecchia e brutta, può restare vittima di quella fama. Ancora bisogna avvertire che le donne sono molto superstiziose e dedite soprattutto ai sortilegi amorosi; ma non è detto che una donna che faccia sortilegi o incantesimi per costringere la volontà di un uomo o per guarire un maleficio, sia per ciò stesso “strega formale”. Il sortilegio infatti può realizzarsi senza apostasia della religione e patto col diavolo da parte di una donna, al contrario di come credono certi giudici che, muovendo da questo presupposto, non lasciano intentata alcuna via, anche illecita, per estorcere confessioni. La tortura si può applicare quando ci siano indizi molto gravi. Si esortino le inquisite a dire la verità e non si suggerisca loro alcunché, ma si scrivano soltanto le parole che diranno. Non si dia la tortura con squassi, né si ripeta se non in casi gravissimi e mai superi lo spazio di un’ora. È fatto divieto di radere le imputate per farle confessare. Quando confessano di aver partecipato a convegni notturni e nominano dei complici, non si proceda contro costoro, essendo il più delle volte la presenza delle accusatrici ai giuochi soltanto un’illusione. Il giudice dimentichi ciò che sui ludi diabolici è stato scritto dai dottori, perché si è vista l’applicazione delle loro teorie nuocere gravemente alle accusate e alle persone da esse nominate. Per esempio, riguardo alle misteriose morti dei bambini, può accadere che i piccoli muoiano per soffocazione nel letto della madre o della nutrice, e perciò si proibisca alle mamme e alle balie di tenere i bambini nei loro letti e si raccomandi l’uso delle culle. Ciò considerato i vescovi, i loro vicari e gli inquisitori siano il più possibile cauti nel condurre processi di stregoneria, e considerino bene quanto si è detto per evitare rimproveri nonché punizioni per arbitrarie carcerazioni, inquisizioni e torture.

Le disposizioni del Sant’Uffizio non negano la possibilità di reali tregende con il diavolo; il Sant’Uffizio non specifica come accertare se un certo gomitolo è di provenienza stregonica o naturale, oppure è stato fabbricato addirittura dal diavolo; quali sono gli indizi da considerarsi “molto gravi”, e quali i casi di stregoneria “gravissimi”; quali circostanze possono illuminare sulla realtà o illusorietà delle riunioni ecc. Di contro, è da rilevarsi il tentativo di disciplinare la legislazione comune e di rendere meno dura la procedura penale. Notevole l’atteggiamento di cautela e di ottimismo, il mettere in rilievo le inverosimiglianze nelle storie di stregoneria, per cui occorre un’accurata verifica di tutte le testimonianze. Dall’Instructio prese le mosse Gregorio XV con la sua bolla “ Omnipotentis Dei ” del 20 marzo 1623, con la quale stabiliva che i rei di stregoneria non venissero mandati al supplizio se non fosse provato che avessero fatto morire qualcuno. Gli altri dovevano essere puniti col carcere.

L’Instructio e la bolla dettero risultati positivi, come accadde a Firenze.

Il 21 marzo 1626 il cardinale Giovanni Garcia Villini scriveva da Roma al nunzio apostolico a Firenze, avvertendolo che nella città il Cospi, giudice incompetente, aveva svolto molti processi contro presunte streghe, riconosciute poi innocenti. In seguito l’arcivescovo aveva deputato commissario contro le streghe il canonico Cini, il quale l’anno prima aveva portato davanti alla Congregazione del Sant’Uffizio il caso di una certa Margherita Palagi, detta la Tabossina, «ragazza di non sano giuditio et che andava accattando l’elemosina, et pubblicamente dicendo che la notte con l’altre donne guastava fanciulli et aveva guasto questo et quell’altro che sapeva essere ammalati, affine chiamata per curarli, come faceva con modi et parole vane e ridicole, ne riportasse qualche buona elemosina». Il Sant’Uffizio, esaminati gli atti del processo, constatato di «non potersi dar fede alcuna alle parole della ragazza, né giustamente ritenere le donne carcerate per nominatione di lei», ordinò il ricovero della poveretta in un pio istituto «et si provvedesse di buon confessore et le altre donne si scarcerassero», dando facoltà al Cini «d’impinguare il processo, difettoso anche nella prova de’ corpi de’ delitti». Il Cini cercò altre prove e le presentò a Roma ai giudici del Sant’Uffizio, il quale però dichiarò chiuso il caso della Palagi, non aggiungendo le nuove prove «cosa per la quale si debba recedere dalla risolutione già presa». Il Cini intentò un altro processo, questa volta contro Maddalena Serchia da Certaldo. Era una vecchia mendicante sospettata di aver fatto ammalare un bambino, e perciò era stata battuta e torturata. Tra i tormenti aveva detto che quel bambino sarebbe guarito entro otto giorni, se essa avesse potuto pregare in chiesa davanti a un Crocifisso da cui aveva ottenuto altre grazie. Le fu concesso e «portò il caso che il bimbo in tal tempo prese miglioramento et anche dopo guarì. Et perciò simile vaticinio et effetto seguitone, si è preteso che da patto et arte diabolica provenisse. Ma visto et considerato diligentemente questo et altro dedotto contra di lei, si è giudicato non esservi fondamento alcuno di tal delitto, et si è ordinata la scarcerazione di lei a Mons. Arcivescovo».

  1. L’Inquisizione in Italia: dalla stregoneria ai “crimini di fede”.

Secondo le ricerche più recenti, l’Italia figura, insieme alla Spagna, come il paese europeo nel quale maturano più precocemente atteggiamenti di cautela e di moderazione nei processi per stregoneria del tutto anomali rispetto alle tendenze prevalenti in quegli anni. Sia i processi di stregoneria, sia gli atteggiamenti favorevoli a una sua dura repressione, si diradano molto presto, già nel corso del terzo decennio del ‘500. Cautela, esigenza di non farsi fuorviare in un campo minato da dubbi e da inganni, necessità di contrapporre regole certe a un indiscriminato furore persecutorio che sale dal basso e trova facile sfogo in giudizi sommari: ecco le linee sulle quali si muove la repressione della stregoneria in buona parte dei tribunali inquisitoriali italiani del tardo ‘500. Le ricerche del Tedeschi (3) hanno definitivamente mostrato la netta propensione dell’inquisizione romana del tardo ‘500 a scelte repressive moderate: la stessa Instructio sarebbe secondo lo studioso un collage di disposizioni precedenti. Per spiegare questo atteggiamento dei giudici italiani, profondamente diverso rispetto a quello dei tribunali di altre zone europee, sono state addotte diverse cause, come l’influsso di modi di pensare propri dell’Umanesimo, oppure la natura “più mite” della stregoneria mediterranea (una delle tesi del Levack, che però non sembra convincente per molti studiosi). Ma la strada che appare più fruttuosa da questo punto di vista è quella che incentra la propria analisi nell’ambito degli aspetti giuridico-procedurali del Sant’Uffizio romano.

In primo luogo, nella trattatistica inquisitoriale italiana una precisa gerarchia di gravità pone la stregoneria in secondo piano rispetto all’eresia, e anche rispetto ad altre forme di magia diabolica, come la negromanzia, per la consapevolezza che si tratta di un crimine di dubbia natura e di difficile verificabilità. Si afferma il divieto di procedere contro i complici del sabba, che appare, ancor più dell’uso moderato della tortura e della riluttanza alle esecuzioni capitali, la misura più specifica e più gravida di conseguenze tra tutte quelle adottate nel tardo ‘500 per arginare gli abusi nella repressione della stregoneria. Nessuno dei giudici di fede italiani di questi anni nega che esseri umani possano, grazie al patto col diavolo, andare in volo al sabba e uccidere bambini e animali, per accennare solo alle più note prerogative attribuite alle streghe moderne. È vero però che nessuno di essi sembra particolarmente preoccupato della loro presenza o propenso a credere con facilità alla realtà delle loro esperienze: prevale il senso della possibilità e del dubbio, la consapevolezza che l’illusione è uno dei poteri più subdoli di cui il diavolo dispone. Ciò si riflette nelle pene inflitte: il carcere. La condanna a morte è legata alla recidiva o all’impenitenza, come per gli eretici, non alle aggravanti specifiche come il maleficio, che una consolidata tradizione giuridica riteneva sufficienti per irrogare la pena capitale alle streghe.

Tuttavia, questo atteggiamento di moderazione sembra contraddetto da un dato. Le attività giudiziarie dei tribunali di Pisa, Napoli e Reggio Emilia, che sono quelli per i quali abbiamo dati più precisi, presentano una netta tendenza all’incremento, sia per le denunce e le informazioni, sia per i processi veri e propri: l’analisi comparata dei dati disponibili tra il 1542 e il 1601, infatti, suggerisce il quinquennio 1597-1601 come la fase repressiva più intensa del secolo, e forse dell’intera storia dell’inquisizione romana. Una svolta silenziosa, ma di incalcolabile portata, stava attrezzando i tribunali di quegli anni per una battaglia nuova, meno cruenta ma più insidiosa rispetto alla grande caccia agli eretici dei decenni centrali del ‘500. L’inquisizione ora uccide di meno, ma processa, indaga, sospetta molto di più, su un territorio più vasto e su un campionario di crimini di fede ricco e vario, anche se a prima vista di scarsa importanza. Il sospetto d’eresia, oltre che sulle superstizioni, si allunga su un insieme di comportamenti, pratiche, idee, che hanno i connotati inequivocabili della quotidianità, del banale. Infrazioni alla precettistica – il mangiar carne nei tempi proibiti, anzitutto – bestemmie dettate dall’ubriachezza e dall’ira, intemperanze verbali, entrano nel raggio d’azione dell’inquisizione e ne diventano lentamente il pane quotidiano. Dunque, la Congregazione del Sant’Ufficio promuove negli stessi anni un più risoluto impegno dei suoi tribunali sul fronte delle superstizioni e una più netta accentuazione delle sue perplessità in materia di repressione della stregoneria.

Dovendo agire su un repertorio di “crimini” più vasto, l’inquisizione romana si avvale della mobilitazione dei confessori. Non era uno strumento nuovo, nella storia dei tribunali inquisitoriali. Le connessioni e le interferenze tra pratica della confessione e repressione dell’eresia ne accompagnano l’operato sin dai primordi, anche se una precisa ricostruzione di quei rapporti non è stata tentata. Ma senza dubbio l’uso della confessione dei peccati era stato presto individuato come uno degli strumenti più efficaci per la lotta all’eresia e alla diffusione dei libri proibiti. Il sistema elaborato era semplice, ma efficace. Il confessore rifiutava di dare l’assoluzione sacramentale ai penitenti macchiatisi di peccati che rientravano tra i crimini di fede, sino a quando essi non si fossero presentati in un tribunale inquisitoriale per ottenervi l’assoluzione giudiziale e per denunciare gli eventuali complici. Formalmente questo meccanismo era rispettoso della norma del “sigillo sacramentale”, cioè del segreto che il confessore doveva mantenere sui peccati confessati. Infatti non era il confessore a divulgare fatti protetti dal segreto. Egli si limitava a non assolvere i penitenti macchiatisi di crimini di fede: era un suo diritto. Spettava al penitente, se voleva essere assolto, recarsi dall’inquisitore, con “autonoma” scelta successiva. Era questa infatti la procedura di un istituto giuridico nuovo, destinato a straordinari sviluppi: la spontanea comparitio, che non riguardava solo i penitenti non assolti, ma chiunque rivelasse a un inquisitore tutti i delitti commessi contro la fede e i nomi di tutti gli eventuali complici. Il denunciante – un antesignano dei collaboratori di giustizia – aveva diritto a vantaggi consistenti: l’esenzione dalle pene temporali (carcerazione, multe, condanne pubbliche infamanti) e, quando l’abiura era inevitabile, dalla pubblicità dell’atto. Il solo castigo che gli veniva inflitto erano le penitenze salutari (digiuno, preghiere, pratica sacramentale più intensa). Da quando era stato introdotto, intorno al 1215, fino agli anni ’30 del ‘500, il ricorso alla penitenza era solo un obbligo da rispettare almeno una volta all’anno, non un’esigenza che si soddisfa tutte le volte che la coscienza lo richiede, come oggi. Molti, per la difesa della propria riservatezza e per diffidenza verso l’uso improprio delle notizie apprese dai confessori, erano soliti comunicarsi senza confessarsi oppure confessarsi in una chiesa e comunicarsi in un’altra, anche nelle piccole comunità di provincia. Così, nell’Italia post-tridentina, nel giro di pochi decenni, un sacramento tradizionalmente malvisto e poco praticato, comincia a occupare spazi crescenti nella vita individuale e associata. La Chiesa seguì questa direzione anche in riferimento ad altri sacramenti, come il matrimonio, per esempio, mirando a un obiettivo ben preciso: migliorare la disciplina dell’intera società.

Note:

1 - Per es. in A. GIARDINA / G. SABBATUCCI / V. VIDOTTO, Nuovi profili storici, Laterza, Roma-Bari 2007, vol. I, p. 484.

2 - M. MURRAY, Le streghe nell’Europa occidentale, Garzanti, Milano 1978.

3 - J. TEDESCHI, The Roman Inquisition and Wichcraft. An Early Seventeenth-Century “Instruction” on Correct Trial Procedure, «Revue de l’histoire des religions», CC (1983).

  Bibliografia di riferimento: - GIUSEPPE BONOMO, Caccia alle streghe. La credenza nelle streghe dal sec. XIII al XIX con particolare riferimento all’Italia, III edizione con una nuova introduzione, Palumbo, Palermo 1985 (I ed. 1959; II ed. 1971); - GIOVANNI ROMEO, Inquisitori, esorcisti e streghe nell’Italia della Controriforma, Sansoni, Firenze 1990.  

Lucrezia Iris Martone,

laureata in Filosofia e in Lettere Classiche (Università “Aldo Moro” di Bari), ha conseguito il Dottorato di Ricerca in “Filosofia, scienze e cultura dell’età tardo-antica, medievale e umanistica” (Università degli Studi di Salerno). Ha curato l’edizione italiana del volume di C. Steel, Il Sé che cambia. L’anima nel tardo neoplatonismo: Giamblico, Damascio e Prisciano (Bari, 2006) e pubblicato vari articoli sul Neoplatonismo pagano di lingua greca, ma sicuramente la sua opera più nota è il De Anima di Giamblico. I frammenti, la dottrina (Pisa, 2014), con la prefazione di H.-D. Saffrey: oltre a fornire la prima traduzione italiana dal greco antico, l’opera presenta i frammenti dell’opera giamblichea secondo un ordine inedito, basato su evidenze filologiche e filosofiche, che mette maggiormente in risalto i nessi tra la filosofia di Giamblico e quella di Plotino e di Porfirio. Attualmente Lucrezia Iris Martone insegna Lettere in una Scuola Secondaria e collabora con la Scuola Normale Superiore di Pisa, dove prosegue la sua attività di ricerca.

La costellazione del Cigno riflessa nella svastica della Rosa Camuna (1^ parte) – Gaetano Barbella

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La leggenda della Rosa Camuna

L’interpretazione della Rosa Camuna è incerta e non è facile per un segno che appartiene a una cultura passata e ormai perduta, e c’è chi suggerisce che avesse un significato legato al sole, sviluppatosi poi in un simbolo dai molteplici significati esoterici. Questo simbolo è stato finanche adottato, dal 1975, come emblema della Regione Lombardia.

[caption id="attachment_28641" align="alignright" width="233"] Illustrazione 1: La costellazione del Cigno riflessa nella Rosa Camuna.[/caption]

Piace riandare col pensiero al tempo dell’antico Camuno, preso ad ammirare nel terso cielo notturno, la magica stella Deneb della costellazione del Cigno al suo zenit. Molti popoli di quel tempo veneravano questo segno. In Deneb quel camuno, intravedeva un personale Sole che si specchiava nella sua anima attraverso il riflesso di un’amabile Luna in lui. Per lui era una dea da venerare e contemplare nella sua intima solitudine. La immaginò simbolicamente come una rosa e la disegnò sulla pietra ai suoi piedi. Per lui quel segno divenne un altare e quando poteva vi si inginocchiava chiudendo gli occhi estasiato. Passò poi la voce ai suoi compagni sulla sua Luna a forma di rosa e da allora molti di essi disegnarono per terra le loro personali rose dell’anima e la loro Valle, che oggi è chiamata Valcamonica, divenne un meraviglioso giardino ripieno di rose camune.

1 Il viaggio a Capo di Ponte vicino Brescia

Sono trascorsi molti anni da quando visitai, insieme ai miei quattro figli, una piccola parte dell’immenso parco delle incisioni rupestri della Valcamonica, a Capo di Ponte, partendo da Brescia dove abitavo. Poco più di 70 km di strada che facemmo in pulman, al seguito di una comitiva culturale, in meno di un’ora circa. Quel luogo è al centro della valle degli antichi Camuni, considerata “mitica” al pari di un “santuario”, dove le genti preistoriche e storiche hanno lasciato per millenni i segni della propria religiosità. La Valcamonica può essere considerata come un libro sacro che vale come un archivio di eccezionale valore, tanto da essere incluso nella Lista del Patrimonio Culturale Mondiale dell’Unesco che raccoglie le testimonianze fondamentali della storia dell’umanità.

Quel giorno del viaggio a Capo di Ponte, resta memorabile nella mia mente, tanto che nei giorni successivi non potei fare a meno di cominciare ad approfondire la conoscenza di tutto ciò che avevo visto, essendo rimasto notevolmente suggestionato.

Nel rientrare a Brescia portai con me un po’ di opuscoli e libretti comprati al Museo Camuno di Studi Preistorici di Capo di Ponte e in seguito cercai sul posto, dove abitavo, altro materiale documentale per allargare l’orizzonte delle conoscenze sui graffiti dei Camuni.

Non passò che poco tempo e già mi sorsero certe intuizioni in merito alle concezione dell’arte rupestre della Valcamonica, producendo degli appunti che si aggiunsero a tanti altri su cose che mi hanno incuriosito nel corso della vita. Ma non ci fu seguito a quelle idee sui graffiti rupestri, tuttavia non le ho dimenticate, proponendomi sempre di svilupparle per scrivere un saggio da pubblicare. È passato intanto il tempo, mesi e poi anni e solo da poco, nel mettere un po’ di ordine in soffitta, dove avevo conservato molte note e appunti di studi del passato, mi è capitato fra le mani lo scritto di quel viaggio a Capo di Ponte con gli appunti rimasti in sospeso. Nel rileggerli mi sono dispiaciuto di averli lasciati lì, quasi a morire, e così di buona lena ho deciso di rimediare per guadagnare il tempo perduto. Ed eccomi qui oggi a scrivere questo piccolo saggio per mostrare, almeno a me stesso, ciò che avevo pensato di fare allora, dopo il viaggio con i miei ragazzi, Non l’ho detto, ma fu in occasione di un convegno della Società della “Dante Alighieri” di Brescia e Bergamo presso l’Auditorium del Museo Camuno di Studi Preistorici di Capo di Ponte. Era il 30 settembre 2001.

2 La Rosa Camuna

Comincio così ad affrontare l’argomento dei petroglifi della Valcamonica bresciana, cosa che avrei dovuto fare da quel giorno del 30 settembre 2001, il giorno della lettura del III e XIX canto dell’Inferno di Dante Alighieri.

Che curiosa coincidenza col III canto, ovvero di un misterioso entrare «NE LA CITTÀ DOLENTE»...«NE L’ETERNO DOLORE»...«TRA LA PERDUTA GENTE»! Che strano presagio, cui solo ora sono portato ad esaminare e che sembra aderire al paesaggio della Valcamonica con i numerosissimi segni scalfiti nella roccia: forse che siano i segni di anime lasciate lì a soffrire in eterno? Ma forse oggi può essere anche “il loro giorno” della redenzione, poiché una stella arriva in loro soccorso, giusto la stella della loro origine, chissà. Il titolo di questo scritto infatti lo annuncerebbe: «La costellazione del Cigno riflessa nella svastica della Rosa Camuna».

Ma diamo corso alla presentazione di queste presunte “anime” in attesa da millenni della loro “stella”, con un’immagine, forse la più famosa fra le tante stampate per terra a Foppe di Nadro (Ceto) vicino Capo di Ponte, con l’illustr. 2! Questa foto mostra un insieme figurativo simbolico in cui compare un simbolo in forma di quadrifoglio, che è chiamato localmente “Rosa Camuna” (un nome attribuito per la sua forma). Più sotto è raffigurato un guerriero con doga e scudo, e lo distingue da altri della stessa area, molto ampia, dei graffiti rupestri della Valcamonica, la configurazione della testa con un casco raggiato.  Notare che i nomi attribuiti alle figure dell’illustr. 2 sono stati dati in sede del Centro Camuno di Studi Preistorici di Capo di Ponte, così come espresso nella didascalia dell’illustr. 2.

[caption id="attachment_28642" align="alignright" width="300"] Illustrazione 2: Insieme figurativo simbolico della fase di influenza etrusca. Due personaggi armati (uno centrale e l’altro in alto a sinistra), forse danzanti, con casco raggiato, doga e scudo e un simbolo su di lui (la “rosa camuna”); sul lato destro un animale. Foppe di Nadro (Ceto), roccia 24, media età del Ferro (catalogo Museo di Capo di Ponte)[/caption]

Altre raffigurazioni di uomini, che prevalgono di gran lunga in numero, non vengono rappresentati così, in veste chiaramente da sembrare guerrieri, per giunta in postura danzante. Di loro se ne parlerà in seguito, mentre ora ci si occuperà della “Rosa Camuna”.

La Rosa Camuna è una delle più famose incisioni rupestri della Val Camonica; risale alla civiltà dei Camuni, la popolazione che visse nella valle durante l'età del Ferro. È composta da una linea che si sviluppa a mo' di girandola o croce ansata a quattro bracci, intercalata da 9 pallini o coppelle allineati ortogonalmente.

Questo simbolo è stato ritrovato 92 volte tra le 300.000 incisioni rupestri della Valcamonica (come già detto all’inizio, primo sito italiano tutelato dall'UNESCO, dal 1979, come patrimonio dell'umanità); è stata raffigurata principalmente in tre modi differenti, anche perché ha avuto una evoluzione nel tempo.

La Rosa Camuna è spesso associata a guerrieri che sembrano danzare attorno a essa e a difenderla dall'aggressione di nemici armati ma il suo significato è tuttora fonte di dibattito tra gli studiosi. Simboli analoghi sono stati ritrovati in Mesopotamia e hanno portato gli studiosi a pensare che tale simbolo sia stato diffuso da questa terra, attraverso il contatto tra popolazioni, fino ad arrivare in Valle Camonica. Ritrovamenti di simili figure incise sono avvenuti anche in Portogallo, Svezia e Gran Bretagna (famosa in particolare la Swastika Stone di Ilkley Moore nello Yorkshire, Inghilterra1) e fanno pensare a un simbolo usato dai guerrieri preistorici.

In Val Camonica questo motivo risale all'età del Ferro, in particolare dal VII al I secolo a.C. [caption id="attachment_28643" align="alignleft" width="285"] Illustrazione 3: Una Rosa Camuna a svastica sulla roccia 57 di Vite,
Paspardo.[/caption] [caption id="attachment_28644" align="alignright" width="142"] Illustrazione 4:
Distribuzione delle rocce istoriate in Valcamonica (Bs).[/caption]                          

C'è una sola figura di Rosa Camuna che può essere datata dubitativamente alla fine dell'età del Bronzo, cioè all'inizio del I millennio a.C. Le figure di Rosa Camuna sono situate per la maggior parte lungo la Media Valle Camonica (Capo di Ponte, Foppe di Nadro, Sellero, Ceto e Paspardo); se ne trovano anche nella Bassa Valle (Darfo Boario Terme, Esine) (illutr. 4).

Il motivo della rosa camuna è stato studiato a fondo da Paola Farina2, che ha compilato un corpus di tutte le figure conosciute in Val Camonica: sono state contate nel suo studio 84 “rose” ‒ 92 con le scoperte successive ‒ incise su 27 rocce, classificabili in tre tipi principali:

a svastica: 9 punti, di cui uno centrale, si distribuiscono alternativamente dentro e fuori i quattro bracci della “rosa”, piegati a 90°; ci sono 16 “rose” di questo tipo (illustr. 3);

a svastica asimmetrica: i 9 punti sono disposti come nel tipo precedente, ma il contorno è differente, in quanto solo due bracci sono piegati a 90°, mentre gli altri due sono uniti; si contano 12 “rose” di questo tipo;

quadrilobata: i 9 punti sono allineati in 3 colonne e 3 righe; il contorno si sviluppa in quattro bracci ortogonali e simmetrici, ognuno dei quali include un punto; è il tipo più diffuso ‒ è quello scelto dalla Regione Lombardia come suo simbolo ‒, se ne contano 56 esemplari (illustr. 2).

Per quanto riguarda l'interpretazione, che non è facile per un segno che appartiene a una cultura passata e ormai perduta, si suggerisce che la “Rosa Camuna” avesse in origine un significato legato al sole, sviluppatosi poi in un simbolo più ampio di portafortuna3. Ma se parlerà più particolarmente in seguito potendo far capo a mie intuizioni come peraltro si evince dal titolo di questo scritto, cioè: “La costellazione del Cigno riflessa nella svastica della Rosa Camuna”.

La stilizzazione della Rosa Camuna, dal 1975 è diventata il simbolo della Regione Lombardia che è depositaria del marchio e ne regola l'utilizzo (illustr. 5).

2.1 Gli accostamenti della Rosa Camuna

[caption id="attachment_28645" align="alignright" width="220"] Illustr. 5: La Rosa
Camuna simbolo della
Regione Lombardia[/caption]

Importanti conferme della plausibilità dell’ipotesi che la Rosa Camuna fosse un simbolo “spirituale” legato al passaggio da questa all’altra forma di esistenza, risultano evidenti quando si osservano le più frequenti associazioni della rosa con altre icone: nella stragrande maggioranza si tratta di antropomorfi armati o duellanti e, più sporadicamente, di palette, figure zoomorfe (cane, uccello acquatico) e la lettera Z “ad alberello” dell’alfabeto nord etrusco o camuno.

Le figure armate meritano una riflessione. Nell’età del Ferro (ca. I° millennio a.C.), quando si ebbe la massima incidenza di rose camune in Val Camonica e nel resto del continente europeo, il possesso di un’arma “moderna” rendeva l’uomo simile a un semidio o quantomeno a un “uomo di potere”, capace di difendere, prendere o togliere la vita per mezzo di quello strumento di straordinaria fattura ed efficacia. All’uomo così dotato doveva essere conferito un alone eroico decisamente superiore a quello che noi affibbiamo ai militi delle guerre moderne.

L’uomo armato, immortalato in una effigie rupestre che lo ritraeva nella sua postura di guerriero o duellante, era con tutta probabilità considerato alla stessa stregua di un eroe mitico, degno di entrare con tutti i carismi nel regno dell’aldilà. Il trapasso di un tale combattente doveva essere in qualche modo insignito di uno “status” speciale, il che spiegherebbe le associazioni della rosa – nell’alta valenza simbolica da me considerata – con alcuni combattenti, particolarmente selezionati, raffigurati nel momento del grande passaggio.

A sostegno di questa ipotesi segnaliamo il fatto che i “guerrieri” accanto a una rosa appaiono spesso ritratti in posizioni particolari, quasi fossero danzatori. Questo richiama alla mente l’atto finale della vita sulla Terra, che l’antropologo Carlos Castaneda definiva “l’ultima danza del guerriero”, metafora indicante l’impeccabilità o l’eroismo di guerrieri di una società primitiva (gli Yaqui del Messico) nel loro ultimo atto prima di lasciare questo lato della realtà. Se l’ultima danza o la caduta finale di un armato dell’età del Ferro costituiva la scena culminante di un’esistenza mitico-eroica sulla Terra, ci sembra sin troppo ovvio che dovesse essere relazionata a un simbolo nobile e trascendentale… come la Rosa Camuna.

