A guardarla bene Mrs. Teresa May, sembra uno strano incrocio tra una vecchia frequentatrice di lerci e dismessi circoli Pickwick d’Oltremanica ed una versione per così dire, sull’ “usato”, “trash”, invecchiata per il caso, della fu- Lady Diana. I capelli a caschetto e la faccia un po’ oblunga, rendono onore ad una somiglianza, prontamente deformata da un’acidità e da una puntigliosità verbale, vicini ad un’uterina isteria. E dunque, la nostra Vispa Teresa, nel suo ruolo di First Lady, stagionata ed inacidita a dovere, strilla, conciona, minaccia. Dietro a lei il silenzio più assoluto. Una corte di imbecilli, chiamata Comunità Europea, le sta dietro, annuisce, fa ammuina e poi si accoda supinamente alle sue demenziali sparate. Image may be NSFW. Clik here to view.Un disertore russo, uno che ha cercato di vendere il proprio paese al miglior offerente, generosamente ospitato (chissà perchè …), in quel di Albione, in una ridente località chiamata Salisbury, un bel giorno mentre sta con sua figlia, ti subisce un’aggressione al gas nervino ed ambedue finiscono all’ospedale. Apriti cielo! I media e le autorità albionesche subito strillano al complotto! Ma sì, sono loro, i Russi-ex-Rossi, i cattivacci di sempre, quelli che la Lady di Ferro, (quella vera s’intende, non questa versione inacidita e macchiettistica, non la nostra Vispa Teresa…), al secolo Margareth Tatcher, avversava fieramente, digrignando i denti e mostrando i muscoli, nel suo ruolo di icona della reazione e dell’imperialismo mercantilista ed usuraio angloamericano(come nel caso dell’Argentina, con le isole Malvine..) , assieme al suo coetaneo e “compagno d’avventure”, lo yankee Ronny Reagan. Ma allora c’era l’Unione Sovietica. Altri tempi. A farla da padrone, ad andar di voga, non erano insipidi burocrati dai capelli cotonati, ma tipi alla John Wayne di “Berretti Verdi” che dovevano giuocarsi il dominio del mondo con i Soviet di Breznev e Andropov, in una lotta muscolare dagli esiti incerti e senza esclusione di colpi…Oggi, defunto il Sol dell’Avvenire, in tempi di Globalizzazione incipiente, i soliti “occidentali”, capeggiati dall’immarcescente duetto Usa-Gb, colti da un’insensata euforia neoliberista, han creduto di tutto poter disfare e sparigliare, a proprio piacimento.
E così, tra perestrojke, movimenti arancioni, guerrette balcaniche e primavere arabe varie, ci si credeva che l’intero orbe terracqueo si sarebbe presto adeguato al Nwo/Nuovo Ordine Mondiale, tanto strombazzato dai Bush padre e figlio e dai loro succedanei. In quel del Medio Oriente poi, le cose sembravano tutte volgere in favor di Lor Signori: Iraq, Libia, Tunisia, Egitto, Afghanistan, Yemen, cadevano come frutta mature nella saccoccia globalista. Il marketing della “democrazia d’esportazione” funzionava, eccome…mancava solo la Siria e dopo con l’Iran, si sarebbero potuti regolare i conti in santa pace. Ma, il destino volle che, a capo della Federazione Russa si fosse, da tempo, insediata una personalità dal notevole intuito e talento politico, dal nome di Vladimir Putin che, altro non aspettava che render la pariglia a coloro che nel nome della democrazia “d’importazione” di cui sopra, avevano cercato di fare della Santa Russia una potenza sotto tutela Usa. Una specie di gigante dai piedi d’argilla, circondato dai Paesi Baltici alla Cecenia, dal Turkmenistan, al Mar Nero, da missili Nato e dalla minaccia dei vari integralismi, che ne rendevano friabili le frontiere. Strumento principe di Lor Signori, quegli integralismi di cui sopra, da costoro coltivati e foraggiati nei laboratori sauditi, pakistani, afghani, bosniaci e chi più ne ha, più ne metta…
In Siria bisognava far crollare l’ultimo “dittatore”/leggi Presidente, di uno Stato Nazionale Laico e Socialista. Anche stavolta, il conflitto scatenato sembrava volgere in favore degli scarafaggi “ribelli” e dei loro sponsor “occidentali” ed invece, l’improvviso intervento russo in favore del Presidente Assad, ha mandato a monte i piani di Lor Signori. Fine del sogno. Niente più “cintura strategica” con la quale sbarrare la strada a Iran, Russia e Cina. Niente più Caos, con cui giustificare chissà quali altre balzane idee interventiste…
A dire il vero, la Russia un primo, severo smacco all’arroganza globalista Anglo-Usa, l’aveva dato con la questione dell’autodeterminazione della Crimea e del Donbass. Anche lì, tutti gli sforzi per imporre una lobby di affaristi ucraini, corrotti e sporcaccioni, alla guida di un’intera area di vitale importanza per la Russia ( in quanto sbocco sul Mar Nero, sic!), erano andati a ramengo. E questo nonostante lo spregiudicato uso di formazioni paramilitari ultranazionaliste e simil-nazi-fasciste, amorevolmente teleguidate dai soliti noti. Passi per il Donbass, ma con la Siria è stato troppo! Per gli Usa, abituati a cantarsela ed a suonarsela da decenni, ma anche per la nostra Vispa Teresa May che, dismessi i panni dell’Euroscettica da operetta, ha invece mostrato quelli a lei più consoni di Euroscettica-filo-Usa, senza se e senza ma. Non esiste alcuna prova materiale che, ad avvelenare i due di Salisbury, siImage may be NSFW. Clik here to view.ano stati i Servizi di Mosca. Anzi. Alle pressanti richieste russe di fornire i risultati degli esami tossicologici, per verificare di cosa si stesse parlando, se quel gas provenisse o meno dai propri arsenali, la bisbetica di Downing Street ha risposto picche, scatenando invece un’offensiva diplomatica senza precedenti, contro la Federazione Russa. Ringhia e sbava come un vecchio e spelacchiato cane da guardia agli interessi atlantici, la nostra Vispa Teresa. Quegli interessi oggi sempre più in bilico, tra il debito stellare cumulato con la Cina, le ultime novità di cui abbiamo poc’anzi parlato in politica estera e poi, “last but not least”, la crescita esponenziale in Europa di quei movimenti populisti, a volte così pericolosamente vaghi ed ondivaghi e che, con le loro pulsioni identitarie e sovraniste, non promettono nulla di buono agli sponsor dello sdilinquito universalismo globalista.
Comunque sia, sanzioni e tensioni, non gioveranno alla nostra già debole economia, anzi. L’Europetta del circo equestre di Bruxelles, ci sta portando verso l’ultimo capitolo di una lenta e rovinosa agonia. Le criminali politiche neoliberiste ed il loro corollario di cronici sbalzi e di instabilità economico-finanziaria, la sostituzione etnica tramite l’invasione migratoria, le folli spese militari estere ed ora, il contrasto con l’unico paese che ha ancora il coraggio di perseguire una politica autonoma dai diktat globalisti, non promettono nulla di buono. I movimenti “populisti” in Italia, ma anche in Europa, hanno, in questo frangente come non mai, un’occasione d’oro per dimostrare l’attendibilità delle loro promesse elettorali e la reale consistenza di quei principi identitari e sovranisti di cui si sono, sinora, fatti entusiasti portatori.
Aleksandr Gel'evič Dugin (Mosca, 7 gennaio 1962) è un celebre politologo e filosofo russo vicino alle posizioni dottrinarie del mondo della Tradizione.
1. Il concetto del "Dasein" (esserci) di Martin Heidegger è un significativo ancoraggio della sua riflessione sulla concretezza antropologico-esistenziale della condizione umana, tra Terra e Mondo. Ritiene il suo pensiero una geofilosofia?
Io considero Martin Heidegger come il più grande filosofo. Ma esiste una sua parte esplicita, nei sImage may be NSFW. Clik here to view.uoi scritti, ed una sua implicita. Egli fu in grado di sviluppare una base filosofica per molte differenti applicazioni del suo pensiero che egli stesso non specificò. In tal maniera io ho trovato in Heidegger molti principi di filosofia politica che, però, sono approcciabili solamente se siamo in grado di cogliere alcune allusioni, correzioni, precisazioni che possiamo dedurre dal contesto generale della sua opera filosofica. Tutto ciò non ha quasi nulla a che vedere con il suo personale coinvolgimento politico. E' qualcosa di più profondo. In tal maniera, essendo a qualsiasi grado dei seguaci della Terza Teoria Politica egli ha posto le condizioni per la fondazione di una Quarta Teoria Politica e Metapolitica. Ciò valga anche per la geofilosofia. Sul piano esplicito egli non ha mai sviluppato nulla in merito ma se consideriamo il significato pieno del Da nel concetto di Da-sein, siamo in grado di scoprire la dimensione fondamentale della cosiddetta geografia, o anche del concetto di ambiente, dei mezzi per comprendere qualcosa di esistenziale. Io lo chiamo orizzonte esistenziale.
Altro punto: Heidegger stesso era convinto del carattere universale del Dasein pur essendo etnocentrico come molte persone intellettualmente dotate (ma anche come altre persone molto meno dotate intellettualmente, gli Occidentali non fanno eccezione), giusto in quanto il nostro modo di pensare è legato alla lingua, alla cultura, alla storia in senso di Seynsegeschichte. Il sistema Heideggeriano di Dasein come qualcosa di “universale” significa sempre il Dasein Occidental-Europeo – in primo luogo Greco e Germanico sopra tutto; ciò corrisponde, nella sua visione, all'inizio ed alla fine del Pensiero filosofico. In tal modo se accettiamo il carattere esistenziale di un luogo (DA) ed il suo legame ontologico con la cultura e la lingua allora notiamo che ciascun DA (situazione, allocazione, radicamento territoriale, geografico o culturale ) presenta differenti relazioni con l'Essere (Sein) proprio a causa di fattori come la lingua e la cultura. Sicché noi riceveremo la percezione di avere a che fare con differenti Daseins in corrispondenza con un diverso complesso di “die Existentialen” (realtà esistenziali ndr) .
La relazione con il concetto di Morte (addivenire ad uno stato di Morte) e del concetto di avere cura di sé (Sorge ) sono variabili in ragione dei differenti luoghi intesi anche come dei diversi orizzonti esistenziali. Da lì iniziano le teorie su moltitudini di Daseins che sono il nocciolo della filosofia multipolare e della geofilosofia che ne costituisce il basamento ontologico (lo chiamerei fondamento ontologico ). Ho avuto modo di parlare una volta con un discepolo diretto di Heidegger, il prof. Von Herrmann. Egli ci ha detto che Heidegger avrebbe dissentito con una simile interpretazione del Dasein.
Ma tuttavia nella mia visione della sua filosofia e nella mia interpretazione della sua fenomenologia in specifico (che era parimenti Eurocentrica - usando termini “a la Husserl” diremmo “relativa all'umanità europea”- con una espressione molto indovinata!) noi potremmo allargare la comprensione del Dasein anche proseguendo a riconoscere la differenza antropologica delle culture insistendo non solamente sul termine “cultura” (come giustamente suggerisce il moderno antropologo brasiliano Viveiros de Castro) ma anche teorizzando diverse interpretazioni della medesima realtà (multinaturalismo).
Essere nel Mondo come caratteristiche esistenziali del Dasein pone le basi per concepire diversi Mondi, se teniamo fermo il pensiero di avere una moltitudine di Daseins. Ed è proprio partendo da Heidegger e rimanendo assolutamente in debito con il suo pensiero che io ho deciso di applicare le sue idee in ordine a dei reami che egli decise di evitare o marginalizzare o che, esplicitamente, volle addirittura negare. Forse il mio studio di Heidegger è un po' eterodosso ma con un così grande, grande e grande pensatore l'ortodossia è qualcosa di dubbioso, di insignificante ed alla fine della fiera di impossibile.
2. Il processo di civilizzazione comporta una crescente e drammatica separazione tra natura e cultura. Quale è la sua interpretazione della tecnica al cospetto della sostenibilità ecologica?
La Tecnica è metafisica in sé stessa. Non c'è nulla di tecnico nella tecnica. Essa inizia con una radicale linea di separazione tra I due reami dell'essere -cultura e natura- finendo con ucciderli entrambi (nessuna natura e cultura sono più presenti, almeno fino ad adesso). L'unica tecnica accettabile è la tecnica filosofica: il Logos, ma solo quando esso sia pienamente in stato di coscienza delle sue radici esistenziali, restando il Logos fondamentalmente basato sulla ontologia. Io non credo alla natura senza cultura e viceversa. La Cultura è naturale e la Natura è culturale. Soggetto ed Oggetto sono due lati dello stesso Essere nel Mondo e la tecnica è l'artificioso e suicida insulto nei confronti della sua unità esistenziale. Dovremmo saper rivisitare il principale concetto filosofico che ha posto gli ecologisti nell'errore purchè lo siano allo stesso modo dei tecnocrati.Image may be NSFW. Clik here to view.
3. La dismisura è il segno distintivo del processo di accumulazione e dissipazione della società dei consumi e della occidentalizzazione del Mondo. Quale è la sua riflessione sulla "misura" e il senso del "limite"?
E' la sostanza del problema. I Greci la chiamarono ὕβρις cioè la forma essenziale del titanismo. Il Paradiso è la misura – in termini di spazio, tempo, essere. Quando noi perdiamo il Paradiso noi perdiamo la misura. Ernst Junger giustamente ha descritto il mondo della Modernità come il regno del Titano, della «dismisura» (ndr, in italiano come scritto dall'autore), della ὕβρις. La Tecnica in sé è già ὕβρις in quanto tende ad accumulare e quindi a rompere l'equilibrio. Marcel Mauss nel suo testo intitolato Economia come dono ha chiarito l'importanza della cerimonia del Potlach (Ndr, usanza dei nativi nordamericani), quindi della distruzione di tutto il prodotto superfluo in una sorta di rito orgiastico sacrale. Il titanismo è l'abdicazione e l'oblio di questa pratica sacrificale ed in ciò resta l'origine del capitalismo e della Modernità. Se noi vogliamo sempre di più e più ancora si verifica la dismisura e ciò stesso costituisce un abuso che noi pagheremo sempre peggio finendo in una condizione di oscurità e di illusione. Una volta che ciò si paleserà come una catastrofe si manifesteranno guerre ed annichilimento conseguente di ciò che abbiamo accumulato come superfluo.
Il Capitalismo è titanico e smisurato. Esso è la rivolta della Terra contro il Paradiso. Ma una volta che il Paradiso reagisce gli Dei restaurano la misura uccidendo Titani e Giganti. Questa è la Rivoluzione Conservatrice ed il ritorno alla Misura con la punizione delle potenze ctonie ribelli.
4. Ritiene che la distinzione tra universale e universalismo possa cogliere la differenza tra il pluralismo culturale e l'assimilazione occidentale?
La vera universalità è apofatica allo stesso modo dell'Uno di Platone, di Parmenide e dei Neoplatonici. In tal modo noi possiamo approcciare al concetto di universalità solo in quanto tangenti ad esso.La vera universalità non è la distruzione del particolare, dell'etnico, del nazionale, del religioso o del culturalmente delimitato, ma la piena realizzazione dell'essenza di tutte queste caratteristiche. L'uomo etnico è la strada per giungere all'uomo universale, la realizzazione dell'autentica esistenza del Dasein concreto ci porta a toccare la possibilità mai sperimentata fino in fondo del Dasein universale.
Per questo il moderno universalismo è assolutamente sbagliato. Esso divide I popoli in monadì atomizzate ed individualistiche e ciò non porterà mai al concetto di universale, anzi ne contribuisce all'allontanamento. Cercare di arrivare a immaginare, senza alcun tipo di concetto collettivo (etnico, culturale, religioso e così via) un uomo universale ci conduce solo alla macchina, distruggendo tutto ciò che rimane di umano in noi. In tal modo l'universalismo liberale diventa addirittura più particolaristico del particolarismo naturale delle differenti culture e popolazioni. Attraverso i popoli noi scopriamo la simbolica universalità che ci tocca disvelare, interpretare. Il popolo è la via per l'Uomo; l'individuo è qualcosa che si rende eguale a sé stesso ed in via finale esso diventa assolutamente un essere senza significato deprivato della propria lingua e cultura, un essere trasformato in una macchina. In tal guisa possiamo affermare che l'assimilazionismo è positivo solo quando esista una proposta sul cosa noi desiderassimo di creare qualora si parlasse di un progetto di identità collettiva in cui farsi assimilare. Il moderno progetto di assimilazionismo occidentale è, all'opposto, un invito all'assoluta solitudine, integrandosi in una specie di massa informe di singoli.
5. La sua teorizzazione della "quarta teoria politica" parte dall'assunto della dissoluzione delle grandi narrazioni ideologiche moderne, compreso il liberalismo che apparentemente sembrerebbe incontrastato "pensiero unico" della contemporaneità? In quale senso oggi dobbiamo cogliere l'onnipervasività pratica dell'individualismo utilitaristico della "forma capitale"?
Io penso che il punto più interessante sia il destino del concetto di individuo che si pone alla base del liberalismo, la sua bandiera, il suo soggetto. Si può definire “monade”. La monade individuale è il comune denominatore del moderno capitalismo – il regno delle monadi autonome. Ma il problema è che la monade conserva la sua “monadità” solo venendo supportata dalla pertinenza all'Uno Apofatico. Sicchè la monade è monade solo in quanto enade allo stesso tempo. Ciò significa che essa dovrebbe essere aperta dall'alto. Se chiudiamo la monade (come nel caso del liberal capitalismo) noi non la rendiamo indipendente nè dalla moltitudine dal basso nè dall'enade (unità apofatica – universalità reale) dall'alto. E' una illusione liberale. Nel momento in cui affermiamo la monade contro l'Unità integrativa, allo stesso modo ne distruggiamo la monadicità della medesima monade aprendo la strada ad una sottintesa molteplicità. In tal modo l'individuo diventa dividuo precisamente nel momento in cui si afferma come individuo e nulla più. IL Nulla significa in tal caso Uno apofatico (enade). In tal guisa noi stiamo vivendo in un mondo dove le monadi si autodissolvono. E' un “mileu” quasi naturale per la nostra esistenza. Stiamo vivendo nella dissoluzione, nella società liquida e questa liquidità del capitale rappresenza il nuovo nomadismo e lo spezzettamento della personalità in legami organizzati di qualsiasi tipo.Image may be NSFW. Clik here to view.
Non c'è più il soggetto. L'individuo (nei fatti un dividuo) diventa sempre più oggettivizzato, frammentario e dissipato. Sicché manca il vecchio buon utilitarismo in quanto è assente l'individuo umano. Stiamo diventando sempre più post-umani e prima di essere rimpiazzati da intelligenze artificiali dovremmo essere trasformati in robot. Nel qual caso non avremmo neppure in nota l'ultima trasformazione. Il pensiero unico non è più umano, è un tipo di programma da computer destinato manco più a degli utilizzatori ma ai relativi algoritmi. Non siamo più noi gli utilizzatori, non illudiamoci: siamo usati ed abusati dal Sistema ed il Liberalismo diventa ogni giorno sempre più totalitario. Io lo definisco il Terzo Totalitalismo.
6. Albert Einstein affermava: «Non si può risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che lo ha creato». Non può essere un'ideologia quindi, bensì un modo dinamico di pensare e confrontarsi con una transizione epocale. Quali caratteristiche deve avere una forma mentis adeguata al confronto tra principi e relativismo dominante? Un mutamento di "paradigma"?
Esattamente. Il tipo di pensiero che previene la soluzione alle sfide della Modenità e della Post-Modernità – più che una corretta formulazione di dette sfide- è propriamente nelle tre teorie politiche. Nulla si può correttamente risolvere e formulare quando si rimane sulle posizioni del liberalismo, del marxismo e del nazionalismo . Il problema non è nella Modernità, il problema è la Modernità medesima. La Post-Modernità annuciava di aver superato il problema ma in realtà ha fallito drasticamente proprio sulla base della conservazione dello stesso pathos liberazionista, immanentista, titanico e progressista della Modernità, del suo spirito Illuministico. La Post- Modernità volle solo incrementare la Modernità, renderla più moderna, sicchè ritengo che ci sia bisogno di un cambio radicale di paradigma.
In primo luogo abbiamo bisogno di accettare l'idea che esista o che sia anche lontanamente teorizzabile un qualcosa che sia assolutamente estraneo alla Modernità. La Modernità è assolutamente sbagliata. Tutti I suoi assoluti, valori, ideali, verità, conoscenze convenzionali da essa adottate e così via, tutto ciò dovrebbe essere messo a margine. Non dovremmo combattere questi elementi, semplicemente dovremmo distanziarci da essi mettendo tra noi e quelli tutta la distanza possibile di cui la Post-Modernità ci rende capaci.
Io penso che il tradizionalismo di Guenon ed Evola siano eccellenti esempi di cosa si stia parlando. Essi sono molto più post-moderni che qualsiasi altro filosofo ultra-radicale tipo Deleuze. Deleuze è totalmente programmato dallo spirito della Modernità, il suo è un algoritmo. Così un cambio di paradigma dovrebbe essere veramente radicale; più radicale di quanto I supposti radicali possano immaginare.
7. Oltrepassare la modernità significa criticare la società aperta senza una regressione autoritaria. Quali caratteristiche sociali può avere un comunitarismo partecipativo e volontaristico che abbini libertà e obblighi politici?