E che cos’altro, oltre alla nostra rosa, poteva degnamente accompagnare l’eroe nel suo viaggio da questo mondo a quello oltre la soglia? Fisicamente una paletta che raccogliesse le sue ceneri (talvolta effigiata sulle nostre rocce nel mezzo di uomini armati e rose camune); metaforicamente un cane (tradizionale guardiano del regno dei morti) o un uccello acquatico (cosiddetto psicopompo, guida e conducente dell’anima di un defunto); e, Zeus ne sia testimone, la lettera Z, che ai tempi degli antichi camuni rappresentava la divinità e, considerata quale simbolo archetipo, aveva funzione eternizzante4.

3 I guerrieri danzanti con casco raggiato, daga e scudo

  [caption id="attachment_28646" align="aligncenter" width="625"] Illustrazione 6: Petroglifi della Valcamonica. Guerrieri danzanti con casco raggiato, daga e scudo.[/caption]    

Non sono numerose le figurazioni riscontrate nel comprensorio dei petroglifi della Valcamonica, di guerrieri danzanti con casco raggiato, daga e scudo, dell’illustr. 2, oltre a questa mostrata dall’illustr. 6. Fatto è che, invece raffigurazioni di uomini senza i particolarismi dei suddetti presunti guerrieri, compaiono in abbondanza nelle raffigurazioni della Valcamonica, spesso come contadini che arano i campi con buoi. E se alla Rosa Camuna, esaminata in precedenza, si attribuisce ‒ mettiamo ‒ la valenza di un ipotetico simbolico astro metafisico, di una certa memoria di coloro che l’hanno disegnata in abbondanza nella mappa dei petroglifi della Valcamonica e di altre limitrofe, i personaggi con casco raggiato in questione, potrebbero trovare spiegazione, per esempio, risalendo agli antichi miti greci, di omerica memoria. I miti antichi, sono pieni di storie di dèi che scendono sulla terra per accoppiarsi con gli umani. In molte fonti, compresa la mitologia nordica, la mitologia Greca,  riscontriamo la storia di questi figli di dèi, o dèi veri e propri che dall'Olimpo scendono sulla terra e restano attratte dalle donne umane. Ecco che da queste unioni nascono personaggi dalle doti eccezionali che si distinguono dal novero della razza comune umana e che vengono considerati eroi e semidei, concezione già esaminata nel capitolo precedente. Il passo è breve per intravedere nei presunti guerrieri con casco raggiato in discussione, lontani eredi di una razza speciale di esseri umani che si tramandavano da padre in figlio il potere interiore di una regalità derivante dalla lontana eroica razza guerriera, lontani del loro passato remoto. E il casco raggiato poteva considerarsi una sorta di corona regale cui tutti si inchinavano al tempo dei camuni disegnati sulle rocce della Valcamonica. Resta di loro, probabilmente, il segno del loro potere terreno impresso sulle cosiddette statue-menhir presenti al loro posto qua è là nella Valcamonica, delle quali ne mostro una molto interessante con l’illustr. 7, con accanto, l’illustr. 8, la stessa oggetto di studio secondo la descrizione che segue. Si tratta di appunti del prof. Cupitò dell’Università degli Studi di Padova5.

  [caption id="attachment_28647" align="alignleft" width="275"] Illustr. 7. Statua-menhir
bagnolo 2 (Malegno).[/caption] [caption id="attachment_28648" align="alignright" width="300"] Illustr. 8: statua-menhir Bagnolo 2 (Malegno).
Schema per la descrizione interpretativa.[/caption]                      

< Il masso «Bagnolo 2», in Valcamonica, ‒ spiega il prof. Cupitò servendosi dell’illustr. 8 ‒  rappresenta in questo senso una buona palestra; [...] in questo caso [...] vi sono elementi  maschili e femminili e figure umane e animali; la eventuale presenza di più fasi di incisione non è in ogni caso perspicua; la parte centrale del masso è occupata dall’insieme degli elementi maschili e femminili di rango; si riconoscono due asce ‒ una con lama in rame, l’altra forse è un’ascia-martello in pietra ‒, due pugnali tipo Remedello, lo scialle pettorale e un pendaglio a doppia spirale; l’antropomorfizzazione ‒ soprattutto del coté maschile ‒ è evidente sia per la posizione in cui sono raffigurate le armi, sia perché il disco solare raggiato collocato nella parte superiore del masso rappresenta anche il capo/volto del personaggio; gli elementi femminili sono quasi «inglobati» dagli elementi maschili, ma, di fatto, contribuiscono a definire il torace e le spalle della figura umana, che viene quindi a configurarsi come un concentrato inscindibile di elementi maschili+femminili, disarticolati ma, nel contempo, antropomorfizzanti; a destra e sinistra di questo nucleo centrale si dispongono alcune figure di animali, sia domestici, sia, verosimilmente selvatici; nella parte inferiore del masso, in una posizione di assoluto rilievo, una scena di aratura; l’aratore, maschio, regge la stegola di un aratro a chiodo trainato da due buoi dalle grandi corna lunate.

Un tentativo di interpretazione del sistema figurativo non può non partire dal nucleo centrale, nel quale si può riconoscere l’allusione alla posizione emergente e al rango/ruolo del capo guerriero e della sua consorte ‒ la coppia dominante, quindi ‒; il potere della coppia si concretizza nel possesso della armi ‒ che significa contemporaneamente anche gestione delle attività belliche, e possesso del metallo – e di ornamenti di pregio ‒ anch’essi in parte in metallo ‒, e si manifesta nella loro ostentazione; la coppia dominante denota tuttavia anche un ruolo e una funzione che vanno al di là della sfera materiale: essa infatti viene a identificarsi con il sole, di cui, evidentemente, è l’elemento mediatore.

Gli animali e la scena di aratura sembrano quindi completamente avulsi da questa logica iconografica; e, anche in considerazione della loro possibile pertinenza a una fase di incisione posteriore, potrebbero rappresentare «semplici» aggiunte, il cui significato sfugge; però, indipendentemente dal fatto che si tratti di una figurazione coerente sul piano cronologico o di

un palinsesto, gli animali domestici e selvatici e la scena di aratura alludono in maniera trasparente a quelle che sono le basi economiche fondamentali dei ceti dominanti ‒ cioè la terra e il bestiame ‒ e, forse, a quello che sono le «sfere» su cui si proietta il potere del capo guerriero, o meglio della coppia, in quanto garante della continuità del lignaggio. L’esplicita identificazione del capo guerriero ‒ e, di fatto, della stessa coppia ‒ con il sole può avere due interpretazioni, che, tuttavia, non si escludono a vicenda; cioè:

  1. a) il capo guerriero ‒ e la sua famiglia ‒ sono proiettati nella sfera oltremondana degli antenati;
  2. b) i lignaggi dominanti si sono elevati a garanti e mediatori del rapporto tra sfera numinosa celeste e sfera terrena.

I capi guerrieri ‒ e i lignaggi dominanti ‒ sono quindi anche depositari di quello straordinario strumento di autolegittimazione del potere economico e del controllo sociale che è il potere religioso. Una religione che, peraltro, con una trasformazione drastica rispetto alle fasi neolitiche, non è più quella terrena ‒ e anzi infera! ‒ della fertilità della terra, ma quella celeste del sole. >.

Come già accennato, potremmo associare la statue-menhir appena mostrata, agli stemmi araldici, quali noti segni del blasone. Essi sono detti anche armi o scudi, in greco άσπις, àspis, donde il sinonimo aspilogia.

L’illustr. 10 mostra la pagina della Hyghalmen Roll, uno dei più ricchi stemmari rinascimentali tedeschi6. Non manca la presenza del gran sacerdote, com’è sempre stato fino ad oggi, per esempio nel mondo del Cristianesimo, con i Papi. Nel caso dei petroglifi della Valcamonica è presente la figurazione di un presunto sacerdote che al suo tempo poteva considerarsi una sorta di sciamano7, nell’illustr. 9 è mostrato uno di essi.

  [caption id="attachment_28650" align="alignleft" width="200"] Illustrazione 10[/caption] [caption id="attachment_28649" align="alignright" width="372"] Illustrazione 9: Valcamonica.
Sacerdote che corre, Naquane di Capo
di Ponte – Roccia 35.[/caption]                         [caption id="attachment_28651" align="alignleft" width="234"] Illustrazione 11: Statua-menhir
Ossimo 4. Rivenuta nel 1988 in un
sito con resti di focolare a livello di
calpestio. Età calcolititica, periodo
III a[/caption]

Al posto del casco raggiato ne vediamo un altro con dei raggi rivolto verso l’alto e che corre anziché danzare, come a far pensare ad un suo attributo, la velocità nel pensiero, naturalmente rivolta alla spiritualità. Anche per questo personaggio credo di attribuirgli il rispettivo segno araldico tramite una particolare statua-menhir, il cui significato è stato molto dibattuto tra gli esperti di archeoastronomia.

Si tratta della statua-menhir di Osimo, denominata Ossimo-4, che è stata scoperta nell'Anvòia a ovest di Asinina (illustr. 11). La stele “capostipite” del sito si domandano gli esperti? Monolito trapezoidale piatto, alto 1 metro, appuntito artificialmente alla base, con almeno tre fasi di figurazioni incise. La composizione della fase 1 comprende due dischi a croce interna, il fascio capovolto di linee a U, il pendaglio “a occhiale”, e forse una prima coppia di "pettini" ai lati. Nella fase 2, dopo un temporaneo espianto, furono incisi la “faccia a T” (il motivo semilunato in alto, stilizzazione della faccia umana) e ai lati i cerchi concentrici e le due stelline; fu inoltre rifatto il fascio a U, o “collare”. L'ultima fase vide l'aggiunta del “pettorale” a triangoli contrapposti, peraltro indecifrabile8.

In ambito camuno-valtellinese, l’unico caso nel quale i monumenti istoriati sono stati rinvenuti ancora in situ nel loro contesto originario è quello di Asinino-Anvoia, in Valtellina. Il sito rappresenta quindi un importante modello di riferimento per tentare di comprendere le caratteristiche dei centri cerimoniali di cui le stele e i massi incisi costituivano gli elementi chiave e, in termini dinamici, i complessi rituali che stavano alla base della loro frequentazione e che coinvolgevano attivamente anche gli stessi monumenti.

Il centro cerimoniale si localizza alla sommità di una cresta di interfluvio, modellata dal ghiacciaio Wurmiano. Si staglia in direzione E-O ‒ posizione importantissima per il controllo delle direttrici endovallive. Paesaggio molto bello forse anche questo ha avuto peso nella scelta del posto!

Gli scavi, iniziati nel 1988, hanno consentito di indagare in maniera sistematica ‒ e con un approccio stratigrafico estremamente attento ‒ diversi punti del pianoro; le evidenze principali sono state messe in luce nel settore centrale9.

1Il design è unico nelle isole britanniche, quindi la sua stretta somiglianza con i disegni delle rose camuni in Italia ha portato alcuni a teorizzare che i due sono collegati. In effetti, le truppe di stanza a Ilkley durante l'occupazione romana furono reclutate dai Lingoni Celtici. Questa tribù era originaria della Gallia, ma nel 400 a.C. circa, alcuni migrarono 2Vedi: The “Camunnian Rose”, Valcamonica Rock Art. Fonte: http://www.rupestre.net/tracce/?p=1366 3Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Rosa_camuna 4Fonte: http://www.acam.it/mistero-rosa-camuna-simboli/ 5Fonte: https://www.studocu.com/it/document/universita-degli-studi-di-padova/paletnologia/appunti/le-statue-stele-e-massi-incisi/974081/view 6Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Araldica

7Nella società arcaica, erano gli spiriti ultraterreni a determinare la sorte e gli avvenimenti terreni; ogni problema poteva perciò essere risolto solo da qualcuno che avesse la capacità ed i mezzi per entrare in contatto con tali spiriti, affrontando un “viaggio” ultraterreno nel loro mondo, trovando lì la soluzione ai problemi. Questo è lo sciamano, un “ponte” tra il mondo terreno e quello ultraterreno. Secondo la cultura sciamanica, non si può diventare sciamani per scelta o per semplice iniziazione, ma si deve ricevere una “chiamata” da parte degli “spiriti” e a questa chiamata non si può rispondere negativamente. Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Sciamanesimo

8Fonte: http://siti.voli.bs.it/itinera/02/senza_itinerario/ossimo/default.htm 9Ibidem cfr. 5.

Le “noir” di Le Corbusier – Emanuele Casalena

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1934, Charles-Edouard Jeanneret-Gris (La Chaux-de-Fonds, 6 ottobre 1887 – Roccabruna, 27 agosto 1965) è a Roma, non è la prima volta che visita la Capitale, ventisette anni prima nel 1907 si era calato nell’archeologia dell’Urbe come nell’architettura del Buonarroti, mentre la città vedeva nascere quartieri umbertini in stile torinese. Ora no, c’era uno “spirito nuovo” che aveva liberato gli architetti dall’accademismo borghese dei progetti, dal ’26, in quel di Milano, era nato il Gruppo 7 laboratorio del Movimento Razionalista Italiano, quel MIAR di Terragni, Libera, Pagano, Figini, Pollini ed altri, sconfitto purtroppo o peggio tradito nel 1931 dopo la seconda expo romana, anche per quella “tavola degli orrori” che toccava al cuore Marcello Piacentini. Monsieur Le Corbusier ( cognome corretto del trisnonno Le Corbesier ) in realtà attendeva paziente un colloquio con Benito Mussolini a lungo caldeggiato con lettere accompagnate da schizzi progettuali fatti recapitare a Giuseppe Bottai, il quale, invero, non ne poteva più delle pressanti insistenze dell’architetto svizzerotto, divenuto nel ’30 citoyen français per ragioni d’ opportunità professionale. «Illustre Le Corbusier; vi ringrazio per lo schizzo allegato al progetto precedente; veramente riconoscente per l’interesse con cui seguite i nostri problemi urbanistici, colgo l’occasione per inviarvi i miei più cordiali saluti» così rispondeva al petulante urbanista l’allora Presidente dell’INPS. Zero fu il risultato di quell’attesa, il Duce era troppo indaffarato, zero i progetti realizzati dall’archistar nella mitica Italia, dal piano per una “terza Roma” da attuare a Pontinia, fino al nuovo ospedale di Venezia degli anni ‘60, fu sempre un amore non corrisposto anche con imprenditori della statura di Agnelli ed Olivetti. Quelle due settimane del ’34 si trasformarono così in una vacanza romana senza lambretta, dilatatasi fino alle bonifiche in atto delle paludi pontine con la nascita, ex novo, delle città di fondazione. Eppure Le Corbu era stato l’ispiratore di quell’Esprit Nouveau ( nome della rivista da lui curata con Ozenfant) travasato in Vers une architecure del ’23, testo sceso come una Pentecoste sugli apostoli della nuova architettura ed urbanistica italiana per la quale, tra l’altro, aveva espresso profondo apprezzamento. Idee, progetti, osservazioni pungenti sulla nuova periferia romana, soluzioni corredate da brevità dei tempi di attuazione, unità d’abitazione e quant’altro furono mazzi di fiori senza che Giulietta s’ affacciasse dal balcone di Palazzo Venezia invitandolo a salire. S’è detto e scritto che Mussolini col suo entourage diffidassero del “corvo” perché in odore di bolscevismo, in effetti aveva progettato a Mosca il Centrosoyouz, da realizzare nell’area della ex sede delle cooperative sovietiche (1928-1936), c’era di che storcere il naso ma non più di tanto, un professionista è al servizio della committenza senza guardare alla tessera e poi l’Italia era stato il primo Paese a riconoscere l’Unione Sovietica, con la mediazione del compagno Nicola Bombacci. I rapporti italo-francesi erano buoni tanto che l’anno seguente verrà firmato l’accordo Mussolini-Laval con la cessione alla Libia italiana della striscia di Aozou del Ciad francese. Poi c’era un aspetto politico non secondario per valutare il credo dell’architetto elvetico, la sua simpatia verso il fascismo documentata dall’ empatia ideologica con l’anarco-sindacalista Georges Valois fondatore nel ’25 della lega di Faisceau,  il primo partito fascista fuori dei confini italici, scioltosi poi nel ’28 per volontà ecclesiastiche oltre che borghesi.

[caption id="attachment_28665" align="aligncenter" width="625"] Le Corbusier fotografato sulla scalinata di S. Pietro[/caption]

Per Valois  il fascismo rappresentava l’organizzazione razionale della vita nazionale, l’architettura moderna di Le Corbusier rispondeva appieno a questa prognosi d’avanguardia per curare il Gulliver addormentato della III Repubblica transalpina. Ma neppure in Patria l’urbanistica del “corvo” aveva colto nel segno, nulla da fare per il progetto della Società delle Nazioni a Ginevra, questione formale di inchiostro come scusa, idem per l’utopica Ville radieuse da sperimentare in Francia o meglio nelle colonie ( cercò poi di “vendere il prodotto” anche a Bottai Governatore di Addis Abeba nel ’36), niente da fare pure con la sua proposta del palazzo dei Soviet a Mosca, giudicata figlia della mentalità industrial-borghese. Però la sua fama, anche grazie al CIAM era già alta a livello internazionale, quell’orologiaio-architetto allievo di A. Perret guidava con abnegazione estrema la nave del Movimento Moderno nell’arte di Dedalo, sue le splendide ville bianche degli anni ’20. Nel suo CV politico vantava oltre alla cameratesca amicizia con Valois, l’adesione a un’ala estrema del partito Faisceau, la collaborazione a riviste del movimento, aveva stretti legami con il medico-igienista Pierre Winter affascinato dall’esoterismo di R. Guénon soprattutto per la ricostruzione dell’unità del sapere tra scienze sacre e profane. A proposito costui aveva fondato con P. Lamour, dopo la dissolvenza di Faisceau, il partito rivoluzionario fascista affiancato dalla rivista Plans nel 1931, dove si elaboravano soluzioni efficaci, in urbanistica come in architettura, per la piena salute (fisica e mentale) dei cittadini, quel  plan  Voisin dell’amico architetto gli parve l’uovo di Colombo. Bene Winter fu omeopata ante litteram, affascinato dalla medicina orientale, sostenitore della sanità pubblica, teorico dell’eugenetica tesa a migliorare biologicamente la razza umana, un fervido credente che l’habitat artificiale delle città moderne trovasse la sua soluzione nell’opera razionalista dell’architetto Jeanneret. Quella pianificazione urbana di grande raziocinio e respiro ( ampiezza delle strade, integrazione dei servizi, aree di verde pubblico, residenze in verticale, ecc…) era la risposta operativa alla ricerca del benessere individuale e sociale capace di spegnere le conflittualità fra individui perché “lo star bene con se stessi è lo star bene con gli altri”.  Le Corbu fu tra i fondatori e redattore della rivista Prelude con il mussoliniano Lagardelle, uscita nel ’33, non c’è dubbio sul loro orientamento politico “fascistizzante” nonostante i bizantinismi degli adulatori ipocriti assolutori dei peccatucci ideologici. La colpa mortale di Le Corbusier non gli spalancherà le porte dell’inferno nonostante la sua adesione al governo filonazista di Vichy nel ’40 condito da un antico antisemitismo. Il 1 luglio l’ottantrenne Maresciallo Pétain, seguito a breve da 600 parlamentari, si insediò nella cittadella termale dell’Alvernia-Rodano, solo due giorni dopo ecco arrivare Le Corbusier. Istituito il nuovo Stato Francese nelle sedute parlamentari del 9 e 10 luglio, la Repubblica entra in azione collaborando con l’occupante tedesco ma cercando di salvare il salvabile della Patria francese, comprese le opere di ricostruzione dei centri devastati dalla guerra. E’ su questa parte del programma che Le Corbu offre il suo contributo professionale riuscendo a farsi nominare, dal Ministro degli Interni Peyrouton, responsabile della ricostruzione delle aree urbane andate distrutte. L’anno seguente il maresciallo Pétain lo nominò membro del Comitato di studio della nuova edilizia d’iniziativa pubblica dove le idee dell’architetto potevano dare effettiva risposta  alla grande domanda di case alla quale la neo Repubblica deveva offrire soluzioni adeguate,  tenendo ben presente però il rapporto costi/benefici. Ma il vecchio maresciallo è legato all’urbanistica tradizionale, non vede di buon occhio le proposte ultramoderne dell’architetto del cemento brut e gli boccia, ad esempio, il piano per Algeri. Le Corbusier sdegnato se ne torna nella Parigi occupata, ci ricorda un po’ la fuga a Firenze di Michelangelo dopo un violento alterco con Papa Giulio II per quella maledetta tomba. In quei quattro anni di Vichy il “corvo” si legò al diplomatico filonazista Jean Giraudoux, ritrovò il suo vecchio amico e camerata Lagardelle nominato Ministro del Lavoro, fu in amicizia con Alexis Carrel medico e biologo, premio Nobel per la Medicina nel 1912, convertitosi al cristianesimo a Lourdes dove era stato testimone de visu d’ un miracolo, era Presidente della Fondation française pour l'étude des problèmes humains  durante il governo di Vichy.  Leggiamo che fu razzista, antisemita e fautore dell’eutanasia oltre che bieco collaborazionista, secchi di fango su un grande medico che al contrario spese la propria vita professionale nell’amore per l’umanità, anticipando il percorso dei trapianti, sulla sua fede religiosa  poi basti leggere il testo sulla preghiera scritto di suo pugno.

Le Corbusier morì mentre nuotava nelle acque della Costa Azzurra, era il 27 agosto 1965, come ogni estate si recava nel suo “palazzo” di 12 mq a Roquebrune-Cap-Martin a prendere il sole da indomito nudista. Erano trascorsi vent’anni dalla fine della guerra, quella macchia di nero venne sbiancata in fretta, seppe, nel nuovo contesto politico, riciclarsi nascondendo nell’armadio l’imbarazzante passato. Anzi, grazie all’appoggio del “sinistro” amico  Malraux lievitò in alto fino ad essere un assoluto protagonista dell’architettura con la A maiuscola. La sua machine à habiter, quella folgorazione avuta visitando la Certosa di Galluzzo vicino Firenze, trovò attuazione nell’Unità d’abitazione di Marsiglia (1945-1951) esperimento replicato a Nantes-Rezé e a Briey en Forêt. La lampadina gli si accese riflettendo sull’organizzazione di quel luogo monastico comunitario, una mini città dove convivevano in armonia spazi comuni e spazi privati. Quei frati certosini erano eremiti, passavano la loro esistenza immersi nello studio, nella preghiera, nella meditazione, restando chiusi e silenti nelle loro celle salvo rari momenti comunitari. L’insediamento conventuale  prevedeva spazi comuni gestiti dai conversi, come il chiostro, il parlatorio, la chiesa, il refettorio, ecc..e volumi privati in adesione alla regola. Avendo scelto di estraniarsi dal mondo e vivere nel silenzio, ciascun monaco disponeva di un mini alloggio sviluppata su due livelli, consistente: al piano terra una saletta da pranzo con camino, di fianco un piccola stanza con veduta sulla valle, il servizio igienico e una cameretta da letto. Allo stesso livello c’era l’accesso ad un giardino personale con muro basso solo nel prospetto a valle. Completavano la piccola residenza uno studio posto al piano primo ed una cantinola sotto terra raggiungibile dal giardinetto. Bene questo modello abitativo costituito da celle come arnie integrate da spazi a servizio della comunità fu il fondamento della ricerca abitativa del grande architetto elvetico trovando attuazione, appunto, nell’Unité d’Habitazion marsigliese anche per quell’idea di staccare l’edificio dal terreno con i famosi pilotis (pilastri in c.a.), le celle dei monaci della Certosa di Galluzzo erano infatti sollevate dal piano di campagna.

Il successo di Le Corbusier nel secondo dopoguerra fu enorme, ricordo discussioni articolate ma anche provinciali in Facoltà d’ Architettura tra convinti sostenitori delle teorie di F. L. Wright per un’architettura organica e i razionalisti-funzionalisti schierati con  Le Corbu, il villaggio olimpico di Roma fu una sua indiretta vittoria con tanto di pifferai.

Nell’Aprile del 2015 Le Centre Pompidou di Piano & Rogers volle ricordare con un’accuratissima mostra i cinquant’anni dalla scomparsa di Le Corbusier, il titolo dell’evento era Le Corbusier, Mesures de l’Homme”, un omaggio a tutto tondo al genio del Modulor, che fu pittore, architetto, urbanista, designer, teorico e divulgatore dello spirito nuovo.

Immagini di studi e opere di Le Corbusier

                        

Presentati 300 opere della sua creatività vulcanica, dai progetti, agli schizzi, dagli oggetti di design alle pitture, passando per gli appunti, i suoi scritti, persino le poesie, la grandeur lascia sempre la sua firma. Ma quella macchia nera, strofinata in fretta sul papillon per “rifarsi una vita professionale” all’ombra dell’odiato (un tempo) gen. De Gaulle, sfruttando influenti amici della rive gauche, è rimasta ben nascosta dalla mostra. Ad entrare a gamba tesa ci hanno provato due libri controcorrente, diremmo un po’ codini, “Un Corbusier” scritto da François Chaslin e “ Le Corbusier, un fascisme français” di Xavier de Jarcy. Il primo è un architetto e critico, ex direttore di “L’Architecture d’aujourd’hui , il secondo un più giovane giornalista specializzato nel design, entrambi nei  loro testi riportano a vergine il segreto di Pulcinella cioè che l’architetto elvetico, per un segmento della sua vita, sia stato in sintonia con il fascismo, persino con il nazismo, riemerge così il “rimosso” come afferma Marc Perelman in “Le Corbusier, une vision froide du monde” altro testo molto critico sull’architettura e l’urbanistica di Le Corbu. C’è di che strapparsi i capelli per i fedeli del manicheismo antifascista, del global think falsamente democratico, però persone e azioni non vivono di vita propria, assoluta, vanno calate nei contesti storici, solo lì si possono oggettivamente storicizzare scelte e loro ragioni.. Le Corbusier cercò con ogni sforzo solo di vincere la sua battaglia per un architettura moderna a prescindere se gli arbitri fossero Stalin o Mussolini, praxis del professionista servire più padroni, la storia dell’arte ne è piena, solo  la parola fascismo genera sdegno, accattivante scandalo mediatico, farisea condanna. La sua urbanistica astratta calata dall’alto sui poveri umani odora di totalitarismo, s’addice, è vero, ai regimi autoritari, non è partecipata con la base, è architettura di un demiurgo, messia di verità assolute bisognose di una chiesa gerarchica per essere predicate. L’io illuminato allora cerca i vescovi per la nuova dottrina, poco importa se rossi, neri o d’altro colore. Comunque resta un fatto Mussolini non ricevette mai il “corvo”, fu autarchia nazionalista, disinteresse per un richiedente asilo professionale nella nostra terra, per di più estraneo all’italica tradizione, fu che Muslen aveva altre beghe a cui pensare, o meglio fu il fiuto romagnolo che Le Corbusier non era un fascista, né puro né duro, ma solo un opportunista come tanti, innamorato dell’ego, tanto che ad Arcueil davanti al plotone c’era Robert Brasillach, mentre “il corvo” spiccava il volo verso l’altra sponda. Une question d’honneur!

Emanuele Casalena  Bibliografia F.Agnoli, La forza della preghiera nelle parole degli scienziati, Fede & Cultura, Verona, 2010 Francesco Tentori, Vita e opere di Le Corbusier, 2ª ed., Laterza, 1986. Luciana Baldrighi, Così Le Corbusier inventò l’urbanesimo autoritario, Il Giornale.it,10 Giugno 2015. Leonardo Martinelli, Le Corbusier, fascista e antisemita alla francese, la Stampa, 31 marzo 2015. Enrico Arosio, Le imbarazzanti simpatie per il fascismo di Le Corbusier, L’Espresso, 1 Giugno 2015. Alex Vicente, Le Corbusier, humanista de pasado fascista, EL PAIS, 1 Maggio 2015. Arianna Cavallo, 10 cose su Le Corbusier, Il Post, 27 Agosto 2015. Redazione, Le Corbusier, il geniale architetto era un nazi.fascista, ExpoItaly Art, 15 luglio 2015.  

La fantasia del complotto – Sandro Giovannini

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La “fantasia del complotto”, innanzitutto come genere pseudoletterario, non mi ha mai convinto. Anzi spesso me ne sono tenuto discosto per nausea naturale e per insofferenza degli esiti da riconoscimento. (...Quegli esiti sarebbero stati insopportabili non solo per carenza - contro spesso le apparenze - di visione generale - direi filosofica - del problema, quanto per l’ineliminabile ed insoffribile maniacalità di molti complottisti, ovviamente sovente in parallelo - funzionale - ad altrettanti ed altrimenti bene o male motivati, debunker). Oltre la giovinezza, però, in base alle mie multiformi esperienze militari ed a qualche studio intensivo per vocazione, ho creduto di comprendere al proposito ciò che non sempre poi è facilmente comunicabile. La realtà, fuorché in casi del tutto straordinari, sempre possibili, supera la fantasia, anche la più fruttuosa.

Credo che ciò avvenga, perché sotto la spinta della realtà da sempre l’uomo si è trovato a vivere in ambienti conflittuali, esterni ed interni, ove predominavano sorpresa per le azioni, imprevedibilità per complessità delle evenienze e troppo spesso caos anche per diffusa carenza di giusta informazione... L’apparato visuale, poi, tipicamente predatorio dell’uomo, geneticamente ne conferma lo status di residente superconflittuale. La sorpresa - legata strettamente al terrore - è stata quasi certamente la maestra forzata dell’attenzione sull’azione e sulle sue fattualità, ancor prima che ogni tentativo di rappresentazione preventiva - che è spinta eminente per necessità (nel mondo istintuale predomina la causalità d’azione/reazione) - divenisse immediatamente e progressivamente indispensabile. Quindi ancor ben prima che attitudinale.

Ma oltre all’azione/reazione di necessità immediata la sorpresa, patita e rifuggita, comporta una linea di risposta gravitazionale sempre più complessa. Al di là delle fughe nel vuoto che comportano una dépense assoluta ed un’altrettanto irrisalibile imprevedibilità, seppur spesso vissute come uno “spreco sacro”, vortex attrattivo anch’esso di matrice circolare (altrimenti del tutto inspiegabili molti aspetti del terrore sistemico, della violenza oltre ogni ragione dello stesso furor, del lusso sfrenato, delle tante, apparentemente assurde, manifestazioni dell’umano sacrificio), anche il microcosmo antropico agisce progressivamente sempre più in linea mediata e circolare, così come nelle manifestazioni spiraliformi delle costellazioni del macrocosmo, evitando più spesso di quanto normalmente non si creda la linea di risposta più direttamente prevedibile. Sappiamo bene che discettando di millenni di formazione, al proposito, non possiamo in realtà che muoverci per approssimazioni progressive e maestro di tale logica è stato, ad esempio, Augé quando ha parlato del rapporto tra condizionalità sociali (e di civiltà), potere e repressione - nelle proprie configurazioni -, smontandone la facile consequenzialità meccanica per opera delle strutture sociali dominanti. (1) Riferendosi quindi ad un principio che, sostanzialmente, travalichi (inglobandole e mettendole a servizio) le medesime strutture. L’autorappresentazione del potere è geneticamente violenta e repressiva e, di quest’invarianza sostanziale, si può discuterne efficacemente quasi unicamente per grado e forma. Nella cosiddetta postmodernità, poi, è ormai di molto evidente che le narrazioni ideologiche primarie - come si usa dire ora - (non certo le indagini ideo-logiche sulle narrazioni medesime) sono spaventosamente nude di fronte al problema dell’autorappresentazione costitutiva (e spesso dell’innegabile totale menzogna) del potere medesimo. E queste autorappresentazioni determinano prevalentemente una fantasia circolare. Forse non solo per lo scetticismo spicciolo di bassa lega che per di più ora domina sovrano nel mondo del nihilismo avverato, consentaneo ad anime poco generose anche per crollo dei vasti orizzonti, reali od illusori ed inclini alla maldicenza ed al sospetto, quanto invece proprio per il poco possibile uso di quello scetticismo nobile (in quanto consapevole degli innumerevoli pretesti dell’umano), di cui, come diceva un grande, non ce ne sarà mai abbastanza… (2). E questo ancor più probabilmente perché, essendo caduto verticalmente il rapporto con i miti fondanti è caduta ancor più la verginità iniziale del rapporto con i succedanei storici dei miti stessi.

Noi tendiamo nell’attuale mondo occidentalista - per una ybris che, fuoriuscita dagli idòla tribus di compagine tradizionale è soprattutto sospinta da costruzioni artificiose legate alle devianze di matrice radical-individualista e material-consumatoria tese a interpretare forzosamente solo lungo tali solchi il corpo sociale nella sua complessità organica - a considerare come, appunto, “razionali” le ragioni dell’appartenenza al nostro stesso occidente, così come lo abbiamo costruito nei secoli, tra tante glorie e mille errori ed orrori, maggioritariamente escludendo ogni altra deriva di civiltà, se non per contaminazione subita dai più bassi livelli, sia nel tempo che nello spazio. L’unica razionalità di tutto questo procedere storico, persino nell’ormai innegabile voragine del numero esploso, nelle identità superate dall’omologazione, nella difficoltà crescente del recupero di spazi e tempi vivibili rispetto alle future implosioni, nell’accertamento esistenziale della caduta verticale della forma, consiste in realtà solo nella necessità animica di non contraddire il processo stesso a pena di crollo totale di senso. Crollo terrorizzante, intollerabile… Con tale incombente spettro si rischia sempre di superare quel punto di non ritorno sistemico, anche per scontati ritardi nelle reazioni, che tanti analisti considerano dirimente. Pur non essendo poi questa dinamica affatto originale, perché in ogni strutturazione di civiltà si rinviene una similare necessità d’autoconfermazione. L’insopprimibile sintropia, in superficie ed in profondità, comunque circolare, del centro. Ma l’ingannevole singolarità dell’occidente attuale consiste proprio nell’illusoria presunta centralità razionale, che, ad un’indagine appena più attenta, risulta del tutto artificiosa, essendo assolutamente priva dei tipici correttivi del relativismo metafisico (per origini, criteri, esiti), che sempre stanno dietro (sopra e sotto) ogni sistemazione organica e tradizionale delle cose del vivente, forse ancor prima che dell’umano. Maya in divinis, come in alto così in basso, che avvisi da sempre ogni procedere che non sia del tutto deprivato d’anima. Paradossalmente se (soprattutto riguardo alla natura) avessimo persino un terrore irrazionale maggiore di quello razionale, (ad esempio un mito assurdo, che assurgesse a tabu… come in molte storiche narrazioni antropologiche) potremmo, forse, cavarcela meglio. Ma è difficile ipotizzare che dalla sofistica inverata ed ormai plebea che nega e supera l’universo ancora compatto dell’unicità assoluta dell’Essere si possa sia tornare indietro che andare avanti… Si dovrebbe, appunto, riscoprire - per esperienza nuova e non solo con parole ultimative - come si fa anche troppo spesso in letteratura, (3) la dialettica metafisica della non-dualità.

Così, sia che si sia complottisti che anticomplottisti, si tende a sopravvalutare la risposta, supposta diretta, razionale, non complessivamente deviata o spiraliforme. L’avvitamento nell’ineluttabile è tanto più respinto quanto, sovente, più cogente. E questo avviene più per i servi, si sa, che devono sempre convalidarsi, come gli eroi. Perché si deve dar ragione, di fondo, a quel complessivo procedere storico. E questo non aiuterà mai una disamina possibilmente corretta dei fatti. Ma la realtà dei rapporti sociali vissuta da ciascuno di noi ci rivelerebbe - se fossimo così coraggiosi da accettarlo - la pervasiva, costante, spaventosa, e per niente comica commedia degli equivoci, sia a livello infimo, che a grandi linee. A volte non è solo la densa penetrabilità dei corpi a determinare una resistenza alla logica (l’attingibile spoglia efficacia della perfezione) (4) quanto la sottile fantasia determinata dalle qualità più caratteristiche e proprie dell’umano. Come disse una volta Caillois a proposito del cucchiaio ordinario, quello del supermercato, rispetto alle migliaia di forme - magari anche meravigliose ed evocative - elaborate dai millenni e dalla fantasia dell’uomo: “…E tutti conducono a questo il cui disegno sembra portare a compimento il loro e che, meglio di essi, assolve al suo ruolo…. Questo utensile risibile, alla pari dei gioielli dei musei, mi insegna in quale spoglia efficacia consista la perfezione...”.

Questa consapevolezza metafisica, però, se vogliamo esser del tutto onesti, se da una parte ci dona un metodo più lucido e coraggioso per non sottostare alla vulgata corrente, ci pone su un piano di studio totalmente alternativo (profondamente e non solo superficialmente), ove tutti i bussolotti logici dei discorsi correnti appaiono perlopiù parodie e deviazioni. In tal senso si ribalta anche perfettamente l’odio che ci avvolge come una coltre di polveri sottili ove di qui e di là, di volta in volta, appaiano delle Ilva, urbane e luttuose e forse insuperabili, di sforamento...

Quindi non si deve avere troppo disprezzo o sospetto per l’opera saggia del tempo che riconduce più o meno alla distanza ogni fantasia dell’uomo a contatto obbligato con quel limo carico di potenzialità che costituisce sostanzialmente la vita. E la spoglia efficacia che sembra riportare tutto ad una deriva conseguentemente lineare all’interno di un ciclo e ripetutamente spiraliforme tra i cicli, è quella perfezione che rimane come termine dell’umano otre l‘umano, quindi un limite che possa non essere più tale, nella sacra doppiezza costitutiva, ove si scopra, a fortiori, quanto risibile sia che i tanti rinnegati del terrore, di tutti i tempi, cadano poi facilmente nella retorica dell’ordine. In genere più accomodativa. Insegnamenti che, a nostro parere, non attengono a nessuna materialità grossolana od all’insistita dialettica, ma anzi in crescendo, ad una percezione sottile delle nostre vere, costanti ed eterne, potenzialità organiche.

Potremmo dirci anche che un tempo il mito non raccontava la favola del mondo, essendone costitutivo nella vita di tutti, volenti o nolenti, ben oltre le stesse parole ed immagini, ma la favola del mondo, così com’è oggi, lanciata in una voragine o buco nero cosmico senza paracadute, paradossalmente, è il nuovo mito usuale che informa tutte le nostre vite con l’illusione dell’unicità, la messa in mora del tragico, il parossismo consumista, la propensione alla non assunzione di responsabilità, quando non con l’eccezionalità fasulla di una nascita a caso, di un volgare destino. E questo, non per autorappresentazione fondante o primaria (che pure atterrebbe al tragico/destino), ma per pura combinazione, senza orma metafisica, senza slancio destinale, appiattiti, nel migliore dei casi, s’una governance globalista che distrugge identità colori e fini, ben felici in troppi della cosiddetta fuoriuscita dalla storia... Se poi questo avviene più per alcuni popoli che per altri, questo non è a caso, ma ovviamente per complesse dinamiche d’ammaestramenti fattuali, che nei cicli della vita lasciano segni indelebili e facilmente riconoscibili, se solo si è onesti.

Anche per questo, non si dovrebbe in realtà essere troppo severi con alcuni popoli, che ammaestrati una volta dalle tragiche sconfitte lo sono attualmente dagli occhiuti (ma non meno disperanti) mercati, quando non dall’innegabile ed arrogante dominanza, più o meno paludata. Chi perde - per qualsiasi ragione - le partite della storia s’autocondanna, volente o nolente, all’insignificanza, alla subalternità, persino a volte al cosciente servilismo, deviandosi dove meglio possa ancor gratificare se stesso almeno con il miglior livello di vita possibile. Può persino rincorrere una propria genialità ormai quasi genetica nell’operare soluzioni politiche, altrimenti giudicate risibili, proprio per il proprio addestrato fiuto alla devianza efficace. Risposta anch’essa circolare. E molto del senso della governance europea, persino tra chi odia e chi è odiato (quindi per molti di più di quanti comunemente si creda), sta imprevedibilmente qui, in questo cantone del tempo perduto, i pur diversi ed a volte persino eleganti vasi di coccio tra i pochi rustici vasi di ferro...

D’altra parte, quando la vita non è più che in misura irrisoria poiesis rispetto alla praxis, non per fuga nella tangente utopistica o totalitaria o peggio nelle pratiche artistiche di mercato, ma soprattutto in quello che Augé definisce “…la spettacolare messa in evidenza del presente”, (5) in una sorta d’attivissima e diffusa contro-iniziazione - ovviamente non come presente eterno ma come presente catafratto - allora non rimane molto spazio che nella reazione stoica, ben materiale ma di suo sostanzialmente atemporale e che non implichi per statuto necessariamente un’adesione, metafisica nella libertà o confessionale nell’affidamento. La reazione stoica implica nel vedere lucido, apparentemente inarrestabile dei processi, l’esplicazione di una prassi alternativa di vita e di stile.

E d’altronde quel presente catafratto, anche contrato da un’amabile governance (contraddizione in termine) non potrebbe, a sua volta, che far proliferare per forza di logica quella disposizione psicosociale stigmatizzata insuperabilmente da Montherlant… (6) Con le poi conseguenti e prevedibili reazioni di rifiuto, ormai giustamente ben più diffuse che per solo qualche sedicente anima bella…

E, senza voler troppo esagerare potremmo caricarci sopra ancora un peso da novanta dicendoci che persino se quel sopravvivere onesto, persino se quel tirare avanti con fatica del mondo non fosse che una costrizione che noi poi si segua con spirito di servizio, dovremmo comunque rammentarci “…che la conoscenza di sé (…e del mondo, N.d.A.) arriva dopo il sacrificio di sé…” (7) e quindi come il grano, cibo dell’uomo, è medium atto alla vita, il sacrificio solo (strumentalmente) serve la conoscenza. Non si può (e quindi non si deve) trovar nessun piacere nel sacrificio (…come nessun piacere nel tragico), ma solo osservarne lucidamente il congegno… Altrimenti, pur legittimamente ma per noi molto negativamente, ci si affiderebbe ad una strumentalità non governata. E spingendoci fino al limite dell’impalpabile e forse soprattutto dell’indicibile, potremmo, sia in noi che negli altri, sempre rispettare profondamente chi fa il lavoro sporco, chi si consuma nella logica del giorno per giorno, chi apparentemente brucia incensi all’ovvio. Sempre che noi si possa presumere, a nostra volta in buona fede, lo faccia per fini più degni.

E tornando alla fantasia del complotto è chiaro che tra le mille possibili derive di devianza necessitata da dure e cogenti condizionalità storiche, la capacità di figurare e figurarsi schemi non diretti, circolari, ciclici, ove figuranti, comparse e comprimari di ogni genere e grado, svolgano o possano troppo spesso impersonare parti di primo attore, è quasi obbligata ed ha poco a che fare spesso con ragioni ideali, etiche, geostrategiche, persino politiche, ma attiene più al mondo dell’assurdo umano, così paludato come cialtrone, così organizzato, come diffuso. Che tutto poi ritorni sostanzialmente in quel limo, è altro livello di ragionamento… Anche perché, ora, l’affondare è favorito da una comune coscienza occidentalista apparentemente post-ideologica ma ove ormai resiste l’ideologia unica di uno sfatto umanismo areligioso se non del tutto sostanzialmente asacrale, di un individualismo becero con connotazioni infantilmente globalizzate, assieme clericali e radicali; banalizzando si potrebbe dire ex-cattocomuniste. La paideia spirituale è irrisa, al suo posto sociologismi ed umanismi di terz’ordine, briciole del banchetto filosofico di un occidente un tempo ancora vitale, impazzano nella democratizzata canea mediatica. (8)

Il “sublime socialmente imperativo”, dal Collegio di Sociologia, anni ’30, ormai storicizzato… tradotto… il fascismo… implica un’aporia: la fascinazione del contrario, che contesta in eterno l’eternità della società del denaro, ora consumistica e finanziaristica, globalizzata e normalizzata. Il comunismo rimane ormai sullo sfondo come utopia e permane in alcune realtà - persino in crescendo - come accomodamento imperativamente efficace al mercato, ma in tal modo anche il fascismo diviene un modello possibile costante e presente, fuori dalle sue forme tabuizzate. Non c’è più bisogno per questo di creare nuove od ammodernate “Società del complotto”… sono le categorie stesse della produzione e della vita sotto il regime produttivo a ricrearne corrispettivamente l’aporia eterna. (9) Anche se necessariamente sotto forme sospette e deviate. Suprema ironia della storia. Ma anche rilevazione, per noi consapevole e generosa, della continua alternanza tra l’uso sociale del patrimonio energetico più profondo dell’uomo, della pulsione dionisiaca con quella disciplinare del limite, secondo natura e sacro, vissuti bifronti - in chi ha vera coscienza - per constatazione oltre che per vocazione.

Se poi, sul teatrino del mondo apparecchiato avessimo il coraggio di filtrare più spesso con lenti adeguate al buonsenso identitario, remunerativo e speriamo lucidamente contrario alla ormai rancida pappa umanista, forse fortunatamente in decrescita, il comportamento di roboanti mattatori o falsi umili comprimari, spesso confliggenti con le loro stesse logiche ufficiali persino nell’arco di poche ore, giorni o settimane, resteremmo molto meno ipocritamente sorpresi e la nostra indignazione, disappunto e revenche, le riserveremmo, forse, più veritatamente, a condizionalità strutturali di lungo o lunghissimo periodo, che sognino sempre, più o meno secondo Utopia, di modellare il legno complessivamente storto dell’umano, con una prassi stoica sempre fiduciosa nelle qualità virili...

Note:

1) Sandro Giovannini, “…come vacuità e destino”, 2 parte, ‘Confronto’, 20 saggio: “Potere: senso e repressione in Marc Augé”, NovAntico Editrice, 2013, pag. 153 segg.: “”…Certamente alla base del problema della repressione come espressione del potere c’è il problema ineliminabile ed inaggirabile delle differenze, sia nelle società di classe sia nelle società senza classi, essendo il potere (anche per Augé: pag. 16, Poteri di vita poteri di morte, Cortina, 2003) ben anteriore alla comparsa delle classi. Le differenze innervano ogni società, qualsiasi sia la sua ideologia, in quanto “l’ideologia è sempre ideologia del potere in qualsiasi tipo di società... (...) ...tutte le società sono repressive ed impongono allo stesso tempo un ordine individuale e un ordine sociale.” In pagine memorabili Augé coglie tutte le contraddizioni del doppio orientamento che informa l’odierna letteratura in scienze sociali: il neoevoluzionismo e quello del rifiuto della dicotomia natura/cultura. E sostituisce, integrandole senza negarle totalmente, tutte le principali vie interpretative dell’antropologia in una nuova sintesi che è quella dell’ideo-logica, ovvero della logica delle rappresentazioni in una data società. Qui è molto importante anche che la simbolica, o come la definisce Augé, l’ordine della simbolizzazione, (che costituisce intrinsecamente la rappresentazione) sia considerata fondamentalmente diacronica, un rapporto d’ordine sintattico, che struttura secondo un logos complessivo (ove simbolica e logica quindi sono correlate sempre ma non sempre in diretta corrispondenza) la rappresentazione (in sé e di sé) del potere. Infatti le forme del potere sono limitate in qualità di forme simboliche, indipendentemente dall’immensa varietà delle scelte paradigmatiche e dal carattere non meccanicistico delle combinazioni sintagmatiche. Perché alla storia si chiede sempre un senso, dice Augé, ma questa richiesta di senso è ben prima e ben di più del senso stesso che si vuol dare alla storia ed è il potere che controlla l’accesso al senso e questo accesso al senso si muove tra cooptazione ed esclusione in una dialettica di apparati simbolici ove comunque viene privilegiata la narrazione di un passato eminente. La “storia” diviene quindi centrale per la narrazione del potere, in quanto senza un senso della storia non si potrebbe attribuire un senso complessivo all’esistente stesso oltre che al potere. Sarà ancora un altro potere (un contropotere, un controsenso) semmai, a determinarne una restaurazione od una possibile fuoriuscita, tramite rivolte e rivoluzioni. Questo potere è connaturato alla cooptazione ed all’esclusione e quindi alla repressione proprio perché struttura il senso e la storia. E la “storia” “...forse non è se non la storia della creazione del senso e delle sue costrizioni...” (...) “Non si può riscrivere la storia ma la si può reinterpretare...” (…) “L’attitudine politica o filosofica che consiste nel riprendere in considerazione, facendosene carico, gli elementi passati, nel ripensare la storia, non è dunque totalmente arbitraria, anche quando mitizza od inventa questa storia, perché con la sua sola esistenza essa le attribuisce una possibilità supplementare... (...) ...va da sé, tuttavia, che la storia non potrebbe interamente dipendere dall’attualità e che esiste un confine tra le metamorfosi storiche di un’istituzione, le quali rivelano progressivamente la sua complessità e le sue potenzialità, e le ricostruzioni arbitrarie che modellano il passato sulle esigenze del presente. In ogni caso, l’esigenza del senso passa attraverso un pensiero del passato”. Capacità sottile d’immettere nel dibattito storiografico questa potenzialità, che non deve divenire deviazione o falsificazione proprio nel momento in cui diviene convintamene revisione. Ovviamente, come s’intende subito, bisogna ben stabilire il confine fra “riscrittura del passato” che è condizionata dai miti transeunti, dalle mode ideologiche o dalle compressioni geostrategiche e le vere e proprie falsificazioni alla Zdanov od alla Orwell, che storicamente sono esistite e continuano ferocemente ad esistere, che esisteranno ancora e che tutti possiamo agevolmente constatare. Ove per di più la validazione delle mitizzazioni o delle rappresentazioni è scelta in base a fattori del tutto opportunistici. La “riscrittura del passato” risulta quindi, oggettivamente, di ardua definizione ed una sua chiara delimitazione comporterebbe comunque qualità quasi sovrumane di onestà intellettuale, capacità documentativa e discernimento spirituale. Anche perché per sostenere nobilmente ma assieme efficacemente la sublime inutilità della paidetica, si può accettabilmente credere come Augé che “La follia della storia è una follia ripetitiva. Gli orrori si ripetono. I progressi della tecnologia non fanno che amplificarne gli effetti.” 2) Jacob Burckhardt, Considerazioni sulla storia mondiale, Mondadori, 1995. 3) “…nella misura in cui l’avanguardismo postmoderno si oppone ai termini stabiliti dalla realtà sociale, esso è coinvolto nella società contro cui si ribella. Anziché essere in anticipo rispetto al proprio tempo, è l’espressione più diretta di quest’epoca.” Da: Charrles Russel, Da Rimbaud ai Postmoderni. Poeti, Profeti e rivoluzionari, Piccola Biblioteca Einaudi, 1989, pag.336. 4) Aa.Vv., “Roger Caillois” a cura di Ugo M. Olivieri, Marcos y Marcos, 2004, pag. 22. 5) Marc Augé, Perché viviamo, Biblioteca Meltemi, 2004, pag. 121. 6) Henry de Montherlant, Il solstizio di giugno, Akropolis, 1983, pag.179: “…“…Ma l’uomo di cattiva qualità ha l’abitudine di prendere, prendere qualsiasi cosa, prendere ciò di cui non ha voglia se gli si presenta agli occhi: è uno dei segni della cattiva qualità che non ingannano…”. 7) Alberto de Luca, La conoscenza del Sé o la conoscenza di sé, in “Letteratura-Tradizione”, n° 27, Febbraio 2004, pag. 31. 8) Constantin Noica, in: Emil M. Cioran - Constantin Noica, L’amico lontano, Il Mulino, 1993. ““...in tutto questo c’è l’Europa, le cose ci appaiono semplicemente come le briciole di un banchetto... Gli ideali di liberazione dei popoli di colore sono semplici echi del pathos europeo della libertà; l’umanesimo orientale è una mera replica, il loro Materialismo è una tecnica presa in prestito: e questo stesso comunismo... che misero rimasuglio rispetto al festino di Hegel e della cultura occidentale”! E se tutti questi sono i resti, il cuore dov’è?...” (pag.54) 9) Rocco Ronchi, ‘Complotto ed esistenza. Bataille, Caillois e il collegio di Sociologia’, in “Roger Caillois”, cit., pag. 296. Il fatto che la “sociologia sacra” alla Bataille ed alla Caillois, sia stata poi necessariamente silenziata, dal secondo dopoguerra e per ovvie ragioni, impedisce comunque quello scandaglio a contrariis, e quindi rende quell’aporia sempre operante, sia pur tra veti, limiti, coperture, dissimulazioni… Per il complotto e i suoi disegni fantastici si può inoltre sempre fare riferimento alla texture. Recto e verso. Il filo d’oro ed il ramo d’oro sono poi due dei mitologhemi vicini alla sensibilità di Pound. (Iliade, VIII, 19: “…una corda d’oro, facendo pendere giù dal cielo…”.) Indicativo che il filo d’oro nella trama, faccia diretto ed esplicito riferimento alla texture, ch’è nodo di incroci. “La connessione inevidente è superiore all’evidente”, dice Eraclito e questa inevidenza è l’occultarsi naturale (e non artificiale) della verità-necessità. Così nel nodo (al di là del suo asse), nel gomitolo (al di là dell’intreccio di assi), nel labirinto (al di là del dedalo), troviamo l’inversione dialettica e il possibile luogo e tempo di risoluzione ed, in essi, d’evidenza. Evidenza=visione. L’anima sarebbe un tessuto con tale texture. “…L’ordito e la trama, decreto del cielo…” (E. P., C. LXXX).

Sandro Giovannini

L’etica dell’economia: deus meumque jus – Augusto Vasselli

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Premessa

Quanto andrò a dire non vuole essere una relazione di natura accademica, né tanto meno essere una lectio relativa alla categoria filosofica riferita all’etica né tanto meno all’economia. Questa breve relazione vuole essere una testimonianza di chi ha riflettuto su questa tematica e ha tratto delle conclusioni che ovviamente non potranno che essere provvisorie e soprattutto perfettibili.

* * *

Per affrontare, nell’ambito di un convegno e nei limiti del tempo assegnato, una tematica così ampia ritengo sia necessario, seppur sinteticamente, chiarire dapprima la terminologia che utilizziamo. Con il termine etica (dal greco ἦθος, carattere costume comportamento) si intende in senso generale, direi comunemente, il comportamento sociale, o morale che una persona adotta nel suo ambito di appartenenza, muovendo, quindi da un sentire che fa riferimento alle azioni ritenute comunemente buone o cattive, quindi non solo alle azioni legalmente ammesse o a quelle politicamente ritenute più corrette.Con il termine economia (dal greco οἶκος, casa anche nel senso di beni di famiglia, e νόμος, norma o legge) si intende in genere la scienza che studia la produzione dei beni e dei servizi, la distribuzione e l'utilizzazione della ricchezza.Quindi un modo di operare finalizzato a ottenere il massimo vantaggio con il minimo dispendio di energie e di risorse, la ricerca la trasformazione e la distribuzione delle stesse, un proficuo utilizzo dei beni, la ricerca di sistemi di produzione sempre più efficienti e un appropriato utilizzo della moneta. Con il motto “deus meumque jus”  va quindi anch’esso considerato come un simbolo, si sottintende, tra l’altro, quanto esso può suggerire a chi ha intrapreso un cammino volto alla ricerca finalizzata soprattutto alla interiorizzazione della conoscenza, necessaria all’uomo, in quello che può essere considerato il gioco della vita, nel quale spesso si è chiamati a distinguere tra bene e male, utilizzare in modo appropriato il libero arbitrio e ricercare il diritto-dovere di perfezionare noi stessi. Tale motto mi porta a pensare anche Tommaso d’Aquino, il quale sostiene che “la società si fonda sulla giustizia (jus) e sulla verità (sè superiore, scintilla divina quindi deus)” e che, quindi per analogia, in termini economici uno scambio può essere considerato etico allorquando esiste un reale equilibrio tra regole formali e naturali.