Oltrepassare la Modernità non è facile, ogni alternativa rischia di essere impregnata di alcuni pregiudizi moderni. Abbiamo bisogno di non temere nulla, incluso il regresso, l'autoritarismo e così via. Noi ci vergognamo di questi fenomeni perché risentiamo della mentalità moderna. Io apprezzo il comunitarismo, in sé possiede qualcosa di premoderno in quanto comunità organica di persone che vivono relazioni personalizzate con la natura e con I propri simili. Ma non dovremmo escludere un immaginario imperiale basato sulle gerarchie e sulla sacralità. Noi abbiamo bisogno di restaurare tutte e tre le funzioni originarie tradizionali quali il Sacerdote, il Guerriero ed il Contadino. L'economia è il campo del contadino, in tal modo la comunità rurale e dei piccoli artigiani sono la base dell'aspetto materiale della società. Ma al di fuori della Modernità tale aspetto materiale dovrebbe occupare l'ultimo posto di ciò che interessa. La base reale della società dovrebbe essere il Paradiso, la vita spirituale, I valori sacralizzati. La Terra dovrebbe essere, una volta ancora, conquistata dal Paradiso perché I Sacerdoti ed I Guerrieri recuperino le loro posizioni essenziali. Abbiamo, in tal modo, bisogno di invertire il processo della Modernità che iniziò con il posizionare, all'opposto, il materiale al di sopra dello spirituale, la Terra sopra il Paradiso.
8. Se Ortega y Gasset, con "La ribellione delle masse", aveva colto il culmine novecentesco di una modernità priva di tipi sociali capaci di indirizzare il destino degli eventi storici, Cristopher Lasch, con "La ribellione delle élite", ha illustrato come le classi dirigenti postmoderne riflettano le principali caratteristiche indistinte della massa. Quale ruolo ha il "politico" nella sua teorizzazione filosofica?
Il Politico è parte del Filosofico, non possono essere separati. Ogni pensiero filosofico ha una dimensione politica, ogni azione politica si innesta nei reami della filosofia ma il Politico è espressione non l'origine del Filosofico. Così noi abbiamo bisogno di vedere la sua unità ontologica con una gerarchia implicita. Ogni concetto politico non è altro che uno strumento nella mano di un filosofo ma la politica sta sulla linea del fronte mentre il filosofo rimane nell'ombra.
9. Si riconosce in una lettura geopolitica multilaterale delle relazioni internazionali? Quale rapporto continentale coglie tra la Russia e l'Europa?
Ho Image may be NSFW. Clik here to view.scritto molti libri in merito e non mi è possibile ripeterne tutto il contenuto in poche parole. Il Multipolarismo è la conseguenza della mia comprensione della pluralità dei Daseins. La Russia dovrebbe diventare un polo indipendente del mondo multipolare, L'Europa dovrebbe diventare un altro polo. Noi possediamo due Dasein differenti e dobbiamo rispettare queste differenze. Forse esiste una Terza Europa (Europa Orientale) per via dei particolari caratteri delle peculiarità est-europee e dei relativi Logos. Attualmente sto lavorando ad un'opera tra 19 e 20 volumi che costituirà la mia creazione principale: Noomahia, dedicata specialmente all'Europa Orientale. Ma in generale io considero Europa e lo spazio Russia- Eurasia come due civilizzazioni separate con molti caratteri comuni ma anche molte differenze. Il dialogo di entrambe può essere molto utile per entrambi noi … ma dovrebbe essere il dialogo tra un'Europa Europea ed una Russia Russa.
10. La fisica e la filosofia contemporanee hanno rivalutato l’idea del Caos, riferita non a un qualunque e informe disordine, ma ai sistemi complessi, alle equazioni con più risultati aperti, i quali, in realtà, costituiscono un ordine più complesso, difficile da afferrare nell’esperienza naturale, eppure esistente. Nutre un visione pessimistica sulla decadenza della civiltà o ritiene la storia aperta e non determinata? La ringrazio per il tempo che ci ha riservato.
Il concetto di Chaos è molto profondo e richiede una lettura completa. Lo sto studiando nelle antiche culture e nelle sue interpretazioni contemporanee. Chaos è lo stato di un mondo che precede l'Ordine. Questo è essenziale. Questo Chaos è la possibilità di una nuova creazione. I moderni comprendono la parola Chaos con la confusione che segue la distruzione di un ordine. E', infatti, il caso del Chaos nel senso attuale. Non è il chaotico nel senso Greco, è un Chaos morto, che non ha vita in sé, in nessun modo. Io sono pessimista sullo status quo. Se le cose proseguono lungo la stessa strada che stanno seguendo adesso ciò porterà alla totale distruzione dell'umanità. Forse ce lo meritiamo. Più noi progrediamo più siamo condannati. Ma prima di essere totalmente rimpiazzati dall'Intelligenza Artificiale che I globalisti ed I progressisti vogliono applicare noi possiamo decidere altrimenti. L'unica cosa che ci distingue dalle macchine (ma già noi siamo macchine in qualche modo dal momento in cui accettiamo il Sistema per come è) è la capacità di decidere. L'unica decisione che si configura come una reale Decisione è scegliere tra l'Esistere ed il Non esistere autenticamente. Cosa noi scegliamo: tra il Sè del Dasein e l'Uomo dell'Intelligenza Artificiale.
Ora abbiamo l'ultima possibilità di scegliere differentemente. Per cui, si, io credo nella storia come un percorso aperto. Ma questa chance ci sarà data prima che noi si perda la possibilità di morire perchè l'essenza del Dasein è di continuare ad essere di fronte alla Morte. Il progetto sull'immortalità (post-umanismo) e quello sull'Intelligenza Artificiale sono entrambi vie per deprivarci del nostro Dasein. Non abbiamo altro da perdere che il nostro Dasein, tutto il resto è già perduto.
Intervista a cura di Eduardo Zarelli
(traduzione dall'inglese a cura di Stefano Codari)
[caption id="attachment_26846" align="alignleft" width="147"]Image may be NSFW. Clik here to view. Illustrazione 1: La carta del Matto dei Tarocchi.[/caption]
Dell'Evola “storico” si può dire che si conoscono morte, vita e miracoli, come si suol dire, ma dell’Evola “ermetista”, ovviamente poco o niente. E allora che dire sugli ermetisti, cercando di comprendervi anche Evola?
Normalmente si cerca di intravederlo nell’uomo storico, ma l’ermetista di cui si sta parlando è diverso, si capisce che è cosa vana cercare di sondarlo con lo stesso criterio. E così si arriva a capire la follia che il Matto (illustr. 1) delle carte dei Tarocchi, vuole indicare sostanzialmente partendo da zero e questo è vero.
Quante volte, e non si contano, egli ricomincia daccapo e riprende la posizione persa sopravanzandola di slancio! Infatti per questo, Il Matto è la carta numero zero. L’animale che gli morde la gamba lo lega alla necessità delle discusse “azzoppature” e il fagotto sulle spalle è quella caparbia memoria che deve a tutti i costi trattenere al terribile Guardiano della Soglia che è Saturno, accennato in precedenza.
«Il Tempo ‒ dice Kremmerz ‒ è una divinità saturniana; vi si agita dentro lo stesso Saturno. A mezzanotte, la falce dell’inesorabile e famelico Dio si solleva e cade sulle cose compiute che non hanno più ritorno: L’onnipotenza di qualunque Nume non può distruggere né cancellare le cose che sono passate realmente nella vita. L’uomo può dimenticarle, ma nessun Dio distruttore può fare che non siano state. Saturno solo può troncarle, falciarle, farle spegnere, ma non può decretare che non siano esistite. È lui stesso che vi si oppone - ...»10.
Ecco il lato importante, che ora ho posto in grassetto, una carta che vale oro e che l’ermetista deve saper trattenere per sé, perché è la sua carta vincente per ottenere un certo trono.
Di qui il procedere del nostro Matto, “storico” ed ermetista” dall’altro, che cerca sempre con affanno nel suo “fagotto” frammenti di memoria per riordinarla. Di qui un “copia e incolla” di puzzle da comporre, dei quali se ne perde il conto perché la sua mente (diventata un vero e proprio atanor alchemico) è continuamente messa a soqquadro. Ed è come un certo “scolaro” che dimentica continuamente la formula matematica per risolvere questo e quel problema. Tuttavia il nostro Matto è abile a “rigenerarla” e per questo lo aiuta la facoltà sempre più spiccata di essere veloce, perché è l’unico modo per stare al passo con il regime turbolento in lui che si velocizza sempre più. Sono gli occhi in lui a fare tutto, di conserva alle mani, assai operose come quelle del dio Vulcano. La sua mente è come quella di un laboratorio, per nulla ordinato, e pieno di materiali di scarto e attrezzi rudimentali fatti da lui con pochi mezzi, poiché la sorte (quel diabolico cane della carta del Matto) lo ha continuamente “azzoppato” impedendogli di procedere nell’agiatezza e in un mondo luminoso. La notte è il suo giorno.
Si capisce che sto anche parlando per esperienza personale, ma niente sgomento per chi come il Matto, in genere si trova in questo stato, poiché è previsto per gli alchimisti di trovarsi impediti fino a questo estremo.
Ce lo fa vedere il maestro Michael Maier al quale sono ricorso nel mio articolo ALCHIMIA DELLA “LEGGE DEL CASO” IN “MAZZO DI FIORI” DI JULIUS EVOLA annotato sul mio blog11.
[caption id="attachment_26847" align="alignnone" width="644"]Image may be NSFW. Clik here to view. Illustrazione 2: Michael Maier. Atalanta fugiens, emblema XXVII.[/caption]
Egli si serve dell’emblema XXVII per questo scopo e lo fa seguire dal seguente epigramma che dice così:
“Chi cerca di penetrare nel Roseto dei Filosofi senza la chiave, sembra un uomo che voglia camminare senza i piedi.”
L'illustr. 2 mostra lo scenario del citato emblema, il ventunesimo di cinquanta, che l’alchimista Maier ha concepito per mettere sull’avviso l’incauto che si avventura per piegare al suo volere il giardino che si vede in figura, bel protetto da solide mura e da grossi catenacci.
E trattandosi di entrare nel giardino della geometria alchemica di cui ci occuperemo, allora è meglio desistere dal cercare di valicare la sua entrata senza possedere i giusti “piedi” (che “prima” riteneva di avere), sembra avvisare al profano. Infatti è così che normalmente viene interpretato questo emblema. Tuttavia, come ho detto in precedenza, col procedere nelle diverse fasi alchemiche il percorso diventa sempre più arduo e si arriva all’inevitabile “incidente” dei “piedi”, ma la provvidenza vi ha posto rimedio, mettendo al riparo la “culla” dove verrà deposto il Rebis filosofale (lo scopo dell’alchimista) fuori dal Roseto dei Filosofofi (ma è un modo ingannevole di definire la cosa). Infatti il buon “geometra” (e qui risiedono le sue chiavi), che Maier raccomanda di essere con l’emblema XXI (vedi sempre anche nel saggio prima citato: ALCHIMIA DELLA “LEGGE DEL CASO” IN “MAZZO DI FIORI” DI JULIUS EVOLA), si accorge osservando l’emblema XXVII, di un’indicazione posta lì come segnale. L’arcata sopra la soglia del giardino, sovrastata da tre pinnacoli, con la direttrice della sua base, sembra decisamente che voglia indicare a destra un gruppetto di cinque personaggi seduti alla base di un piccola altura alberata con altri esseri anch’essi seduti. Di qui (sempre andando a vedere nel suddetto citato saggio) la spiegazione sui 5 personaggi ci è data dall’emblema XLV e dal Rebis Filosofale di Basilio Valentino. Ho scritto in proposito:
«Si noterà nel glifo di Basilio Valentino che la coppia del Rebis (scritto a rovescio, quasi un parallello alla definizione della citata “ombra” dell’emblema XLV di Maier) che ha intorno 5 stelle più il Sole e la Luna in alto. Ed è pur visibile che M. Maier ha posto appunto all’“ombra” altrettante cinque stelle. Insomma tutta la zona ombrata in questione non è altro che il Mercurio filosofale in cui nasce il Reuccio, come una sorta di Culla dalle peculiari caratteristiche. Ma la tradizione ci descrive questa Culla, che l’alchimista dovrà intravedere per capire di essere giunto al traguardo dorato della sua opera d’arte. Notare che nelle iconografie le “culle” sono le classiche ceste di vimini intrecciati dove è adagiato il bambino appena nato. E domani è un altro giorno, con un altro “Roseto dei filosofi” da dover sperimentare, naturalmente con nuovi “piedi”.
Per questa ragione, torno a ripetere, a garanzia dell’intoccabilità del mistero racchiuso nella zona “densa”, ed è cosa vana tentare di intravedere il procedere della nascita del Rebis. Ma per via alchemica si può sorvegliare il procedere di questa nascita, poiché la Culla mercuriale che vi attiene, a detta di Fulcanelli, rivela la cosiddetta Stella del Nord. Se ne è parlato ampiamente nel mio studio sul Tavolo di Evola, pubblicato sul sito EreticaMente net. Di qui ha grande rilevanza tutta la tematica inerente l’apparizione della suddetta stella, il cui processo alchemico si dispone una mirabile geometria consistente in una tessitura che è chiamata in più modi e uno di questi è noto col nome di Sigillo di Hermes.».
Capito ora l’arcano di chi è incidentalmente “azzoppato”, che è poi il segno della “Stella del Nord”?
E fu così che si delineò in Julius Evola il “Roseto dei filosofi“ maierino con il gruppo futurista, per esempio quello di Balla e Ginna, con i quali intrattiene rapporti di amicizia e si sviluppa il suo “idealismo sensoriale” sintetico. Siamo nella seconda metà degli anni Dieci, a Roma (è incluso infatti nel futurismo romano), dove opera e in cui è inserito con i suoi rapporti artistici. Interessi di natura esoterica, anche se con sviluppi differenti, sono diffusi in questi ambienti culturali d’inizio secolo. Nei primi anni Settanta Arnaldo Ginna è testimone del coinvolgimento di Evola e di un certo Futurismo verso le relazioni esoteriche:
“Evola dipingeva un astrattismo di stato d’animo molto vicino a quello che facevo io, con quel pizzico di sentimento profondo animico occulto. Ciò veniva dal fatto che Evola, come me, si interessava di occultismo traendone, s’intende secondo la propria inclinazione, un succo personale. Non so precisamente definire gli studi e le esperienze di Evola, so soltanto che ciascuno di noi aveva tra le mani i libri di teosofia della Besant e della Blavatsky, e poi le opere di antroposofia di Rudolf Steiner”.
Nel lavoro artistico di Evola emerge la condizione di chi incontra le forze occulte trascendentali e le allucinazioni visionarie. Le vicende e i transiti, molto personali fra Futurismo e Dada, costituiscono un aspetto rilevante, non certo marginale, della sua complessa e versatile personalità: sintomatici anche negli aspetti intellettuali, che sono presenti e illuminanti nella stessa pratica artistica. In questi passaggi inizia a formulare un procedimento-percorso di pensiero, attraversando le istanze (pittoriche e poetiche) di avanguardie radicali, come quelle futuriste e dadaiste, confrontandosi con il nichilismo e i limiti della ragione. Questi movimenti infatti sono protesi a “recidere”, con innocente crudeltà, i miti dell’arte (passata e presente), confrontandosi con la sua crisi, i suoi sistemi e la società12.
Ma Evola, ben presto si stacca da questo movimento per ragioni che lui stesso espone (certi “piedi” che egli non ha più: l’argomentata “azzoppatura” di rito) e si prepara in lui un successivo stadio evolutivo:
«Non tardai però a riconoscere che, a parte il lato rivoluzionario, l'orientamento dei futurismo si accordava assai poco con le mie inclinazioni. In esso mi infastidiva il sensualismo, la mancanza di interiorità, tutto il lato chiassoso e esibizionistico, una grezza esaltazione della vita e dell'istinto curiosamente mescolata con quella del macchinismo e di una specie di americanismo, mentre, per un altro verso, ci si dava a forme sciovinistiche di nazionalismo. A quest'ultimo riguardo la divergenza mi apparve netta allo scoppio della prima guerra mondiale, a causa della violenta campagna interventista svolta sia dai futuristi che dal gruppo di Lacerba. Per me era inconcepibile che tutti costoro, con alla testa l'iconoclasta Papini, sposassero a cuor leggero i più vieti luoghi comuni patriottardi della propaganda antigermanica, credendo sul serio che si trattasse di una guerra per la difesa della civiltà e della libertà contro il barbaro e l'aggressore»
(Julius Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., p. 8.)
A questa prima fase, definita dallo stesso Evola idealismo sensoriale, appartengono le opere: Fucina, studio di rumori (1917 ca.), Five o'clock tea (1918 ca.) e Mazzo di fiori (1917-18)13.
La stella del Nord
E qui comincia a delinearsi la sintomomatologia dell’argomentata “azzoppatura” alchemica per fasi, con l’avvento della prima guerra mondiale.
Frequenta a Torino un corso per allievi ufficiali e partecipa alla Prima guerra mondiale come ufficiale di artiglieria sull'altopiano di Asiago dal 1917 al 1918.
Intanto già si delinea una prima sofferenza in lui con lo solfo e mercurio alchemico (la salamandra e la remora) che si azzuffavano dilaniandosi.
Questi due principi “abitano” il vaso alchemico e la lebbra che affligge la Materia Prima, più che identificarsi con il fisso o con il volatile, col corpo o con lo Spirito, risiede nella loro mancata integrazione, nella loro separazione. L’alchimista, quindi, non potendo rinunciare né all’uno né all’altro, deve riuscire ad amalgamare e fondere insieme Spirito e Corpo, realizzando la conciliatio oppositorum. Gli opposti devono prima lottare divorarsi ed uccidersi a vicenda perché la loro unione possa realizzarsi. Questa operazione ha due aspetti, quello del costringere la terra corporea e pesante ad elevarsi verso le regioni dello Spirito e quello consistente nell’obbligare lo Spirito ad abbandonare i “cieli filosofici”, ove può spaziare liberamente, costringendolo a discendere nelle regioni più pesanti e condizionate dai vincoli terrestri perché possa vivificare rivitalizzare e “rendere consapevole” il corpo.Questo potrebbe spiegare la “lotta” dei due gemelli romani, Romolo e Remo per dar origine a Roma, e finì, come si sa, con la morte di Remo. Tuttavia l’alchimia potrebbe far supporre che Remo non “morì” ma si unì per sempre col fratello spiritualmente. Ecco il lato divino di “Romolo” che, “unito a Remo”, lo fa intravedere come un vero e proprio “Rebis”, ma è anche la presa di coscienza del come va vista la definizione di Roma Città Eterna.
Nel caso di Evola in esame, prima interrotto, i due principi in opposizione sono, da un lato la posizione nettamente filo germanica – particolarmente affascinato dai grandi imperi come quello austro-ungarico e dall'idea di un ritorno ai valori tradizionali che esso rappresentava, e dall’altro lato, la decisione di diventare ufficiale dell’esercito italiano, dovette corromperlo nella sua interiorità. Alchemicamente, per conseguenza dovette influire su un’“azzoppatura” di “riflesso” che l’anticipò con una grave implosione in lui non tanto avvertita.
Si tratta di un famoso episodio legato ad una grande tragedia dell’esito della prima Grande Guerra che nessuno racconta in questa circostanza, ma è posta comunque in memoria con la sua foto scattata sul monte Cimone di Tonezza (illustr. 3).
[caption id="attachment_26848" align="alignleft" width="182"]Image may be NSFW. Clik here to view. Illustrazione 3: L’ufficiale di artiglieria Julius Evola sul Monte Cimone di Tonezza.[/caption]
Oggi, visitando questa vetta si legge: Sepolti da mina nemica qui dormono mille figli d'Italia - monte Cimone (m.1226) a Tonezza del Cimone.
Come tutte le montagne dell'altopiano e dei gruppi limitrofi, il Cimone costituì l'ultimo baluardo contro l'avanzamento delle truppe austriache durante la spedizione della primavera 1916, la Strafexpedition.
Il 23 settembre 1916 alle ore 5.45 gli austriaci con una mina di 14.200 kg. d'esplosivo fecero saltare la vetta. La cima del Cimone scomparve e con essa le truppe della Brigata Sele, della 136 Compagnia Zappatori del 63o Battaglione del Genio, composta da 10 ufficiali e 1118 soldati.
Ma Julius Evola fu lì quando tutta la tragedia si era consumata, nondimeno, come supposto, dovette coglierne in qualche modo il riflesso in lui, cosa che, poi, in seguito, molti anni dopo, sperimentò a sue spese vittima di un altro tremendo scoppio di un bomba a Vienna…
Intanto accanto a Evola, baldo ufficiale di Artiglieria della foto, una scala, forse dovette servire come segno emblematico per la scalata di chissà quale “vetta”… o quale “cielo” come quella biblica scala di Giacobbe del suo sogno?...
Tuttavia la memoria della tragedia del Cimone, che valse come una certa “Caporetto” della Grande Guerra, venne posta per iscritto da Ekatlos nel libro già citato, del libro del Gruppo di UR (perché non venisse dimenticata, così come dice Kremmerz: cfr. 10):
«1917. Vicende varie. E poi il crollo: Caporetto.».