Che relazione esiste tra etica e economia? Entrambe le dottrine attengono al comportamento umano, ma ne considerano aspetti diversi. L’etica si occupa dei principi capaci di giustificare perché certi comportamenti, piuttosto che altri, sono giusti, benefici o desiderabili. L’economia compendia la produzione, la domanda, l’offerta, lo scambio, il consumo dei beni e servizi e le interrelazioni tra i diversi attori. Da ciò appare evidente che la dottrina economica non può dire se l’azione di un singolo soggetto è eticamente corretta, come parimenti è vero che il comportamento ispirato a un principi etico non può concretamente essere sempre applicabile. L’economia, nell’accezione generale del termine, viene spesso rappresentata e soprattutto percepita come qualcosa di asettico, una sorta di ipse dixit di pitagorica o aristotelica memoria, che implica in modo quasi ineluttabile un sistema sia esso produttivo, distributivo, organizzativo, commerciale e finanziario non influenzato o derivato, seppur in parte, dal sentire dei singoli. Ma anche l’economia, così ogni altra altro ambito afferente la società umana, quale ad esempio anche il sistema giuridico, riflette gli istinti primari di ogni essere, le regole comportamentali man mano sviluppatesi, sino ad arrivare e compendiare i sistemi giuridici statuali e le convenzioni che regolano i rapporti tra gli stati e le associazioni sovranazionali. Da questa considerazione appare evidente che il sentire interiore di ogni essere contribuisce a creare, anche riguardo l’economia un sistema. Quindi l’etica è per così dire una sorta di agente casuale (nel senso di causa), che contribuisce a disegnare il sistema e a creare anche le condizioni di cambiamento del sistema stesso. Il sentire interiore pertanto porta a condividere più o meno pienamente le scelte economiche o ad avversarle se contrarie all’intimo che è in noi.

Quanto ho cennato in modo generalizzato è così evidente, ad esempio riguardo il consumo di beni che in taluni contesti sono altamente desiderati mentre in altri assolutamente da evitare (ad esempio le bevande alcoliche, alcune tipologie di alimenti), i comportamenti nelle relazioni tra gli esseri umani, per non parlare delle questioni derivate dalle tradizioni sociologiche o addirittura da quelle religiose, soprattutto se, riguardo queste ultime, ci si riferisce a un piano essoterico. La necessità di contemperare il sentire etico e l’economia ha originato una sorta di categoria quale appunto l’etica dell’economia. L’etica dell’economia è quindi la risultante dell’istinto, direi naturale, dei singoli e la possibilità che un sistema economico astrattamente può offrire. Tenere in considerazione l’etica contribuisce a elaborare un sistema economico nel quale si tiene conto dei codici comportamentali istintivi, che possono per di più avere una disciplina giuridica, quindi legalmente cogente. In un contesto globalizzato ove gli spazi e il tempo, rispetto a poche decenni or sono, sono assottigliati se non quasi azzerati, anche l’etica, soprattutto negli ambiti più evoluti soprattutto spiritualmente, contribuisce alla costante evoluzione del sistema economico, senza per questo perdere la caratteristica propria, cioè quella di essere una naturale matrice comportamentale, che influenza, al di là degli aspetti astrattamente utilitaristici, le scelte anche economiche di ogni essere umano.

Dobbiamo pertanto conciliare, come dice Amartya Sen, il grande economista indiano premio Nobel, il cosiddetto pensiero calcolante (dominus nella ‘scienza del governo’ e nella ‘scienza della ricchezza’), e il pensiero pensante (metafisico ed etico, ovvero quello che origina l’umano agire). Ma da persona che ha intrapreso in questi giorni una riflessione relativa a questa tematica mi sembra opportuno evidenziare quali problematiche potrebbero attenuate se non risolte. Sicuramente si potrebbe dare un buon contributo in materia di: povertà e disuguaglianza; dignità della persona umana; uguaglianza dei diritti di carattere personale, a prescindere dalle differenze individuali; solidarietà, cioè il dovere di tutti, anche riguardo l’economia per ricercare il bene comune; ampliamento delle possibilità per tutti; più ampia valorizzazione del lavoro quale fattore produttivo primario; scambio dei beni equo e paritetico.

Spesso la utilità economica, meccanicamente intesa, direi racchiusa in una formula astratta, espressa a volte soprattutto in termini monetari non è un indicatore adeguato, se preso a se stante e non riferito ad altri profili quali la longevità, la salute, un lavoro minimamente soddisfacente, la pace e un contesto sociale più sereno possibile. In altri termini lo sviluppo, non può essere considerato solo riguardo l'aumento del reddito pro capite o il progresso tecnologico, altrettanto importanti e determinanti sono crescenti livelli di scolarità, le libertà civili e politiche. A questo proposito, penso sia opportuno sottolineare che in campo economico la capacità di azione (cui si associa una seppur minima disponibilità di base di beni e servizi) è centrale nel considerare la effettiva libertà delle persone. Mi viene in mente, allargando il nostro orizzonte, quali persone ormai globalizzate, quanto sia necessario che un sistema economico adeguatamente etico deve contribuire anche a debellare la fame, l’analfabetismo e l’assenza di diritti civili e politici. Perché queste sono le cose che non permettono di vivere in un sistema senza che si tenga conto del merito e delle capacità unitamente al bisogno dei singoli. Va ampliato quindi realmente e concretamente, a mio parere, il concetto di libertà individuale soprattutto perché esso non confligge con il contesto sociale di appartenenza, soprattutto se il tutto viene considerato come una scelta e non come permesso più o meno parzialmente concesso. Dobbiamo, seppur senza fanatismi e semplificazioni integraliste, superare una nuova divinità contraddistinta da un acronimo. Mi riferisco al già menzionato PIL che, come oramai a tutti noto, è considerato l’indice, direi dogmatico, con il quale viene misurato e quindi valutato l’andamento economico di un paese e il benessere, in termini di accesso ai beni e servizi.

Secondo una logica puramente astratta, e coma sopra cennato ispirata al pensiero calcolante, il PIL consente di misurare e confrontare i paesi presi in considerazione, dal punto di vista della crescita e lo sviluppo economico. Ma il PIL non apprezza, in quanto non attribuisce un valore in senso monetario, la qualità della vita in termini di serenità e di benessere. Sicuramente sarà utile individuare ulteriori indicatori sociali e ambientali, come, ad esempio, poco più di un decennio fa,l'Ocse ha fatto promuovendo un progetto globale mediante il quale misurare il progresso di un contesto sociale. Ma ovviamente non posso, né tanto meno voglio, dare indicazioni che di fatto ricordano un programma politico, oppure una sorta di manifesto che potrebbe avere per di più una deriva, per così dire populista o demagogica. Porto solo alla vostra attenzione tematiche, da tempo sul tappeto, cercando di riferirmi semplicemente al buon senso, fonte forse poco paludata dal punto di vista accademico o poco radical chic, ma che, talvolta, in modo semplice ma diretto può darci indicazioni realistiche e possibili. Basti pensare che il sistema sociale va verso una criticità crescente ove la serenità (per non usare il termine gioia) non viene certo favorita dall’esistenza di un mercato seppur ampio e variegato, né tanto meno da apparati burocratici industriali sempre più articolati, in quanto gli stessi da soli non sembrano apportare soddisfacimento ai singoli nel loro ambito sociale di appartenenza. L’etica deve aiutarci quindi a ricondurre i grandi progressi scientifici al servizio di tutti per rendere gli stessi utili al bene e al progresso dell’umanità. Quando detto progresso non è animato da ragioni etiche, può addirittura essere pernicioso.

La scienza non può considerarsi neutrale dal punto di vista etico, perché condiziona la percezione del mondo e il nostro posizionamento individuale. Una visione del mondo esclusivamente scientista e esclusivamente economica, che non tiene conto dei valori etici, causa lo sfruttamento sistematico della natura. Pertanto le teorie economiche vanno analizzate, anche attraverso il filtro dell’etica, al fine di capire tutti gli obiettivi, gli interessi delle parti, ove talvolta ideologie ben mascherate portano a favorire l’élite di turno dominante. Per cercare un desiderato equilibrio tra economia ed etica appare necessario anche uno studio e una ricerca riferita alle varie branche del sapere riguardanti l’economia stessa, la storia, la filosofia e la psicologia, senza trascurate lo studio delle religioni. Ciò appare ancor più necessario in un mondo iper tecnologico che sembra nascondere le sue origini e i suoi fondamenti. L’etica deve riguardare anche la produzione accademica. Di fatto il sistema si basa su una sorta di darwinismo ove viene incoronato il migliore, che, al di là delle capacità, non disdegna anche la manipolazione dei rapporti con gli altri esseri umani, originando una gestione del poter verticale e diretta. L’insegnamento a tutti i livelli deve formare persone autenticamente libere, che sappiano valutare in modo oggettivo anche le tematiche economiche sia riguardo la produzione sia riguardo i consumi, per consentire una consapevole valutazione da quanto offerto da un mercato improntato al consumismo, a sua volte motore della iperproduzione di beni superflui, spesso considerati come beni primari, anche grazie a una sorta di ipnosi derivata dalla pubblicità. L’etica devi quindi aiutarci a utilizzare le risorse che l’economia ci offre per ricercare un mondo ove ci sia realmente maggiore pace e benessere.

Sempre riflettendo su tale tematica, traendo anche ispirazione dalle riflessioni e dal beneficio offertoci da una metodologia iniziatica e tradizionale, l’etica deve guidarci nel ricercare anche riguardo la scienza economica, oltre al rispetto dell’ambiente, basilare per il futuro dell’uomo, il rispetto del lavoro e degli attori del sistema economico. L’etica presuppone, pertanto, che tutti i soggetti che occupano posizioni di potere e di responsabilità gestionale ricerchino gli aspetti umanistici, e non quelli meramente mercantili, mediante l’utilizzo del potere per il dominio e lo sfruttamento fine a se stesso, anche in linea con i fondamenti delle principali tradizioni sapienziali. L’etica non è quindi una sorta di categoria immateriale, astratta, riservata ad accademici che si trastullano con sofismi e sillogismi. L’etica è un corpus che influenzerà sicuramente i futuri accadimenti, quindi anche quelli che riguarderanno l’economia. Viviamo in un ambito economico nel quale ovviamente produciamo e consumiamo i prodotti agricoli come pure i prodotti manifatturieri industriali, ma il nucleo del sistema produttivo non è più quello relativo alla produzione di beni materiali, ma la produzione di beni immateriali, quali le comunicazioni, i servizi, i valori sociali e sinanco l’estetica.

L’etica dovrà guidarci nello sviluppo sempre più automatizzato che ha contraddistinto il secolo scorso, come pure riguardo l’ingegneria genetica che sta caratterizzando l’attuale secolo. I calcolatori saranno a breve in grado di svolgere tutte le mansioni ripetitive e anche taluni compiti variabili. I robot sono ormai una realtà che a volte può interagire con l’uomo. In un piccolo oggetto possiamo tenere con noi tutta la produzione culturale, le musiche i film, fermo restando che il problema resta poi quello di trasferire i dati dentro noi stessi Gli esperti prevedono che nel 2020 il PIL mondiale pro capite si approssimerà a circa 15.000 dollari, rispetto ai circa 11.000 attuali. L’ambito occidentale ridurrà di circa il 20 per cento le proprie capacità reddituali e quindi di accesso ai consumi. Come non pensare allora all’etica allorchè la pubblicità la stessa ci invita a consumare di più. In un quadro ove si dovrebbe sempre più razionalizzare l’utilizzo delle risorse e quindi dei consumi. Certamente nel futuro prossimo il cd. "primo mondo" , in termini economici e politici, manterrà la primazia riguardo le idee e la produzione, ma dovrà confrontarsi sempre più con gli altri paesi, sia perché gli stessi non lo permetteranno sia perché il primo mondo vedrà sempre più ridurre la volontà di farlo per molteplici ragioni.

Il cd. "terzo mondo" continuerà a offrire mano d’opera e materie prime a costi sempre molto contenuti. In particolare l’Africa rimarrà il continente più povero. L’Europa, soprattutto quella comunitaria, riuscirà ancora a rimanere il più vasto mercato e offrirà ai cittadini ancora uno standard di vita qualitativamente migliore. La Cina raggiungerà gli Stati Uniti in termini di PIL, riferito ovviamente a oltre un miliardo e mezzo di abitanti e non a quattrocento milioni se riferiti agli States. La Cina stessa accumulerà la maggior quantità di riserve valutarie, le maggiori banche del mondo saranno di diritto cinese. Sempre in Cina si conteranno 15 megalopoli con più di 25 milioni di abitanti. In Cina avremo la cd. reverse innovation e il maggior numero di acquirenti di automobili. Lo sviluppo tumultuoso che ha riguardato i cd, BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), interesserà fortemente i CIVETS (Colombia, Indonesia, Vietnam, Egitto, Turchia e Sudafrica), ove ovviamente aumenteranno i consumi accompagnati da un fortissimo inquinamento. Come non pensare allora all’etica dell’economia.

Riguardo al lavoro nel prossimo futuro i lavori manuali e quelliimpiegatizi esecutivi, saranno svolti dalle macchine, oppure, come si suol dire, delocalizzati nei paesi emergenti o svolti da immigrati provenienti dai paesi poveri.. I soggetti che offrono un lavoro creativo, in quanto non ancora fungibili, avranno le migliori retribuzioni. Potranno svolgere i loro compiti in modo libero, senza orario, in luoghi diversi mediante un’attività ove lo studio, il gioco e il lavoro quasi si confondono. Coloro che svolgeranno lavori di routine avranno garanzie minori; essi lavoreranno circa 60 mila ore nel corso della loro esistenza,rispetto alle 660.000 ore che mediamente vengono vissute e che rappresentano 11 volte la vita lavorativa. I soggetti che non partecipano alla produzione avranno diritto all’accesso ai beni e ai servizi, ovviamente in modo limitato e contenuto. La globalizzazione delle comunicazioni, attraverso internet, ci offre qualcosa che ricorda l’ubiquità. La rete internet sta trasformando il mondo in una agorà unica, che ci consente di metterci in contatto ovunque, con chiunque, in qualsiasi punto del pianeta senza muoverci. Qualcuno ha coniato neologismi al riguardo i mediante i quali indicare tutto ciò; potremo dire che tele-apprenderemo, che tele-lavoreremo, che ci tele-divertiremo che e addirittura ci tele-ameremo.

Con la chirurgia plastica, i nostri corpi potranno essere modificati. Grazie alla medicina molte malattie saranno sempre meno mortali, la farmacologia potrà modificare i nostri sentimenti. Stiamo passando da un sistema economico nel quale il soggetti che apportano lavoro non vedranno più la loro vita in larga parte dedicata al prevalentemente dal lavoro stesso, ma prevalentemente dedita al tempo libero. L’antropizzazione della terra è anch’essa una tematica che deve essere affrontata sicuramente su un piano etico. Certamente le consuetudini, le credenze religiose, le tradizioni sociali e soprattutto il progresso sia esso tecnologi-scientifico, in particolare riguardo la medicina, fattore comunque positivo, hanno portato a una crescita esponenziale della popolazione. Potrei ancora elencare tematiche anche più complesse, ma parlando di etica debbo attenermi alla stessa anche al fine di non tediarvi ulteriormente e avviarmi alla conclusione.

Come si può pensare, mi riferisco in particolare ai paesi occidentali, a una società complessa,in cui i più credono di poter sopravvivere senza una metafisica, ignorando il nous regolante (il deus indicato nel motto del Rito Scozzese) che la tradizione ci indica seppur in maniera discreta, anche senza etica. L’etica non è esterna alle attività umane, fra cui l’economia: applicarla alla sola contingenza significa mistificare l’essenza stessa dell’uomo e ritenerlo virtuoso al di fuori della relazione con se stesso, con la collettività e con la storia. Il welfare non può essere scisso dal well-ness e l’a-priori dell’individuo va de-sublimato da pretese soggettivistiche a favore di una riconnessione a una sfera relazionale ispirata al sacro universale. L’etica non è una sorta di deus ex machina che interviene successivamente, per attenuare o addirittura cercare di eliminare errori dovuti ai meccanismi economici, oppure per limitare conseguenze negative eventualmente generate dal mercato, dovuti alla irresponsabilità dei vari attori, fino ad arrivare alla insostenibilità ambientale e sociale correlata ai processi economici. Le valutazioni derivate dall’etica non sono eliminabili perché insite alle valutazioni economiche. L’economia ha bisogno dell’etica, e l’etica ha bisogno dell’economia, proprio perché le due discipline indagano l’umano agire e si interrogano sulle modalità necessarie a conseguire il bene individuale e collettivo. Da queste considerazioni appare la umanità e la razionalità comune sia all’etica che all’economia, considerando nella giusta misura la pretesa “avalutatività” della economia stesso, considerando nel contempo modelli antropologici più evoluti, rispetto al meccanicistico homo economicus di John Stuart Mill, capaci di contribuire alla ricerca seppur approssimata dell’armonia tra gli esseri viventi e il contesto al quale appartengono. Concludo davvero, col dire che non mi sembra così azzardato sostenere che l’anima sta al corpo come l’etica sta all’economia.

Augusto Vasselli Presidente onorario del Nuovo Corriere Nazionale (https://www.nuovocorrierenazionale.com/)

Pound contra Huntington – Claudio Mutti

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'Pound è l'inventore della poesia cinese per la nostra epoca’.

 T.S. Eliot

Tra i manoscritti inediti di Ernest Fenollosa, consegnatigli dalla vedova del sinologo nel 1913, Ezra Pound ne trovò uno, intitolato The Chinese Written Character as a Medium for Poetry (1), che fu per lui una vera e propria folgorazione. ‘Il secolo scorso – scrisse Pound un paio d’anni dopo – riscoprì il Medioevo. È probabile che questo secolo trovi nella Cina una nuova Grecia. Intanto abbiamo scoperto una nuova scala di valori’ (2).

Pound non si limitò a concepire una siffatta aspettativa, ma intraprese un’operazione culturale intesa a rendere accessibili tramite soluzioni originali i ‘valori’ espressi dalla poesia cinese. E sembra proprio che ci sia riuscito, se accogliamo l’autorevole giudizio di Wai-lim Yip: ‘anche quando gli vengono dati i più nudi dettagli, riesce a penetrare nell’intenzione centrale dell’autore mediante quella che possiamo forse chiamare una specie di chiaroveggenza’ (3).

Il primo risultato dell’incontro di Pound con la poesia cinese è, nel 1915, Cathay (4), una raccolta di traduzioni effettuate, come si legge nel sottotitolo, ‘for the most part from the chinese of Rihaku’, ossia dalle poesie di Li Tai-po (700-762). Vent’anni più tardi Pound pubblicherà il saggio di Fenollosa sugli ideogrammi cinesi, corredandolo di una breve Introduzione e di alcune Notes by a Very Ignorant Man (4) che testimoniano l’approfondimento dell’interesse per la scrittura ideogrammatica. ‘Tra i fattori che attraggono Pound verso la scrittura cinese vi è certamente la sua immaginazione di tipo visivo e l’esigenza connaturata in lui di esprimersi per immagini rispondenti a cose visivamente concrete’ (5).

Nel 1928 vede la luce Ta Hio, the Great Learning (6). Il Ta Hio (o Ta Hsio, ovvero Ta Hsüeh, ‘Grande Insegnamento’ o ‘Studio Integrale’) è un testo prodotto della scuola di Confucio dopo la morte del Maestro; in esso ‘la moralità assume funzione cosmica, in quanto l’uomo opera la trasformazione del mondo e continua, quindi, nella società, il compito creativo del Cielo’ (7), rivestendo la tipica funzione ‘pontificale’ di mediatore fra il Cielo e la Terra. A Eliot, che gli chiede in che cosa creda, il 28 gennaio 1934 Pound risponde: ‘Credo nel Ta Hsio’. Dall’interesse per l’insegnamento di Confucio nascono anche le versioni poundiane dei Dialoghi (Lun Yü) (8), del Costante Mezzo (Chung Yung) (9) e delle Odi (Shih) (10).

Ha così inizio quel rapporto con Confucio che indurrà Pound a rintracciare nella dottrina del Maestro cinese le risposte più adatte ai problemi dell’Europa del Novecento: ‘Mi pare che la cosa più utile che io possa fare in Italia sia di portarvi ogni anno un brano del testo di Confucio’ (11); e a ritenere che ‘Mussolini ed Hitler per magnifico intuito seguono le dottrine di Confucio’ (12). La dottrina confuciana, così come la scrittura cinese, corrisponde all’esigenza poundiana di precisione linguistica. Per Confucio, infatti, la decadenza della società umana è dovuta al venir meno della corrispondenza tra le cose ed i ‘nomi’ (ming), i quali normalmente definiscono l’insieme dei caratteri di una data realtà oppure indicano una funzione morale o politica; perciò un’efficace riforma della società deve partire proprio da quell’atto di restaurazione dell’armonia che è la ‘rettifica dei nomi’ (cheng ming). Il passo degli Analecta (XIII, 3) relativo a tale concezione viene più volte parafrasato da Pound (13), il quale traduce cheng ming con un neologismo di suo conio, ‘ortologia’, e chiama ‘economia ortologica’ una scienza economica basata sulla precisione terminologica.

Secondo alcuni interpreti sembrerebbe però che il rapporto con il Maestro K’ung Fu, da cui l’opera di Pound è profondamente segnata, non debba essere ridotto a termini puramente etici e politici. ‘Confucio, il pensiero confuciano – è stato sostenuto – svelarono a Pound un modo nuovo di percepire il mondo. Nuovo eppure antichissimo, perché chiave di tutta la tradizione cinese che K’ung aveva voluto salvare e restaurare. Ma chiave anche di una tradizione primordiale che continuò a parlare in Occidente nei Misteri greci e poi, ancora, nell’intuizione dei grandi poeti ‘romanzi’. La percezione del mondo come circolazione della Luce. E quindi come unità. Che è poi il fondamento, l’anima stessa della civiltà cinese’ (14). Insomma, prima come ministro e poi come maestro di scuola Confucio ‘aspirò solo a ripulire e rafforzare l’anello di connessione tra gli uomini dei suoi tempi e la tradizione degli avi’ (15), sicché Pound, attraverso Confucio, si avvicinò a quella saggezza tradizionale che in Europa aveva avuto i propri esponenti in Omero, Aristotele e Dante (da lui esplicitamente citati come tali nella Nota introduttiva al Ta Hsio), ma era ormai difficilmente accessibile nell’Europa del Novecento.

Nel gennaio del 1940 appaiono i Cantos LII-LXXI (16), i cosiddetti ‘Canti cinesi’, chiamati inizialmente da Pound Canti degli Imperatori di Catai, del Regno di mezzo. Pound li ha composti ‘per spiegare il suo ideale di Utopia sociale: essi ricordano il metodo impiegato da uno Spengler o da un Toynbee, i quali citano gli esempi della storia per indicare la tendenza ad un movimento da tenere in considerazione, qualora si intenda trar profitto dal giudizio e dagli errori del passato’ (17). Se il Canto XIII era il Canto di Confucio, la decade LII-LXI passa in rassegna l’avvicendarsi delle dinastie cinesi, dal terzo millennio a. C. fino al 1735 d. C., ultimo anno del regno di Yung-Cheng, ma anche anno di nascita di John Adams, secondo presidente degli Stati Uniti. ‘Ora più che mai Pound applica la propria teoria ciclica della storia. Come nell’avvicendarsi delle stagioni, così nel loro succedersi le dinastie degli imperatori di Catai alternano pace e guerra, buon governo e mal governo, secondo un metodo espositivo che ne presenta l’operato come esempio positivo o negativo, a seconda dei casi’ (18). D’altronde la fonte di Pound è costituita dall’opera del Padre De Mailla (19), il quale aveva interpretato il T’ung-chien kang-mu (‘Abbozzo e dettagli dello specchio esauriente’) di Chu Hsi (1130-1200), fondatore del neoconfucianesimo. A sua volta, il testo di Chu Hsi è un sunto del Tzu-chih t’ung-chien (‘Lo specchio esauriente per l’ausilio nel governo’), opera dello storiografo confuciano Ssu-ma Kuang. E lo scrittore confuciano, quando espone i fatti storici, privilegia le situazioni archetipiche: ‘Confucio impone questo sentimento del paradigma della storia, oltre il tempo, poiché il suo ingegno tende al giudizio morale, un genere di assoluto’ (20). Ne risulta una visione della storia in cui ‘le figure degli imperatori si muovono e agiscono come esempi di buon governo, quando seguono le norme politiche confuciane e scelgono i loro collaboratori tra i letterati, oppure di mal governo, quando subiscono l’influenza di eunuchi, donne di palazzo, di buddhisti e taoisti’ (21). Insomma, secondo la visione che Pound ha mediata da Chu Hsi l’armonia e la giustizia nell’ordine politico-sociale dipendono da una condotta conforme alla natura, mentre il disordine e la sovversione sono l’effetto della violazione delle norme naturali.

Così nell’opera di Pound la Cina diventa uno ‘specchio per l’Europa moderna, e per gli eterni principi di governo che altri prima di lui – uomini della statura di Voltaire – avevano avuto la certezza di vedere nella cronaca cinese’ (22). La riscossione delle decime in granaglie, voluta da Yong Ching al fine di prevenire la carestia, è implicitamente paragonata alla politica degli ammassi proposta nell’Italia fascista dal ministro Edmondo Rossoni (Canto LXI), al quale Pound espose la teoria di Silvio Gesell e della moneta affrancabile; la festa offerta da Han Sieun al sovrano tartaro richiama alla mente lo spettacolo delle manovre sottomarine organizzato per il Führer a Napoli (Canto LIV) e così via.

L’adesione all’insegnamento di Confucio viene dunque esplicitamente ribadita fin dal Canto LII, che termina con l’enunciazione di due precetti confuciani. Il primo è quello della ‘rettifica dei nomi’ (‘Call things by the names’), che ricollega il Canto LII al Canto LI (ultimo della quinta decade), suggellato a sua volta con l’ideogramma cheng wing. Il secondo, desunto dallo Studio Integrale, nell’adattamento poundiano suona così: ‘Good sovereign by distribution Evil king is known by his imposts’.

Anche nel Canto LIII, che sintetizza gli eventi della storia cinese compresi tra l’ illud tempus dei mitici imperatori Yu-tsao e Sui-jen e il tramonto della dinastia Chou, troviamo importanti precetti confuciani. Per esempio: ‘A good governor is as wind over grass A good ruler keeps down the taxes’. In particolare, Pound rievoca il caso di un sovrano che emise direttamente la moneta e la distribuì al popolo: ‘(…) in 1760 Tching Tang opened the copper mine (ante Christum) made discs with square holes in their middles and gave these to the people wherewith they might buy grain where there was grain’. Provvedimento esemplare per Pound, che lo menziona anche altrove: ‘La creazione del denaro per assicurare la distribuzione dei beni non è una novità. Se non volete credere che l’imperatore Tching Tang sia stato il primo a distribuire, nell’anno 1766 a. C., un dividendo nazionale, chiamatelo pure con un altro nome. Diciamo che sia stato un sussidio straordinario…’ (23).

Nella serie degli episodi esemplari che ben evidenziano la funzione paterna dell’imperatore confuciano, spicca nel Canto LIV il proclama di Hsiao-wen Ti: ‘Earth is the nurse of all men – I now cut off one half the taxes – (…) Gold is inedible’. L’oro non si mangia, base della sussistenza è il pane. Perciò il Canto LV dà un notevole risalto ai provvedimenti di Wang An-shih, il quale, vedendo che i campi erano incolti, ordinò che ai contadini venisse concesso un prestito e fece batter moneta in quantità sufficiente per mantenere stabile il corso. ‘Nei ripetuti episodi di distribuzione gratuita di derrate e denaro al popolo Pound aveva individuato d’istinto le economie del dono, la funzione redistributiva degli antichi imperi, delle civiltà dove il mercato era ancora concepito in funzione della polis e non viceversa’ (24). Una politica fiscale sbagliata è invece individuata da Pound come causa del tramonto della dinastia Sung (‘SUNG died of levying taxes – gimcracks’, Canto LVI), alla quale subentrò quella mongola degli Yüan.