Come si può capire questo episodio, riportato con poche scarne parole, simile ad uno dei soliti « casi », nello strano circolo “ombrato” del Rebis in gestazione, non deve benché pesare, se non per la storia ordinaria. E così il Rebis atteso nasce, racchiuso nella descrizione (un certo uovo filosofale) che segue «1917. Vicende varie. E poi il crollo: Caporetto », poc’anzi detto:
« Un’alba. Sul cielo tersissimo di Roma, sopra il sacro capitolino, la visione di un’Aquila; e poi, portati dal suo volo trionfale, due figure corruscanti di guerrieri: i Dioscuri. Un senso di grandezza, di resurrezione, di luce. In pieno sgomento per le luttuose notizie della grande guerra, questa apparizione ci parlò la parola attesa: un trionfale annuncio era già segnato negli italici fasti. ».
Intanto ci fu veramente in lui un’esplosione che poteva farlo morire rientrando a Roma dopo il conflitto. Infatti egli attraversa una profonda crisi esistenziale che lo porta al bordo del suicidio, come egli stesso riporta ne “Il cammino del Cinabro”:
« Questa soluzione [...] fu evitata grazie a qualcosa di simile ad una illuminazione, che io ebbi nel leggere un testo del buddhismo delle origini. Fu per me una luce improvvisa: in quel momento deve essersi prodotto in me un mutamento, e il sorgere di una fermezza capace di resistere a qualsiasi crisi »
(Julius Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., p. 10.)
Il passo cui si riferisce Evola è il seguente:
«Chi prende l'estinzione come estinzione e, presa l'estinzione come estinzione, pensa all'estinzione, pensa sull'estinzione, pensa “Mia è l'estinzione” e si rallegra dell'estinzione, costui, io dico, non conosce l'estinzione »14.
Ma quale fu la Stella del Nord che lo trasse in salvo elevandolo ad un nuovo stadio evolutivo in relazione al processo alchemico da tempo avviato in lui? È facile dirlo e con molta semplicità: fu la visione “buddica” che in Evola rimase impressa a suo modo. In realtà, esaminando tutto il panteon del corredo genetico alchemico, fino a quel momento, legato all’interiorità di Evola c’era comunque quello permeato durante il soggiorno nel “Roseto dei Filosofi” al contatto con amici d’arte tutti con certi libri di esoterismo fra le mani. Tutto questo restava latente in Evola, ma lui non lo ravvisava nemmeno ritenendolo come conoscenza culturale. Uno di questi era l’Antroposofia di Rudolf Steiner15, la cui filosofia era decisamente favorevole al cristianesimo, naturalmente esoterico, ma c’è di più per far luce sulla relazione del bodisatva Budda con la nascita di Gesù di Betlemme, il futuro Redentore.
Questo lato particolare dell’Antroposofia forse doveva essere poco noto a Evola (altrimenti da buon filosofo vi avrebbe fatto riflessione) ma fu tale da far balenare comunque in Evola un certo “cristianesimo” (una sorta di sotterranea iniziazione), cui egli però riesce a tener lontano, rifiutandolo, ma vediamo di che si tratta.
La leggenda della lepre e il sacrificio di Budda
Il Tutto del buddismo, cioè il sentimento dell’amore e della compassione, che poi vedremo si lega indissolubilmente al cristianesimo, portatore della forza dell’amore, la “spada” (Matteo 10,32-36), si connette al cosiddetto “corpo buddico”16 contemplato nelle diverse culture esoteriche e vedremo perché. Il modo semplice per immaginare come si sia disposta l’azione del bodisatva Budda nel genere umano al suo nascere, può essere immaginata attraverso una leggenda sul suo conto, cioè del come influì l’azione di compassione che il suo spirito promanava nell’anima umana attanagliata dall’egoismo.
« Queste cose generalmente – dice Rudolf Steiner commentando il vangelo di Luca – non sono ancora riconosciute dalla scienza esteriore. Spesso però fiabe infantili e leggende vi alludono. […] L’anima umana ha sempre sentito, nel suo profondo, l’importanza del fatto che prima qualcosa fluisce dall’alto, che poi diventa possesso dell’anima umana, e che da questa irraggia nuovamente nello spazio universale. […] Questa verità sul bodisatva, nei paesi in cui egli visse, si espresse in una strana leggenda:
Un tempo il Budda visse in forma di lepre; il quel tempo tutti gli altri esseri viventi cercavano alimenti; ma ogni alimento era esaurito. I vegetali, che per la lepre rappresentavano il nutrimento adeguato, non servivano a tutti gli altri che erano carnivori; allora la lepre (che era in realtà Budda) vedendo un bramino, decise di sacrificarsi e di offrirsi come alimento. In quell’istante giunse il dio Sakra che vide il sacrificio della lepre, Nel monte si formò allora una fenditura che accolse in sé la lepre. Poi il dio Sakra prese una tintura e dipinse sulla Luna l’immagine della lepre. Da allora in poi, sulla Luna si può vedere l’immagine del Budda in forma di lepre. (In Occidente si usa parlare invece di un uomo che si vede sulla Luna).
Ciò è narrato ancora più chiaramente in una leggenda calmucca: nella Luna dimora una lepre che giunse una volta lassù, perché il Budda si sacrificò e lo spirito stesso della Terra disegnò sulla Luna l’immagine della lepre. Così viene espressa l’alta verità del bodisatva che diventò Budda, e del sacrificio del Budda che consiste nell’aver dato all’umanità, come alimento, quello che prima era il proprio contenuto. In tal modo questo contenuto può irraggiarsi ora nel mondo movendo dai cuori degli uomini. »17.
Ecco, finalmente il nesso fondamentale sulla reale consistenza del simbolo della lepre costituitasi nel tempo nella mente umana, al punto farla imprimere anzitempo come “segno” sulla sfera terrestre, fra il genere umano, è fu la venuta del Redentore.
L’apparizione buddica a Evola fu come quella ai pastori di Betlemme
« Il vangelo di Luca ‒ dice Rudolf Steiner commentando questo vangelo (pp. 28 e 44) ‒, in un suo passo mirabile, ci narra che ai pastori nei campi apparve un angelo, il quale annunziò la nascita del Redentore del mondo; e dopo che l’angelo ebbe dato il suo annunzio, ecco associarsi a lui una moltitudine delle schiere celesti. Pensiamo dunque i pastori che guardano in alto e hanno la visione del cielo aperto e delle entità del mondo spirituale che si manifestano a loro in possenti immagini. […]
Che cosa è questa moltitudine celeste?
La moltitudine che appare in immagine ai pastori è il Budda glorificato, è bodisatva degli antichi tempi; la figura spirituale che appare ai pastori è l’essere che, per millenni e millenni, aveva portato agli uomini il messaggio dell’amore e della compassione. Dopo la sua ultima incarnazione sulla terra, quell’essere spirituale si librava nelle altezze spirituali, e apparve in cielo ai pastori accanto all’angelo che annunciava loro l’evento di Palestina.
Questo c’insegna l’indagine spirituale. Essa ci mostra aleggiante sui pastori, il bodisatva degli antichi tempi, glorificato. La cronaca dell’Akasha ci dice che in Palestina, nella città di Davide, nacque un bambino da una coppia che discendeva dal ramo sacerdotale della casa di Davide. Questo bambino che, si noti bene, almeno dal ramo paterno discendeva dalla linea sacerdotale della casa di Davide, era prescelto ad accogliere in sé, fin dalla nascita, la luce e la forza che il Budda irraggiava dopo essere innalzato alle altezze dello spirito. Se dunque, insieme ai pastori, contempleremo il presepio dove nacque Gesù di Nazaret (come usualmente si chiama), e guarderemo all’aureola di gloria che si irraggia sul bambino, noi sapremo che in quell’immagine si esprime la forza la forza del bodisatva diventato Budda; la forza che prima era fluita nell’umanità e che ora agiva su di essa da altezze spirituali; la forza che esercitò la sua massima azione quando s’irraggiò sul bambino di Betlemme, affinché esso potesse prendere il giusto posto nell’evoluzione dell’umanità. »18.
A questo punto che implicazione può derivarne in stretta relazione profonda crisi esistenziale che porta Julius Evola al bordo del suicidio? Come egli stesso riporta ne “Il cammino del Cinabro”, e che in seguito dice:
«Questa soluzione [...] fu evitata grazie a qualcosa di simile ad una illuminazione, che io ebbi nel leggere un testo del buddhismo delle origini. Fu per me una luce improvvisa: in quel momento deve essersi prodotto in me un mutamento, e il sorgere di una fermezza capace di resistere a qualsiasi crisi » (Julius Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., p. 10.).
Fu la forza della compassione e dell’amore di Budda, ma non da solo, perché a quel momento era saldamente legata alla forza della amore del Cristo, la spada (Matteo 10,32-36), suo tramite, dal quale poteva agire in coloro che per generazioni professavano la fede cattolica. Questa è la versione delle concezioni antroposofiche di Rudolf Steiner.
Se poi a questa “forza”, che Evola ebbe in sé in modo provvidenziale, si aggiunge l’agio ad ospitarla in virtù dei suoi genitori cattolici19, allora non è da sottovalutare che essa, in modo latente, sia potuta restare attiva per poi emergere, chissà in qualche occasione favorevole…
D’altronde al cfr. 18 viene detto per bocca di Rudolf Steiner:
« La cronaca dell’Akasha ci dice che in Palestina, nella città di Davide, nacque un bambino da una coppia che discendeva dal ramo sacerdotale della casa di Davide. Questo bambino che, si noti bene, almeno dal ramo paterno discendeva dalla linea sacerdotale della casa di Davide, era prescelto ad accogliere in sé, fin dalla nascita, la luce e la forza che il Budda irraggiava dopo essere innalzato alle altezze dello spirito. Se dunque, insieme ai pastori, contempleremo il presepio dove nacque Gesù di Nazaret (come usualmente si chiama), e guarderemo all’aureola di gloria che si irraggia sul bambino, noi sapremo che in quell’immagine si esprime la forza la forza del bodisatva diventato Budda; la forza che prima era fluita nell’umanità e che ora agiva su di essa da altezze spirituali; la forza che esercitò la sua massima azione quando s’irraggiò sul bambino di Betlemme, affinché esso potesse prendere il giusto posto nell’evoluzione dell’umanità. ».
Dunque non può essere che anche Julius Evola “sia stato prescelto” per chissà quale destino guidato dalla stella del Nord di un certo filone esoterico buddico? Ed è una prospettiva che potrà emergere nei prossimi capitoli grazie all’indagine sulla misteriosa donna che Evola definisce “appartenente al suofedele guardia del corpo”, citata in precedenza. Per farvi luce è possibile fare delle osservazioni da una finestra storica, l’unica di cui si dispone, un’emblematica lettera che, il 20 gennaio 1972, Evola invia a Tommaso Palamidessi, un noto astrologo romano col quale si era incontrato in precedenza.
« Nelle contrade “occulte’’ dell’Italia contemporanea si sono incrociati personaggi originali, talora estremamente distanti in termini di formazione culturale, di personalità e di ruolo svolto nel tessuto della cultura italiana. Tra questi singolari incontri, non sempre pacifici, vorremmo prendere in esame quello avvenuto tra Julius Evola e Tommaso Palamidessi, noto soprattutto per aver fondato, nel 1968, l’associazione cristiano-esoterica Archeosofica, tuttora attiva. Grazie all’analisi dei rapporti tra Evola e Palamidessi, è possibile non solo ricavare un profilo biografico ed intellettuale più netto di entrambi, ma anche estrapolare lo schema di un dialogo, talora spigoloso, avvenuto tra diversi orientamenti della cultura esoterica italiana del Novecento. Il dibattito esoterico contemporaneo, svoltosi in luoghi poco frequentati dalla critica storica, è ancora poco conosciuto. »20.
Ma si tratta anche di uno “schema di un dialogo” concepito da uno scrittore sotto il profilo storico, il noto prof Francesco Baroni di cui parlerò in seguito, che però non trova modo di coincidere con quello che deriva dal processo alchemico che vi attiene. È cosa acquisita, giusto in relazione allo scritto di Ekatlos del Gruppo di UR, Ekatlos, in LA « GRANDE ORMA »: LA SCENA E LE QUINTE del libro, INTRODUZIONE alla MAGIA (vedasi capitolo 3), in cui vengono minimizzati i fatti storici come « casi » addirittura “insignificanti”. Ma questo si allinea alla « legge del caso » di Hans Jean Arp del dadaismo, di cui si innamorò il primo Julius Evola storico, cosa già rilevata. E allora conta ipotizzare la situazione del processo alchemico in relazione all’ormai noto “Roseto dei Filosofi” in cui interagiscono le varie “piante” alchemiche per dar luogo poi alla nascita del Rebis filosofico, presumibilmente l’IO di Julius Evola da individuare. Ma sappiamo che la “terra” in cui dovrà germinare il Rebis è fuori portata del “Roseto dei filosofi” (ovviamente quello al momento coincidente alla data della lettera, cioè 20 gennaio 1972) e per via alchemica si può sorvegliare il procedere di questa nascita, poiché la “culla” mercuriale che vi attiene, a detta di Fulcanelli, rivela la cosiddetta Stella del Nord. Se ne è parlato ampiamente nel mio studio ALCHIMIA DELLA “LEGGE DEL CASO” IN “MAZZO DI FIORI” DI JULIUS EVOLA annotato sul mio blog (cfr. 11). E procedendo per questa strada si può immaginare che la preziosa “terra”, o “culla” mercuriale, risieda proprio nella misteriosa donna “appartenente al corpo di guardia” di Julius Evola, ed è come dire bingo! Ecco una solida ragione, però “velata”, come si vedrà, che indusse Evola a chiedere all’astrologo Palamidessi l’oroscopo natale di “lei”. Però quale “rospo” dovette ingoiare Evola nel mettersi nelle sue mani per ottenere questa notizia che poteva rassicurarlo interiormente, possiamo immaginarlo sin da ora sapendo che l’esoterismo di Palamidessi era chiaramente allineato al cristianesimo, mentre lui vi era notoriamente avverso, a parte altre cose, come si vedrà! Ecco la presumibile lotta acerba fra la sua infuocata salamandra e fredda remora dell’altro, che preludeva quella lettera!
A questo punto, prima di entrare nel merito della fondamentale lettera del 20 gennaio 1972, per poter fare le opportune riflessioni, resta da illuminare a giorno la visione esoterica della donna “appartenente al corpo di guardia” di Julius Evola.
NOTE
10 Fonte: La scienza dei Magi di Giuliano Kremmerz, pag. 56, vol. III. Ediz. Mediterranee)
11 Fonte: natività romana12 Cfr. V. Conte, Evola e l’arte-poesia, in AA.VV., Julius Evola e la sua eredità culturale, Edizioni Mediterranee, Roma 2017.13filosofico.net14 Ibidem cfr. 10
15 Rudolf Joseph Lorenz Steiner (Murakirály, 25/27 febbraio 1861 – Dornach, 30 marzo 1925) è stato un esoterista e teosofo austriaco.
È stato il fondatore dell'antroposofia, dottrina di derivazione teosofica che concepisce la realtà universale come una manifestazione spirituale in continua evoluzione, che può essere osservata e compresa mediante l'"osservazione animica" (una sorta di chiaroveggenza) e che può essere studiata, assieme al mondo fisico, con un approccio (a suo dire) scientifico (mediante la cosiddetta "scienza dello spirito" o antroposofia).
16 Secondo la teosofia l’essere umano è costituito da sette corpi differenti la cui sostanza, la cui composizione atomica, è diversa per ogni corpo. Il corpo fisico, il solo visibile durante la vita terrena – eccetto per i “sensitivi” che percepiscono anche gli altri – è animato da un secondo corpo: il doppio eterico che lo compenetra essendo una sostanza più sottile della materia fisica. Questo doppio eterico sarebbe in qualche modo la sede della forza vitale. Avremmo inoltre un corpo “astrale”, centro della sensibilità fisica e psichica, più sottile ancora del doppio eterico e che pervade il doppio come fa con il corpo fisico. Il “doppio” degli esperimenti di esteriorizzazione della sensibilità e dello sdoppiamento post-letargico mi sembra essere identificato con il corpo eterico e quello astrale della teosofia. In seguito vengono, secondo un ordine di progressiva sottigliezza, il corpo mentale, sede dell’intelletto; il corpo causale, centro della coscienza psicologica; poi i corpi “budhi” [il corpo buddico – N.d.A.] e “atma”, ancora poco sviluppati nell’uomo attuale, e che racchiudono uno stato latente delle potenzialità superiori. (Magnetismo, ipnotismo e suggestione di P. G. Jagot – Books Google Play).
17 Rudolf Steiner, Il vangelo di Luca, pp. 62-63. Editrice Antroposofica.
18 Rudolf Steiner, Il vangelo di Luca, pp. 62-63. Editrice Antroposofica.
19 Da una ricerca a questo link: “Julius (Giulio Cesare Andrea) Evola nacque a Roma il 19 maggio 1898 da Vincenzo e da Concetta Frangipane, in una famiglia aristocratica e cattolica, di lontana ascendenza spagnola”. Ignoro quale sia la fonte di Luca Lo Bianco che ha redatto la voce e che sembra proprio riferirsi alla famiglia paterna di Evola.[www.treccani.it] Andreas de Florentia - venerdì 28 novembre 2008, 3:21 - Località: Faesulae
20 Fonte: Julius Evola e Tommaso Palamidessi. Con una lettera inedita di Julius Evola di Francesco Baronifondazionejuliusevola: Sulle varie correnti dell’esoterismo italiano del XX secolo, il lettore potrà consultare il volume collettivo Storia d'Italia. Annali. Esoterismo, Torino: Einaudi, a cura di G. Cazzaniga, la cui pubblicazione è prevista per il 2010.
( Draguccio 20 maggio 1932-Springfield 13 giugno 2005 )
“ Istria è lo strillo del gabbiano nel tramonto
Il sussurro del vento tra la fragranza dei pini torreggianti…”
Trattato di pace
10 febbraio 1947
Milite Ignoto,
noi gente giuliana
ai tuoi piedi prostrati,
chiediamo:
Dunque tutto fu vano?
Vano il sacrificio
dei padri che offersero
il collo al capestro,
vano l'olocausto dei figli periti
offrendo il petto ai nemici,
vano l'orror della morte
nelle foibe profonde?
Figlio d'Italia
oggi tu muori.
Fremono le ossa
nella tomba marmorea
e si ode una voce
di pianto lassù:
e' Roma che piange nel cuore
mentre marmorea la faccia sta.
Scritto da Franco Aitala di anni 15, nato a Draguccio (Istria), profugo istriano da Rovigno d’Istria.
[caption id="attachment_26955" align="alignnone" width="1279"]Image may be NSFW. Clik here to view. Foto Panoramica del borgo di Draguccio[/caption]
Draguccio, nell’Istria centrale, è un piccolo borgo sul crinale d’una collina, se ne sta sulla prua d’una verde mammella, placido vi riposa come un bambino, forse sognando di librarsi in volo e salire, con le sue antiche pietre, verso il cielo. Questa piccina comunità ha tanta storia, un castello, un campanile aguzzo che fora il profilo, la chiesa affrescata di S. Rocco, la culla dei defunti custodisce S. Eliseo, poi è una mini Hollywood per le tante cineprese che l’hanno scelta damigella per film o spot pubblicitari, né manca lo scorrere, giù a valle, del torrente Draguch. Una poesia di campi distesi, strade bianche, edicole votive, profumi agresti, legnaie accatastate con sapienza antica, siamo nel tempo della natura che regola quello dell’uomo. Nel 1932 in tutto c’erano poco più di duecento anime di lingua mista ma in serena pace, oggi se ne contano meno di settanta. Qui e in quell’anno nacque un poeta istriano emigrato poi a Philadelphia, Franco G. Aitala. Le origini paterne non erano istriane, suo padre era emigrato dalla Sicilia catanese fin lassù nella penisola dei castellieri per insegnare. Vi trovò lavoro e amore, conobbe una ragazza di Rovigno Anna Zaccai, diventerà sua sposa e dalla loro unione nasceranno due figli Franco e Ruggero.
[caption id="attachment_26956" align="alignleft" width="198"]Image may be NSFW. Clik here to view. Foto d’archivio familiare, Franco e Ruggero con la mamma Anna[/caption]
La professione dei coniugi era di maestri elementari e dopo un lungo girovagar di sedi, tra cui la scuola di Draguccio, finalmente ottennero d’ insegnare entrambi nel paese natale di lei, assai più corposo come centro urbano e soprattutto specchiato sul mare. Furono comunque anni sereni per la famiglia Aitala, tanto a Pisino che a Rovigno, Franco studiava con impegno e profitto, amava il calcio, come appunta nel suo diario, il pathos della partita, si schernisce delle preoccupazioni genitoriali per le sbucciature che giudica sciocchezze.
“A me piace assai giocare a calcio non solo perché si esercita il coraggio e l’astuzia, ma anche perché si rinforzano i garretti e si irrobustiscono i polmoni. Alle mamme, fa paura il gioco del calcio, sapete perché? Dicono che si consumano le scarpe, che ci si può prendere una storta . . . e altre stupidaggini simili “.
Adora il mare e le uscite in barca con le paranze per la pesca quanto le passeggiate ai giardini pubblici con papà Concetto. E’ in quel frangente incantato della propria vita che il ragazzo prende a scrivere un proprio diario accanto ai compiti per l’estate che i solerti genitori gli assegnavano per mantenerlo in esercizio. Sono affreschi di un bambino corredati di disegni, un diario illustrato con la trasparenza acuta di un fanciullo, si va dai bisticci tra fratelli, alle partite di pallone, dal cambio delle stagioni, a quell’allegro viaggio in treno del 16 novembre del 1942 per andare a Villa d’Rovigno, finito con una sbronzetta da vino bianco.
“Non so che spropositi mi lasciassi sfuggire, so soltanto che tutti si buttavano via dalle risa e che alla fine del discorso, fui salutato da grida di bene, bravo evviva e da qualche fischio. Poi mi sollevano in trionfo e. . . non so come, mi trovai in treno “.
[caption id="attachment_26960" align="aligncenter" width="700"]Image may be NSFW. Clik here to view. Breve testo autografo tratto dal Diario di franco Aitala[/caption]
[caption id="attachment_26959" align="aligncenter" width="530"]Image may be NSFW. Clik here to view. Foto dell’archivio familiare del battesimo di Franco a Pisino[/caption]
Il 10 giugno del ’40 l’Italia entra in guerra a fianco di Germania, Romania, Slovacchia, Ungheria alle quali, nel ’41, si unirà nel Patto d’acciaio, la Bulgaria. L’attacco italiano, oltre che a Francia, Grecia e Egitto si sposta anche sul fronte orientale contro la Iugoslavia, truppe italiane occupano territori croati e sloveni. L’appoggio agli Ustascia favorisce la nascita dello Stato Indipendente Croato. Le vicende belliche però precipitano, dal famigerato 8 settembre del ’43, la Iugoslavia di Tito punta dritta all’annessione di Istria, Dalmazia e del Friuli Venezia Giulia. J. V. Borghese con la X MAS schiera 10.000 uomini a difesa dei territori istriani, cerca unità militare con i partigiani ma invano. Tutta la regione viene occupato territorialmente da tedeschi sottraendola al controllo della RSI, ma la guerra ormai è persa, le truppe iugoslave occupano Trieste fino all’arrivo degli Alleati, poi l’infame Trattato di pace del 10 febbraio del ’47, quelle terre per le quali era stato sparso sangue a fiumi, terre anche di eroi e guerre del nostro lungo Risorgimento, da Custoza fino all’impresa di Fiume, le terre irredente tutte passano sotto la Iugoslavia, si salvano solo una parte di Trieste e il FVG. Già dal ’44 i partigiani rossi del gen.Tito avevano aggredito la popolazione di lingua italiana, ma dopo la fine delle ostilità, la pulizia etnica sarà capillare, feroce, tutto ciò che richiama all’italianità di quelle terre deve essere cancellato per manifesta subalternità slava alla cultura del Bel Paese. Un popolo di circa 350.000 italiani è costretto a lasciare tutto e rifugiarsi nella parte del Paese non occupato dalle truppe slave. A Trieste i profughi lasciano le loro povere cose nei magazzini come il tristemente famoso Magazzino 18 cantato da Simone Cristicchi. L’accoglienza in Patria fu estremamente ostile per la campagna diffamatoria del P.C.I. di Togliatti contro gli esuli anche attraverso le pagine dell’Unità. Vennero sparpagliati in campi e alloggi di fortuna, quasi nascosti dagli impavidi del III e IV governo di Alcide De Gasperi.
Siamo partiti in un giorno di pioggia
cacciati via dalla nostra terra
che un tempo si chiamava Italia
e uscì sconfitta dalla guerra
Hanno scambiato le nostre radici
con un futuro di scarpe strette
e mi ricordo faceva freddo
l'inverno del '47.
[…………………………..]
E siamo scesi dalla nave bianca
i bambini, le donne e gli anziani
ci chiamavano fascisti
eravamo solo italiani
Italiani dimenticati
in qualche angolo della memoria
come una pagina strappata
dal grande libro della storia.
da Magazzino 18 di Simone Cristicchi
Anche la famiglia Aitala fu costretta a fuggire lasciando la propria casa ma portando con se lo scrigno dei documenti di famiglia, le fotografie e i libri. Giunti a Roma, tra molte peripezie, decisero di imbarcarsi per gli U.S.A. e lì rifarsi una nuova vita, era arrivato il 1951.
Addio alla mia Istria
Addio o pini che bagnate le radici nel salso,
Addio o rocce infrante dal mare,
addio o gabbiani bagnati di luce e di sole!
O terra natia, o Istria aspra e rocciosa, addio!
Paranze dai fianchi robusti,
velieri dal rosso sperone,
o grosse e pesanti maone,
bragozzi dai ponti adusti,
addio, per sempre addio!
Lasciate che l'esule stanco
vi guardi per l'ultima volta,
o colline ammantate di verde
in cui lo sguardo afflitto si perde!
Mentre il cuore batte ed ascolta,
ascolta il rumore dell'acque,
lo sciacquio dei remi,
le grida nel cielo sonoro
di echi e riflessi,
ascolta lo strido del gabbiano,
i rami che frusciano nel pineto,
il merlo nel verde vigneto,
il tonfo della mazza nello squero lontano,
negli squeri dai rossi legnami,
all' ombra delle agili navi,
lenti i canti s'alzano gravi
degli ultimi Istriani.
Nel cuor disperato,
piange e lamenta
il ricordo sconsolato:
non più corse nei folti pineti,
non più canti nell'aure assolate!
Mai più, mai più!
Franco Aitala esule giuliano da Rovigno d'Istria
[caption id="attachment_26958" align="alignright" width="300"]Image may be NSFW. Clik here to view. Foto dei fratelli Aitala, Franco è a sinistra[/caption]
Il transatlantico trasporta molti istriani nella terra di Colombo, gli Aitala si fermano in Pennsylvania, da Rivigno a Filadelfia con un bagaglio di ricordi ma la voglia di ricominciare. Franco completerà i suoi studi conseguendo la laurea in Ingegneria civile, lavorerà per l’U.S. Government Industry and for Philadelphia Naval Ship Yard, Philadelphia, PA. Mentre suo fratello si laurea in Ingegneria chimica lasciando, per lavoro, la Pennsylvania per il Texas. Nel 1965 Franco sposa a New York Marilyn Bemis di sei anni più giovane, cittadina americana nativa di Hamilton, NY, avranno tre figli un maschio, Eric e due femmine, Michelle e Tina. Franco si spegne il 13 giugno 2005 all’età di 73 anni, la sua consorte l’aveva da poco preceduto.
Enanuele CasalenaBibliografiaIstrianet.org. Franco G. Aitala, Family AlbumThe Istrian Diary, A Little History, by Michelle Aitala
Arte vera la fa chi ne conosce l’origine, la scaturigine, anche scrivendo racconti dell’orrore, letteratura non alta secondo la critica borghese e illuminista. Come Arthur Machen (1863-1947) che fu ben più di un genio riconosciuto nella letteratura del fantastico, ammirato da H. P. Lovecraft e da Stephen King. Lui fece appunto vera arte, ne conosceva l’origine, sapeva che la poesia nasce da preghiera e incantesimo, il racconto dal mito e il teatro dal rito. Image may be NSFW. Clik here to view.Sapeva che l’arte vera è un continuo richiamo a un altro mondo o meglio è una via per sperimentare il vero mondo, una coscienza ampliata che è sempre qui, non altrove, da conquistare, comprendere, sposare.
Nei racconti fantastici di Machen paiono evidenti i riferimenti ad esperienze del metafisico realmente vissute, il reale viene trasfigurato da potente immaginazione creatrice, con atti di magia più meno consapevoli. Quando manca la consapevolezza sono nefasti per la quotidianità dei protagonisti, per la loro vita fisica, per la salute mentale. Ne “Il grande dio Pan”, in quel decamerone vittoriano intitolato “I tre impostori”, c’è il superamento dei limiti del reale, ci sono rotture di livello, ma il prezzo da pagare per inesperienza o scarsa pietas è sempre altissimo. Il risvegliare qualcosa che non si sa domare è un tuffarsi in acque corrosive sconsigliabili ai più degli uomini.
Machen lo aveva imparato leggendo i mistici e i maghi del passato, per conto suo. Poi si era affiliato alla Golden Dawn, pur rimanendo nella cerchia più esterna ed evitando coinvolgimenti nella diatriba che vide contrapporsi Aleister Crowley e William Butler Yeats. Ma fin dall’infanzia gallese, come suggeriscono i suoi passi più autobiografici, deve aver sperimentato istanti puri e pieni, eternità di un attimo in cui si è altrove veramente, in un altro mondo, nei pressi dell’origine dei mondi. Uno stato di coscienza e veggenza astrale, che permette di esperire spiriti elementali, fate, elfi, gnomi. Le leggende celtiche son forse segnali di quegli attimi sacri donati a bimbi e a druidi. Come l’attimo pieno e puro del meriggio in cui si manifesta il tutto, il dio Pan. Non solo celtismo, infatti, in Machen, ma anche un’insistito rimando al mondo greco-romano, in particolare proprio alla civiltà dell’Urbe. Roma affiora e prorompe anche in La collina dei sogni finalmente riedito dalle edizioni Il Palindromo nella storica traduzione di Claudio De Nardi, con un suo saggio e una nota biografica su Machen e, a completare la felice pubblicazione, un’introduzione di Gianfranco de Turris.
Lucian Taylor, il giovane protagonista, fa l’esperienza capitale della sua vita, incontra l’altra dimensione, l’amore eterico che trasfigura, il dio Pan che esalta e rapisce per l’altrove, in una collina britannica, fra le rovine di un forte romano. Come gli Stilnovisti italici prima di lui ha proiettato il suo desiderio su una ragazza reale, una contadina del posto poco più grande di lui. Quel proiettarsi non ha nemmeno bisogno di un concreto contatto fisico, perché il vero amore, il più intenso, è amore eterico, nutrito dallaImage may be NSFW. Clik here to view. fantasia creatrice dell’astrale. L’amplesso meridiano, non fisico ma con effetti più che fisici, trasforma definitivamente Lucian. Da quel momento non sarà facile inserirsi nella realtà quotidiana, con sue scadenze ed esigenze. Lo respinge il borgo natio, posseduto da ambizioni e formalità di provincia. Lo respinge anche la metropoli, la Londra decadente, abbruttita, industrializzata e intimamente sabbatica in cui Lucian fugge per affermarsi come scrittore.
Qui Machen ricorda le difficoltà dei suoi esordi, il terrore della pagina bianca, le ispirazioni fulminanti e le notti insonni a scrivere capolavori poi sbiaditi con la luce dell’alba. Scrivere è difficile, è atto di magia. Rendere giustizia delle proprie esperienze e dell’Esperienza con le parole è arduo. Come vivere, in fondo. E quando si riesce nell’impresa non è detto che gli altri se ne accorgano. Perché il mercato di romanzi e racconti è intasato di narrazioni rassicuranti e banali, di realismo ingenuo. Non c’è posto per Lucian in quel mondo. Non c’è posto al mondo per lui, ormai. Perché il mondo si spalanca, la quotidianità deraglia, si dissolve e lui si ritrova in un villaggio romano, con visioni e sensazioni che echeggiano la letteratura di Apuleio e Petronio. E i bassifondi di Londra fanno da contraltare a quella serenità mediterranea, con le loro orge moderne di male indemoniati, di donne fatali solo nel distruggere.
L’anima elevata soffocata dal gregge, lo scrittore disadattato, fuori dal ciclo produttivo, disconosciuto in quanto bardo, è un uomo non pratico. Come non pratici sono i santi, secondo Léon Bloy. Pronti dunque al martirio, alla testimonianza di altro mondo esperibile. L’elevazione sarà dunque testimoniata dalla deriva alla Dostoevskij, alla Poe. Fino all’abuso di droga, al suicidio, al capolavoro sconosciuto, che mai verrà letto da alcuno se non dalla donna angelo conosciuta nel meriggio della vita.
Machen offrì con questo capolavoro (tale lo consideravano sia Henry Miller che Maurice Maeterlinck) non solo un esempio di grande letteratura ma un avvertimento più volte ribadito da tutti i saggi: i sogni desti son potentissimi, occorre molta attenzione per pilotarli bene e non farsi trascinare in luoghi e stati d’animo non voluti.
Riflessioni sulla nuova edizione dell’opera “La Chiave della Sapienza Ermetica secondo Domenico Bocchini, Giustiniano Lebano e Giuliano Kremmerz,”.
Non credere che la presente opera non sia scritta per essere da tutti intesa: anzi, noi l’abbiamo conciliata, nel suo didascalico istruttivo, in modo da essere più chiara possibile. A tal proposito, calza la frase del Grande Hierophante Giustiniano Lebano:
«Bisogna studiare per sapere, sapere per comprendere, comprendere per giudicare…I libri promettono, per solleticare le passioni umane, cose strabilianti. Risolvono il problema dei loro autori sulle passioni umane, proprio come i pescatori che si impossessano dei pesci ingannandoli con un buon boccone, che nasconde l’amo. Così abbondano ciarlatani e palImage may be NSFW. Clik here to view.tonieri che promettono mari e monti e poi non danno che la lusinga della speranza nei sogni più scervellati: oppure promettono la soddisfazione delle passioni umane, la libidine, la ricchezza e la superbia di dominare gli altri».
Così il Maestro Giuliano Kremmerz, ne L’appello agli aspiranti alla Luce, introduceva la sua opera, specificando che avrebbe pubblicato cose mai scritte per offrirle alle anime pure di coloro che erano desiderosi di conquistare il sapere ermetico. Prendendo a modello l’esempio di Amore del Maestro Kremmerz, per lunghissimo tempo siamo rimasti incerti e dubbiosi se fosse giusto pubblicare documenti preziosissimi ed informazioni delicate riguardanti i rapporti iniziatici tra Leone Caetani e Giustiniano Lebano. Pur essendo certi che sarà difficile la comprensione, essendo il volgo sempre il peggiore interprete della Verità “perché la lotta contro la metafisica vuota e la bestialità inetta è spaventevole anche per gli eroi della favola classica”, siamo convinti che un seme di conoscenza vada comunque abbandonato nella terra. Non importa se i cani ululeranno sempre alla luna o morderanno la terra che noi calpestiamo:
«gli scettici, uomini che dubitano di tutto e principalmente di se stessi, non si lasceranno convertire. Essi rappresentano il volgo di tutti i tempi e di tutte le nazioni: non credono che ai fatti compiuti, perché non pensano e non accettano che la filosofia della massa, di cui essi sono il numero».
Siamo stati autorizzati a pubblicare questi sacri documenti fino ad ora tenuti rigorosamente custoditi, manoscritti sottratti per la loro qualità hierophantica a qualunque mercato, per due motivazioni. La prima è stata quella di sigillare la Verità. Chi tace la Verità è come se dicesse il falso e passa nella classe dei vigliacchi, che non hanno stima di sé. Questa colpevole omissione si tradurrebbe quindi in una sorta di vergognoso cedimento o fuga di fronte alla menzogna, all’errore e alla malvagità di quelle che il Maestro Kremmerz definiva le genie infernali umanizzate. Vigilare sempre. Non permettere mai all’errore ed alla menzogna di dilagare indisturbati. Testimoniare la Verità, in modo che essa continui a splendere per coloro che la cercano, malgrado la nebbia e le esalazioni di palude e di ammassi di letame. Tacere, quando si deve e si può parlare, costituirebbe una colpa verso la tradizione degli Antichi Padri. Tempi di orrore, in cui l’arroganza ed i pregiudizi strozzano la Virtù.Image may be NSFW. Clik here to view.
Il tempo era maturo per alzare il simbolo romano del gladio d’onore, di vedere tutto l’edificio di vili menzogne, fabbricato in lunghissimi anni di falsità, cadere… come un corpo morto cade. Non siamo più disposti a rinunciare a nulla, nella sacra lotta contro l’errore, l’impostura, la mistificazione; dovevamo testimoniare l’Amore e la Fedeltà nei confronti dei nostri Maestri, incompresi e vilipesi, loro generosi dispensatori d’Amore e Sapienza. L’Apostolato di Verità Assoluta è fatto di silenzio: non parlate se non volete ritornare nelle tenebre della volgarità. Essa non è affare giochetti di prestigio e di illusione di fronte ad un pubblico ingenuo e curioso, ed ha conservato la Chiave di Verità che il volgo imperfetto deve ignorare.
Per Legge di Giustizia Assoluta, “le cose di valore massimo” sono da sempre custodite da chi ha il “diritto di imporsi”; il Fato è lo stesso di fatto e ha determinato che il “Patrimonio dei Numi” non cadesse in mani profane, impure e malvagie. Senza il consenso “Consesso dei Numi” che non tollera siano violate e ignorate le prescrizioni poste da esso a presidio della Iniziatura Vetusta, le Porte Auree sono destinate ad essere inesorabilmente sbarrate. Ad aprirle non possono bastare gli intrighi, le falsificazioni, le infinite analisi grammaticali, i furti e le carte rubate da archivi, le astuzie, le false trasmissioni iniziatiche. Sigilliamo: il mistero, da sempre, è perfettamente occultato e custodito e nella sua essenza irraggiungibile. Il Principio si occulta allorchè un segno si ritira misteriosamente nell’Invisibile, nell’immediatamente inaccessibile, ma continua ad essere presente, celato all’esteriorità profana e raggiungibile per vie misteriose prima, e Arcane poi. La Fiamma Sacra non si è mai spenta, conservata da Sacerdoti con mani pure e degne, e religiosamente trasmessa di generazione in generazione da Hierophanti cui fu affidato via via il deposito sapienziale.
La seconda motivazione è stata quella di spuntare le armi dei “ciarlatani”, per impedire di fare abboccare ai loro ami di falsità altre anime pure e innocenti. Non per vanità, né per vanagloria, ci siamo decisi a mostrare ciò che avremmo voluto rimanesse occulto, ma ripetiamo, per impedire che ancora una volta le menzogne e il frutto infetto dell’impostura passino impunemente come Verità, che la superbia venga scambiata per Sapienza, che la malvagità sia spacciata per Virtù, che il grammaticismo venga confuso con le Scienze del vero, che il tradimento e l’ipocrisia siano smerciati per lealtà e onestà.Image may be NSFW. Clik here to view.
Noi affermiamo e sigilliamo: tutto ciò che è stato detto, scritto, interpretato, documentato, sulle Scienze Sacre, sulla Iniziatura Vetusta, è falso, volgare, grammaticale ed erroneo. Così è stato fatto per Roma. Che cosa si conosce della sua antichissima storia? Nulla. E poiché nessuno ha mai saputo, né mai poteva sapere interpretare i suoi simboli, tutto è stato tramutato in favola. Parliamo infatti di simboli e non di persone, come hanno creduto erroneamente i grammatici. Roma è nome Arcano e Teocratico: Arcano, perché costituito nel mondo occulto; Teocratico, perché un governo di Numi ne stabilì l’origine. Quindi Roma ebbe la città pubblica, Delia, apparente, visibile e l’Urbe sotterranea, quest’Urbe A-delia, non visibile fu chiamata anche VALENTIA, che si spiega: giace all’interno, ove vi è la Divinità.
Ecco perché, di tutte le antiche opere dei Classici delle Sacre Scritture che contengono tesori di infinita Sapienza, non abbiamo altro che le vulgate, cioè divulgate per il volgo. Comprendete che i Classici contengono tutt’altro che quello che le versioni volgari gli attribuivano, poiché i Classici erano scritti tramite l’ideografia, cioè la scrittura allegorica dei Numi, che non avevano nulla in comune con l’interpretazione volgare. La Dea Fortuna ci ha accompagnato nel ritrovare quei manoscritti che si sono salvati dalla distruzione operata con perseveranza nei secoli dalla mano che non voleva si venisse un giorno a conoscere la Sapienza Arcana e a leggersi il vero che i Classici contengono, e si seguitasse a vivere senza alcuna conoscenza della storia vera del mondo antico e delle sue Dottrine Sapienziali. Facciamo riferimento a un manoscritto in cui si spiega il modo di interpretare le Dottrine Sacre Arcane, le infinite Tavole di Bronzo, i Sacri Segni dei Padri dell’Urbe, il Valore Arcano dei Nessi e Cifre che sono nei Classici.
Questo è uno dei tanti “rincappi del Filo di Arianna”, mai interrotto. Si imponeva soltanto un poderosissimo e possente silenzio, e la necessità di ricorrere alla stadera dell’intelletto, ove ogni parola era da pesare con la bilancia di Ermete; ogni immagine è un Inno all’Unità del Creato, è Scienza Divina, proposta divinamente; ogni anagramma, ogni monosillabo staccato e le dizioni negative poste in forma positiva. Le parole generano altre parole, per assonanza, per radice adattata, per similitudine, per anagrammi e così via, come nell’Usia delle cinque lettere ultime, che si dicono rinvenute da Mercurio Trimegisto.
Gli Antri del Mistero, i Labirinti, la Reggia di Pluto, la Lupa che fa poppare i due gemelli, il latte della Lupa, l’albore della Luce che nutriva i due Senati Gemelli, gli Idoli, i Penati, i simboli dei Gentili erano tutte le lezioni che gli Epopti impartivano agli alunni Palladii per la conoscenza delle Arti e delle Scienze.Image may be NSFW. Clik here to view.
La Chiave della Sapienza Ermetica costituisce l’apertura della serratura della soglia che custodisce questa Sapienza Assoluta. Oggi, dopo aver visto fallire tutti i tentativi operati in maniera subdola e con irreale creatività, quali gli archivi inventati, le inesistenti gerarchie, i parlari volgari, i discorsi da strada, distruggiamo definitivamente la barbarie che “sub specie vanitatis” hanno tentato di imprimere in questa Italia, dimora del Nume Arcano, il proprio costume: che mai e poi mai possa più trovare ascolto la vanagloria, l’ignoranza assoluta, l’egoismo, la prevalenza grammaticale, l’orgoglio, la falsa personalità, la hybris, la presunzione.