La Cina degli Yüan, che si estese tra il Lago Bajkal e il Brahmaputra, costituì la pars Orientis di quell’impero gengiskhanide che nel secolo XIII unificò lo spazio eurasiatico compreso tra il Mar Giallo e il Mar Nero. Primo imperatore della nuova dinastia fu Qubilai (1260-1294): ‘KUBLAI KHAN – that came into Empire – (…) – and mogols stood over all China’ (Canto LVI). Prima di lui, era stato Ögödai (1229-1941) ad imporre il tributo ai Cinesi: ‘ (…) and Yeliu Tchutsai said to Ogotai: – tax, don’t exterminate – You’ll make more by taxing the blighters – thus saved several millyum lives of these chinamen’ (Canto LVI). Ma i Mongoli non seguirono la legge di Confucio, e così la loro dinastia ebbe termine: ‘Mongols are fallen – from losing the law of Chung Ni – (Confucius) – (…) – Mongols were an interval’ (Canto LVI).

L’approccio alla storia cinese attraverso un’opera basata su fonti confuciane induce Pound a vedere nei sintomi di decadenza del Celeste Impero l’effetto dell’influenza corruttrice di taoisti (taoists, taozers, tao-tse) e buddhisti (hochangs), spesso accomunati agli eunuchi, alle ballerine, ai ciarlatani e ai malfattori d’ogni sorta: ‘war, taxes, oppression backsheesh, taoists, bhuddists (sic) – wars, taxes, oppressions’ (Canto LIV), ‘TçIN NGAN died of tonics and taoists’ (Canto LIV), ‘conscriptions, assassins, taoists’ (Canto LIV), ‘And there came a taozer babbling of the elixir – that wd/ make men live without end – and the taozer died very soon after that’ (Canto LIV), ‘And half of the Empire tao-tse hochangs and merchants – so that with so many hochangs and mere shifters – three tenths of the folk fed the whole empire (…)’ (Canto LV), ‘Hochangs, eunuchs, taoists and ballets – night-clubs, gimcracks, debauchery – (…) – Hochangs, eunuchs, and taozers’ Canto LVI). La dinastia Ming (1368-1644) è corrosa dai medesimi tarli: ‘HONG VOU restored Imperial order – yet now came again eunuchs, taozers and hochang’ (Canto LVII), ‘HOEÏ of SUNG was nearly ruined by taozers’ (Canto LVII), ‘OU TI of LÉANG, HOEÏ- TSONG of SUNG – were more than all other Emperors – Laoists and foéist, and came both to an evil end’ (Canto LVII).

L’assimilazione del buddhismo esercitò un influsso determinante sulla vita spirituale della Cina durante l’epoca T’ang (618-907), della quale Pound ripercorre gli annali nei Cantos LIV e LV. Quanto al taoismo, che diventò qualcosa di simile ad una religione, esso subì una considerevole influenza da parte del buddhismo tantrico: ‘i Taoisti elaborarono insegnamenti esoterici risalenti alla più remota antichità aventi lo scopo di assicurare l’immortalità agli adepti mediante metodi simili a quelli dello Hatha-yoga indiano, e concezioni cosmologiche tratte dallo Yin-yang Chia, che in seguito furono studiate e sviluppate dai pensatori neo-confuciani’ (25). In tal modo la cultura spirituale cinese si arricchì di nuovi elementi, che però erano estranei all’ambito etico e sociale cui si era tradizionalmente attenuto il pensiero confuciano. Per tutta l’epoca Sung (960-1279), che costituisce lo sfondo degli eventi evocati nella seconda parte del Canto LV e nella prima del LVI, lo stesso confucianesimo accolse e rielaborò concezioni cosmologiche di provenienza taoista.

La predicazione cattolica arrivò invece in Cina grazie al gesuita maceratese Matteo Ricci, che, giunto nel 1601 a Pechino, fu benevolmente accolto dall’imperatore Chin Tsong, nonostante i custodi dell’ortodossia confuciana, ostili alla diffusione di una dottrina che a loro appariva bizzarra, avessero espresso parere contrario all’introduzione del missionario e delle sue reliquie nella corte imperiale. ‘And the eunuchs of Tientsin brought Père Mathieu to court – where the Rites answered: – Europe has no bonds with our empire – and never receives our law – As to these images, pictures of god above and a virgin – they have little intrinsic worth. Do gods rise boneless to heaven – that we shd/ believe your bag of their bones? – The Han Yu tribunal therefore considers it useless – to bring such novelties into the PALACE – we consider it ill advised, and are contrary – to receiving either these bones or père Mathieu’ (Canto LVIII). Il padre Ricci, che aveva recato in dono al Figlio del Cielo un orologio, diventò per i Cinesi una sorta di patrono degli orologiai; altri gesuiti, ‘Pereira and Gerbillon’ (Canto LIX), conquistarono la fiducia dell’imperatore K’ang Hsi (1654-1722), ‘who played the spinet on Johnnie Bach’s birthday – do not exaggerate/ he at least played on some such instrument – and learned to pick out several tunes (european)’ (Canto LIX); altri ancora, come ‘Grimaldi, Intercetta, Verbiest, – Couplet’ (Canto LX), diedero vari contributi alla diffusione della cultura europea in Cina. Ma i rapporti tra l’Impero e i cattolici non furono facili. Anche se i gesuiti vollero identificare Shang-ti, il Signore del Cielo,, con il Dio della religione cristiana e cercarono di integrare nel cristianesimo alcuni riti confuciani, Papa Clemente XI condannò il culto degli antenati e proibì di celebrare la messa in lingua cinese: ‘The European church wallahs wonder if this can be reconciled’ (Canto LX). Da parte loro le autorità imperiali, pur riconoscendo i meriti dei gesuiti, vietarono il proselitismo missionario e la costruzione di chiese: ‘MISSIONARIES have well served in reforming our mathematics – and in making us cannon – and they are therefore permitted to stay – and to practice their own religion but – no chinese is to get converted – and they are not to build any churches – 47 europeans have permits – they may continue their cult, and no others’ (Canto LX). Yung Cheng, succeduto a K’ang Hsi nel 1723, mise definitivamente al bando il cristianesimo, giudicato immorale e sovvertitore delle tradizioni confuciane: ‘and he putt out Xtianity – chinese found it so immoral – (…) – Xtians being such sliders and liars. – (…) – Xtians are disturbino good customs – seeking to uproot Kung’s laws – seeking to break up Kung’s teaching’ (Canto LXI). Di Yung Cheng, Pound elogia la saggezza, la sollecitudine per l’agricoltura e per l’erario. Di suo figlio Ch’en Lung, che regnò dal 1736 al 1795, pone in risalto l’attività letteraria, concludendo il Canto LXI con l’auspicio che ne vengano lette le poesie.

K’ang Hsi e Yung Cheng, che ritornano nei Cantos XCVIII e XCIX, furono rispettivamente il secondo e il terzo imperatore della dinastia mancese dei Ch’ing, insediatasi alla testa dell’Impero dopo il crollo dei Ming (1644). Sotto la nuova e ultima dinastia, proveniente da un popolo di cavalieri e guerrieri di lingua altaica, la Cina conobbe una grande prosperità ed ampliò le proprie frontiere, estendendole via via dal bacino dell’Amur (1689) alla Mongolia (1697) al Tian-shan (1758) al Tibet (1731): ‘Tibet was brought under and ‘22 was a peace year’ (Canto LX). La Pax Sinica instaurata dalla dinastia mancese è d’altronde già celebrata nel Canto LVIII: ‘we came for Peace not for payment – came to bring peace to the Empire’.

La stesura dei Cantos LXXXV-XCV (26) corona quel paideuma confuciano che Pound aveva enunciato più volte come proprio programma d’azione. ‘Sono assolutamente convinto – scriverà nel gennaio 1945 su ‘Marina Repubblicana’ – che, portando in Italia una maggiore conoscenza dell’eroica dottrina di Confucio, vi porterò un regalo più utile del platonismo che Gemisto vi portò nel XIV secolo rendendovi un così gran servizio di stimolo al Rinascimento’ (27). Secondo Pound, infatti, il confucianesimo presenta vantaggi superiori al platonismo, in quanto, a differenza della cultura greca, esso contiene i princìpi etici e politici necessari a fondare un impero. Questo concetto era stato da lui espresso il 19 marzo 1944 in una lettera al ministro repubblicano Fernando Mezzasoma: ‘L’importanza della cultura confuciana è questa: la Grecia non aveva il senso civico per la costruzione di un impero’ (28). In Cina, invece, il confucianesimo ha consolidato l’edificio imperiale: ‘La Cina con 400 milioni IN ORDINE – dice Pound in un radiodiscorso del 24 aprile 1943 – sarebbe di certo un elemento di stabilità mondiale. Ma quell’ordine deve EMERGERE IN CINA. In 300 o più anni di storia, anzi attraverso tutta la storia che conosciamo di quel Paese, l’ordine deve emergere internamente. La Cina non ha mai vissuto la pace quando è stata nelle mani di un governo guidato dall’estero sul capitale mutuato’ (29).

Non è dunque un caso, se il teorico dell’imperialismo statunitense ha individuato nella civiltà confuciana un sistema di valori e di istituzioni irriducibile alla cultura dell’Occidente: ‘parsimonia, famiglia, lavoro, disciplina (…) il comune rifiuto dell’individualismo e il prevalere di un autoritarismo ‘morbido’ o di forme molto limitate di democrazia’ (30). L’araldo dello ‘scontro di civiltà’ è esplicito: ‘La tradizione confuciana della Cina, con i suoi valori portanti come quelli di autorità, ordine, gerarchia e supremazia della collettività sull’individuo, crea ostacoli alla democratizzazione’ (31). L’ostacolo maggiore all’instaurazione dell’egemonia statunitense sull’Asia e all’imposizione del modello occidentale sarebbe dunque rappresentato dalla paventata alleanza tra l’area confuciana e i paesi musulmani, alleanza che Huntington definisce nei termini di un ‘asse islamico-confuciano’. (Un concetto, questo, che potrebbe avere ispirato il bizzarro sintagma ‘Asse del Male’, impiegato da Bush in relazione alla terna Iran-Iraq-Corea del Nord). D’altra parte, prima di Huntington era stato un Gheddafi non ancora del tutto addomesticato a lanciare un appello in questo senso. ‘Nuovo ordine mondiale – aveva detto il Colonnello il 13 marzo 1994 – significa che ebrei e cristiani controllano i musulmani; se possono fare ciò, domani eserciteranno il loro dominio anche sul confucianesimo e sulle forme tradizionali dell’India, della Cina e del Giappone (…) Oggi cristiani ed ebrei sostengono che l’Occidente, dopo avere distrutto il comunismo, deve distruggere l’Islam e il confucianesimo. (…) Noi ci schieriamo dalla parte del confucianesimo; alleandoci con esso e combattendo al suo fianco in un unico fronte internazionale, sconfiggeremo il nostro nemico comune. Perciò, in quanto musulmani, aiuteremo la Cina nella lotta contro il nemico comune’.

Pound non ha omesso di indicare i presupposti dell’Asse paventato da Huntington. Il denominatore comune del confucianesimo e dell’Islam egli lo ha individuato negli ideali del buon governo, della solidarietà comunitaria, dell’equità distributiva, della sovranità monetaria. Per quanto riguarda l’Islam, nelle norme sciaraitiche fissate dagli Imam Shafi’i e Ibn Hanbal circa la precisione del conio monetario Pound ha colto il pendant islamico dell’’ortologia’ confuciana; nel diritto esclusivo della funzione califfale ad emetter moneta ha visto il fondamento della sovranità politica; nella destinazione della quinta parte del bottino – la ‘parte di Dio e del Profeta’ – all’assistenza delle categorie di bisognosi previste dal Corano e dalla Sunna, Pound ha individuato l’istituzione caratteristica di un sistema di tassazione esemplare. Una fitta sintesi di questa prospettiva poundiana dell’Islam è contenuta nella pagina iniziale del Canto XCVII, che riprende il tema – già presente nel XCVI – del Califfo omayyade ‘Abd el-Malik, il quale nel 692 fece coniare una moneta aurea su cui era impresso il profilo della Spada dell’Islam e, applicando un’indicazione del Profeta, stabilì che il rapporto tra l’argento e l’oro fosse di 6,5 a 1: ‘Melik & Edward struck coins-with-a-sword, – ‘Emir el Moumenin’ (Systems p. 134) – six and ½ to one, or the sword of the Prophet, – SILVER being in the hands of the people – (…) Shafy and Hanbal both say 12 to 1, – (…) – and the Prophet – set tax on metal – (i.e. as distinct from) & the fat ‘uns pay for the lean ‘uns, – said Imran, – (…) – AND in 1859 a dhirem ‘A.H. 40’ was – paid into the post-office, Stanboul. – Struck at Bassora – 36.13 English grains. – ‘I have left Irak its dinar’, – & one fifth to God.’ (Canto XCVII). La misura di ‘Abd el- Malik, introdotta nei territori europei soggetti a Bisanzio, ‘avvantaggiò i ceti popolari, che possedevano argento, mentre una classe dirigente ormai esausta possedeva soprattutto oro (…) i Musulmani ribaltarono il ciclo della storia, rimettendolo sulla direzione giusta’ (32).

L’Islam, come è noto, ha emesso una assoluta ed inequivocabile condanna del prestito a interesse e della speculazione sull’oro e sulla valuta. ‘Quelli che si nutrono di usura non risorgeranno, se non come risorgerà colui che il diavolo avrà paralizzato insozzandolo col suo contatto. Questo perché essi dicono: ‘In verità il commercio è come l’usura’. E invece Iddio ha permesso il commercio e ha vietato l’usura’ (33). Secondo un hadith, l’usura raggiunge il medesimo grado di abominio della fornicazione commessa con la propria madre all’ombra della Ka’ba. Concetti, questi, che sembrano riecheggiare nel Canto XLV, dove l’Usura è vista come pestilenza (‘Usura is a murrain’), incesto (‘CONTRA NATURAM’), profanazione (‘They have brought whores for Eleusis’).

Attraverso questa convergenza di obiettivi del Confucianesimo e dell’Islam noi vediamo dunque esemplificato non lo ‘scontro delle civiltà’, ma, al contrario, quella superiore ed essenziale unità che lega tra loro le civiltà storicamente configuratesi nel continente eurasiatico. Di tale unità ha partecipato in passato anche la civiltà romana (e romano- cristiana), tant’è vero che Pound enumera una serie di sovrani e di legislatori europei i quali, istituendo leggi giuste e regolando la monetazione, hanno garantito ai loro popoli la possibilità di convivere in relativa pace e prosperità: ‘that Tiberius Constantine was distributist, – Justinian, Chosroes, Augustae Sophiae, – (…) – Authar, marvelous reign, no violence and no passports, – (…) – and Rothar got some laws written down – (…) – DIOCLETIAN, 37th after Augustus, thought: more if we tax ‘em – and don’t annichilate (…) – Vespasiano serenitas… urbes renovatae – under Antoninus, 23 years without war… (…) – HERACLIUS, six, oh, two – imperator simul et sponsus’ (Canto XCVI).

Se uno scontro esiste, si tratta allora del conflitto insanabile che contrappone le civiltà, le vere civiltà, alla barbarie, ossia al tipo di vita contra naturam in cui il vantaggio economico individuale prevale sul bene comune, l’Usura stronca la creatività e la Banca soppianta Eleusi.

  Note:
  1. Fenollosa, L’ideogramma cinese come mezzo di poesia, Introduzione e note di E. Pound, All’insegna del Pesce d’Oro, Milano 1960. Cfr. G. E. Picone, Fenollosa – Pound: una ars poetica, in AA. VV., Ezra Pound 1972/1992, a cura di L. Gallesi, Greco & Greco, Milano 1992, pp. 457-480.
  2. Pound, The Renaissance, ‘Poetry’, 1915, p. 233.
  3. Wai-lim Yip, Ezra Pound’s Cathay, New York 1969, 88.
  4. Pound, Cathay, Elkin Mathews, London 1915.
  5. Laura Cantelmo Garufi, Invito alla lettura di Pound, Mursia, Milano 1978, 57.
  6. Pound, Ta Hio, the Great Learning, University of Washington Bookstore, Seattle 1928; Stanley Nott, London 1936.
  7. Pio Filippani-Ronconi, Storia del pensiero cinese, Boringhieri, Torino 1964, 52.
  8. Pound, Confucius Digest of the Analects, Giovanni Scheiwiller, Milano 1937.
  9. Pound, Ciung Iung. L’asse che non vacilla, Casa Editrice delle Edizioni Popolari, Venezia 1945. Questo libro ‘fu distrutto per grossolana ignoranza dai vincitori alla fine della guerra, perché ne scambiarono il titolo antichissimo con un’allusione all’asse Roma-Berlino’ (Giano Accame, Ezra Pound economista. Contro l’usura, Settimo Sigillo, Roma 1995, p. 135).
  10. Pound, The Classic Anthology Defined by Confucius, Harvard University Press, Cambridge 1954; Faber & Faber, London 1955. Ristampato col titolo The Confucian Odes, New Directions Paperbook, New York 1959.
  11. Pound, Carta da visita, Edizioni di Lettere d’Oggi, Roma 1942, p. 50.
  12. Pound, Confucio filosofo statale, ‘Il Meridiano di Roma’, 11 maggio 1941; rist. in: E. Pound, Idee fondamentali, Lucarini, Roma 1991, p. 73.
  13. ‘Se la terminologia non è esatta, se non corrisponde alla cosa, le istruzioni governative non saranno esplicite; se le disposizioni non sono chiare e I nomi non si adattano, non potrete svolgere correttamente gli (…) Ecco perché un uomo intelligente cura la propria terminologia e dà istruzioni convenienti. Quando i suoi ordini sono chiari ed espliciti, possono essere posti in esecuzione’ (E. Pound, Guida alla cultura, Sansoni, Firenze 1986, p. 16).
  14. Andrea Marcigliano, L’ideogramma di Luce del Mondo, in: VV., Ezra Pound perforatore di roccia, Società Editrice Barbarossa, Milano 2000, p. 87.
  15. Marcigliano, op. cit., p. 83.
  16. Pound, Cantos LII-LXXI, Faber & Faber, London e New Directions, Norfolk, Conn. 1940.
  17. Earle Davis, Vision fugitive – Ezra Pound and economics, The University Press of Kansas, Lawrence/London 1968, 98.
  18. Cantelmo Garufi, op. cit., pp. 114-115.
  19. Père Joseph Anne Marie de Moyriac De Mailla, Histoire générale de la Chine, Paris 1777-1783, 12
  1. Levenson – F. Schurmann, China : An Interpretative History from the Beginnings to the Fall of Han, University of California Press, Berkeley – Los Angeles 1969, p. 49.
  2. Cantelmo Garufi, cit., p. 116.
  3. Hugh Kenner, L’età di Pound, Il Mulino, Bologna 2000, 565.
  4. Pound, What is Money for?, Greater Britain Publ., London 1939.
  5. Accame, cit., p. 113.
  6. Filippani-Ronconi, cit., p. 157.
  7. Pound, Section: Rock-Drill 85-95 de los cantares, All’insegna del Pesce d’Oro, Milano 1955; New Directions, New York 1956; Faber & Faber, London 1957.
  8. Tim Redman, Ezra Pound and Italian Fascism, Cambridge University Press, London 1991, 252.
  9. Redman, cit., p. 252.
  10. Pound, Radiodiscorsi, Edizioni del Girasole, Ravenna 1998, pp. 203-204.
  11. Samuel Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000, p. 152.
  12. Huntington, op. cit., pp. 351-352.
  13. Robert Luongo, The Gold Ezra Pound’s Principles of Good Government & Sound Money, Strangers Press, London-Newport 1995, pp. 71-72.
  14. alladhîna ya’kulûna ‘l-ribà lâ yaqûmûna illâ kamâ yaqûmu ‘lladhî yatakhabbatuhu ‘l-shaytânu min al Dhâlika bi-annahum qâlû: Innamâ ‘l-bay’u mithlu ‘l-ribà; wa ahalla Allâhu ‘l-bay’a wa harrama ‘l-ribà’ (Corano, II, 275).
  Claudio Mutti  

DECIMA FLOTTIGLIA M.A.S.: propaganda per la riscossa (XX parte) – Gianluca Padovan

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«Molti sono che traggono diletto / Dal suscitar litigio e sospetto / E ci vuol poco perché ne derivi / L’inimicizia e l’odio più cattivi. Diffondendo calunnia e la menzogna / riescono costoro, a gran vergogna, / Colpi a sferrare che poi dai feriti / Solo più tardi saranno avvertiti»

Sebastian Brant, Degli istigatori di discordia, 1494

    Colpo di mano “badogliano”.

Gli antefatti sono che il 18 dicembre 1943 l’Ammiraglio Giuseppe Sparzani (1) si reca a Venezia per tenere un discorso agli Ufficiali dell’Arsenale a seguito del loro operato. Conseguentemente, come visto nella XVII parte, il Sottosegretario della Marina Repubblicana Ferruccio Ferrini spedisce una lettera a Giuseppe Sparzani l’8 gennaio, dal contenuto velatamente minaccioso in quanto mette in dubbio la consistenza della sua “fede politica” (2).

Il giorno successivo Ferrini invia il Capitano di Vascello Nicola Bedeschi e il Capitano di Fregata Gaetano Tortora alla Caserma San Bartolomeo di La Spezia per assumere il comando del Reggimento “San Marco” al fine d’inviarlo in Piemonte e all’insaputa del Comandante Borghese, in quello stesso giorno assentatosi dalla Caserma.

Con una serie di documenti s’insinuerà, in seconda battuta, che il Comandante Borghese aveva architettato ad arte la sua assenza dalla Caserma San Bartolomeo per dare luogo alla rivolta: menzogna presto smentibile con il dato di fatto della convocazione a Levico presso l’Ufficio di Collegamento con la Kriegsmarine per discutere di operazioni militari da condursi nel golfo di Napoli.

Dopo l’8 settembre in Italia qualcheduno ancora trama, ma qualchedun altro combatte.

Il testo della lettera che Ferrini invia a Sparzani è già stato trascritto nella XVII parte e in questo contributo si presenta invece il testo della relazione che Sparzani invia a Ferrini a mo’ di risposta. Poi ognuno tragga serenamente le proprie considerazioni.

    Venezia 18 dicembre 1943. Ecco il testo del dattiloscritto firmato in calce dall’Ammiraglio Sparzani.

«TESTO DEL DISCORSO TENUTO AGLI UFFICIALI DELL’ARSENALE // L’altro giorno due di voi sono venuti a Vicenza a espormi il loro ed il vostro stato d’animo e per pregarmi di venire a Venezia per parlervi [parlarvi] ed esprimervi il mio pensiero. / Ho aderito molto volentieri a questo invito anche perché mai come in questo momento appariva necessario esaminare con chiarezza ed in perfetta unione di spiriti quale sia la giusta via da seguire. / Non è necessario che vi ricordi minutamente come si sono svolti gli avvenimenti in questi ultimi 4 mesi. / Sta di fatto che il 25 luglio Badoglio dichiarava: “noi combatteremo e non capitoleremo mai”. Il giorno 8 settembre il Re ripeteva al plenipotenziario germanico: “l’Italia non capitolerà mai; essa è decisa a continuare fino alla fine la lotta al fianco della Germania, con la quale è legata per la vita e per la morte”. E, come tutti sanno, la capitolazione era già stata firmata da 5 giorni! / Il prezzo immediato della resa, al quale i nemici tenevano in modo particolare, era la consegna delle nostre navi. / E così la nostra Marina è stata venduta, dopo aver sopportato tanti duri colpi, sacrificato i suoi uomini migliori e gran parte delle sue belle unità all’ideale per il quale la nostra Patria era scesa in campo a fianco della Germania! / E’ necessario dire subito che la grande maggioranza dei nostri compagni e degli equipaggi non hanno fatto altro che obbedire, come sempre; essi si sono resi conto del tradimento soltanto a Malta ed in altri porti nemici quando si sono visti disarmare dai picchetti inglesi e videro togliere gli otturatori ai cannoni, presidiare i depositi munizioni e le manovre e zone più vitali delle Navi. / E’ facile immaginare il tormento interno che deve assillare quei nostri compagni, sottoposti come sono alle umiliazioni più gravi da parte dei nostri spietati avversari. L’Inghilterra ama il tradimento, ma disprezza i traditori. Chi può del resto aver fiducia in gente che // con tanta facilità passa da una parte all’altra della barricata? / Ed è anche giustificabile se i nostri alleati tedeschi diffidano di noi che pur abbiamo dimostrato e dimostriamo di tener fede alla parola data: per loro noi apparteniamo alla stessa razza di coloro che hanno portato le nostre Navi a Malta / E così “per evitare nuove e maggiori sciagure alla Patria” abbiamo perduto l’onore agli occhi del mondo intero; quale maggiore sciagura di questa? E quanti decenni saranno mai necessari per far almeno impallidire il bruciante ricordo di questa vergogna? / Il periodo che stiamo attraversando è indubbiamente uno dei più tragici; le nostre forze armate, lasciate dopo l’8 settembre nel caos più nero, si sono rapidamente sbandate e sono state ovunque disarmate dall’alleato tradito, il quale a dire il vero avrebbe potuto esercitare con ben maggiore acredine le sue vendette. / I nostri Arsenali, le nostre Difese, le poche unità rimaste sono state presidiate od armate dai tedeschi. / Voi avete compiuto un’opera che merita il riconoscimento della Marina; avete mantenuta l’integrità e l’efficacia dell’Arsenale di Venezia nel periodo più critico; avete fatto in modo che noi non divenissimo degli estranei anche in questo nostro stabilimento. / Tale stato di cose è però ora superato colla creazione della nuova Marina repubblicana; la vostra opera che fino a ieri è stata preziosa oggi costituirebbe un ostacolo al faticoso tentativo che si sta facendo per riavere dai tedeschi le nostre basi, le nostre istituzioni ed infine anche le nostre unità. / La vostra crisi di coscienza può essere facilmente superata quando considerate che se avete finora lavorato alle dirette dipendenze dei germanici, ora potete avere la possibilità di continuare la vostra opera sempre al loro fianco ma sotto la nostra bandiera, nella nostra nuova Marina, questa Marina che noi abbiamo il sacrosanto dovere di non lasciar morire. / Personalmente io sono convinto di aver scelto la giusta via. Appartengo infatti alla schiera di coloro che avendo profondamente sentito tutto l’orrore del vergognoso voltafaccia operato da chi pur di abbattere il fascismo non ha esitato a gettare la nostra Patria nel fango e gli italiani nel baratro morale e materiale, hanno reagito e reagiscono // per continuare la lotta e nello stesso tempo per garantire la vitalità e la continuità delle nostre istituzioni. / Non si potrà certo dire che nell’ora grave che l’Italia ha attraversato ed attraversa noi possiamo essere stati spinti da mire allettanti a prendere questa decisione; sarebbe stato ben più comodo, come molti hanno fatto, rimanere nascosti ad assistere agli avvenimenti per schierarsi al momento opportuno dalla parte del vincente. Noi ci siamo messi dalla parte della giustizia e dell’onore, anche se la partita poteva sembrare irrimediabilmente perduta. Noi intendiamo tener fede agli impegni presi solennemente proprio dallo stesso Sovrano, a nome della Nazione tutta, colla dichiarazione di guerra a lato della Germania e con le ripetute assicurazioni di incrollabile fedeltà all’alleanza. / Fra le varie categorie di persone in cui le forze armate si sono suddivise dopo le infauste giornate di settembre (gente passata al nemico – gente al servizio diretto dei tedeschi – gente che sta guardando alla finestra – gente che continua la lotta sotto le nostre insegne a fianco dell’alleato) noi che apparteniamo a quest’ultima categoria siamo indubitatamente quelli che si sentono più a posto di tutti, perché rappresentiamo la continuazione logica e legittima dell’opera iniziata nel giugno del 1940. / Voi siete liberi di condividere o no il mio punto di vista; la vostra decisione deve essere liberamente presa. Vi informo solo che ognuno di voi può ancora presentare domanda di far parte della Marina Fascista Repubblicana. / Vi debbo anche onestamente avvertire che non tutte le domande saranno accettate; un’apposita Commissione le esaminerà e sceglierà coloro che dovranno far parte dei quadri della nuova Marina. / E poiché qualcuno di voi mi ha posto il quesito, è bene che io dica che non è possibile prendere impegni per la conservazione dell’attuale destinazione, o comunque di una destinazione a Venezia, per chi farà la domanda; potranno essere al massimo tenuti in considerazione le necessità ed i desideri giustificati da parte di alcuni. // Ed ora chiudo, pregandovi soprattutto di tener presente che è assolutamente necessario rimanere il più possibile uniti in questo triste periodo della nostra storia; solamente colla concordia e con l’unità di opere e di intenti potremo assicurare alla nostra Marina le premesse per la sua rinascita» (3).