Amico lettore: noi ti offriamo l’Opera, che è il frutto di lunghissimi anni di studio. Ci siamo nutriti di questo bellissimo cibo dei Numi, che è la Sapienza, estraendo l’Oro da questa inesauribile miniera. Nostra intenzione è stata unicamente l’Amore per la vera Roma Arcana e per la Sapienza, cui abbiamo consacrato tutta la nostra vita, anzi, per cui ha avuto un senso e un frutto il nostro vivere. Tutto sarà ammantato di luce nuova, dovendo imporre un riconoscimento: noi abbiamo tentato un bellissimo cammino, sotto l’auspicio del Sole Arcano dei Gentili e dei Numi Immortali, sotto la tutela magistrale di Domenico Bocchini, Giustiniano Lebano e Giuliano Kremmerz.
Riccardo Donato
La Chiave della Sapienza Ermetica
Secondo Domenico Bocchini, Giustiniano Lebano e Giuliano Kremmerz
Introduzione di Piero Fenili
Volume 1 - Terza edizione con una Appendice e nuovi Allegati inediti
Edizione numerata in ampio formato (cm. 32 x 22), 242 pagine, numerose ill. € 30,00
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Tel. 0584 943038 – 373 7436098–
fax: 0584 943107
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«Possiamo accettare e sopportare una sconfitta non una umiliazione. Potremo essere vinti ma non disonorati; combattuti, ma non vilipesi. Odiati, non disprezzati. Per questo è sorta – o risorta – la X Flottiglia»
Reparto Stampa Flottiglia Xa M.A.S., Noi, della «Decima», 1944
Ora riprendiamo il filo degli episodi già accennati precedentemente e che hanno determinato per l’Italia la seconda parte della guerra mondiale.
Dopo la resa delle truppe tedesche e italiane in Africa Settentrionale il 13 maggio 1943, il «21 maggio furono pronte e diramate dal feldmaresciallo Wilhelm Keitel, che dirigeva l’O.K.W., le prime bozze di misura di carattere operativo, da attuare “nel caso di un ammutinamento politico-militare in Italia”. Il Piano contemplava le operazioni “Alarich” (Alarico) e “Kostantin” (Costantino), la prima delle quali prevedeva l’intervento delle Forze Armate germaniche nel settore occidentale dell’Europa meridionale (Italia e Francia), la seconda, invece, nei Balcani e nell’Egeo. In questa situazione di sfiducia nei confronti dell’alleato, il solo elemento che poteva ancora rassicurare i tedeschi era riposto in Benito Mussolini, la cui posizione prima del 25 luglio era ancora ritenuta a Berlino solida e inattaccabile. Una fonte di preoccupazione per Adolf Hitler era, invece, rappresentata dall’incognita costituita dalla posizione del Re Vittorio Emanuele III, e degli ambienti militari, in particolare al vertice del Comando supremo» (Francesco Mattesini, La Marina e l’8 settembre. II Tomo: Documenti, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma 2002, pp. 7-8).
In pratica i Tedeschi non solo hanno inteso che la conduzione delle operazioni belliche da parte italiana è viziata da troppi fattori compromettenti, e questo senza dover parlare di veri e propri tradimenti del segreto militare, ma sanno che presto le forze angloamericane potranno sbarcare sul suolo italiano e fors’anche sulle coste della Francia Meridionale. Pertanto fanno affluire contingenti per contrastare ciò.
Intanto gli angloamericani sbarcano in Sicilia, prendendola in poche settimane e ammazzando soldati italiani che s’erano arresi e commettendo crimini di guerra anche nei confronti della popolazione civile. Tutti crimini di guerra, lo si sottolinea, rimasti ad oggi impuniti. (1)
Come già accennato nel precedente contributo (VII parte), Benito Mussolini è “arrestato” il 25 luglio e il Partito Nazionale Fascista si dissolve: questi sono i prodromi che condurranno i vari intendimenti nei riguardi della guerra mondiale a palesarsi.
Propaganda “reale” e “badogliana”.
Image may be NSFW. Clik here to view.Fermo restando che lo Stato, o meglio il Regno d’Italia, poteva tranquillamente rimanere neutrale tanto nella Prima quanto nella Seconda Guerra Mondiale, si ricorda che in Italia durante le guerre del XX secolo la propaganda è stata ampiamente utilizzata e in differenti e contrastanti direzioni. In pratica è stata anch’essa un’arma della guerra, in questo caso mediatica. Un esempio di propaganda è rappresentato, ad esempio, del proclama stampato e diffuso proprio il 25 luglio 1943, il cui testo recita:
«Il proclama di Badoglio // Sua Eccellenza il Maresciallo d’Italia pietro badoglio ha rivolto agli Italiani il seguente proclama: // Italiani, // Per ordine di Sua Maestà il Re e Imperatore assumono il governo militare del Paese con pieni poteri. La guerra continua. - L’Italia, duramente colpita nelle sue provincie invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni. // Si serrino le fila attorno a Sua Maestà il Re e Imperatore, immagine vivente della Patria, esempio per tutti. // La consegna ricevuta è chiara e precisa: sarà scrupolosamente eseguita a chiunque si illuda di poterne intralciare il normale svolgimento, o tenti turbare l’ordine pubblico, sarà inesorabilmente colpito. // Viva l’Italia! Viva il Re! // F.to: Maresciallo d’Italia pietro badoglio».
Il giorno seguente è diramato un altro comunicato:
«proclama agli italiani // del capo del governo s. e. badoglio // Italiani, // dopo l’appello di S. M. il Re imperatore degli italiani e il mio proclama, ognuno riprenda il suo posto di lavoro e di responsabilità. // Non è il momento di abbandonarsi a dimostrazioni che non saranno tollerate. // L’ora grave che volge impone ad ognuno serietà, disciplina, patriottismo fatto di dedizioni ai supremi interessi della Nazione. // Sono vietati gli assembramenti e la forza pubblica ha l’ordine di disperderli inesorabilmente. badoglio // Roma, 26 luglio 1943.».
Entrambi i proclami si rendono necessari perché all’annuncio della caduta del Governo Fascista vi sono manifestazioni e numerosi atti di damnatio memoriae (condanna della memoria) nei confronti dei simboli del regime apposti su edifici e monumenti. Il nuovo Governo Badoglio è osteggiato da varie forze politiche tra cui il Partito Socialista e il Partito Comunista e nelle successive settimane vi sono varie proteste popolari; la richiesta è che lo stato di guerra cessi immediatamente.Image may be NSFW. Clik here to view.
A proposito dell’operato di Badoglio così scrive Silvio Bertoldi: «Nei foschi 45 giorni tra il colpo di stato e l’armistizio, non provvide a nulla, non dispose nulla. Gli si può far carico invece della spietata durezza nella repressione di quei vagiti di libertà che i partiti antifascisti, e il popolo spontaneamente, andavano levando qua e là. Furono impartiti ordini severissimi di troncare qualsiasi sospetto di turbamento dell’ordine pubblico e si tornò ai tempi umbertini, quando l’esercito veniva impiegato per sparare sulla folla e sugli scioperanti. Allora non si conobbero o non si calcolarono nell’esatta misura, nell’euforia della caduta del fascismo che pervase il paese, quelle ciniche stragi di italiani in festa. Ma oggi se ne può calcolare l’entità: undici morti il 26 luglio, altri undici il 27, 43 il 28 di cui ben 23 solo a Bari (con 70 feriti) dove un festoso corteo che attraversava la città fu ritenuto un tumulto sovversivo e fu ordinato al questore il fuoco, con quell’esito terribile e quegli uccisi, tra i quali c’erano dei prigionieri politici usciti dal carcere solo pochi istanti prima. Altri 12 morti il giorno 29 e sei il 30, oltre 308 feriti, 1.554 gli arresti. Aveva messo in prigione per ragioni politiche più gente Badoglio in 45 giorni che Mussolini in cinque anni. Si vede che questo era il concetto di libertà del maresciallo, impressionato dai grandi scioperi che cominciavano ad essere organizzati specialmente a Torino e a Milano e che forse gli ricordavano quelli che, nella prima guerra mondiale, avevano preceduto Caporetto» (Silvio Bertoldi, Badoglio, Rizzoli Editore, Milano 1982, pp. 181-182).
Scrive Gianfranco La Vizzera a proposito di faccende in seno allo Stato Italiano: «Ma anche Badoglio era notoriamente attento ai propri affari. E nel dicembre del 1944 il processo promosso dal governatore della Banca d’Italia, Vincenzo Azzolini, mise in luce, con prove documentarie inoppugnabili, che il Maresciallo, durante i 45 giorni del suo primo governo, aveva ritirato in quattro distinti prelevamenti gran parte dei 24 milioni depositati presso la presidenza del Consiglio come “fondi neri” a disposizione piena della sua autorità, per beneficienze non specificate, spendibili a totale arbitrio del capo del Governo. E dunque Badoglio non era tenuto a rendere conto a nessuno del suo operato. Le prime due somme prelevate giunsero in Svizzera, attraverso il canale regolamentare dell’Istituto Italiano cambi, ma senza che fosse indicata l’intestazione del beneficiario. Mentre per i restanti soldi riscossi, gli eventi confusi dell’8 settembre impedirono gli ultimi due incassi di seguire il percorso dei primi, ma sarebbe stato interessante, al riguardo, verificare il contenuto di una valigia di fibra che Vittorio Emanuele III portò con sé nella fuga da Pescara a Brindisi» (Gianfranco La Vizzera, La congiura. L’ombra della Massoneria da Caporetto al 25 luglio 1943, Libri nel Tempo Edizioni, Stradella 2009, p. 129).Image may be NSFW. Clik here to view.
Fattori da risolvere in casa tedesca.
Parallelamente all’instabilità politica e quindi militare italiana, l’Ammiraglio Karl Dönitz (Grünau 1891 – Aumühle 1980) ritiene fondamentale la difesa della Sicilia e così pure il Feldmaresciallo Albert Kesselring (Marktsteft 1885 – Bad Nauheim 1960); di diverso avviso è il Feldmaresciallo Erwin Rommel, il quale propone «di costituire una linea di resistenza nell’Italia settentrionale, ritirando dal centro-sud della penisola le forze della 10a Armata ed abbandonando le basi aeree nella zona di Foggia e dell’Italia centrale» (Francesco Mattesini, La Marina e l’8 settembre. II Tomo: Documenti, op. cit., p. 20).
Per quanto concerne Erwin Rommel (Heidenheim 1891 – Herrlingen 1944), egli si distingue per le doti militari tanto nella I quanto nella II Guerra Mondiale. Viene indotto al suicidio a seguito di tradimento, palesatosi con l’implicazione nell’attentato del 20 luglio 1944 al Cancelliere di Germania Adolf Hitler. Decisamente discutibile anche l’operato del Feldmaresciallo Wilhelm Canaris dell’Abwehr (Difesa della Sicurezza), in quanto non ha sentore (o non vuole dichiararlo) delle operazioni che porteranno allo sbarco di Anzio-Nettuno (Operazione Shingle); a causa di ciò è fatto rientrare in Germania il 21 gennaio 1944. È giustiziato a seguito della partecipazione all’attentato del 20 luglio 1944.
Certamente se il piano di Rommel fosse stato messo in pratica le operazioni per la resa dell’Italia sarebbero state assai facilitate, visto e considerato che i timori maggiori derivanti da un possibile insuccesso delle operazioni angloamericane d’invasione erano dovuti alla presenza e alla determinazione delle truppe tedesche. In ogni caso allo sbarco e alle successive operazioni angloamericane in Sicilia le truppe italiane e soprattutto le batterie costiere oppongono ben poca resistenza.Image may be NSFW. Clik here to view.
Sospettando, o conoscendo, la scarsa affidabilità dei Comandi italiani, i Tedeschi non desiderano fornire armi, ma solo forti contingenti di truppe per la difesa della penisola. Questo “infastidisce” il tutt’altro che specchiatissimo Stato Maggiore Italiano. Ad esempio: «Il generale Ambrosio, che andava a discutere con gli “alleati” nel momento stesso in cui a Lisbona e Tangeri i rappresentanti diplomatici del Governo italiano avevano già preso contatti con gli ambasciatori britannici, si espresse con i membri della delegazione tedesca in modo alquanto brusco e molto chiaro, lamentando il fatto che i movimenti di truppe germaniche continuavano a svolgersi in Italia senza essere concordati con il Comando Supremo (…), ed arrivò ad affermare “senza mezzi termini che a Roma si stava avendo sempre più la sensazione di non essere più padroni in casa propria”» (Francesco Mattesini, La Marina e l’8 settembre. II Tomo: Documenti, op. cit., p. 27).
Curiosamente Mattesini scrive inoltre: «In queste condizioni, l’unica speranza che restava a Roma per riprendere una certa libertà d’azione, che poteva portare ad intavolare trattative di pace con i Governi di Londra e di Washington, era riposta, come dichiarò lo stesso generale Ambrosio, nell’esile speranza che il prossimo sbarco degli Alleati si verificasse nei Balcani e nella Francia, in modo da attirare sicuramente sul nuovo fronte europeo le forze tedesche presenti in Italia» (Ibidem, p. 28).
S’è scritto “curiosamente” perché il “panegirico” di Mattesini serve a giustificare in modo quasi lapalissiano il “cambio di bandiera” che già si stava operando, senza avvisare l’alleato tedesco, quindi agendo nei suoi confronti con un vero e proprio atto di slealtà.
Ancora oggi molti nostri “storici” amano indossare i panni dei cantastorie nell’improba lotta contro la verità dei fatti.
L’ignobile farsa.Image may be NSFW. Clik here to view.
I dati di fatto restano comunque i seguenti: il 12 agosto il Generale Giuseppe Castellano (Prato 1893 – Porretta Terme 1977) parte per Madrid per incontrare l’ambasciatore inglese in Spagna, sir Samuel Hoare, con cui trattare la resa dell’Italia da parte di Badoglio e del Re, il quale già almeno da gennaio medita di porre fine alle ostilità e al governo di Mussolini. Dopo pochi giorni Castellano incontra a Lisbona l’ambasciatore britannico in Portogallo Ronald Campbel e successivamente due ufficiali inviati da Dwight David Eisenhower, allora Comandante delle forze statunitensi in Europa, il Capo di Stato Maggiore Generale Walter Bedell Smith e il Capo del Servizio Informazioni per il Mediterraneo Generale Kenneth Strong. Dopo il suo rientro, Castellano è richiesto a Cassibile, località situata nei pressi di Siracusa, dall’ambasciatore inglese in Vaticano D’Arcy Osborne.
Giovedì 2 settembre 1943 un aereo italiano pilotato dal maggiore Vassallo atterra nel campo d’aviazione approntato dagli angloamericani nei pressi del palazzo di Corrado Grande, marchese di Cassibile. A bordo vi sono il generale Giuseppe Castellano, il maggiore Luigi Marchesi, il console Franco Montanari, il capitano Vito Guarrasi e il tenente Galvano Lanzo di Trabia. Essi, per conto del Re, del Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio e del Generale Ambrosio, firmano il giorno seguente, 3 settembre, lo Short Military Agreement (“Armistizio Corto”). il così detto “armistizio di Cassibile”, ovvero la resa incondizionata delle Regie Forze Armate Italiane.
Nel documento non si fa assolutamente cenno ad un eventuale stato di belligeranza dell’Italia nei confronti dell’alleato Stato tedesco, limitandosi a imporre, al punto n. 2, che «L’Italia farà ogni sforzo per rifiutare ai tedeschi tutto ciò che potrebbe essere adoperato contro le Nazioni Unite». I firmatari sono l’addetto al Comando Supremo Italiano Generale di Brigata Giuseppe Castellano (rappresentante del Capo del Governo Italiano, Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio) e il Capo di Stato Maggiore e Maggiore Generale dell’Esercito degli U.S.A. Walter B. Smith (rappresentante del generale dell’Esercito degli U.S.A. Dwight Eisenhower, Comandante in capo delle forze Alleate).Image may be NSFW. Clik here to view.
Il giorno stesso vi è lo sbarco di truppe canadesi e inglesi a nord di Reggio Calabria, seguite dopo pochi giorni da altri sbarchi. Il giorno 8 settembre, di buon mattino, l’ambasciatore tedesco Rudolf Rahn è ricevuto dal Re e da questi ottiene la garanzia, unitamente alla parola d’onore, che l’Italia rimarrà fedelmente alleata alla Germania.
L’annuncio dell’avvenuto armistizio è dato l’8 settembre 1943 alle ore 17,30 dal Generale statunitense Dwight David Eisenhower a Radio Algeri (ore 18,30 ora italiana). Successivamente, alle ore 19,42 è proclamato anche alla Radio italiana da Pietro Badoglio, accompagnato dal maggiore Luigi Marchesi alla sede dell’E.I.A.R. (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche). A ciò fa seguito il telegramma cifrato firmato «Generale Ambrosio», inviato sempre l’8 settembre 1943 alle ore 22.00, ricevuto alle ore 23,50 e decifrato alle 0,30, il quale recita:
«segreto // è vietata la ritrasmissione totale o parziale del testo sotto la stessa forma // testo: // Prot/ 16724/op alt // at ecc. capo di s.m. r.e., marina, aeronautica comandante gruppo armate est comandante undicesima armata governatore egeo et per conoscenza at ecc. il ministro della guerra alt // Il Governo Italiano ha chiesto un armistizio al generale eiuenhover [Eisenhower. N.d.A.] comandante in capo delle forze armate alleate alt In base alle condizioni di armistizio, a partire dalle ore 19,45 di oggi otto settembre, dovrà cessare ogni nostro atto di ostilità verso le FF. AA. anglo-americane alt Le FF. AA. italiane dovranno però reagire con la massima decisione ad offese che provenissero da qualsiasi altra parte alt // generale ambrosio» (Francesco Mattesini, La Marina e l’8 settembre. II Tomo: Documenti, op. cit., p. 384).
È interessante notare quanto scrive Giuliano Manzari: «Lo stesso giorno, nel pomeriggio, a Cassibile (Siracusa), il generale Castellano, a nome del maresciallo Badoglio capo del governo, firmava il così detto “armistizio corto”, in realtà una resa senza condizioni. Dopo la cena che fece seguito alla firma, il generale Harold Alexander, comandante del XV Gruppo d’Armate, iniziò la riunione per la messa a punto dei dettagli della partecipazione militare italiana alla fase immediatamente susseguente alla dichiarazione dell’armistizio, rivolgendo al generale Castellano le seguenti parole: “L’Italia non potrà mai essere nostra alleata dopo una lunga guerra; la vostra collaborazione deve ridursi al sabotaggio”» (Giuliano Manzari, La partecipazione della Marina alla guerra di liberazione (8 settembre 1943 – 15 settembre 1945). 1945-2015. 70° anniversario della fine della Seconda Guerra Mondiale. 1945-2015, Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, Anno XXIX, Marzo 2015, Ministero della Difesa, Roma 2016, p. 5).
Rimane perfettamente chiaro che il Regno d’Italia non è alleato degli angloamericani, ma è un semplice “collaboratore” a cui sono affidate solo azioni di “sabotaggio”, per altro condotte prevalentemente dai così detti “partigiani” (meglio indicabili come “parteggianti”) mediante attentati e imboscate. Certamente i fatti bellici conseguenti vedono taluni contingenti delle Forze Armate Italiane partecipare in subordine alle forze angloamericane all’invasione dell’Italia. Difatti sempre Manzari scrive: «Le conseguenti istruzioni del generale [Harold Alexander. N.d.A.] per le azioni di sabotaggio furono inviate da Castellano a Roma, il mattino del 5 settembre, in allegato alla lettera inviata al generale Ambrosio, con la copia del testo dell’armistizio, le clausole aggiuntive, l’ordine d’operazioni per l’esecuzione dell’operazione Giant 2, il promemoria Dick (contenente le istruzioni per le navi militari e mercantili) e le istruzioni per gli aeroplani. Entro il 6 settembre il Comando Supremo inviò i Promemoria n. 1 e n. 2, con le direttive sul comportamento da tenere nei confronti dei tedeschi» (Ivi). Entrambi i testi dei “promemoria” sono pubblicati (Ibidem, p. 6 e pp. 7-8).
L’Operazione Giant-2 prevedeva l’intervento della 82a Divisione paracadutisti statunitense per occupare alcuni aeroporti prossimi a Roma e garantire la successiva occupazione della Capitale.
La decisione del Comandante.
Il Capitano di Fregata Junio Valerio Borghese, dopo aver udito il comunicato di Badoglio alla radio annunciante il così detto “armistizio”, e senza avere preventivamente ricevuto alcun ordine in merito, mantiene fede all’impegno preso dall’Italia con l’alleato germanico e al proprio intento di proseguire la guerra accanto ad esso.Image may be NSFW. Clik here to view.
Difatti, per sua stessa ammissione: «Il proclama Badoglio dell’8 settembre non mi giunse di sorpresa: lo aspettavo dal 26 luglio. In merito, avevo già dato precise istruzioni agli ufficiali superiori alle mie dipendenze, informandoli che in caso di pace separata e vergognosa, la Xa Flottiglia M.A.S. avrebbe continuato la guerra, fedele al Comandamento dei suoi duecento morti e dispersi ed alle sue tre medaglie d’oro e di quella del suo stendardo» (Tratto dal documento n° 23929, Dichiarazioni Comandante Borghese, ISEC, Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea – Archivio Fondazione Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea -Isec-, Sesto San Giovanni, Fondo Odoardo Fontanella).