    1944: la guerra si combatte… non sul solo fronte!

Esattamente dopo 450 anni dalla pubblicazione dell’opera di Sebastian Brant, Das Narrenschiff (La Nave dei Folli), il contenuto di tale libro sui malcostumi del genere umano si può ritrovare condensato nelle azioni che, bene orchestrate, vogliono portare a legare mani e piedi alle sole forze –per altro Volontarie!– che stanno combattendo in Italia contro l’invasore e i traditori.

Fortunatamente per l’intera Decima il tutto si risolve per il meglio.

Ferrini è l’esecutore il quale, andata male la faccenda, diventa il capro espiatorio e scompare di scena. Lo si rammenta (ancora una volta!): nel 1947 è nella congrega dei “fascisti rossi” di Stanis Ruinas, assieme all’ex Generale Emilio Canevari.

    Qualcheduno dice “basta!”.

In merito alla vicenda si riporta anche la comunicazione riservata e personale di Giuseppe Sparzani, datata 4 giugno 1944, indirizzata al Ministero delle Forze Armate della R.S.I. Già Capo di Stato Maggiore, è il Sottosegretario di Stato alla Marina Repubblicana che sostituisce Ferrini; la sua lettera è redatta in base alla lettura dei documenti precedentemente trascritti (XVIII parte) (4).

  [Testo dattiloscritto, su carta intestata] Il Sottosegretario di Stato per la Marina P.d.C. 873, 4 giugno 1944.XXII 140184 - RP alleg. 2 Riservato Personale al ministro delle forze armate // tramite: // marina collegamento ff. aa. p.d.c. 867 argomento: X^ Flottiglia M.A.S. –

Il 20 maggio il Duce mi ha consegnato l’unito foglio (allegato 1) contenete diverse accuse contro la X^ Flottiglia M.A.S.- // Ho incaricato il Comandante borghese di svolgere un’ampia, esauriente e severa inchiesta su tutti gli 11 punti del foglio stesso. // Egli mi ha trasmesso il risultato dell’inchiesta che allego in copia (allegato 2), dal quale risulta che le informazioni portate al Duce sono vere e proprie calunnie.- // Si prega di voler proporre che contro il delatore siano prese le gravissime sanzioni che esso merita.- // [firma a penna] (Giuseppe sparzani) (5).

    “L’Inghilterra ama il tradimento…”.

Ecco una frase di Sparzani che si riscrive volentieri: «L’Inghilterra ama il tradimento, ma disprezza i traditori». Il motivo è semplice: dà il “destro” per trascrivere una serie di passi vergati da un personaggio discusso e discutibile, se si vuole. Passi del testo che lasciano intendere un messaggio chiaro, ma evidentemente, soprattutto ai giorni nostri, non per tutti. Un messaggio che ogni Italiano degno di essere considerato tale avrebbe preferito non leggere mai, quale ne sia o ne sia stata la fede politica, religiosa, l’inclinazione filosofica o altro ancora.

Il toscano Kurt Erich Suckert, alias Curzio Malaparte, ufficiale dell’esercito regio “sabaudo” passato al nemico, passeggia per Napoli occupata e giunge in un ex convento adibito a caserma. Gli sono presentati degli uomini: una schiera di ex soldati italiani che passa in rassegna per poi tenere loro un discorso.

Ma prima di ciò fa dire a sé stesso:

«Le uniformi del Corpo Italiano della Liberazione erano vecchie uniformi inglesi di color kaki, cedute dal Comando Britannico al Maresciallo Badoglio, e ritinte, forse per tentar di nascondere le macchie di sangue e i fori dei proiettili, di un verde denso, color di lucertola. Erano, infatti, uniformi tolte ai soldati britannici caduti a El Alamein e a Tobruk. Nella mia giubba erano visibili i fori di tre proiettili di mitragliatrice. La mia maglia, la mia camicia, le mie mutande, erano macchiate di sangue. Anche le mie scarpe erano state tolte al cadavere di un soldato inglese» (Curzio Malaparte, La pelle, ristampa, Adelphi Edizioni, Milano 2010, p. 14).

Poi Suckert osserva gli esseri umani che ha innanzi:

«I soldati (erano quasi tutti molto giovani, si erano battuti bene contro gli Alleati in Africa e in Sicilia, e per questa ragione gli Alleati li avevano scelti per formare il primo nucleo del Corpo Italiano della Liberazione) stavano allineati in mezzo al cortile, là davanti a noi, e mi guardavano fisso. Erano anch’essi vestiti di uniformi tolte ai soldati inglesi caduti a El Alamein e a Tobruk, le loro scarpe erano scarpe di morti» (Ibidem, p. 15).

Ma chi sono costoro? Esseri andati a rimpiazzare cadaveri, in uniformi di cadaveri, pronti per poter divenire cadaveri loro stessi al servizio del nemico?

Poi, cerchiamo per un attimo di non pensare al “cambio di bandiera”, ma solo a questo: come si fa ad accettare d’essere vestiti, a “spregio”, con divise palesemente tolte ai morti e tinteggiate?

Posso solo asserire: assenza di dignità. Occorre aggiungere altro?       Note   1) Giuseppe Sparzani (Venezia 1899 – Roma 1964) diviene Ammiraglio nel gennaio del 1943, aderisce alla R.S.I. e il 18 ottobre dello stesso anno diviene Capo di Stato Maggiore della Marina Repubblicana; dal febbraio del 1944 è Sottosegretario di Stato.   2) «Mi è stato da più parti riferito che in occasione della Vostra visita a Venezia, come pure in altre circostanze, avreste rivolto agli Ufficiali parole che sarebbero state interpretate come espressione della Vostra poca fede politica. / [etc., etc.]». Si tratta del documento n. 25615, proveniente dall’ISEC, Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea – Archivio Fondazione Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea (Isec), Sesto San Giovanni, Fondo Odoardo Fontanella, b. 50, fasc. 218.   3) Si tratta del documento n. 25615, proveniente anch’esso dall’ISEC, Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea – Archivio Fondazione Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea (Isec), Sesto San Giovanni, Fondo Odoardo Fontanella, b. 50, fasc. 218.   4) Si tratta dei documenti n. 25653 (allegato 1) e 25648-25652 (allegato 2) provenienti anch’essi dall’ISEC, Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea – Archivio Fondazione Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea (Isec), Sesto San Giovanni, Fondo Odoardo Fontanella, b. 50, fasc. 218.   5) I.S.E.C., Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea – Archivio Fondazione Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea (Isec), Sesto San Giovanni, Fondo Odoardo Fontanella, rispettivamente b. 50, fasc. 218.   N.B.: I bolli a corredo provengono da: Archivio di Stato di Milano; Tribunale Militare per la Marina in Milano (Repubblica Sociale Italiana), Procedimenti archiviati. Autorizzazione alla pubblicazione. Registro: AS-MI. Numero di protocollo: 2976/28.13.11/1. Data protocollazione: 29/05/2018. Segnatura: MiBACT|AS-MI|29/05/2018|0002976-P.   L’articolo di giornale è tratto da: Avanguardia Vicentina, Periodico della Federazione dei Fasci Repubblicani, Anno II, N. 4, Vicenza, 1 febbraio 1945, p. 1.

L’Insegnamento speciale del Tögal – I parte – Luca Violini

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Nell’insegnamento Speciale del Tögal ci sono tre parti principali:

1. come praticare il Tögal e integrarlo col Trekchö; 2. come svilupparlo purificando i disturbi interni; 3. come raggiungere il risultato/frutto.

È un moto piuttosto tradizionale d'insegnare. Prima di tutto, cos'è il Tögal e perché differenziare Trekchö e Tögal? Quale è il risultato del Trekchö senza integrarlo col Tögal - quale è il risultato se si pratica solo il Trekchö? Chiunque pratichi sia il Trekchö sia il Tögal - cioè gli yogi dello Dzogchen - anche se praticano solo il Trekchö, senza integrarlo col Tögal, avranno il risultato che tutta la loro normale condizione di vita scompaia e diventi invisibile, e questo può anche includere il loro corpo. Prima di tutto nel Trekchö: si progetta di praticare ma non si conoscono le qualità complete dello Dzogchen, cosicché se si pratica il Trekchö allora il corpo materiale e fisico può scomparire, ma non significa che si è raggiunto il corpo d'arcobaleno. Non è ancora la pratica completa dello Dzogchen, nella visione dello Dzogchen: bisogna conoscere quali siano le qualità della Natura di Base (Kunzhi), bisogna conoscere tutto. Se scegliamo e pratichiamo solo alcune parti, non possiamo raggiungere la Buddhità.

Dobbiamo contemplare con la vita normale di tutti i giorni, senza pensare "forse tutto quello che vedo è creato da me stesso". Naturalmente in quel modo non funziona. Affermo che un essere individuale ha una mente, ovunque una mente esista c'è la Natura, ovunque ci sia la Natura essa ha delle qualità - Kadag e Lhundrub - spontaneità e inseparabilità. Queste sono le vere qualità della Natura. Se Kadag e Lhundrub sono separate, non possiamo praticare in modo completo. Affermo che questa Natura non è visualizzata o costruita, nemmeno da un Buddha o dall'essere umano più diligente. Non è costruita ma è la Natura completa e ha come vie qualità, purezze e spontaneità. Chiunque possiede mente e coscienza, tutti gli esseri senzienti hanno questa Natura, anche il Tögal: una delle qualità della natura presente in tutti gli esseri senzienti, anche se non hanno realizzato.

La Natura: se guardano fissamente la luce del sole tutti possono vedere ogni genere di movimento, tutti gli esseri possono vedere, alcuni più chiaramente di altri, è un tipo di visione. Quella è la Natura ed esiste in ogni genere di essere. Ogni essere ha questa Natura e le visioni ci sono già ma questo non si chiama Trekchö o Tögal finchè non si è realizzata una qualche parte esperienzialmente. Riconoscere questo è opera nostra, ma dal lato della Natura non è possibile fare niente. Per cominciare a riconoscere la Natura, dobbiamo imparare tramite gli Insegnamenti e ricevere la benedizione del lignaggio tramite il Guru Yoga, quella è la nostra opera. Quella è la parte del Trekchö. Poi il Tögal. Dobbiamo riconoscere che nella realtà le visioni vengono dalla Natura, poi dobbiamo svilupparle e utilizzarle. La nostra opera è svilupparle, ma noi non possiamo costruirle - esse esistono fin dall'origine. Come ho già detto, la Natura ha queste due capacità. Se pratichiamo il Trekchö, Trekchö significa lato vuoto della Natura, senza Tögal o visioni, quindi se continuiamo a praticare, cosa fare nella vita normale? Noi integriamo con l'esistenza, gli esseri senzienti - poi può alla fine scomparire nello spazio vuoto. Se praticate solo il Trekchö quello può essere il risultato più elevato. Il testo ha istruzioni dettagliate su come praticare e se la pratica del Trekchö viene eseguita allora si può conseguire lo spazio vuoto e il corpo fisico può sparire nello spazio vuoto, forse si dissolve in polvere, qualcosa di molto minuto, diciamo in atomi, sembra che sia così. In tal modo, qualche parte della Natura non può ancora essere realizzata poiché nella Natura esistono spontaneamente luci delle quali non si ha esperienza se si pratica solo il Trekchö. Se la natura viene completamente realizzata e pienamente compresa allora si ha sia un lato vuoto sia le apparizioni: è la piena comprensione della Natura, quello è il Tögal.

Questo non è un dato nuovo ma rappresenta l’utilizzo di molti metodi della pratica del Tögal e le visioni vengono come visioni della vera Natura. Quanto più pratichi, quante più visioni vengono. Questa Natura, come ho già detto, ha vacuità, chiarezza e unificazione, l'Insegnamento Dzogchen ha tra parti - Semde, Longde e Mengagde:

● Il Semde sottolinea l'aspetto chiarezza della Natura ● Il Longde sottolinea l'aspetto della vacuità ● Il Mengagde sottolinea l'unificazione.

Così ciascuno di questi insegnamenti è uguale ma l'enfasi è più sul vuoto, sulla chiarezza o sull'unificazione. Noi dobbiamo insegnarle tutte altrimenti non possiamo cogliere la vera visione dello Dzogchen. Qualunque di questi insegnamenti voi pratichiate dovete realizzare la qualità o capacità che ha la Natura, quindi è importante praticare il Tögal con ciascuno di essi. Se li praticate tutti e usate il metodo del Tögal, prima di tutto dovrete avere una qualche esperienza del Trekchö e cercare di essere più o meno stabili altrimenti le visioni non sono affatto quelle del Tögal. Io darò insegnamenti sul Tögal ma dovete essere sicuri che la vostra esperienza dello Stato Naturale sia chiara e praticare. Non abbiamo molto tempo per diventare stabili ma dobbiamo essere sicuri. Prima di tutto abbiamo un proverbio: Tögal sembra come saltare da un posto ad un altro ma Trekchö significa che avete bisogno di una ferma decisione. Si spera che tutti abbiate esperienza dello Stato Naturale. Quella è la base per lo Stato Naturale, il fondamento. Se non avete quell'esperienza consolidata allora non ha molto senso insegnare il Tögal, sarà come una storiella.

Ho ripetuto abbastanza spesso, che dovete guardare indietro alla mente e allo stato di chiarezza senza distrazione. Quella è la base per praticare la Natura. Mentre rimanete nello Stato Naturale, non cercate di sapere o focalizzare su nulla, ma tra le sessione dovete sapere che questo stato è puro, quale genere di chiarezza avete trovato e chi lo sta vedendo. Controllate tutto questo tra le sessioni, non voglio intendere cho dobbiate controllare mentre siete nello Stato. È "auto chiaro" e dovete esser sicuri da voi. Se avete quest'esperienza allora potete continuare con il Tögal, altrimenti il Tögal è solo una storia. Mentre rimanete e praticate nello Stato Naturale non voglio significare che cerchiate o controlliate qualsiasi cosa. Dovete confidare che questa sia chiarezza senza controllare. Così si spera che non siate in errore o in sonno profondo o inconsci o in uno stato ottuso dopo un duro lavoro. Potete allora cominciare a riconoscere la Natura, ma questo non è ancora il Trekchö. Così, dopo che avete riconosciuto lo Stato, andate avanti e praticate e praticate e avrete più esperienza e forse il vostro Maestro vi introdurrà, ma praticherete ancora e quando diventerete abbastanza stabili e siete pronti a praticare il Tögal, allora quello si chiamerà Trekchö. Nel testo si dice che il vostro Trekchö deve essere stabile, altrimenti se usate i metodi del Tögal e giungono delle visione, esse vi disturberanno la vostra meditazione perchè vi ecciterete. Giungeranno visioni e vi disturberanno, come guardando la TV.

Se il vostro Trekchö è abbastanza stabile, quando verranno le visioni non vi disturberanno ma appariranno come illusioni, non c'è necessità di sapere nulla di più, saranno spontaneamente illusioni. Quando siete pronti a praticare il Tögal, ci sono dei metodi da usare - il ritiro al buio, guardare fissamente la luce del sole e il cielo. Questi sono tre supporti dove si può fissare lo sguardo. Alcuni Insegnamenti utilizzano prima la pratica del buio, questo rende la vostra pratica stabile con il Trekchö e il Tögal insieme. Nel buio si sviluppano più visioni e con la luce del sole sono più chiare ma in minor numero. Se il vostro Trekchö è abbastanza stabile, non importa molto che cosa usiate per primo: entrambi danno visioni, non c'è molta differenza. È importante essere stabili con Trekchö e praticare con lo Dzogchen - Trekchö e Tögal insieme - e fin dall'inizio dovete praticare i preliminari correttamente.

In secondo luogo c'è una pratica preliminare speciale, il rushen. C'è il rushen esterno e il rushen interno e il testo dice che dovete praticarli in modo corretto. Il testo dice anche che se il vostro Trekchö non è abbastanza stabile, le visioni possono essere impure perché le integrate sempre con la coscienza e il pensiero, dunque seguite ed osservate sempre le visioni e queste vi sviano dallo Stato e dalla Natura. E’ importante aver fatto il rushen per lungo tempo. Rushen significa principalmente che non dovete avere un qualunque desiderio per la nostra condizione normale ed essere un pò spaventati dal rinascere di nuovo nel Samsara. Se siete molto attaccati a questa vita mondana allora non avete fatto abbastanza rushen. Rushen significa praticate e realizzate lo scopo dello Dzogchen e siete un po' consapevoli che il Samsara non è bene, così non vi ci tenete troppo stretti. Quello è il Rushen. Interno, sono i sei Loka. Fate ciascun regno e tutti i regni insieme, cosicché è un minimo di sette settimane. Visualizzate come ogni regno sia triste e con sofferenza e come possiate purificarli. Praticate per altri e non abbiate molto attaccamento per questi regni. Praticate con i sette Buddha. Ogni Buddha ha un mantra e visualizzazione con luci mandate a purificare tutti i regni e il bardo. Praticate quanto più potete. Questi sono tutti Rushen interni da praticare in un luogo quieto, un po' elevato dall'area circostante, o una casa con un cortile semi coperto. È importante essere in grado di vedere un sacco di luce del sole. Potete usare una caverna o una radura tra gli alberi. Bisogna che sia un posto semi coperto di modo che il vostro corpo sia protetto da troppa luce solare, ma siate in grado di vedere. Se troppa luce solare cade sul vostro corpo allora può disturbare la vostra pratica.

Quando avete trovato un posto adatto, come praticare? Ci sono quattro suddivisioni:

1. come realizzare la Natura di base. 2. pratica e sentiero. 3. tipi di visioni. 4. cos'altro e necessario fare o non fare.

Come riconoscere la Natura? Ha tre sottodivisioni:

a) che cosa sia la vera Natura. b) quale sia la sorgente di Nirvana e Samsara. c) distinguere tra mente/coscienza e saggezza (consapevolezza o Rigpa).

Che cos'è la Natura e come si sviluppano il Samsara e Nirvana? In generale si dice che lo Stato Naturale sia la base di Samsara e Nirvana. In particolare, possiamo spiegarlo per l'individuo che sta morendo. Morire significa la disconnessione con il corpo e coscienza mentale. Quella è la morte. In generale, non c'è inizio o limite . Per l'individuo c'è sempre uno spazio tra la il morte e bardo, e dopo la sconnessione del corpo materiale e mente ci sarà uno spazio. Nel sutra si spiega che questo spazio è come un'incoscienza che dura per un po'. Secondo lo Dzogchen non è incoscienza, semplicemente non c'è dualismo del pensiero e quindi un essere sta pienamente vivendo la Natura chiara. Quella condizione è indicibile,non c'è nessun disturbo, niente. Se si è un praticante avanzato questo vi guida come l'acqua che va all'oceano.Non c'è nessuna separazione ma per avere questa esperienza è necessario avere un esperienza in questa vita durante la. Questo è detto Bardo del Puro Dharmakaya. Questo accade se un praticante ha realizzazione, quindi è possibile, allora è possibile integrare lì. Anche un essere ordinario ha questa esperienza ma non la riconosce, quella è detta incoscienza. Quella condizione appare naturalmente sia che si abbia praticato oppure no. Quanto a lungo duri dipende dall'individuo, ma non c'è limite. Questa è la base dalla quale partono Nirvana e Samsara. Da lì compaiono spontaneamente sottilissimi suoni, raggi e luci. In quel momento il praticante avanzato è ancora stabile nella Natura. Quando questi suoni, luci e raggi compaiono giungono le visioni, ma non disturbano il praticante perché è ancora stabile nella vera Natura. Per chiunque sia stabile nella Natura quel momento è detto Tsal della Auto-Consapevolezza, il che significa che il praticante è stabile nella Natura e quando suoni, luci e raggi vengono non disturbano.

Essi continuano a crescere sempre più e compaiono luminosità e chiarezza con tutte le cose buone come divinità, ecc. ma la condizione del praticante è molto stabile, sempre nella Natura. Questo conduce al Nirvana. Non c'è influenza di ignoranza o contaminazioni. Tutto è bello e puro e stabile nella Natura. Questo vale per un praticante. Per un essere senziente ordinario è la stessa cosa. Quando compaiono suoni, luci e raggi anche lui li vede, essi compaiono nello stesso modo ma un essere ordinario immediatamente vede qualcosa di inerente dal lato dell'oggetto. Nel contempo si sviluppa una coscienza, una coscienza molto sottile, molto liscia, e questa è detta ignoranza. La coscienza ha due condizioni:

a) Tutte le visioni appaiono esternamente. b) Agire - afferrare le visioni esterne.

Come afferra? Vede che ciò appare ha esistenza inerente, come un lato dell'oggetto. Questo è come la coscienza afferra gli oggetti: è ignoranza. Ma se vediamo le apparizioni come riflessi allora non è ignoranza. Ci sono due cose, non solo ignoranza perché se guardiamo attentamente quando guardiamo un colore o un fiore, sembra un fiore ma nello stesso tempo è com'è - quello è afferrare con ignoranza, ma quel che afferrate non ha ignoranza, semplicemente è com'è. Dunque ci sono due condizioni se osservate attentamente:

a) Tutte le visioni appaiono. b) Vedere, agire, pensare - completamente diverso dal punto.

L'occhio può solo vedere quel che esiste, ma non può afferrarlo. Afferrare è credere che vediamo ci sia realmente e sia un'altra coscienza. Se osserviamo attentamente quel che vediamo – coscienza dell'occhio, coscienza dell'orecchio ecc. e la mente - , una è come la coscienza dell'occhio e l'altra è ignoranza molto sottile, come il pensiero. Tutte le altre coscienze non afferrano, vedono, ascoltano, ecc. soltanto, non riconoscono come fa l'ignoranza. È necessario controllare tutto ciò attentamente, individualmente. Pensare a quel che vediamo non è necessario per vederlo tutto il tempo. Se chiudiamo tutti i sensi e pensiamo ad un qualche oggetto o situazione, ancora si presenta e tu pensi che esista, e questo ti rende rabbioso e fa sviluppare desiderio, ecc. Quanto più ci aggrappiamo, tanto più la coscienza e il lato dell'oggetto si sviluppano e diventano concreti, come il ghiaccio. Dapprima l'acqua è acqua e poi viene freddo e diventa sempre più dura finché alla fine è come roccia. La nostra coscienza viene allo stesso modo. Dunque quello è pensare come costruire Nirvana e Samsara. Rifletteteci un po’. Non pensiate che sia solo un'altra storia. Stiamo ora andando a verificare come il Samsara con tutte le sue sofferenze e miserie si sviluppi col seguire l'ignoranza. Prima di tutto vi stavo dicendo della Natura, essa è la base di ignoranza e saggezza, entrambe secondo l'essere individuale, ma entrambe vengono dalla stessa Natura: questa è chiamata Base del Nirvana e Samsara, e dipende dallo sviluppo della pratica individuale.

(continua…) Luca Violini

Hegel tra Marx e Gentile – Umberto Bianchi

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Si fa un gran parlare di Hegel e del suo pensiero, le cui interpretazioni spaziano da una rigida vulgata in chiave razionalista ed immanentista, sino ad una di matrice platonicheggiante sino ad arrivare, ancor più recentemente (grazie all’opera di studiosi del calibro di Alexander Magee e di Giandomenico Casalino), a riscoprirne ed a metterne in evidenza una  valenza prettamente ermetica.

Per meglio capire ed inquadrare il grande filosofo tedesco, si può anche compiere un lavoro a posteriori, andando, cioè ad esaminarne le implicazioni filosofiche, proprio negli scritti di un autore del calibro di Giovanni Gentile riguardanti Karl Marx. La fine del 19° secolo, vede in Italia e nell’Europa intera un forte dibattito sul pensiero marxista e sul socialismo in genere. Un dibattito che non può non tener conto della presenza di un convitato di pietra, rappresentato dai riverberi del pensiero hegeliano. In Italia, sulle orme dell’hegeliano Bertrando Spaventa e dell’americano John Dewey, prendono spunto i lavori di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile.

Se il primo si farà fautore di un tiepido hegelismo e di un passeggero “innamoramento” dell’ideologia marxista, il secondo, invece, spingerà sino alle estreme conseguenze  il proprio attaccamento all’hegelismo, arrivando ad elaborare una critica del tutto peculiare di quest’ultima sino a conferire allo stesso hegelismo la propria, particolare, interpretazione. Il dibattito va, anzitutto, inquadrato in quelle che erano le coordinate di pensiero dell’intero dibattito filosofico che, a partire dall’alba della Modernità in poi, si erano concretizzate in quella che si potrebbe definire, quale “demolizione della metafisica” , quel “Keine metaphisik mehr!” che, dalla lI metà del secolo 19°, si fece manifesto ufficiale d’azione dell’intera intellighentzjia europea ed occidentale.

E’ in questo ambito, dunque, che dobbiamo muoverci per meglio comprendere l’interpretazione gentiliana di Marx (e, per analogia, anche quella di Hegel…). Cominciamo con il dire che Marx, applica alle sue tesi la metodologia “dialettica” di Hegel, (per cui la Storia altri non è che un continuo processo antagonista tra sfruttati e sfruttatori, la cui sintesi sarà appunto un ribaltamento sociale (rivoluzione) e la conseguente realizzazione di una società comunistica), capovolgendone però lo spirito e le conseguenti dinamiche. In Hegel, Spirito Assoluto e Spirito Individuale vanno a coincidere, il secondo costituendo la produzione dell’altro (Idealismo). In Marx, tutto ciò viene ribaltato in favore di un primato antropologico dell’individuo e del suo fare che, alfine generano le idee.

Quello stesso individuo che, rispetto a quanto preconizzato da Cartesio, Hegel, Fichte, ma anche dallo stesso Fuerbach, non è più il fulcro da cui vanno producendosi le idee e l’interpretazione della realtà, rappresentato invece dalla società nel suo complesso e dalle istanze economiche che ne accompagnano via via, l’esistenza. Pertanto il capovolgimento della dialettica hegeliana operato da Marx, determina un nuovo principio-cardine che andrà animando l’intero costrutto filosofico del socialismo a venire, ovverosia la teoria della “praxis”.

A generare la Storia e le idee è, prima di tutto, l’agire umano in “societas”, strettamente interrelato ad istanze di ordine puramente economico. E proprio il proposito di “demolizione della metafisica”, la critica di Marx (e di Gentile…sic!) ai suoi precursori utopisti alla Owen ed alla Fourier, come allo stesso Fuerbach, è serrata. Se di quest’ultimo, in particolare, si apprezza il fatto di aver spostato su un piano meramente antropologico e materialista l’intera sfera spirituale umana (ed in primis l’istanza religiosa…), permane l’accusa di una sopravvivenza della tanto odiata metafisica, determinata dall’aver nuovamente riposto la sfera religiosa al pari di quella dello spirito umano, in un ambito meramente idealistico ed astratto e perciò stesso, riconducibile ad una qualche valenza metafisica.

La critica va poi estendendosi ed accomunando, come abbiamo già poc’anzi accennato, sia il Feuerbach che i precedenti pensatori utopisti, accusati di aver dato luogo ad elaborazioni intellettuali statiche, totalmente scollegate da quell’agire umano legato alle condizioni economiche del momento e, perciò stesso, autoreferenziali, profondamente innervate in una modalità borghese di concepire la realtà. Lo stesso dibattito tra Gentile da una parte e Croce e Sorel dall’altra, sulla pretesa “storicità” della filosofia marxista, è sintomatico di quel clima culturale a cui abbiamo accennato sopra.

Gentile, anche sulla falsariga di quanto precedentemente elaborato dal filosofo Antonio Labriola, si fa fautore della “storicità” del marxismo, ovverosia del suo pieno,inserimento ed incardinamento nel Divenire dei processi storici, di cui costituisce una chiave di lettura universale e non uno spunto da cui occasionalmente attingere, così come invece per Benedetto Croce che, al pari di Sorel, svolgono una critica alla costruzione totalitaria e totalizzante del pensiero marxista.

Pertanto, se la critica di Marx ai suoi contemporanei è tutta incentrata sulla distanza del pensiero di questi dalle dinamiche della realtà e, pertanto, ad una qualsivoglia forma di sopravvivenza della metafisica, la critica di Gentile a Marx e ad Engels, sarà altrettanto incentrata sugli stessi motivi. Ma procediamo per ordine. Di Engels, Gentile critica l’interpretazione che questi, nell’ “Antidhuring” fa della dialettica hegeliana, a suo parere sin troppo legata ad un canone che, anche se si manifesta in una forma di Positivismo, finisce con il rimandare ad una forma di platonicheggiante “idealismo”.

Sulla falsariga di quanto premesso, la critica di Gentile a Marx, è più complessa ed elaborata. Riprendendo quanto Bertrando Spaventa, (suo “metre a penser”) ci dice in “Principii di filosofia”, nel saggio “La filosofia della prassi”, nel fare il punto sul rapporto fra pensiero ed esperienza, scienza e filosofia, Gentile sottolinea «la novità del concetto, così essenziale alla filosofia moderna, della infinita potenza del conoscere» (cfr. G. Gentile, La filosofia di Marx, cit., pp. 146-47).

Secondo Gentile la relazione imprescindibile fra pensiero ed esperienza può essere fondata solo sul riconoscimento del carattere trascendentale delle categorie, ma questo esclude che il principio del conoscere, il ‘fare’ della filosofia della praxis, sia l’attività sensibile. E siccome Marx non si pone il problema di elaborare il sensibile come categoria trascendentale, il tentativo di una concezione materialistica della storia si risolve in un fallimento:

“La radice della contraddizione, che spunta per ogni verso nel materialismo di Marx, è nell’assoluto difetto di ogni critica relativa al concetto della prassi applicata alla realtà sensibile, alla materia, che presso di lui si equivalgono. Marx non pare si sia curato minimamente di vedere in che modo la prassi si potesse accoppiare alla materia, in quanto unica realtà; mentre tutta la storia antecedente della filosofia doveva ammonirlo dell’inconciliabilità dei due principii: di quella forma (= prassi) con quel contenuto (= materia)” (La filosofia di Marx, cit., p. 163).

“Un eclettismo di elementi contraddittori” – conclude Gentile – “è il carattere generale di questa filosofia di Marx; della quale”, aggiunge alludendo alla crisi del marxismo, “non han forse gran torto oggi alcuni tra i suoi discepoli di non sapere che farsi. Molte idee feconde vi sono a fondamento, che separatamente prese son degne di meditazione: ma isolate non appartengono, come s’è provato, a Marx, né quindi possono giustificare quella parola “marxismo”, che si vuole sinonimo di filosofia schiettamente realistica (p. 165).”

Come si può vedere, l’accusa a Marx di “confusionarismo”, riprende per un verso, le accuse da Croce e da Sorel e da altri ancora, mosse al filosofo di Treviri, circa una scarsa valenza filosofica e teoretica del suo pensiero, animato, invece, da istanze ribellistiche di ordine meramente sociologico e politico. Non solo. Alla base di quanto qui detto, il fatto che Marx finisca con l’esser fatto bersaglio di un’altra e quasi sottaciuta accusa: quella di aver determinato una vera e propria metafisica “materialista”.

Partendo dalla critica del concetto di “metafisica” fatta dallo stesso Engels nel già citato “Antidhuring”, laddove per metafisica si debba intendere la tendenza inaugurata dagli empiristi Bacone e Locke, atta a trasportare il metodo di ricerca sperimentale applicato alle scienze naturali, all’ambito filosofico, producendo così quella limitata schematicità di pensiero, oggidì caratteristico del pensiero occidentale, il pensiero dialettico hegeliano, eletto a criterio-guida, diviene esso stesso una forma di metafisica, anche nelle sue espletazioni materialiste e marxiste.

Alla base di queste considerazioni sta il fatto che, per lo stesso Gentile in Hegel è presente un fondamentale errore di impostazione: quest’ultimo avrebbe infatti costruito la propria dialettica con elementi propri  a quelli del cosiddetto «pensato», appartenenti, ovverosia, al pensiero determinato ed alle scienze. Mentre, per Gentile, solo nel «pensare in atto» consiste l'autocoscienza dialettica che tutto comprende, mentre il «pensato» è un fatto illusorio.

Pertanto nel suo attualismo l'unica vera realtà consiste  nell'atto puro del “pensiero che pensa”, ovverosia “l'autocoscienza nel momento attuale, in cui si manifesta lo spirito che comprende tutto l'esistente”. Praticamente l’essenza della realtà non è data dai singoli enti pensati, ma dal pensiero in atto che ne sta alla base e ne determina la successiva rappresentazione.

Essendovi pertanto immedesimazione tra Spirito e Pensiero,quale attività  perenne, non vi può essere distinzione alcuna tra soggetto e oggetto. Nella sua contrarietà a qualunque forma di dualismo e naturalismo, Gentile teorizza l'unità di natura e spirito (monismo), cioè di spirito e materia all'interno della coscienza pensante. La coscienza pertanto, viene concepita come sintesi di soggetto e oggetto, in cui il primo pone il secondo.

A ben vedere, però, il pensiero gentiliano, così lesto a liberarsi delle scomode valenze metafisiche o trascendenti che dir si voglia, dei pensatori precedenti, Hegel in primis, per uno strano scherzo del destino, si trova a ripercorrere le stesse strade del pensiero di quest’ultimo, anch’egli, anche se con modalità differenti, proclamante quella coincidenza tra Spirito Assoluto e Spirito Individuale, tra Spirito e Materia, tra Soggetto ed Oggetto, tra Io e Realtà, che tanto si avvicina al “Deus sive substantia” di Spinoza, e tanto stranamente ci riporta ai motivi dell’Ermetismo di un Meister Eckhart, di un Jackob Bohme, di un Giordano Bruno, di un Marsilio Ficino, di un Ruggero Bacone e di altri ancora.

Questo perché la dialettica hegeliana, nel suo tentativo di dare un senso alle problematiche che la nascente Modernità poneva alle coscienze di un’epoca, travagliata dal contrasto tra Modernità e Tradizione, Conservazione e Rivoluzione, cercò di conciliare queste antinomie in un grandioso disegno filosofico, in grado di far convivere al proprio interno, in una cornice innovativa, elementi di innovazione.

Al pari di Kant, Hegel fu un filosofo della transizione; stabilì alcuni punti fermi, con l’illusione di fermare quell’impetuoso e contraddittorio Divenire storico, che ebbe poi in Fuerbach il suo primo epigono. Ma come per tutte le cose in bilico, può accadere che si vada poi cadendo verso l’una o l’altra direzione, salvo poi, come per una strana legge oscillatoria, repentinamente volgersi verso altre, inaspettate direzioni.

E così, una metodologia di pensiero (come nel caso di quelle dialettica ed immanentista nella fattispecie…) usata a sostegno di istanze puramente materialiste, può finire con il trascinare il suo entusiasta ed ignaro seguace verso lidi e conclusioni ben lontane da quelle inizialmente preconizzate. A questo punto, altro non può non tornarci in mente se non l’immagine di quel moto circolare dell’Essere e delle sue manifestazioni che, miglior rappresentazione non trovò se non in quel Serpente-Uroboro Primordiale, raffigurato nel mordersi la propria coda, in modo tale da far coincidere la fine con l’inizio, nella cornice della Totalità di un Tutto che, al proprio interno contempera e comprende tutte le opposizioni.

Umberto Bianchi

La costellazione del Cigno riflessa nella svastica della Rosa Camuna (2^ parte) – Gaetano Barbella

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3.1 La mappa della vita e lo svilupparsi della memoria

[caption id="attachment_28856" align="aligncenter" width="625"] Illustrazione 1: Mappa di Bedolina (Capo di Ponte). Grande figurazione topografica lunga circa 5 metri.[/caption]

Siamo giunti ora al punto in cui, nella mappa di Bendolina dell’illustr. 1 è come se vedessimo una primordiale mappa della vita cromosomica umana, da paragonarsi a quella mostrata di seguito con l’illustr. 2

Nella mappa di Bedolina i tanti quadrati punteggiati possono raffigurare una certa sequenza del Dna in cui i puntini rappresentano “basi chimiche” che nel Dna  umano sono circa tre miliardi.

Di qui l’idea di un continuo “moltiplicarsi” nel tempo di una razza umana che ebbe inizio qui in Valcamonica della provincia di Brescia. In altro modo può essere interpretata la mappa in esame facendo capo ad un alveare di api in cui la proliferazione è affidata, come si sa, all’ape regina, e per Bedolina essa la si può intravedere nel segno che ho evidenziato in verde, in alto a sinistra dell’illustr. 1. L’ape regina è naturalmente la nostra Rosa Camuna che si trova collocata sulla mappa nelle immediate adiacenze ‒ mettiamo ‒ dell’abitazione dello sciamano della tribù di Bedolina. O forse, più probabilmente, è l’abitazione del capo dei guerrieri, ad esempio quello dell’illustr. 2 con casco raggiato. Gli sciamani, preferiscono un luogo appartato, lontano dal resto dei loro simili, e di solito questo luogo è una grotta. In stretta relazione della mappa di Bedolina con l’ipotesi di  una primordiale mappa della vita cromosomica umana, supposto in precedenza, affascina l’idea che si tratta dell’abbozzo del cervello umano. Lo suggerirebbe, secondo me, la simbologia del casco raggiato dei supposti guerrieri dell’illustr.ni 2 e 6 della prima parte di questo scritto, interpretati come segno di regalità. Ma è vero pure che il cervello ha per davvero lo stesso significato che trova poi nel cuore la sua vera sede interiore.

La scienza è d’accordo nel credere che la testa dell’uomo, come di qualsiasi vivente, nel cominciare a prefigurarsi alla vita terrena, segue un certo itinerario genetico, in netto anticipo sul resto, pur esse in formazione secondo gli schemi cromosomici. «I geni che formano la testa cominciano a funzionare quando ancora l’embrione che diventerà “non sa” dove andrà la testa e dove i piedi. In questa fase, la porzione dell’embrione che diventerà la testa è smisuratamente grande rispetto al resto, come se la natura si sia voluta concentrare sulla parte più nobile di un individuo, lasciando perdere temporaneamente il resto».

[caption id="attachment_28857" align="aligncenter" width="625"] Illustrazione 2: La mappa della vita.[/caption]

Sono parole di un illustre scienziato contemporaneo della biologia molecolare, Edoardo Boncinelli (vedi note 13) che ha compiuto accurate ricerche sui geni architetti preposti allo sviluppo del cervello, la cui formazione è regolata in maniera indipendente da quella di tutto il resto del corpo. Non solo, aggiunge il prof. Boncinelli, quei geni architetti «probabilmente rappresentano la nostra parte più antica rimasta sostanzialmente inalterata da quando comparvero sulla terra i primi animali dotati di testa, cioè subito dopo le meduse nella scala evolutiva». La conclusione a riguardo, di Boncinelli, è che «la bellezza di questa ricerca è proprio nell’aver mostrato che il progetto fondamentale del corpo umano è stato deciso centinaia di milioni di anni fa e che tutti gli animali oggi esistenti, uomo compreso, non rappresentano che delle variazioni al tema». «Un bambino inizia a svilupparsi con l’attivazione di questi geni “preistorici”, quindi, è come se in pochi giorni ripercorresse l’intera storia evolutiva».

Ma c’è di più da ipotizzare sul conto della mappa in questione, perché per essa si associa anche ad un altro teorema della vita atto a concepire nell’uomo di quell’epoca preistorica il formarsi della memoria. I tanti “quadrati” di Naquane (o di Bedolina) potrebbero essere interpretati come una struttura di memoria analoga a quella dei calcolatori. L’illustr. 3 mostra una superata struttura di una memoria a nuclei magnetici (a sinistra) e schema di un piano di memoria (a destra), di facile comprensione. Per il calcolatore ipotetico cui è riferita la discussione, si è assunta una memoria semplificata, a 10 piani (tanti quanti sono i bit per parola) e 64 bit per piano. Il secondo schema mette in evidenza, per ogni piano, la posizione dei nuclei, i fili di attivazione e il cosiddetto filo di senso o di lettura10.

[caption id="attachment_28858" align="aligncenter" width="625"] Illustrazione 3: Struttura di memoria a nuclei magnetici (a sinistra) e schema di un piano di memoria (a destra).[/caption]

3.2 Il magnetismo potrebbe spiegare l’irraggiamento delle teste dei guerrieri e del sacerdote  dei Camuni

[caption id="attachment_28859" align="alignright" width="269"] Illustrazione 4: Statua-menhir Bagnolo 10. Partic.[/caption]

È possibile una versione diversa, forse più plausibile, da quella fornita dal prof. Cupitò dell’Università di Padova, che ha spiegato i grafemi della statua-menhir di Bagnolo 10 delle illustr. 7 e 8 del capitolo 3, in particolare quando dice: «in questo caso [...] vi sono elementi  maschili e femminili» e successivamente, «lo scialle pettorale e un pendaglio a doppia spirale» (illustr. 4). Vi sono due fatti che sembrano portare questa concezione in un’altra direzione: uno è quello dell’analogo doppio grafema, il presunto «pettorale-pendaglio a doppia spirale», e l’altro è la necessità di dare una spiegazione all’irraggiamento del sacerdote, che io considero alla strega di sciamano, e dei guerrieri con casco raggiato, appunto (illustr. 5).

Secondo me si tratta di un modo di esprimere un presunto potere magnetico posseduto da queste persone che si distinguevano, a ragione di ciò, dal resto delle persone delle popolazioni camune. È grazie a questo potere che essi potevano esercitare il loro dominio che poi, di conseguenza, i rispettivi sudditi mantenevano saldamento con il potere delle armi presenti con pugnali e asce sulle statue-menhir.

[caption id="attachment_28860" align="aligncenter" width="625"] Illustrazione 5: sacerdote e guerriero con casco raggiato.[/caption]

Di qui il passo è breve per legare queste concezioni con quel pettorale e pendaglio a doppia spirale presente in gran parte delle statue-menhir della Valcamonica e Valtellina.

Resta da spiegare il grafema del «pendaglio a doppia spirale» che può avere questa versione:

Il segno cui si riferisce può essere riferibile alle narici di un simbolico naso, cosa che può far riferimento al potere del senso dell’olfatto invi riposto.

< Il quinto ed ultimo senso l’olfatto, lo possiamo definire il più antico dei sensi, in tempi primitivi quando ancora non esisteva la tecnologia, l’uomo aveva bisogno di una guida sensoriale e l’olfatto essendo legato alla nostra parte primordiale, ha permesso all’uomo di quelle epoche la sopravvivenza. Gli odori che sentiamo, restano impressi nella memoria olfattiva, come quando sentiamo un profumo, che ci riporta al momento vissuto in particolari circostanze. Immanuel Kant grande filosofo tedesco definiva l’olfatto “contrario alla libertà” perché respirando siamo costretti a percepire con l’olfatto ogni genere di odore.

Il senso dell’olfatto è l’unico le cui informazioni arrivano direttamente alla corteccia celebrale, che esercita la funzione da filtro. Fra gli organi di senso l’olfatto, che ha sede nella cavità nasale, è il più antico e il più legato alle nostre origini animali è dunque legato all’intuito, la capacità di scegliere. Per gli animali a noi simili l’olfatto è vitale, essendo usato per trovare cibo, sfuggire ai predatori, scegliere un partner. E’ attraverso l’odorato che sentiamo il profumo della pelle degli altri, e ci sentiamo attratti o respingiamo. Il naso è anche un simbolo sessuale: la sua forma allungata e prominente ha fatto sì che Sigmund Freud, padre della psicoanalisi, lo collocasse fra i principali simboli fallici. Attraverso il naso respiriamo l’aria che ci collega con tutti gli esseri, l’aria entra nel naso portando con sé un’infinità di messaggi; di una persona che ha l’olfatto molto sviluppato si dice che ha fiuto. Il fiuto interiore svela simpatia e antipatia, orienta i desideri e le parole, guida il cammino della vita. Lo possiamo definire il più sensibile, in quanto può percepire gli odori anche di altri piani, infatti si dice che i Santi sono in “ odore” di santità per il profumo che emanano e chi ha un olfatto spiritualizzato sente profumi a volte sconosciuti. >11

A questo punto volendo immaginare con degli esempi, come si manifesta il magnetismo nello sciamano, ma anche in modo ridotto quello dei guerrieri ‒ mettiamo ‒  della tribù di Bedolina, del quale si è parlato in precedenza, si ha modo di spiegare un peculiare significato simbolico della statua-menhir dell’illustr. 11, che ho attribuita a lui o a chi come lui di altri siti della Valcamonica.

Si tratta del discusso «pettorale» molto nutrito di linee parallele, quasi a identificare una calamita a forma di cavallo che, in modo ridotto di linee parallele, è presente in altre statue-menhir.

Le linee in questione possono essere le linee di flusso magnetiche, appunto. Come paragone serve molto esaminare un papiro egizio attribuito allo scriba Ani dell’antico Egitto12, in cui è raffigurato il dio Osiride in trono rappresentato come un ideale magnete (illustr. 6). Nell'insieme ogni cosa è informata al suo orientamento. In alto all'esterno i 12 serpenti (i mesi dell'anno) rappresenterebbero le linee di forza magnetiche come quelle della Terra concepita come una geodinamo (e come quelle del pettorale dello sciamano-sacerdote.

[caption id="attachment_28861" align="alignright" width="268"] Illustr. 6: Partic. del papiro di Ani[/caption] [caption id="attachment_28862" align="alignleft" width="288"]
Illustrazione 7: Rappresentazione didattica di magneti elementari in un asta di ferro raffigurati come aghi di bussola.[/caption]    

Più da vicino le linee di forza del dio Osiride sono disposte in modo da essere tutte informate ad un solo senso direzionale come è mostrato con l’illustr. 7. Accanto al papiro di Osiride si vede la rappresentazione didattica di magneti elementari in un asta di ferro raffigurati come aghi di bussola. A destra è il caso di un asta amagnetica; a destra l'asta è magnetica come il corpo di Osiride o dello stregone della tribù di Bedolina13.

4 La costellazione del Cigno riflessa nella Rosa Camuna

4.1 Sul terrazzo nelle sere d’estate.

A cominciare dai mesi estivi, in particolare da luglio, verso sera mi piace  godermi, dopo la cena, le belle serate sul terrazzo di casa. Mi siedo sulla sdraio e sono subito attratto dal brillare particolare di tre stelle che, verso le 21, 22, si notano molto bene in alto e che ho imparato a conoscerle. È il noto triangolo estivo, un asterismo che, nell'emisfero boreale, appaiono appena dopo il tramonto da giugno ai primi giorni di gennaio. Una di quelle stelle, puntando gli occhi quasi sulla verticale, ossia nel punto del cosiddetto zenit astronomico, è Deneb, l’astro più luminoso della costellazione del Cigno. La mia abitazione, seppure posta in relativa periferia della città, che è Brescia, risente della foschia presente nell’aria e in più disturba la luce diffusa dalle illuminazioni delle strade, tanto da non permettermi di ammirare la costellazione del Cigno, anche con un binocolo. Ma mi basta la visione di Deneb e le altre due, Altair della costellazione dell'Aquila e Vega nella costellazione della Lira, più brillati della prima.

Come già appena accennato, Deneb, in virtù della sua declinazione astronomica (termine che corrisponde alla latitudine terrestre) è +45°16′49,22″ e questo valore si accosta alla latitudine di Brescia che è 45°32’23,23”. Come si vede i due valori non si discostano molto, per dire che alla giusta ora siderale Deneb è quasi allo zenit qui sul terrazzo di casa mia e questa condizione vale, all’incirca, anche per Capo di Ponte, il luogo delle incisioni rupestri in discussione, posta più a Nord alla latitudine di 46°01’54,84”.

Ecco a lungo andare, fra le tante meditazioni fatte continuamente su quella sdraio, come sotto la guardia ferrea della magnetica Deneb, mi si è fatta strada la convinzione che questa stella non sia estranea alla storia, quasi mitica della civiltà dei Camuni. È un suo messaggio inviatomi più di 1400 a anni luce di un tempo passato? O forse di più fino a 3200 anni luce, la massima distanza ad essa attribuita, poiché non è stata ancora possibile misurarla per la poca luminosità: dunque quasi nel tempo del sorgere della Rosa Camuna. Deneb è in ogni caso fra le stelle di prima magnitudine quella più distante dal Sole. Il suo nome deriva dall'espressione araba Dhaneb, che significa coda.

Che riflessione fare con la meditazione sulla stella Deneb? Io penso che capita quasi sempre così con le grandi scoperte, un fatto quasi banale di “passaggio” per far nascere idee rivoluzionarie, come quella della storiella sul grande genio inglese del Seicento Sir Isaac Newton. Egli, mentre sonnecchiava sotto un albero di mele, venne svegliato dall’improvviso colpo di un frutto maturo sulla sua testa. Lo scienziato s’interrogò su quale sia la forza che aveva fatto cadere la mela e, dopo un po’, arrivò a formulare la sua famosa legge di attrazione universale.

4.2 La costellazione del Cigno riflessa nella Rosa Camuna

Zenit e Nadir sono anche chiamati poli dell'orizzonte e consideriamo che sia l’ora di una certa “resurrezione dai morti”, un antico passato della civiltà dei Camuni, in sede di un certo Nadir che emerge mio tramite per ricongiungersi col suo gemello Zenit, la costellazione del Cigno.

Come concepire questa unione, se non con la Rosa Camuna, una delle trenta e forse più disseminate nella Valcamonica, ma anche altre simili in altri luoghi europei e asiatici?

Sulla scorta delle ipotesi legate al segno della Rosa Camuna, notevolmente diffusa nel comprensorio della Valcamonica, nulla ci vieta di immaginare che il primo artista-scultore dei graffiti rupestri in questione, nel tracciare la prima Rosa Camuna sulla roccia, riusciva a immaginare le stelle del Cigno della presunta origine. Cioè che si trattasse anche di una sorta di sciamano capace di fare viaggi dell’anima verso la sua origine. Probabilmente lo stesso sciamano della tribù del parco di Naquane dell’illustr. 13 o altri simili a lui. Questo in premessa, ma affascina l’idea di concepire una teoria in merito, cioè che ci possa essere la stella in questione – mettiamo – attraverso uno dei puntini segnati sul giusto segno della Rosa Camuna da scegliere fra il ricco repertorio in merito. E la scelta non può che cadere sul segno della Rosa Camuna a svastica impresso sulla roccia 57 di Vite, Paspardo, la cui foto è quella dell’illustr. 3, la stessa mostrata dall’illustr. 9.

[caption id="attachment_28863" align="aligncenter" width="625"] Illustrazione 8: Correlazione delle piramidi di Giza con la cosstellazione del Cigno.[/caption]

Ma è interessante il fatto che questa stessa Rosa Camuna si trova come replicata in Inghilterra, a Ilkley Moore nello Yorkshire. Qui è nota col nome di Swastika Stone [vedi nota 1, prima parte].

E pensare che la stella Deneb del Cigno è stata associata, dal ricercatore Andrew Collins, alle tre piramidi di Giza, i cui vertici corrisponderebbero alle stelle  ε, γ e δ Cygni. Questa coincidenza, di conseguenza, accomunerebbe la civiltà camuna legata ai Celti a quella egizia, un fatto davvero interessante (illustr. 8).

[caption id="attachment_28864" align="aligncenter" width="829"]
Illustrazione 9: A sinistra: Rosa Camuna a svastica sulla roccia 57 di Vite, Paspardo; a destra: Costellazione del Cigno riflessa nella Rosa camuna.[/caption]

Comunque ritornando alla Rosa Camuna, l’idea di intravedervi lo schema della costellazione del Cigno sembra calzante, perché ce lo fa supporre il fatto che il suo autore ha posto in evidenza la disposizione dei pallini che qui formano una chiara croce. Questa cosa lo ha indotto poi ad adattare in modo artificioso i contorni del segno della Rosa Camuna. Di qui l’idea che a questi pallini possono corrispondere le stelle di una certa costellazione presente in cielo, da rintracciare presumibilmente ‒ mettiamo ‒ sulla linea zenitale del meridiano celeste. E facendo capo a Capo di Ponte sappiamo che il meridiano zenitale è intorno ai 45°, riferito al Nord naturalmente. Si capisce che non si tratta di una condizione riferibile al passato, quando fu disegnata sulla roccia della Valcamonica la prima Rosa Camuna, ma solo in relazione alla mia meditazione esposta nel capitolo precedente (analoga al fatto della “mela” di Newton), a guisa di un messaggio casuale, apparentemente slegato ai fatti in esame ‒ chiamiamolo intuizione. A questo punto non è stato difficile costatare che la costellazione boreale che meglio di tante altre si adatta alla ricercata croce stellare della Rosa Camuna, è quella del Cigno, nota come la Croce del Nord, in contrapposizione della Croce del Sud, come si vede nell’illustr. 9.

  NOTE 10Tratto dalla «Enciclopedia della Scienza e della Tecnica», vol. II – Ediz. Mondadori 11Fonte: https://www.yogavitaesalute.it/yoga-per-tutti/lolfatto/ 12Papiro della XVIII dinastia dei faraoni dell’antico Egitto rinvenuto nella tomba dello scriba Ani e conservato nel British Museum di Londra. 13 Tratto da «Corso di Elettronica», Istituto Svizzero di Tecnica di Luino

L’Anarchismo di Marcello Gallian – Emanuele Casalena

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Vecchia piccola borghesia, vecchia gente di casa mia per piccina che tu sia il vento un giorno ti spazzerà via (Borghesia di Claudio Lolli)

«Vedo che ad Est, in Russia, il fascismo rimonta, il fascismo immenso e rosso» ( Robert Brasillach)

Il frullar del ribelle lo doveva a quel nonno materno esiliato politico a Marsiglia dal governo pontificio, dove il meschino morì di stenti per le sue idee eversive mescolate ai colori delle tele, di fatto egli era un pittore. Anche Marcello Gallian impugnerà tra l’indice e il pollice la tavolozza sin dagli anni ’20 per copulare poi nel talamo dell’arte dagli anni ’40, preferendo i pennelli all’inchiostro, insomma era un po’ tutto suo nonno.

C’è desiderio d’appropriazione dell’anarchia italiana tirata per la giacchetta a destra, a sinistra, i rami dell’albero sono tanti, sovente contrapposti, sfidano il cielo fin su in alto, braccia di uomini votati alla torre di Babele, tra le analisi di Proudhon, il libertarismo di Bakunin, l’individualismo di Stirner, la fiaccola dell’Anarchia infiammava menti o proletari sfruttati, la radice comune era la rivoluzione, grimaldello della bieca società borghese. C’era ai primi del Novecento l’epopea romantica dell’anarchia condita da azioni cruente come l’assassinio di Re Umberto I sparato a Monza (1900) o quella precedente del Presidente della Repubblica francese Sadi Carnot del cui delitto fu accusato l’ anarchico italiano Pietro Gori, riparato in Svizzera ove compose la famosa “Addio Lugano bella” dopo l’espulsione dal suolo dei banchieri. Gli anarchici samaritani erano stimati banditi senza tregua, votati a migrare di terra in terra a predicar la pace per gli oppressi, la guerra agli oppressor. Internazionalismo d’ un movimento di liberazione volto ad un mondo senza Patrie, confini, guerre d’espansione, colonialismo con un solo vessillo: la libertà, bene irrinunciabile, ossigeno d’alta quota per la dignità umana. E gli anarchici interventisti allora? Prima di tutto non erano bakuniani, ma come Libero Tancredi, al secolo Massimo Rocca, la direttrice era Max Stirner lavato in acque d’Ausonia, anarchismo più che Anarchia, troppo rigida la seconda nel suo cappotto filosofico, liberatorio come un urlo a squarciagola il primo. L’anarchia era una religione, non declinava apostasia, era fede cieca  nei suoi teoremi come nelle sue azioni, altro invece era lo spirito di Icaro assetato di volo, di libertà, di cielo alto sopra il brulicar dei nani. quell’animo ribelle della rivolta permanente dell’uomo contro le catene, tappo della bottiglia che salta in aria, spirito che sgorga libero da costrizioni come lo spumante. Il fascismo bambino fu anarchismo tradotto in azione collettiva, fu assalto alla diligenza del Giano liberalismo-comunismo per una ragione : lo spirito contro la materia, il sangue contro l’oro. I futuristi furono questo fin dal manifesto del 1909, un cenobio di ribelli scattati in alto come rane dal putrido stagno del provincialismo piccolo borghese; altre ninfee fiorirono succhiando nella melma, l’interventismo furioso per saldare l’anello del Risorgimento e poi, tra ferite e sciacalli, venne piazza S. Sepolcro, era il 23 marzo del 1919, Marcello Gallian c’era, aveva solo 17 anni. Conviene qui ricordare le parole conclusive del discorso programmatico di Mussolini: “‘Non siamo degli statici; siamo dei dinamici e vogliamo prendere il nostro posto che deve essere sempre all’avanguardia”. Miele per giovani ribelli vocati alla rivoluzione, perché i sansepolcristi incarnavano lo spirito degli arditi, di coloro che avevano lasciato la trincea per andare all’assalto a ghermire onore e gloria. Per chiarire cos’era l’essere fascisti della prima ora, riportiamo in sintesi le affermazioni di Nicolò Accame (figlio di Giano) rilasciate, nel ’96, in un’intervista:”La destra è censura, reazione, bigotteria.[…]Il fascismo che ho conosciuto in famiglia è quello libertario, gaudente, generoso. Penso al fascismo rivoluzionario dell’inizio e della fine. Quello che non conserva ma cambia […]”.