Scrive il Comandante Borghese: «L’annuncio della firma dell’armistizio fu appreso per radio alle 20,30 dell’8 settembre 1943 – senza nessun preavviso e nessun ordine né preventivo né seguente. Verso le 22 il Comandante Borghese telefonò a Roma – Supermarina – per chiedere schiarimenti e ordini, gli rispose al telefono l’Ammiraglio di servizio. Testuali parole “Non c’è niente di nuovo, fuorché il fatto che dalle 20 siamo in stato di armistizio”. In conseguenza fu deciso che ognuno rimanesse al suo posto di servizio – di comando e di responsabilità – in attesa dell’arrivo di ordini precisi – oppure – in mancanza di questi – in attesa che gli avvenimenti dettassero la linea di condotta da seguire» (Junio Valerio Borghese, La Xa Flottiglia MAS, Effepi, Genova 2016, p. 15); tali ordini non giungono affatto, nemmeno nei giorni e nei mesi seguenti.Image may be NSFW. Clik here to view.
Nei mesi di luglio e agosto del 1943 Borghese si era già curato di fare conoscere pubblicamente il proprio intendimento: «Avevo in precedenza sostenuto pubblicamente questo punto di vista – con due lettere scritte in agosto ai giornali (Corriere della Sera e Il Telegrafo) – disdicendo gli abbonamenti del giornale per la Flottiglia “essendo il tono antinazionale del Vostro giornale, pavidamente assunto dopo il 26 luglio, non consono all’etica e allo spirito che anima gli ufficiali della Flottiglia” – e con una lettera indirizzata pure in agosto al Presidente del Gruppo Medaglie d’Oro, in cui ribattevo una sua circolare dicendo che “l’unica meta che possa oggi esservi per gli italiani è quella di ricacciare gli invasori inglesi dal nostro Paese”. Con questa decisione già maturata, era evidente l’atteggiamento che avrei tenuto. Il 9 mattina, riunii gli ufficiali, e, separatamente, i sottufficiali e gli equipaggi, e a tutti dissi che davanti alla nuova situazione creatasi, il Comandante sarebbe rimasto al suo posto» (Tratto dal documento n° 23929, Dichiarazioni Comandante Borghese, ISEC, Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea – Archivio Fondazione Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea -Isec-, Sesto San Giovanni, Fondo Odoardo Fontanella).
Note
1) Generalmente passato sotto silenzio è il comportamento militare delle truppe angloamericane nei confronti dei soldati e dei civili italiani. Come già detto, molti elementi angloamericani tra ufficiali e truppa commisero crimini di guerra ad oggi rimasti impuniti. Un esempio per tutti è quanto avvenuto in Sicilia nel 1943: «L’uccisione ad opera di soldati americani di una settantina di militari italiani catturati nella zona di Biscari nel luglio 1943 – come ricordato da Giuseppe F. Ghergo in “Storia militare” n. 133, Ottobre 2004 – costituisce un esempio dei purtroppo non infrequenti malvagi comportamenti, che infrangono, non solo le convenzioni internazionali, ma anche quelle regole – diciamo così – di “cavalleria” e di reciproco rispetto che dovrebbero esistere fra soldati di paesi cosiddetti “civili”» (Ferdinando Pedriali, Gela, luglio 1943, in Storia militare, n. 136, anno XIII, gennaio, Parma 2005, pp. 54-55).
Sottolinea Paolo Venanzi: «Gli Alleati, coloro che nel nome del diritto delle genti e per l’affermazione dei principi di giustizia, sanciti dalla “Carta Atlantica”, esaltavano la “resistenza” jugoslava, erano quelli stessi che, al momento del loro sbarco in Sicilia fecero affiggere un proclama con il quale, a partire dal 25 agosto 1943, sarebbe stata comminata la pena di morte contro “chiunque avesse tentato di organizzare e compiere atti di insurrezione e sabotaggio ai danni delle forze di occupazione”» (Paolo Venanzi, Dal diktat capestro al tradimento di Osimo, Edizioni de “L’Esule”, Milano 1987, p. 120).
È da circa quarant’anni che io mi dedico allo studio della lingua etrusca, però assieme a quello di altre lingue vicine nello spazio e nel tempo, cioè il latino, il greco, il protosardo o paleosardo. Sia pure per il semplice effetto della mia salute e della mia longevità, io sono il linguista storico o glottologo che ha dedicato un così ampio lasso di tempo alla lingua etrusca. Ed ho pubblicato su di essa 18 libri e un centinaio di studi. Di fatto io ho analizzato, studiato e tentato di interpretare e spiegare tutti i relitti di questa lingua, epigrafici e letterari, i quali assommano alla cifra di circa 12.000. Questi adesso sono registrati nel Corpus Inscriptionum Etruscarum (CIE) e ormai anche nel Thesaurus Linguae Etruscae (ThLE, I edizione 1978, II edizione 2009). E non si può negare che si tratta di una somma quasi stupefacente di vocaboli, di gran lunga superiore a quella di molte altre lingue frammentarie antiche, che sono assai lungi dal presentare una documentazione così ampia e anche così varia. Tutto ciò premesso, con la mia acquisita esperienza di un quarantennio circa di studi, mi sento del tutto in grado di poter formulare un giudizio motivato sulla situazione dello “studio della lingua etrusca” nel momento attuale. Giudizio che espongo con le considerazioni seguenti.Image may be NSFW. Clik here to view.
1. Lo studio della lingua etrusca nel momento attuale è in una situazione che non si può non definire “paradossale” oppure “sconcertante”, perfino “buffa”, senz’altro “disastrosa” e comunque “antiscientifica”. Ciò è esatta e necessaria conseguenza del fatto che della lingua etrusca si sono impadroniti da un settantennio gli archeologi. Ed è chiaro a tutti che fra la archeologia e la linguistica esiste un oceano di differenze. In linea molto generale si deve affermare che l’archeologia studia “cose” od “oggetti”, mentre la linguistica studia “parole” o “vocaboli”. Ed è alla portata di tutti coloro che abbiano un minimo di cultura classica costatare l’abissale differenza esistente tra queste due discipline, le quali pure hanno il comune fondamento della ricerca storiografica.
2. Come si spiega la circostanza che soprattutto qui in Italia, patria della civiltà degli Etruschi, gli archeologi siano riusciti a impadronirsi dello studio della lingua etrusca e ad esercitare su di essa una forma di assoluto monopolio? La questione è che gli archeologi hanno dappertutto, ma soprattutto qui in Italia, patria delle arti visive, un grande potere politico e un conseguente grande potere economico. Essi infatti interloquiscono continuamente coi poteri politici, coi Ministri, alti burocrati, Presidenti di Regioni e di Province, Sindaci di città grandi e piccole. Sono infatti gli archeologi “i consegnatari e i conservatori dei beni artistici” dell’Italia, quelli che decidono sulla loro conservazione ed esposizione, ragion per cui essi sono ascoltati, ubbiditi, aiutati e vezzeggiati dalle amministrazioni di tutte le comunità locali italiane. Dalle quali gli archeologi ottengono sempre grandi mezzi economici per tutte le iniziative che essi propongono ed attuano. Mai gli archeologi hanno trovato difficoltà ad organizzare mostre, convegni e ad effettuare la pubblicazione delle loro opere. Su questo specifico argomento delle pubblicazioni di valenza artistica gli archeologi sono bene accolti dai grandi editori, i quali, come sono in genere pronti a respingere le opere noiose dei linguisti costituite da grammatiche, vocabolari e da noiose riviste specialistiche, così sono sempre pronti a pubblicare edizioni artistiche di lusso, fatte di bellissime fotografie e di bellissimi disegni. E molti archeologi hanno pure fatto la loro fortuna economica con le loro splendide e lussuose pubblicazioni.
3. Gli archeologi hanno anche un immenso potere nel mondo universitario: ad esempio essi non hanno mai consentito che si aprisse in qualche Università italiana un insegnamento particolare denominato “Linguistica Etrusca”. La “Linguistica Etrusca” è da loro conglobata nell’insegnamento generale della “Etruscologia” e di questa essi ovviamente sono i padroni assoluti. E sono tanto sicuri di questo loro “paradossale” monopolio culturale, che sono essi stessi ad insegnare nelle Università italiane la lingua etrusca, facendo uso di manualetti del tutto privi di valore scientifico, che è perfino mortificante vedere entrare nelle aule delle nostre Università. Con questa indecorosa circolazione di quei manualetti e inoltre dei semplici capitoli che si trovano nelle opere generali di etruscologia, si spiega come sia ancora molto frequente perfino fra individui di elevata cultura classica, il concetto secondo cui “la lingua etrusca è tutta un mistero!”
4. Come finora hanno reagito e reagiscono i linguisti italiani e forestieri a questo monopolio culturale esercitato dagli archeologi sulla lingua etrusca? Quei linguisti che si sono adattati a questa posizione di umiliante sudditanza sono ben accolti dagli archeologi nei loro convegni di studio, nelle loro riviste e pubblicazioni, sia pure sottostando alle vedute e alle imposizioni dei padreterni della archeologia italiana, ad esempio mai effettuando “traduzioni” di testi etruschi, ma solamente proponendo “interpretazioni” generiche, mai effettuando confronti e comparazioni dell’etrusco con altre lingue, dato che gli archeologi credono al dogma della impossibilità di confrontare l’etrusco con una qualsiasi altra lingua. E siccome il primo strumento di un linguista storico o glottologo è quello di effettuare confronti e “comparazioni” fra le lingue studiate, con un tale divieto gli archeologi impediscono ai linguisti di fare esattamente il loro mestiere. Invece i linguisti che non sottostanno a queste restrizioni e a questi divieti degli archeologi vengono da questi trascurati del tutto ed emarginati, mai invitati a tenere lezioni nei loro convegni, mai invitati a presentare scritti per le loro pubblicazioni e riviste ... E non soltanto, ma col potere che gli archeologi hanno ottenuto anche nel campo della editoria, riescono pure ad convincere gli editori a rifiutare le opere dei “linguisti eretici”. Esattamente come è capitato allo scrivente quando propose ad un importante editore italiano la pubblicazione di questo suo “Dizionario della Lingua Etrusca”. Per il suo rifiuto di effettuare la pubblicazione della mia opera, alla quale pure egli aveva all’inizio manifestato un vivo interesse, l’editore mi comunicò – per interposta persona - che non poteva andare contro il parere negativo dell’“Istituto di Studi ....” col quale egli aveva continui rapporti di collaborazione e di lavoro....
5. È cosa abbastanza nota che intorno all'origine degli Etruschi si è dibattuta nell'Europa moderna e colta, ad iniziare dal secolo XIX, una lunga e travagliata questione imperniata sul quesito: «Si deve prestare credito a Erodoto e ritenere vera la sua notizia circa la provenienza degli Etruschi in Italia dalla Lidia, in Asia Minore, oppure si deve accettare la differente notizia di un altro storico greco, Dionigi di Alicarnasso, circa il fatto che gli Etruschi sarebbero stati “autoctoni”, ossia nativi proprio e soltanto dell'Italia?». Le due teorie antagoniste sull'origine degli Etruschi, quella migrazionista riferita da Erodoto e quella autoctonista prospettata da Dionigi, hanno per lungo tempo tenuto sotto pressione numerosissimi studiosi, storici archeologi linguisti e storici delle religioni. Negli ultimi decenni, nonostante che l'attuale scuola archeologica italiana sia nella sostanza favorevole alla teoria autoctonista di Dionigi, non si può negare che ormai si sono fatti più numerosi gli studiosi favorevoli alla teoria migrazionista di Erodoto e si tratta in particolare non solamente di archeologi, ma anche e soprattutto di storici propriamente detti, di storici delle religioni e di linguisti. Facendo riferimento al campo specifico della linguistica storica o glottologia, è un fatto che i più recenti interventi che i linguisti hanno effettuato sulla classificazione della lingua etrusca, cioè quelli di Albert Carnoy, Marcello Durante, Vladimir Georgiev, Onofrio Carruba, Francisco R. Adrados, Alessandro Morandi e Helmut Rix, hanno dimostrato significative connessioni fra questa lingua ed alcune antiche dell'Asia Minore. Ed anche l'autore della presente opera è dell'avviso che essa sia da connettere appunto con lingue anatoliche ed in particolare con quella lidia ed inoltre ritiene che la tesi erodotea della migrazione degli Etruschi/Tirreni dalla Lidia in Italia sia quella sola da accettarsi.
Riesce perfino difficile comprendere gli esatti motivi per i quali da tutto un gruppo di studiosi moderni sia stata rifiutata la tesi migrazionista di Erodoto ed accettata invece quella auctotonista di Dionigi di Alicarnasso. In primo luogo infatti è indubitabile che a favore di Erodoto interviene la priorità cronologica rispetto a Dionigi, dato che il primo era vissuto nel V secolo a. C. e quindi era molto più vicino nel tempo agli avvenimenti narrati, mentre il secondo ne era molto più lontano, essendo vissuto nel I secolo a. C. In secondo luogo Dionigi era tutt'altro che portato ad approfondire a dovere la storia degli Etruschi ed a simpatizzare con essi, dato che invece era tutto inteso a sminuire il loro apporto alla creazione di Roma come grande potenza ed a tentare di dimostrare che invece Roma era una creazione o fondazione dei Greci. Image may be NSFW. Clik here to view.
In terzo luogo, mentre la tesi auctotonista di Dionigi non è stata confermata da alcun altro autore antico, quella migrazionista di Erodoto è stata accettata, condivisa e confermata da altri 30 autori antichi, greci e latini, e questi sono: Ellanico di Mitilene, Timeo di Taormina, Anticle di Atene, Scimno di Chio, Scoliaste di Platone, Diodoro Siculo, Licofrone, Strabone, Plutarco, Appiano, Catullo, Virgilio, Orazio, Ovidio, Silio Italico, Stazio, Cicerone, Pompeo Trogo, Velleio Paterculo, Valerio Massimo, Plinio il Vecchio, Seneca, Servio, Solino, Tito Livio, Tacito, Festo, Rutilio Namaziano, Giovanni Lorenzo Lidio, C. Pedone Albinovano. Anche dando per scontato che molti di questi autori antichi in realtà si sono fatti la loro opinione su quella degli autori precedenti, pure questa loro adesione ai precedenti è già per se stessa molto significativa. Non solo, ma è molto significativo anche il seguente fatto: ancora in epoca romana gli abitanti della città di Sard(e)is (capitale della Lidia) avevano la convinzione di essere imparentati con gli Etruschi dell'Italia, dato che nel 26 d. C. chiesero al senato romano - senza però ottenerlo - l'onore di poter innalzare nella loro città un tempio da dedicare all'imperatore Tiberio; e chiesero questo in nome di quei vincoli di sangue che li legavano agli Etruschi, vincoli dei quali gli stessi Etruschi erano ancora consapevoli e convinti, come dimostrava un loro decreto ricordato dai Lidi (Tacito, Annales, IV 55,8).
E non è assolutamente accettabile l'ipotesi che tutti i citati 30 autori antichi e inoltre gli abitanti di una città anatolica e infine quelli dell'Etruria si limitassero a ripetere quella che sarebbe stata la "leggenda" di Erodoto, dato che è accertato che la notizia della trasmigrazione degli Etruschi è talvolta riferita da quegli altri autori con particolari che non risultano affatto nel racconto di Erodoto. Fra di loro mi piace citare il giudizio di un autore classico, molto noto ed autorevole anche in termini culturali e scientifici, L. A. Seneca (ad Helviam matrem de consolatione, VII 2): Asia Etruscos sibi vindicat «L'Asia rivendica a sé gli Etruschi». E c'è da osservare e da sottolineare che nei tempi antichi «Asia» significava «Asia Minore» ed in maniera particolare indicava la «Lidia» (LISNE 165); toponimo il quale trova esatto riscontro anche nella lingua etrusca, sia pure come antroponimo: AŚIA, ASIA (ThLE²). A me sembra logico ed evidente che la testimonianza di 31 autori antichi, col padre della storiografia greca ed occidentale in testa, sia da privilegiare senza alcuna esitazione rispetto a quella del solo Dionigi di Alicarnasso. Inoltre non si può fare a meno di osservare che sorgono perfino molti e forti dubbi circa la "sensibilità storica e storiografica" di quegli studiosi moderni che invece sostengono la ipotesi autoctonista, che cioè di contro a 31 testimoni antichi preferiscono privilegiarne uno solo. A meno che non sia appropriato il giudizio che pure è stato formulato che la ipotesi autoctonista in realtà sia stata determinata dalla adesione di qualche autorevole studioso italiano alla dottrina fascista della “purezza della razza italica”.
6. Nelle mie ricerche sul sostrato linguistico prelatino della Sardegna, cioè sul Protosardo o Paleosardo, con mia notevole sorpresa mi imbattei in casi di concordanza di lessemi protosardi con lessemi etruschi. Soprattutto notai che i Greci chiamavano gli Etruschi Tyrrhenói, Tyrsenói intendendoli come «costruttori di torri» (da týrris, týrsis «torre») e inoltre l’autorevole geografo e storico greco Strabone (V,2,7) definisce Tyrrhenói anche gli antichi Sardi. Considerato poi che nella loro isola i Sardi hanno costruito circa 8.000 nuraghi in tutte le sue zone e considerato che nell’intero bacino del Mediterraneo non esiste alcun altro popolo al quale spetti, più di qualsiasi altro, il titolo di «costruttori di torri, di torriani, torrigiani, turritani», ho concluso che i veri ed originari Tirreni sono da intendersi i Sardi costruttori delle 8.000 «torri nuragiche». Più tardi la denominazione di Tirreni è passata ad indicare anche gli Etruschi in virtù del fatto che questi erano parenti dei Sardi, dato che gli uni e gli altri erano arrivati prima in Sardegna e dopo anche nell’Italia centrale partendo dalla loro lontana sede nell’Asia Minore e precisamente dalla Lidia, dalla cui capitale Sard(e)is i Sardi o Sardiani hanno pure derivato il loro nome. E in senso inverso anche i Tusci od Etrusci hanno derivato il loro nome da týrsis, týrris «torre», secondo questa trafila fonetica: Tuscus < *Turs-c-us < *Tuss-c-us; Etruscus < E-trus-c-us < *Turs-c-us < *Tuss-c-us. A questo punto però tengo a precisare che il protosardo non coincide esattamente con l’etrusco per il motivo che il primo è arrivato in Sardegna attorno al 1250 a. C. ed è quindi più arcaico, mentre il secondo è arrivato in Etruria nel sec. VIII a. C. ed è quindi più recente.
7. Disattendendo del tutto dal diktat degli archeologi, che hanno sempre definito “la lingua etrusca non comparabile con nessun’altra lingua”, io ovviamente ho continuato col mio mestiere di “linguista comparatista” e pertanto ho proceduto a comparare e confrontare l’etrusco col latino, cioè con la lingua dei Latini e dei Romani, coi quali essi sono vissuti quasi in “simbiosi” per tanti decenni. Sia sufficiente ricordare che la dinastia etrusca dei Tarquini ha regnato sulla città di Roma per più di 100 anni e che, a parere del pur malevolo Dionigi di Alicarnasso (I,29,2), «molti degli scrittori sostennero che la stessa Roma era un città Tirrena» (cioè Etrusca). In primo luogo ho indirizzato la mia attenzione comparativa alla terminologia religiosa dei Romani, sapendo già da fonti storiche che la religione dei Romani era stata fortemente influenzata da quella degli Etruschi. E di fatto sono riuscito ad individuare un discreto numero di vocaboli latini di carattere sacrale, in genere privi di etimologia, che trovano riscontro in altrettanti vocaboli etruschi.
8. Sempre nella mia attività comparativa ho constatato che circa 2.000 antroponimi etruschi corrispondono, più o meno esattamente, ad altrettanti antroponimi latini. Questa vistosa circostanza da una parte sottolinea la stretta simbiosi che si era determinata col passare dei decenni fra le gentes o famiglie gentilizie etrusche e quelle romane, dall’altra questa quasi stupefacente corrispondenza offre un’ottima opportunità per individuare il “significato” di molti dei circa 2.000 antroponimi etruschi. È senz’altro ben appropriato il forte rammarico che moltissime delle iscrizioni funerarie etrusche siano costituite solamente da antroponimi, ma questi, prima di essere solamente “antroponimi”, erano altrettanti appellativi, i quali offrono appunto l’opportunità di individuare il “significato” originario del precedente appellativo etrusco. Il frequente prenome o nome personale etrusco LARCE è testimoniato in una recente iscrizione in alfabeto latino come Large, ed allora dall’aggettivo lat. largus «largo, generoso, magnanimo» (finora privo di etimologia) è possibile dedurre che anche l’etrusco LARCE in origine significasse «largo, generoso, magnanimo». Dal prenome etrusco SPURIE, corrispondendo chiaramente all’aggettivo latino spurius «figlio spurio o illegittimo» è facile ed ovvio dedurre che anche l’etrusco SPURIE in origine significava «figlio spurio o illegittimo». Siccome il gentilizio etrusco SATURE corrisponde chiaramente all’aggettivo lat. satur «saturo, sazio», è facile dedurne che anche l’etr. SATURE significava «saturo, sazio».
9. Gli Etruschi hanno convissuto nel medesimo ambito spaziale e nel medesimo torno di decenni sia coi Latini e coi Romani nell’antico Lazio (Latium vetus), sia con i Greci del golfo di Napoli e della Magna Grecia. Sommati i vocaboli delle rispettive lingue latina e greca si arriva ad un Thesaurus greco-latino probabilmente superiore ai 200.000 lemmi. Ebbene, è pressoché assurdo, dal punto di vista statistico, che gli 8.000 lemmi che figurano nel Thesaurus etrusco non trovino riscontri anche numerosi coi 200.000 lemmi del Thesaurus greco-latino. E in linea di fatto io questi riscontri li ho trovati, consentendomi di dare un significato a vocaboli etruschi che ne erano finora privi, in virtù del significato dei rispettivi vocaboli greco-latini.
10. Un analogo discorso mi sono fatto rispetto al Thesaurus indeuropeo ed un analogo risultato ho ottenuto rispetto agli 8.000 vocaboli del Thesaurus della lingua etrusca. Anche da questo punto di vista era stato dagli archeologi imposto un altro diktat e ripetuto fino alla noia un analogo ritornello: l’“etrusco non è una lingua indoeuropea”. Per il vero, non pochi linguisti, anche autorevoli avevano già sostenuto la tesi opposta. Sì, proprio con la grande famiglia delle lingue indoeuropee od indogermaniche l'etrusco è stato connesso ed inserito da numerosi linguisti, come W. Corssen, S. Bugge, I. Thomopoulos, E. Vetter, A. Trombetti, E. Sapir, G. Buonamici, E. Goldmann, P. Kretschmer, F. Ribezzo, F. Schachermayr, A. Carnoy, V.I. Georgiev, W.M. Austin, R.W. Wescott, A. Morandi, F.C. Woodhuizen, F. Bader, F.R. Adrados, ecc. Image may be NSFW. Clik here to view.
È cosa abbastanza nota che ciò che soprattutto aveva spinto non pochi studiosi nel passato a dichiarare che l'etrusco non era una lingua indoeuropea, era la constatazione - che si riteneva di aver fatto - della mancata corrispondenza dei numerali etruschi della prima decade con la serie dei corrispondenti numerali indoeuropei. In quel periodo infatti si era ormai a conoscenza del fatto che lo stesso primo impianto della linguistica indoeuropea e cioè la prima formulazione della famiglia delle lingue indoeuropee aveva preso il suo avvio iniziale proprio dalla circostanza che già alcuni uomini di cultura, ad iniziare dal fiorentino Filippo Sassetti (1540-1588), avevano visto e segnalato alcune chiare corrispondenze fra i numerali latini e greci da una parte e quelli dell'antica lingua religiosa dell'India, il sanscrito, dall'altra. Ed allora si era ragionato nel seguente modo: «Siccome i numerali etruschi della prima decade non si inquadrano nella serie di quelli indoeuropei, si deve concludere che l'etrusco non è una lingua indoeuropea». Senonché in uno studio del 1994 io ritengo di avere dimostrato che ormai si deve considerare come acquisito dalla linguistica il fatto che la maggior parte dei numerali etruschi nella prima decade trova un congruente riscontro fonetico con altrettanti numerali indoeuropei; come dimostra il seguente quadro:
1 θun, tun lat. unum
2 zal, sal, esal, esl german. zwa, ted. zwei
3 ci, ki ------
4 huθ, hut lat. quattuor
5 mac, maχ ------
6 śa, sa lat. sex, sanscr. ṣáṣ
7 semφ lat. septem
8 cezp ------
9 nurφ lat. novem
10 sar, śar, zar, θar, tar ------
Ragion per cui d'ora in avanti si deve sostenere la seguente tesi del tutto opposta a quella su riferita: «Siccome anche i numerali etruschi della prima decade in maggioranza si inquadrano nella serie di quelli indoeuropei, si deve concludere che anche l'etrusco è una lingua indoeuropea».
11. I risultati da me ottenuti riguardo alla traduzione – non semplice interpretazione - di testi etruschi sono ormai ragguardevoli: ho proposto di tradurre I) Numero 624 iscrizioni etrusche; II) Quasi tutte le defixiones. III) La Tabula cortonensis; IV) Il Cippus di Perugia; V) Le Lamine auree di Pyrgi, VI) Il Fegato di Piacenza; VII) L’elogio funebre di Laris Pulenas; VIII) La scritta di San Manno di Perugia; IX) La scritta dell’Arringatore; X) La scritta sepolcrale dei Claudii; XI) L’iscrizione del Guerriero; XII) Il piombo o “cuore” di Magliano; XIII) Ampli brani del Liber linteus di Zagabria; XIV) Ampie delucidazioni della Tavola di Capua (vedi M. Pittau, I grandi testi della Lingua Etrusca - tradotti e commentati, Sassari 2011, Carlo Delfino editore; ovviamente da me perfezionati negli ultimi anni).
A guardare l’umanità essa sembra un congresso permanente di pensatori, di filosofi e di critici. Ma vediamo cosa ne pensa Schopenhauer, il filosofo che fece dire alla natura “l’uomo non è nulla”[1].
“Odo il ruotare del mulino, ma non vedo la farina”[2]. Per Schopenhauer è il pensare a vuoto, anzi il non pensare, è la bancarotta del pensiero, nulla avendo da produrre e da scambiare, cioè pensieri. E se non c'è motivo di non credere che anche gli animali siano capaci di pensare, qualche dubbio è legittimo [oh ironia!] tra gli uomini, che spesso muovono la bocca quasi avessero un boccone di cose intelligenti per poi scoprire che stanno masticando il nulla. E dunque non è impertinenza interrompere chi non dice nulla.
Su certi uomini, dice il filosofo cinico, il pensiero è una caricatura della fronte. Neppure un sussulto di sopracciglio potrebbe far credere che c'è vita. Un vuoto nel capo, sovente celato con abbondanza di particolari e di pensieri altrui, in mancanza di propri; del peso di tale carico si rallegrano e lo esibiscono soprattutto gli eruditi.
Qual e’ la sua strada spesso non si capisce, il pensiero è in certuni altri un pensiero sfuggente. Schopenhauer non lesina né elemosina. Leggete il suo trattatello sull’arte di insultare, potrebbe servirvi.
Guardare un libro è spesso guardare un cadavere. E chi non piangerebbe davanti ad un pensiero morto? [oh ironia!] Sopravvive la povera vedova e l’orfano grazie alla minestra riscaldata di pensieri altrui. È la repubblica delle vedove e degli orfani, e dei dotti che li assistono. Salvo che molti dotti che danno il braccio alla vedova ricevono essi stessi in prestito da altri.
Schopenhauer non ama nessuno, né i dotti né gli ignoranti: in questo è il suo egualitarismo. Non v’è numero di parole che faccia di un uomo un dotto o un ignorante ma il possesso dell’intelletto che tutto muove, anche se stesso, e che sta come goccia nel deserto e condanna alla morte di sete.
Note:
[1] voce L’individuo in L’arte di insultare, A. Schopenhauer, Adelphi, Milano, 2017, pag. 83
[2] voce Il gergo dei filosofi universitari, cit., pag. 71
Alessandra Pennetta
Nota biografica
“Ernst Junger ed io siamo fratelli gemelli separati alla nascita”: così ama presentarsi Alessandra Pennetta (Padova 1971) mettendo subito in chiaro il suo legame con il filosofo tedesco. Studi in Scienze Politiche, attualmente è iscritta alla Scuola di Bioetica della Fondazione Lanza della città di Padova. La Storia e la Filosofia le insegnano a vivere e a sopportare il suo Secolo. Scrive poesie taglienti come Frammenti di uno specchio di vita esploso a colpi d’anima. Ha un blog (www.inpuntadipenny.blogspot.com) e i suoi lavori compaiono nelle riviste on line atuttadestra ed electomag.
Viviamo un'epoca di trasformazioni rapide e radicali oltre qualsiasi aspettativa. Quella che viene definita Globalizzazione è contrassegnata da una rivoluzione tecnologica che si è riversata sulle concezioni stesse di tempo e di spazio, sui mercati, sulle frontiere, sull'immaginario, sul linguaggio e sulle comunicazioni. È l'avvento dell'Era dei Satelliti, con l'affermazione di quello che Geminello Alvi definì Nomos dell'Aria, coincidente con il passaggio nell'Età dell'Acquario. Una rivoluzione chImage may be NSFW. Clik here to view.e ha inciso sul nostro quotidiano non meno di quella industriale o di quella elettrica e ha cambiato profondamente il nostro modo di relazionarci tra di noi, fino a produrre mutazioni antropologiche profonde e forse definitive. A questa rivoluzione se ne aggiungono altre: le esplosioni demografiche terzomondiste e i declini demografici nel nord di un mondo sempre più interrelato e in continuo movimento. Ciò sta producendo in Europa quella che è stata definita come Grande Sostituzione di popolazione e che de Benoist più correttamente interpreta come Grande Trasformazione, col che indica soprattutto il tramonto biologico in atto in Europa, ancor troppo ricca e già troppo vecchia. Satelliti e mutazioni demografiche hanno reso ormai superate e desuete le sovranità statali dell'epoca giacobina e trasformato le geografia politica mondiale dove possono avere voce in capitolo e margini di autonomia e di libertà solo i soggetti a dimensione continentale o sub-continentale. Il tutto si verifica quando l'asse del mondo si è appena spostato dall'Atlantico al Pacifico, acuendo il nostro declino e provocando, al tempo stesso, il pungolo per un sussulto strategico di rinascita che resta circoscritto per ora ad alcune élites politico-economiche. Viviamo quindi in un'epoca particolare: un po' come se in passato fossero accaduti in un colpo solo l'avvento dell'energia elettrica, il passaggio dall'era delle signorie a quello delle nazioni e l'abbandono della centralità mediterranea, il tutto in una condizione di morte biologica. Di fronte a molto meno, nel Cinquecento, l'Italia retrocesse da centro a periferia del mondo e dovette attendere oltre tre secoli per riprendersi.
Partito liquido e poteri moderni
È del tutto normale che si sia entrati in questa nuova era muniti degli schemi mentali che avevamo in precedenza, e che non si riesca quindi ancora a comprenderla, pur adattandoci animalescamente a tutti i suoi dettami. Purtroppo non si fa neanche in tempo a raccapezzarsi che già si è chiamati a nuove sfide, determinate dalla genetica e dalla cibernetica, dalla robotizzazione del lavoro, dalle nuove regole esistenziali e dalle nuove forme di conflitti intestini, cui si collegano gli scollamenti dell'unità sociale con le affermazioni bestiali dell'individualismo atomizzato e delle conflittualità accanite e irrisolvibili a tutto campo (ideologico, sessuale, religioso), secondo uno schema già identificato da Eric Werner. Il tutto si verifica mentre il Potere stesso evolve, nell'altalena tra la superconcentrazione dei poteri forti (pur sempre scissi nella loro unità) e la diffusione di tanti poteri singoli, nella disorgaImage may be NSFW. Clik here to view.nizzazione progressiva dei corpi intermedi. Il che comporta una duplice tendenza eguale e contraria: all'universalità e alla localizzazione. Una convivenza forzata che un giorno forse troverà soluzione nell'unica forma possibile: la forma imperiale. Intanto l'avvento della cosiddetta Società Liquida o, se preferite, dell'Età volatile dell'Acquario, ha prodotto la trasformazione della politica con la scomparsa del classico modello di partito. Le forze più lucide, come comunisti e clericali, hanno sciolto ormai da tempo i partiti di riferimento per ritrovarsi ad incidere trasversalmente ovunque. Questa liquidità viene incarnata dalle forze dominanti e anche dalle loro alternative che si sono liberate, o si stanno liberando, delle stampelle abituali e delle gabbie istituzionali: da Macron a Trump, passando per il Vaticano e fino ai Cinque Stelle, ci si muove con il partito liquido come già aveva fatto Berlusconi. Chi resta abbarbicato a modelli solidi affonda.
Ideologie vetuste e opposizioni risibili
Grande è il disagio perché tutte queste trasformazioni vengono più subite che vissute, non vi è coscienza né fierezza, mancano i presupposti metafisici e filosofici, i riferimenti stabili, per far fronte a cambiamenti così notevoli che comportano rinunce immancabili. A questo si aggiunge il dramma che gli interpreti e i portavoce ufficiali del sistema politico sono quasi esclusivamente dei sopravvissuti delle fallite e arroganti utopie progressiste mentre da nessuna parte si riesce ancora ad articolare una risposta attuale, credibile e vincente che non sia fatta di slogan sommari e qualunquisti. Le opposizioni si limitano a raccogliere il malcontento nel modo più scomposto e a ritrasmetterlo così com'è senza neppure interpretarlo. Che siano di estrazione reazionaria, comunista o democristiana esse di limitano a:
- produrre un immaginario psicotico che riduce tutto il disagio all'operato di un soggetto maligno (la Ue, l'Euro, la Cia, Soros, Berlusconi, l'Islam, Kalergi ecc) e che esprime per tutta risposta il ritorno indietro a una presunta età dell'oro di prima della Caduta del Muro di Berlino, vantando scomparsi paradisi terrestri che non c'erano;
- rivendicare la funzione salvifica di chi si appresta a rimettere le cose a posto. Ovvero di chi contrappone un modello politico di un'epoca trascorsa a quelli dell'epoca in atto. Il che è possibile solo nella fantasia, purché sia scarsa.
Quanto più una forza d'opposizione si avvicina a una semplice possibilità di amministrazione tanto più edulcora il suo estremismo, tanto nelle negazioni quanto nelle proposte, non perché si venda, ma perché si rende semplicemente conto che tutto il teorema al quale si era fino aggrappata è un trip effettuato con il paraocchi che impedisce ogni movimento, esclusi gli scatti frenetici e iracondi dell'impotenza.
Pregiudizio democratico
Il paradossale di questa palese non-corrispondenza tra le opposizioni e la realtà effettiva è l'acquisizione di un fanatico pregiudizio democratico. Gli insegnamenti della scuola marxista, dell'intelligenza reazionaria e della genialità fascista avevano smascherato l'equivoco democratico e individuato separatamente i meccanismi che lo compongono stabilendo come relazionarsi efficacemente con essi senza esserne succubi. Coloro che si pretendono eredi o nostalgici delle alternative al liberalismo hanno completamente smarrito i fondamentali. Il motivo di questa degenerazione culturale è probabilmente da addebitarsi all'assenza di una prospettiva strategica di qualsiasi tipo. Da qui, quasi per disperazione, deriva la pretesa grottesca di contrapporre un preteso sentimento popolare incarnato nel nome della democrazia a coloro che la democrazia avrebbero invece tradito. Il meccanismo grossolano è il seguente: dei malefici o dei prezzolati starebbero ingannando il popolo e imponendo delle malefatte che escono per incanto dal loro cilindro, o meglio da quello dei loro padroni. Come impedirglielo? Raggiungendo la maggioranza e cambiando le cose per legge dal Parlamento conquistato. Peccato che tutto questo già sarebbe stato assurdo in epoca di democrazia compiuta perché ignora in toto i meccanismi del potere, del consenso, delle élites. Oggi, nel potere trasformato, nemmeno la conquista per assurdo di una maggioranza potrebbe fornire alcuno strumento per scalzare i poteri reali e men che meno per intervenire unilateralmente sulle questioni epocali. Siamo nella piena democrazia, dal punto di vista spirituale e valoriale, ma in piena post-democrazia da quello tecnico. Una post-democrazia debole, che dove diviene forte con dosi autocratiche, come in Cina, in Usa, in Turchia, in Israele, in Russia, viene definita da qualcuno “democratura” oppure “democrazia2.0” Dunque non c'è niente da fare? Elezioni e partiti devono essere ignorati? Non necessariamente, è una questione di dosaggi, di strumenti, di prospettive e di strategie. Se però l'idea permarrà quella di cambiare le cose promuovendo democraticamente un partito estremistico che non ha effettiva coscienza della realtà ma solo un'interpretazione soggettiva e non approfondita di essa, si tratterà sempre e soltanto di avviarsi a testa bassa in un vicolo cieco. Con effetti collaterali, magari appetitosi in quanto a mediatizzazione, allargamento di effettivi ed emolumenti, ma nulli dal punto di vista strategico quando non si venga addirittura impugnati e strumentalizzati per frenare rinascite nazionali ed europee.
Un salto di mentalità
Oltre alla sbornia democraticista in che modi gli scontenti si esprimono? Sempre in maniera episodica, mutila e frammentaria, a volte patologica. Si va dalla setta astiosa che si attende soluzioni apocalittiche (guerra razziale, scontro religioso, insurrezione sociale, implosione del sistema, lotta di classe, dittatura del proletariato, invasioneImage may be NSFW. Clik here to view. russa) alla comunità chiusa che legge, cena, discute, guarda film e ascolta canzoni in nicchie-salotti, passando per i centri studi fini a se stessi. A questo si aggiungono gli opportunismi, più o meno avventuristi, in ottica portaborsistica e la sempre più diffusa megalomania onanista negli sfogatoi social. Purtroppo il leit motiv più o meno di tutti, che sia conscio o inconscio, è quello di cercare di essere rappresentati nella commedia umana, di essere insomma riconosciuti, di esistere, di ottenere notorietà, non quello di andare in pressing sul reale per cambiarlo: insomma si fa tutto per se stessi (che il se stessi sia o no comunitario cambia poco) e quasi nulla per un dovere superiore. A tutto quanto - partiti, movimenti, comunità, individui - fanno difetto una visione d'insieme, una consapevolezza strategica, una lucidità metodologica e, cosa più grave, rarissimi sono i richiami lucidi e vissuti ai fondamentali nello stile, nell'esistenza, nei principii e nella stessa storia di quel mondo da cui credono di trarre le proprie idee, che finiscono puntualmente con lo scadere, nella loro riedizione, in dogmi sclerotici e in teorie discutibili. Tutto sbagliato dunque, tutto inutile? No perché ogni espressione viva reca in sé un enorme potenziale di conservazione, di trasformazione e perfino di rigenerazione, anche quando gira su se stessa in continuo avvitamento. Perché però si passi ad assumere un senso compiuto, a prendere una direzione che non sia quella del ghetto (o la pretesa un po' patetica dello sdoganamento del ghetto...) o non conduca a girovagare a vuoto in un labirinto, bisogna assumere tutto: stile, mentalità, conoscenza, coscienza piena, per poi articolare una tendenza strategica in un'attualità compresa, cambiando il segno della storia e non cercando di sfuggire invece alla storia e all'evidenza. Questo se si vuole lasciare un'impronta di combattimento e assumere una valenza effettiva.
Dunque, rammentando le riflessioni fatte sul conto della donna “appartenente al corpo di guardia” di Julius Evola, ho detto che per ritenerla tale, Evola doveva intravedere in lei un potere che valica il comune senso attribuito a chi è di “guardia” e intuire che si doveva trattare di un occulto “guardiano astrale”. E conseguentemente è come intravedervi il misterioso “Guardiano della Soglia” che altri non è, se non il Nume Saturno. E procedendo per questa strada ecco che si delinea la visione della dea Saturnia Tellus, considerato che si lega magnificamente all’antica Urbe Roma dal suo “nascere” in poi, e il cerchio si chiude con il “gran maestro Julius Evola“, un poderoso IO destinato perciò a “troneggiarvi” occultamente.
Su che basi si può reggere questa ipotesi è difficile dirlo, salvo a far luce sull’aspetto esoterico in base al quale Evola riteneva fondata la ragione che la giovane donna del “corpo di guardia” di Evola in questione potesse essere un’occulta vergine terrena prescelta per ospitare nel suo “petto” il suo Nume Tutelare Saturno. Si capirà poi a cosa alludo con questo “petto”. Insomma, in modo molto semplice questa concezione potrebbe essere spiegata immaginando che questa vergine terrena sia una sorta di Rea Silvia, la mitica madre di Romolo e Remo. Secondo la versione albana, Rea Silvia, figlia di Numitore, perseguitata dallo zio Amulio usurpatore del trono, fu costretta a farsi vestale. Ella, obbligata alla verginità, non poteva avere eredi e così togliere il trono al malvagio zio. Ma la sorte volle (il solito « caso ») che fosse fecondata “miracolosamente” da Marte mentre dormiva presso una fonte. Viene da intuire che le “azzoppature”, come quella biblica di Giacobbe e poi l’altra supposta da me per Evola, abbiano sfaccettature diverse fra loro e non escludono casi come quello mitico per Rea Silvia, che va interpretato in modo occulto e non sul piano storico. Tuttavia ci dovette essere anche per lei il ruolo della «casualità». Ma intanto vediamo il lato occulto della vergine terrena che si associa a quella del “corpo di guardia” di Evola e per questo occorre che ricorra a questo articolo in merito, pubblicato sul sito Giuliano Kremmerz. La tradizione Ermetica a cura di Orpheus21:
L'autore di questa incisione (illustr. 1) dice che essa rappresenta “l'antro delle Sibille, ossia l'antro delle vergini che hanno il potere della divinazione”.
E subito dopo spiega che “vergine” significa “donna o pulzella il cui petto accoglie il Nume”. La verginità alchimica, dunque, non ha nulla a che fare con la verginità profana. Secondo i profani, posseggono la verginità le donne non ancora deflorate, e soltanto esse.
Secondo gli alchimisti, invece, posseggono la verginità tutte le donne il cui petto accoglie il Nume, e soltanto esse, indipendentemente dalle vicende del loro imene.