Quel giovinetto presente a S. Sepolcro non era meneghino essendo sbocciato a Roma nel 1902  farfalla d’una famiglia dal sangue blu nelle vene,  assai benestante almeno fino al 1911, anno della guerra italo-turca. Papà Angelo dovette mollare il suo incarico di console generale in Turchia per evidenti ragioni d’ inopportunità diplomatica,  furono momenti di cinghia stretta per la famiglia. Comunque Marcello, da buon aristocratico fu messo a scuola dei preti prima a Roma poi nel  collegio dei Vallombrosani a Firenze e lì gli parve d’udire una vocina che lo chiamasse al sacerdozio, tanto da prendere i voti semplici. Fu uno studente modello, immerso con avida passione nello studio dei classici greci e latini, nel contempo assorbiva il gusto dell’austera regola benedettina. La povertà come valore darà radici alla formazione della sua  personalità incline, da subito, al pensiero divergente dalla calma pianificazione borghese della vita. Coltivava la passione febbrile per autori anticonformisti da Dante Alighieri a Dostoevskij, da Giordano Bruno a Baudelaire, passando per l’irriverente Cecco Angiolieri fino a Majakoskij.

Basta però pensiero, basta con la ribollita di cervello, nel cassetto i voti, azione! Il 23 marzo è a Milano ad ascoltare il Duce, a settembre del ’19 partecipa all’occupazione di Fiume col “comandante” Gabriele D’Annunzio, è la sua iniziazione verso il  fascismo, rivoluzione anti middle class. Da squadrista il ventenne Marcello partecipa alla marcia su Roma, braccio di ferro finale tra il governicchio Facta e coloro che s’erano conquistato sul campo il diritto di prendere la barra per guidare l’Italia.

Sarebbe potuto starsene buono, buono nell’ovattata famigliola, frequentando l’alta società, pigolando nelle feste, avviandosi anche lui ad una solida carriera diplomatica con una bella raccomandazione della zia materna. Invece scese nelle osterie di Trastevere dove s’imbambolava alle chiacchiere politiche di anarchici e fascisti, fu preso a sganassoni da Errico Malatesta, non importa, s’immergeva nel brodo bollente del ribellismo collaborando  al Teatro degli Indipendentisti di Bragaglia e alla rivista Novecento di Massimo Bontempelli come al nuovo cinema di Blasetti. Un lungo rosario i suoi “pezzi” su quotidiani illustri ( Il Corriere della Sera) e nuovi prodotti editoriali come “ Spirito nuovo” da lui fondato nel ’25, “L’Impero”, “Roma fascista” e molte altre testate.

Nel 1928 uscì Il dramma nella latteria, cui seguiranno Vita di sconosciuto (1929), Nascita di un figlio, prefazione di M. Bontempelli, Il pugilatore di paese del ’31.

Già da questi primi racconti, brevi romanzi possiamo cogliere il percorso surreale, immaginifico d’uno scrittore visionario dove trame e stile della narrazione creano un espressionismo letterario al quale l’autore ancorato anticipando temi e linguaggio del neorealismo post bellum. I protagonisti sono i ribelli, gli emarginati, le vite dei border line de ghetti popolari, dove, come in Anna e Marco di Lucio Dalla, l’unica salvezza è il sogno d’un gesto di rivolta per slacciare le stringhe che li soffocano, relegandoli nel cantuccio dei nessuno. Il 28 febbraio del ’29 è in scena al Teatro degli Indipendenti di Bragaglia, la commedia in tre atti La casa di Lazzaro scritta da Gallian, grande il successo di pubblico, buona la critica, ma la gerarchia fascista storce parecchio il naso. Quel Lazzaro resuscitato voleva godersi la vita gustandone i frutti proibiti dalla morale comune. Sesso con le “donnine perdute”, banchetti succulenti annaffiati dal buon vino, lazzi, canti e risate a crepapelle. Ci sovvengono le regole del Club la Bohème di Giacomo Puccini a Torre del Lago. Quel Lazzaro ribelle, un apostata di quello che fu amico di Gesù, era completamente fuori strada dopo la fresca firma dei Patti Lateranensi sottoscritti l’11 febbraio del ’29. Quegli eroi di Gallian poi erano ben altro dal prototipo dei figli della lupa, erano anticonformisti impenitenti, vagabondi, calde prostitute, reietti quasi che l’autore avesse preso alla lettera la frase del Vangelo di Matteo:”In verità vi dico che i pubblicani e le meretrici vi precedono nel regno dei cieli”. Ci passa alla mente la tonaca lisa del fu  don Oreste Benzi tra le mignotte nigeriane sul lungomare di Rimini ma anche i soggetti tanto amati da un altro immenso anarco-fascista impenitente, il viareggino  Lorenzo Viani.

La produzione scritta di Marcello è immensa, molti racconti e romanzi attendono ancora un editore, noi qui citiamo solo un romanzo che lo pose all’indice del Minculpop di regime ed è “Bassofondo” pubblicato nel 1936, censurato, ripubblicato con tagli degli ultimi 4 capitoli cambiando anche il titolo del libretto in “In fondo al quartiere”. La trama è tutta nei vicoli di un rione popolare di Roma, scavando con affreschi nelle grame esistenze  dei suoi abitanti, dal profumiere al macellaio, alla merciaia Lisa vedova ancora piacente ( ricorda la tabaccaia di Amarcord) al punto che un fringuello sedicenne, Giovanni Battista Timorto Dio ( il nome è tutto un programma) preso da un raptus erotico la possiede con violenza nel suo negozietto. Tutto sommato a Lisa, da anni a stecchetto di sesso, quella congiunzione le è piaciuta, tanto da aprire la porta della sua vita a quel giovanotto di strada, irruento, ribelle. Un’anticipazione profetica di milf a caccia di  boy toy e viceversa, in un legame carnale sfacciato agli occhi bigotti della gente del rione. Ma Giovanni è un ragazzo alla Caravaggio, così finisce in gattabuia dopo l’ennesima violenta rissa da guascone in un’osteria. Saranno sbarre per sette mesi condite dal bastone, il filo spinato del ribelle così si piega, perde le sue spine aguzze, s’acqueta. Il cordone tra gli amanti sconvenienti s’ assottiglia fino a spezzarsi, si rincontreranno molto dopo ma niente sarà più come prima. La merciaia Lisa ha imparato a fare buoni affari con la sua bottega, si è ingrandita acquistando il negozio del profumiere, è diventata “qualcuno” in quel malfamato rione romano,  ha assunto persino  un vagabondo di colore armandolo di livrea per ricevere o invogliare i clienti e forse unendo l’utile al sollazzo. Giovanni s’è imborghesito diventando adulto, vive da grasso parassita sulle spalle della maitresse del bordello, mangia, beve e fa il kilo, il fuoco sovversivo s’è spento nel molle agio del non far niente. E’ lampante metafora dell’involuzione del regime, dall’anarchismo ribelle, rivoluzionario all’appiattimento sugli spartiti del pensiero borghese. Per Gallian era un tradimento dello spirito del fascismo, movimento di aggressione al grigio passatismo del quieto vivere, con un buon conto in banca, una professione rispettabile, il the delle mogli con le amiche e la Domenica a messa. Scrive nel romanzo Colpo alla borghesia:” Rari, alla fine, sono coloro che credo­no “borghesia” essere uno stato d’animo, nel quale gli uomini, tutti, sogliono cadere: si può essere leoni durante cent’anni e bor­ghesi durante un’ora sola, ma terribile ora, catastrofica, letale. La borghesia è anche il popolo, il popolo tutto” borghesia erano ormai i gerarchi del fascismo.  Per il Gallian sansepolcrista, squadrista della prima ora la meta era chiarissima, il fascismo era la pistola puntata alla tempia contro quella classe in nome dello spirito coeso di un popolo che si ribella al materialismo liberale come a quello marxista, perché anche il proletariato, chiuso nella gabbia di classe, aspira in fondo ad una comoda vita in vestaglia, pantofole e Balilla. Però quella pistola s’era inceppata, no aveva fatto BANG! o peggio era stata riposta nel cassetto assieme ai cari bastoni che tanto mancavano allo scrittore, “bombe a man e carezze col pugnal”. Il virus lento quanto infingardo aveva attaccato le cellule del partito dai gradini più bassi fino alla cima della piramide, salvo pochissime eccezioni tra cui il “suo Mussolini”. Ma c’è un’opera quasi autobiografica precedente Rivoluzione pubblicato su Quadrivio nel 1935, il titolo è già riassunto dell’odiato eterno ritorno degli avvenimenti. Vi si racconta di un giovinotto dell’alta borghesia romana, Mario, che vive da ribelle la sua condizione di privilegiato, ha coscienza che quell’agiatezza è il frutto marcio dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Non può non vedere le condizioni di vessazione in cui versano braccianti e contadini sottoposti alle angherie di un facoltoso latifondista, suo conoscente, il signor Antioco. Il ragazzo, dopo una violenta lite con quest’ultimo, decide d’ammazzarlo sparandogli con la pistola, quell’atto deve essere lo squillo della rivolta del proletariato contro il padrone. Per non essere arrestato fugge, facendo perdere le sue tracce, vivendo lo stato di latitante nell’emarginazione del vagabondo. Dopo anni decide, come il figliol prodigo, di tornarsene a casa. Viene accolto come un  eroe non solo dalla madre lacrimante di gioia ma da tutto il circoletto borghese del suo quartiere bene. Già perché quel colpo di pistola era stato lo start della rivoluzione fascista, l’inizio dell’onda che avrebbe travolto ogni cosa e  invece Mario osserva che tutto è ritornato uguale come nel Gattopardo.. Persino l’affamatore Antioco è vivo, è scampato alla pallottola assassina, ora ingrassa per bene nel partito facendo buoni affari. Nella sua risposta allo stupore amaro di Mario c’è il succo dell’opera: “Dovevate immaginarlo, non è sempre rivoluzione, non è possibile sem­pre la guerra: voi eravate un’eccezione, un anormale, io sono la regola, la normalità, l’orologio che segna le ore”. Il novarismo rivoluzionario aveva perduto , don Chisciotte era morto rinnegando la sua sana pazzia. D’altra parte il nemico borghese era stato frullato insieme ai duri e puri nella visione di uno Stato organico, un mosaico dove ciascuna tessera sociale era importante, anzi la classe borghese era imprenditoria vitale alla Nazione, il sindacalismo rivoluzionario s’era spento, il corporativismo di Ugo Spirito era entrato in un binario morto, Bottai aveva vinto, al rivoluzionario Farinacci resterà l’onore d’essere fucilato faccia al plotone.. Lo spirito neopositivista s’era seduto al tavolo degli squadristi corrompendone azione e pensiero, tarlandone l’animo ribelle, sedandolo con i piaceri, scrive Gallian in Colpo alla borghesia; «Il Borghese odia lo stato e cerca di tradirlo in ogni modo, con ogni mezzo, lecito o illecito; pensa alla sua pancia, alla sua casa, ai suoi mobili, ai suoi figli, alle sue donne: il resto, le donne degli altri, i figli degli altri, la casa degli altri, i mobili degli altri gli interessano quando può aspirare a conquistarli. Farli cioè suoi, di sua proprietà “ Quel germe, piano, piano aveva dato i suoi frutti anche nel fascismo. Bene, amaramente è quello che vediamo non da oggi come la metastasi riprodottasi ovunque sotto le bandiere rosse come sotto i regimi liberali, il sogno dei migranti è mangiare di quei succosi frutti, il resto sono ciance, si salvano davvero solo i liberi vagabondi.

Dovere storico sarebbe capire le ragioni vere di Gallian della sua mancata adesione alla RSI  che fu il ritorno della rivoluzione del ’19, la ripresa di un’estrema postazione per combattere la plutocrazia borghese che aveva triturato il fascismo, l’ultimo disperato colpo di coda per salvare l’onore della Patria. Il fascismo di S. Sepolcro aveva tradito l’anarchismo, al diavolo il fascismo allora!

C’è poi un Marcello Gallian pittore del quale parleremo ora, forse anche in quei colori è racchiusa la risposta.

Siamo nel dopoguerra, è fame, il sovversivo Marcello ha visto minati i ponti dell’editoria, scrive articoli con uno pseudonimo per il “Pensiero Nazionale” del giornalista sardo Stanis Ruinas, colui che coltivava l’utopia del fascio-comunismodi raccogliendo la sinistra fascista della RSI nell’alveo del partito di Togliatti.

Sul tema Paolo Buchignani ha scritto un libro, “Fascisti rossi” denso di fili storici del ragno P.C.I. nel tessere unità d’intenti  con gli ex repubblichini o i giovani delusi dal neonato M.S.I. in ragione di un terreno comune di lotta: anticapitalismo e antiatlantismo.

Come trasmutare la viltà del grigio piombo nell’oro della vita? La Terza via era interrotta da una frana, la guerra, piazzale Loreto, hanno sprofondato nell’abisso quella nazional-rivoluzione dei credenti in una Patria stretta nelle salde verghe dell’Idea, quale?  Lo Spirito Mastro Titta della materia. Sono gli anni della svolta figurativa di Gallian, abbraccia l’espressionismo della scuola romana di Scipione e Mafai, Scialoja ma il segno è duro, deformante, senza l’ironia graffiante ma trasognata dei suoi mèntori. La sua adesione all’Immaginismo riemerge nel grottesco tragico dei suoi soggetti, scelti perché anticonformisti, ribelli contro la piccola morale borghese, siano essi i crocifissi o le puttane, il Circo o gli amplessi, la tediosa vita domestica stravaccata nei pensieri o assorta sugli oggetti. Purtroppo la borghesia farisea aveva vinto, sulle croci erano inchiodati gli spartachi ribelli, mentre molti  s’erano piegati alla prostituzione intellettuale, finendo bolsi e grassi a fare il kilo, qualcuno invece aveva proseguito il cammino infilandosi il pastrano bolscevico pur di farla finita col sistema borghese. Lui restò solitario sul ramo come fosse uno stricciolo con dentro al nido moglie e sei figli, arrangiandosi a non lasciarsi soffocare dal vento del deserto intellettuale, umiliato a scrivere per altri o vendere sigarette di contrabbando alla Stazione Termini, lui che era stato  «Il più ribelle ed emancipato degli scrittori contemporanei» ( Enrico Falqui).

Fino all’ultimo Gallian restò fedele a quel ragazzo, Giovanni, armato di rivoluzione, protagonista di

La vecchia perduta. Altro accoppiamento tra un giovane ed una milf matura, il seme questa volta fa centro, lei resta miracolosamente in cinta come Elisabetta. Per la vergogna o la paura vorrebbe liberarsi dell’intruso abortendo ma il giovanotto si frappone, quel figlio ha da nascere a tutti i costi, è il figlio della rivoluzione contro il piatto sentir borghese. Lei partorirà reclusa in casa, ma il travaglio le sarà fatale, Giovanni salverà il nascituro simbolo della vittoria sulla società dei farisei.

                                                  [caption id="attachment_28880" align="alignright" width="203"] Marcello Gallan, Sogno di battaglia[/caption] [caption id="attachment_28879" align="alignleft" width="193"] Marcello Gallian, Crocifissione[/caption]

E’ consuetudine dotta cercare i geni di un artista, i cromosomi dei suoi genitori d’arte, così per Marcello Gallian sì è parlato molto di Grosz come riferimento espressionista ma l’unica semantica comune è l’astio virulento per la borghesia, tratto, colori accesi e soggetti sono diversi, con una mistica poi per le “donne perdute” da parte di Gallian che ci richiama all’antichissima prostituzione sacra. Era una prostituta l’eroina della rivolta in Trasvaal di minatori ed operai oppressi in La scoperta della terra, ce la immaginiamo armata guidando la riscossa come la spoglia Libertà che guida il popolo di E. Delacroix.

Marcello Gallian si spense nello stanzino chiuso dei “dimenticati” il 21 gennaio del 1968, ce lo immaginiamo certamente presente, con tanto di bastone in mano, nella “battaglia di Valle Giulia” del 1 marzo del ’68. Chissà, a guardar bene fra i militanti di Avanguardia c’era anche lui.

  Emanuele Casalena Bibliografia

Paolo Buchignani, Marcello Gallian. La battaglia antiborghese di un fascista anarchico, Bonacci Editore, Roma 1984.

Paolo Buchignani, Fascisti Rossi, LE SCIE, Mondadori,Milano 1998.

Silvana Cirillo, Claudio Crescentini, Marcello Gallian. La deformazione della realtà, Roma, Ponte Sisto, 2013.

Associazione Centro studi “Marcello Gallian”. Artnoise, Marcello Gallian (1902-1968)- La deformazione della realtà. 14 Ottobre 2013.

Silvana Cirillo, Marcello Gallian (1902.1968), uno scrittore anarco-fascista, antiborghese, espressionista e grottesco. Le reti di Deadalus. Archivio 2009.

   

Il Luogo che si Sposta – Vittorio Varano

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L'insorgere dell'illusione è l'effetto del segno che viene scambiato per quello che indica l'atto allusorio; un secondo ribaltamento a questo contrario ( che ristabilisce il retto rapporto che c'è tra l'oggetto e l'accenno ad esso ) è l'illuminazione. La freccia che punta verso la meta non è come l'ago della bussola, attratto da un polo magnetico fisso, ma come la banderuola girevole che si orienta secondo la direzione in cui soffia il vento dello spirito, perché la meta è un luogo che si sposta. Quando dopo che è trascorso un certo tempo, inevitabilmente il perno si arrugginisce e non riesce più a ruotare, non essendo idoneo a seguitare a svolgere la sua iniziale funzione di indicatore, se non viene presto rimpiazzato, c'è il rischio non solo ipotetico ma estremamente reale, che l'abitudine acquisita a rivolgersi ad esso come a un punto di riferimento, finisca prima o poi per fargli assumere il ruolo di un idolo.

La comprensione è la capacità di sostituire ogni singolo elemento di una struttura con il suo corrispettivo (proveniente da qualsiasi collezione che ne includa uno ) senza provocare sostanziali perdite al significato complessivo dell'insieme di partenza; il cambiamento è condizione indispensabile alla comprensione, ma non sono coincidenti: la comprensione ( incompatibile con utopia, rivoluzione e progresso ) accompagna esclusivamente il cambiamento a carattere conservatore. Un luogo è ciò in cui si sta dentro o da cui si sta fuori. A definire il luogo è la differenza tra interno ed esterno, che prende corpo nel punto di contatto tra i due: l'entrata/uscita. Per chi si dirige verso di essa, la meta è quel luogo che si trova di fronte, da cui sta ancora fuori, e di cui la prima cosa che incontra è l'ingresso, che trae in inganno con il suo carattere intermedio, che può indurre in due errori l'uno opposto all'altro, secondo su quale aspetto sia unilateralmente messo l'accento.

Chi sa che l'interno del cielo ( a causa della sua totale trascendenza rispetto alla terra ) è necessariamente fermo, confuso dal fatto di vederlo muovere non ne riconosce l'ingresso ( che nella sua intrinseca doppiezza partecipa di entrambi gli attributi delle dimensioni che congiunge : l'immutabilità della parte superiore del mondo e la mobilità della parte inferiore ) e assiste al suo passaggio avanti al proprio sguardo senza prestargli attenzione. Chi invece non sa che l'interno del cielo è fermo, intuisce che quell'oggetto in movimento ha qualcosa di speciale, e comincia a corrergli appresso, ma poiché non capisce che va attraversato, quando lo raggiunge cerca di afferrarlo, e se lo fa sfuggire, ed inizia così un inseguimento interminabile in cui il tentativo ogni volta si ripete senza esito, in un insuccesso permanente che infine lo spinge ad affermare che la vera meta è il viaggio stesso.

Il luogo che si sposta è una persona: il mediatore che io, essendo romano, chiamerò Mercurio, rapido dio piedealato la cui imprendibilità lo accomuna al metallo che si usa per misurare la temperatura ( come con la sua velocità che è calore egli conteggia lo spazio che il suo svelto passo privo di peso pur senza toccarlo calpesta ), mercante dio dello scambio, dunque doppio, messaggero mascherato, che consegna i comandi spediti dal Padre, chiusi, come biglietti in buste da lettera, in un miscuglio di menzogne, funzionale a fuorviare coloro che non godono del suo favore. Uno dei modi in cui si manifesta questa doppiezza è la differenza che egli, in quanto è colui che arriva dall'interno, assume rispetto a se stesso, in quanto è colui che è atteso all'esterno: quand'è apparso è sempre risultato diverso da come gli uomini se l'aspettavano, determinando ogni volta una divisione tra alcuni che lo riconoscono e lo accolgono accettando la missione che svolge e la rivelazione che porta, ed altri che accecati dall'attaccamento al ritratto immaginario che se n'erano formati gli oppongono un rifiuto.

In un caso molto noto di un bel po' di tempo fa, a non conformarsi a ciò che avrebbe dovuto fare secondo gli schemi-concettuali/luoghi-comuni diffusi nella società che lo circondava, fu la sua presa di posizione politica: invece di mettersi alla testa della sua gente in veste di tribuno della plebe, demagogo arruffapopolo, capo rivoluzionario o condottiero militare per istigarli all'insurrezione contro le forze di occupazione straniera e trascinarli in una serie di battaglie vittoriose fino alla liberazione nazionale, si macchiò agli occhi dei suo compatrioti dello stesso crimine ( per cui fu crocifisso con la scusa del sacrilegio ) per cui fu condannato a morte in contumacia Louis-Ferdinand Céline: collaborazionismo col nemico. Se non nel 753 ab urbe condita, ma fosse nato nell'anno domini 1894, al posto di quel celebre “date a Cesare quel che è di Cesare”, avrebbe senz'ombra di dubbio pronunciato un corrispondente “date al Führer quel che è del Führer”.

Ma dopo averlo soppresso, il suo ricordo, imbalsamato come un cadavere, si può comodamente collocare a dormire in posizione riposante, come la mummia di un faraone egiziano adagiato nel sarcofago, nel letto di procuste di una dottrina distorta ad hoc, appositamente adattata ad usum delphini ( o meglio, per essere più espliciti e precisi, ad usum pontifici ) e servirsene per costruire una concezione che sostenga la clerocrazia come ha fatto la chiesa cattolica ( a cominciare da quel capolavoro di malafede che è il De Civitate Dei di quel fuoriclasse del fraintendimento intenzionale che è stato Agostino di Tagaste vescovo di Ippona ) con la sua dichiarazione schiettamente ghibellina “il mio regno non è di questo mondo”, che distinguendo l'autorità spirituale dal potere temporale ( come giustamente argomentato nel De Monarchia da Dante Alighieri ) sancisce il ruolo provvidenziale di quello terreno, a prescindere dalla specifica forma con cui si presenta in ogni singola epoca storica, sia nella figura del Terzo Reich per il cittadino francese sotto il governo di Vichy del maresciallo Philippe Pétain, o la prefettura della provincia di Giudea del procuratore dell'Impero di Roma Ponzio Pilato, alla cui decisione che lo destinava alla pena capitale si è docilmente sottomesso, senza neanche provare a rivendicare un presunto privilegio spettante al suo rango sacerdotale in qualità di rabbi, che gli avrebbe eventualmente consentito di sottrarsi alla giurisdizionencivile ed evitare l'esecuzione della sentenza. Tutto il contrario del revisionismo di sinistra che inventa un Gesù alla Gandhi ( generale e stratega geniale, capace di piegare il pacifismo alle esigenze della guerra contro la dominazione coloniale, utilizzando l'arma della non-violenza come strumento per scardinare il sistema ) o cospiratore anticapitalista alla Che Guevara. L'altra teoria traditrice dello scopo di quell'esistenza, è l'interpretazione che spiega la sua scelta di nascere a Nazareth in Galilea in base all'idea che il popolo d'Israele fosse l'unico a conoscere il Vero Dio ; ma se così fosse, sarebbe molto più sensato pensare che proprio gli ebrei non ne avessero nessun bisogno ; l'intuizione suggerisce un completo capovolgimento di prospettiva :  la sua scelta di nascere a Nazareth in Galilea dipenderebbe ben più ragionevolmente dal fatto che il popolo d'Israele era l'unico a non conoscere il Vero Dio, cioè Giove suo Padre; è infinitamente più credibile e convincente l'ipotesi che l'obiettivo della sua predicazione non fosse quello di convertire i pagani al monoteismo ma i monoteisti al paganesimo; l'operazione truffaldina tramite cui i primi padri della chiesa hanno cercato di conciliare la teologia trinitaria ( copiata dal neoplatonismo ) con quella veterotestamentaria, negando la subordinazione gerarchica del Figlio al Padre ( la cui inequivocabile formulazione si trova peraltro espressamente contenuta a chiare lettere nel testo stesso del Vangelo : “il Padre è Maggiore del Figlio” ) e la relativa espulsione di tutte le componenti del cristianesimo primitivo etichettate come eresie ( eccone alcuni esempi: gnosticismo, arianesimo, manicheismo, eccetera... ) che ne mantenevano la conoscenza, è stata compiuta al fine di occultare la sospetta somiglianza tra la nuova religione e gli antichi misteri, che avrebbe impedito di spacciare per l'adempimento delle profezie bibliche la biografia di un uomo che le aveva così clamorosamente smentite ( e non perché non fosse lui il Messia, ma proprio perché lo era, non poteva ridursi a recitare un copione già scritto, sia pur nelle sacre scritture, perché Mercurio che è Hermes che è Thot lo Scriba degli Dei non è un commediante né un amanuense : non è il servo della lettera - ne è lo Spirito e il Signore ).

Ma le forze fondamentali che reggono il mondo sublunare sono l'inerzia e l'entropia, per cui qui ogni organismo vivente ha in sé la tendenza ad anchilosarsi e rattrappirsi diventando ancora in vita formazione fossile affetta da sclerosi ed atrofia. Sarebbe stato più consono alla realtà dei fatti continuare a discorrere di legge di caduta dei gravi come Galileo Galilei, piuttosto che di legge di attrazione universale come Isaac Newton! Altro che Charles Darwin, origine delle specie, lotta per la sopravvivenza e selezione naturale! Altro che Henry Bergson ed evoluzione creatrice!

Conseguenza di ciò è che la sua venuta non può essere mai l'ultima, perché il problema non è mai definitivamente risolto né il suo compito esaurito, ma lascia un residuo non redento da cui è richiesto il suo ritorno per un successivo ulteriore intervento. La sua incarnazione verificatasi circa una ventina di secoli or sono è una delle tante. Prepariamoci alla prossima...

Vittorio Varano

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