Ciò si collega con l'enigma della Vergine dello Zodiaco Alchimico. Molti studiosi sanno che la costellazione della Vergine (nello Zodiaco Alchimico) rappresenta la bacchetta magica del Mago. Ma non tutti sanno che la stessa costellazione rappresenta anche la bacchetta magica della Fata o Sibilla. Comunque, si contano sulla punta delle dita quelli che conoscono il procedimento segreto mediante cui le comuni bacchette diventano veramente magiche, ossia il procedimento mediante cui un uomo diventa Mago ed una donna diventa Fata. La Sibilla, dunque, è vergine poiché la sua bacchetta è stata trasmutata in Vergine dello Zodiaco Alchimico. Ed il procedimento che la Sibilla ha seguito per acquistare questa miracolosa verginità, è costituito dalle attività divinizzanti mediante cui ella “accoglie nel suo petto il Nume”.
Quanto al Nume, l'incisione lo illustra ben poco. E per trovarlo, conviene rivolgersi altrove, e cercarlo nei recessi ove si celano le sue sparse membra. In ogni caso, però, occorre tener presente che le singole membra di lui non sono il Nume, ma che all'opposto esse si trasmutano in Nume allorquando vengano esattamente congiunte, con il concorso armonico di tutte le virtù e con la piena consapevolezza dei mezzi e del fine.
CAVEA SIBYLLARUM (L'ANTRO DELLE SIBILLE)
La scoperta di questo “antro” viene qui facilitata da tre indicazioni:
1°)- Dove cercarlo;
2°)- Come cercarlo;
3°)- Dove è celato.
Il luogo ove questo “antro” giace è la terra. Ciò si desume senz'altro, tanto dall'incisione quanto dalle iscrizioni. Naturalmente, la Terra di cui qui si parla è la Terra degli alchimisti.
Ma essa non è altro che una terra terrestre, perfettamente scomponibile in elementi chimici, ordinari.
Una iscrizione dice che la Terra è “nobile”. E chi potrebbe negarlo? Senonché, mentre, a parole, tutti i profani glorificano la Terra e ne esaltano i valori, ben pochi sono quelli che effettivamente la apprezzano: piacciono a tutti le piaghe soleggiate e civettuole, ma quasi tutti spregiano le plaghe disadorne e buie.
Ed anche quelli che sono proprietari di terra si sforzano in ogni modo di nascondere agli altrui occhi le zone che ritengono meno attraenti e meno produttive, quasi ché si vergognassero di averle.
Al contrario, i sapienti non dimenticano mai che i più preziosi tesori sono nascosti nei luoghi più insospettati e nei recessi più oscuri.
Un'altra iscrizione dice: “Vai dalle formiche e considera quale sia il luco (il recesso buio) nel quale vivono.”
Rimandiamo a tra poco la discussione sull'antro, o luco, o petto. Soffermiamoci, qui, sulla prima parte della frase: “Vai dalle formiche”. Andare dalle formiche, cercare le formiche, trovare le formiche.
È facile: basta andare in aperta campagna ed osservare la nuda terra: e se per caso la terra è rivestita di un manto di erbe o di sostanze estranee che la celano ai vostri occhi, basta rimuovere quel manto per vedere le formiche. Con la Terra alchimica, dovete comportarvi in modo analogo.
Osservatela da vicino, rimuovendo le coperture ed i veli che la occultano e ricordatevi che di essa tutto è nobile, tutto è divino, e tutto possiede proprietà divine, le quali ne fanno un oggetto degnissimo di amore in ogni sua parte, tutte incluse e nessuna esclusa.
Quanto all'antro, l'iscrizione suggerisce di considerare in quale recesso buio (luco) le formiche vivono. Ebbene, le formiche vivono nelle viscere della terra, entro un nido che è costituito da una serie di celle, collegate tra loro da un insieme di gallerie intercomunicanti.
Dunque, il Nume viene accolto entro le viscere (celle) della Terra Alchimica, le quali sono collegate fra loro da moltissime gallerie interne, e sono assai più preziose che non le viscere della terra agricola.
Infatti, le gallerie sono percorse da torrenti ove si depositano le pagliuzze d'oro formanti il corpo del Nume.
I nidi delle formiche hanno in ogni caso più di una entrata, situata a fior di terra.
Anche la terra alchimica, dunque, dovrebbe, secondo l'autore dell'incisione, presentare alcunché di analogo. Ciò si collega al segreto del laboratorio alchimico, ed al problema di come deve esser fatto per poter essere utilizzato con vantaggio.
Ma questo è un altro degli argomenti che l'incisione non illustra, cosicché per studiarlo occorre rivolgersi altrove.
* * *
[caption id="attachment_26990" align="alignright" width="225"]Image may be NSFW. Clik here to view. Illustrazione 2: Il caduceo[/caption]
Commento del Maestro:
si osservi bene, attentamente e con pazienza, la figura (l’illustr. 2). In essa si troveranno preziosissime indicazioni di ordine pratico e philosophico. Si analizzi l’insieme della figura: la scena si svolge in aperta campagna, tra la terra. In primo piano, un lembo di terra con erbe e piante, la Terra dei Filosofi Ermetici. Tre Sibille in primo piano: una al centro, una al suo lato destro, una al suo lato sinistro; la prima a sinistra (di chi guarda) reca un velo, quella al centro ha un copricapo circolare, quella a destra una sorta di cuffia dimessa. Altre sette Sibille appresso a loro, poste in semicerchio e in secondo piano. Lo spazio di terra attorno a loro appare scavato, come dimostra lo spessore rialzato del tratto posto innanzi alle tre prime Sibille.
[caption id="attachment_26989" align="alignright" width="183"]Image may be NSFW. Clik here to view. Illustrazione 3: Creazione del caduceo[/caption]
Ognuna di esse tiene in mano una pianta, tolta presumibilmente da quella stessa terra nella quale hanno scavato. Cosa indicano le Sibille? Esattamente il punto dal quale la pianta è stata tolta, vale a dire ciò che ha dato origine alla pianta stessa: il suo stesso seme, nutrito dalla terra. [...] Ciò che vi è scritto potrà risultare di ulteriore aiuto. Tutt’intorno all’intera immagine, a mo’ di cornice, un serpente dalla forma ovale, senza testa né coda, cioè senza principio né fine: l’immortalità. Ricordate ciò che scrive Elifas Levi: “Un seme viene messo nella terra: nessuno lo vede, escluso chi lo semina, e quando la terra si chiude su di esso, ugualmente nessuno lo vede. Gli uomini passano accanto al luogo in cui è nascosto, e vi camminano sopra, ma esso fermenta a lungo e nel silenzio germina. Poi, un sottile germoglio sale dalla terra e si divide in due foglie, e tra queste appare una gemma. Così rimane per lungo tempo, senza che nemmeno se ne accorga. Un giorno infine il germoglio è divenuto un arboscello, poi questo cresce e lentamente diviene un albero.” (illustr. 3)
Il queste parole è indicata simbolicamente la creazione del Caduceo Filosofico, o Trinità equilibrata di Corpo-Anima-Spirito, segreto dell’immortalità dell’Anima.
Julius Evola e Tommaso Palamidessi
Con una lettera inedita di Julius Evola
9.1 La lettera, una finestra di un mistero da dover capire
Roma, 20 gennaio 1972
Egregio dr. Palamidessi,
Ho avuto la Sua lettera, di cui La ringrazio.
Le ho già detto che un trattato di astrologia iniziatica sarebbe un’opera importante e colmerebbe una lacuna; e sarebbe anche interessante tracciare, secondo il suo proposito, una tipologia delle razze interiori con utilizzazione dell’elemento astrologico. Nel mio libro, di esso vi è solo un abbozzo, che andrebbe adeguatamente sviluppato. Un editore mi aveva incitato, in Germania, a dedicarmi a questa ricerca, ma ho dovuto rinunciarvi. Peraltro, si tratterebbe soprattutto di una morfologia a priori, non su base empirica. Per tale ragione, che esistano attualmente tipi puri, completamente conformi alla struttura fondamentale, ciò non ha importanza, né viene meno anche il valore pratico. Così, ad esempio, il definire la donna assoluta e l’uomo assoluto, che empiricamente sono quasi inesistenti, è di grande utilità per l’analisi di quelle donne e di quegli uomini che sono tali solo approssimativamente, o con mescolanze (vedi Weininger). La conoscenza caratteriale di sé negli stati più profondi sarebbe una importante possibilità offerta da tale indagine. Non vedo invece possibili relazioni per quel “risveglio della razza europea”, a cui Lei accenna. – Un precedente, però senza utilizzazione di contributi astrologici, potrebbe essere la Rassenseelekunde di L.W. Clauss, mio amico (lo studio dell’anima delle anime di razza); credo che ne ho accennato in un mio libro.
Se vuole, può includermi in quegli schizzi di figure, che Lei intende tracciare, a patto di escludere ogni “enfatizzazione”, come direbbero gli Inglesi. Una mia relazione con l’“individuo assoluto”, ad esempio, sarebbe solo umoristica.
Purtroppo ho dimenticato di darle direttamente, in occasione della Sua visita, il libro “L’Arco e la Clava”. Vedremo come si può fare: o alla prossima occasione oppure se l’editore ha un servizio di rimessa diretta a domicilio, i servizi postali specie per le stampe essendo divenuti infami. Comunque una copia Le è riservata.
Un’altra cosa. Una mia amica, appartenente al mio fedele corpo di guardia, avendo saputo della Sua visita e conoscendo il Suo nome, mi rende la vita impossibile perché vorrebbe avere da Lei un quadro astrologico del suo carattere e dei suoi “destini”. Se per caso avesse un po’ di tempo da sciupare per una ricerca più che sommaria, i dati sono: nata il 25 febbraio 1945 alle 15.20, (Venezia).
Con cordiali saluti,
suo
Evola
9.2 Tommaso Palamidessi e Julius Evola
[caption id="attachment_26988" align="alignright" width="247"]Image may be NSFW. Clik here to view. Illustrazione 4: La sibilla Tiburtina o Albunea[/caption]
Con la visione della lettera di Evola indirizzata all’astrologo Tommaso Palamidessi, appena pubblicata, siamo in grado di completare il quadro per impostare il tema che ci si è prefissi di configurare con questo scritto. Cioè, intravedere, se possibile, il destino, naturalmente metafisico, del filosofo romano in stretta relazione con la presunta sua “pupilla” nata il 25 febbraio 1945 a Venezia. Di questo destino, però legato alla storia, ne hanno parlato e discusso in tanti, bene o male, e sappiamo anche quanto abbia inciso il suo pensiero su molti che oggi quasi lo venerano per essersi battuto come strenue difensore di un’identità umana secondo gli antichi principi di un paganesimo imperiale della tradizione romana. Era nel vero, era nel giusto o altro? Tuttavia, considerando le riflessioni fatte, non tanto da me, ma dalle stesse persone intorno a Julus Evola al tempo del suo Gruppo di Ur, e particolarmente del noto Ekatlos col suo scritto LA «GRANDE ORMA»: LA SCENA E LE QUINTE del libro, INTRODUZIONE alla MAGIA, più vole citato, la storia è composta da “segmenti” definibili come « casi » “insignificanti” ai fini metafisici.
Dunque, lo stesso Evola, se fosse qui presente fra noi col suo spirito, ci esorterebbe a esaminare bene il lato dell’alchimia che sta, di sicuro, dietro le QUINTE, dove si può vedere la sua pupilla della lettera vaticinare, similmente a quell’antica Sibilla Tiburtina, detta Albumea (illustr. 4):
« “La decima fu la Sibilla Tiburtina, che veniva venerata a Tivoli come una dea, presso le rive del fiume Aniene. Si racconta che nei gorghi di questo fiume fosse trovata una statua che la raffigurava e che teneva in mano un libro: il Senato allora ordinò che il libri sibillini fossero trasferiti in Campidoglio”». (Varrone in Lattanzio Divinae institutiones 1.6.3.)
Oggi faccio emergere uno squarcio su una possibile realtà metafisica attraverso una finestra appena storica, la lettera mostrata al capitolo precedente, che non è stata mai esaminata sotto il profilo esoterico, per farvi trapelare i suoi possibili segreti reconditi. È necessario, comunque iniziare a riesaminare almeno il lato storico che riguarda le figure di Julius Evola e Tommaso Palamidessi, quali ultimi “attori scenici” della lettera suddetta. Ma è una cosa che è stata fatta con molta accuratezza, come già detto in precedenza, dal prof. Francesco Baroni, attento storico, sia di Evola che di Palamidessi con l’articolo: Julius Evola e Tommaso Palamidessi, con una lettera inedita di Julius Evola di Francesco Baroni: Fonte: Fondazione Evola
Occorre dire in premessa che si tratta di fatti, seppur “casuali” dal punto di vista esoterico, tuttavia si tratta di fondamentali “semi” che la sorte ha predisposto simbolicamente nel citato “Roseto dei Filosofi” di Michael Maier, da ritenersi la CAVEA SIBYLLARUM, ovvero il “petto” della sibilla che ha accolto il Nume di Julius Evola e se ne parlato nel capitolo 8.
A questo punto rimando il lettore alla lettura del citato scritto di Francesco Baroni dal quale mi limito a estrapolare ciò che maggiormente può influire sul possibile risvolto esoterico che andrò poi a fare e che lo stesso autore ha segnalato, evidenziando a conclusione i punti dottrinali in cui emergono le differenze più sensibili. Fra queste emerge su tutte la differenza sulla questione dell’esoterismo cristiano.
« In termini generali ‒ egli dice ‒, è il disegno complessivo del fondatore dell’Archeosofia che si oppone, ed in modo frontale, ad alcune prese di posizione di Evola in materia di dottrine tradizionali, con particolare riferimento alla questione dell’esoterismo cristiano22.Evola aveva più volte qualificato ilcristianesimo come religione devozionale e sentimentale, tuttalpiù mistica, ed in ogni caso sprovvista di ogni spessore iniziatico od esoterico23 - nell’accezione guenoniana del termine -, ammettendo solo più tardi, proprio in seguito ai primi scambi con Guénon24, la possibilità di una “reintegrazione” del cristianesimo nella cosiddetta “tradizione primordiale”25.
Il discorso di Palamidessi è di valore uguale e di segno opposto: per lui si tratta di provare che il cristianesimo delle origini ha rappresentato la forma più pura di esoterismo, e che le sue dottrine includevano, riservandoli ad una élite, tutti gli insegnamenti indispensabili per intraprendere il cammino iniziatico. Una lettura serrata dei primi Padri della Chiesa funge da supporto a questa riflessione, che d’altronde non è solo teorica. Palamidessi, infatti, descrivendo alcuni presunti ricordi di una sua vita passata, afferma di essere stato Origene, allievo di Ammonio Sacca e depositario dell’autentica dottrina cristiana esoterica26.
Oltre a questa ‒ nettissima ‒ divergenza di orientamento generale, vi sono poi dei punti di disaccordo più specifici, ma legati in qualche modo alla prima. In particolare, Palamidessi critica le posizioni di Evola sulle tre questioni seguenti: lo statuto della donna ed il diritto di questa all’iniziazione; l’anima e la sua immortalità; il rapporto tra via mistica e via iniziatica.
Nel quaderno intitolato Esperienza misterica del santo Graal, scritto nel 1970, Palamidessi esprime la sua avversione all’“assurda opinione corrente che nega alla donna il diritto all’iniziazione e all’adeptato”27, e afferma, riprendendo una tematica ampiamente diffusa nelle correnti esoteriche occidentali28, che lo Spirito Santo (la “Madre Divina”) “si incarnerà in un corpo di donna”29. La critica indiretta all’antifemminismo evoliano trova dunque una nuova linfa in un contesto diverso, ormai definitivamente cristiano.
Sempre nello stesso quaderno troviamo un’altra allusione ad uno dei leitmotiv del sistema evoliano, la nozione di “individuo assoluto”: “La contro-iniziazione opera inculcando idee luciferiche e ahrimaniche diverse, tra cui quella che siamo Dio, facendo assumere atteggiamenti interiori di autarca, di individuo assoluto; invece Dio è Dio e noi siamo immagini di Dio, semplici creature che partecipano alla theosis”30.
La critica, velata ma non indecifrabile, si inasprisce più in là: “Altre insidie della contro-iniziazione sono i capi, gli istruttori di non poche associazioni, inseriti là dove avrebbero dovuto esserci degli Adepti dell’Alta Iniziazione, mentre vi sono degli atei, dei materialisti, dei negatori dell’immortalità dell’anima”31.
Critica non indecifrabile, dicevamo, se si considera che Evola (pur non essendo esattamente all’epoca un “capo” o un “istruttore” legato ad un’associazione precisa) aveva scritto in “Ur”: “L’idea che ognuno possegga un’anima immortale [...] è una vera aberrazione ideologica”32. Di fatto, per Evola l’anima (yuxh/) è mortale perché si identifica con i corpi sottili o psichici, i quali si disgregano alla morte dell’individuo; il nou=j, invece, è il vero e proprio “principio intellettuale [...], immutabile presenza e pura luce”33, che in quanto tale non è soggetto a disgregazione.
Infine, Palamidessi contesta in modo netto la scissione, più volte affermata da Evola, tra via mistica (o lunare) e via iniziatica (o solare). Nel testo Gli scopi dell’ordine iniziatico “Loto+Croce”, scritto nel 1969, si legge: “Coloro che sostengono esser la religione e la mistica estranee alla Via Iniziatica o solare, sono nell’errore. Costoro si sono tagliati fuori dalla salvezza perché escludono la chiamata di Dio, negano la realtà di Dio”34.
Senza spingerci in un’analisi dettagliata di simili questioni dottrinali, si può dire che la ragione ultima di tali divergenze di vedute è da rintracciarsi nell’orientamento marcatamente cristiano assunto dal pensiero di Palamidessi a partire dalla svolta degli anni ’50.
Ciò spiega, ad esempio, il dissenso sulla questione dell’anima. Per Evola infatti, che segue in ciò il Vedanta e le dottrine apparentate, l’uomo non è nient’altro, nel suo fondo ontologico, che il metafisico Atman-Brahman. Egli è dunque un essere divino che si ignora, e non vi è affatto bisogno di postulare un’“anima” immortale.
Per Palamidessi invece, che fonde il pensiero dei primi Padri della Chiesa con le speculazioni della teosofia, l’“anima immortale” esiste: si tratta del “corpo causale”, composto di “materia intelligibile divina”, che attraversa le varie incarnazioni cambiando corpo “come un cavaliere cambia cavallo”35.
Queste stesse considerazioni sull’anima spiegano anche l’avversione di Palamidessi ad una nozione tipicamente evoliana, quella di “individuo assoluto”. L’idea di una coincidenza essenziale tra l’Io dell’uomo e il Principio metafisico supremo, presentata da Evola come il maggior elemento di superiorità delle dottrine orientali rispetto al cristianesimo, non è tollerabile in una prospettiva che si vuole aderente alle speculazioni dei primi Padri della Chiesa, i quali sviluppano ampiamente il tema della “somiglianza” tra l’anima umana e Dio, in conformità al dettato biblico, ma non possono certo andare fino all’identità36.
Quanto al problema del rapporto tra mistica ed iniziazione, poi, è evidente la necessità, per Palamidessi, di non lasciar screditare il patrimonio della mistica cristiana, la quale nella prospettiva evoliana si riduce ad essere l’incarnazione di una spiritualità “femminile’’, più subita che vissuta, e dunque passiva nel senso deteriore del termine37.
Il contrasto di vedute e di terminologia è dunque nettissimo, e ciò si evince anche dalla gravità, in un contesto simile, dell’accusa (per quanto priva di riferimenti diretti ad Evola) di essere un “capo della contro-iniziazione”.
Non sappiamo se tali critiche, alcune velate, altre più esplicite e dirette, siano mai pervenute all’attenzione di Evola. Se così non fosse, allora è da attribuire unicamente al ricordo del plagio subito negli anni ’40 il giudizio, perentorio e durissimo, che un Evola ormai settantatreenne dà su Palamidessi in una lettera a Hans Thomas Hakl del 15 luglio 1971.
Hakl, nella sua lettera ad Evola, aveva nominato Palamidessi, con il quale aveva avuto uno scambio epistolare alcuni mesi prima. La reazione di Evola non si fa attendere:
Mi meraviglio di veder citato da Lei il nome di Palamidessi, il quale non è che un imbroglione (uno Schwindler) privo di ogni qualificazione, se non di una generica astrologia che egli sfrutta professionalmente per fini di lucro38.
Il ricordo del plagio subito sembra vivo, anche se non si può escludere che a questo si sia sovrapposta l’asprezza della disputa ideologica, di cui ci restano solo le testimonianze degli scritti di Palamidessi. E’ poi da notare che Evola non può negare che tra le qualifiche di Palamidessi rientri l’astrologia, benché si tratti, secondo lui, di un’astrologia “generica”. Menzionare questo aspetto era forse inevitabile, dato che Palamidessi era certamente ben noto nel milieu astrologico italiano, il quale aveva da poco dato vita al CIDA (“Centro italiano di discipline astrologiche”, costituitosi nell’ottobre 1970)39.
Se dunque questo giudizio di Evola, nella sua durezza, non desta particolari sorprese visti i precedenti rapporti tra i due, può sorprendere il tono di una successiva lettera di Evola, indirizzata proprio a Palamidessi. La lettera in questione, ritrovata di recente in quella che fu la biblioteca di Palamidessi a Roma, è datata 20 gennaio 1972.
Da questo documento si evince che i due si erano visti a casa di Evola, poco prima di questa data, e che avevano discusso di astrologia. In seguito, Palamidessi aveva scritto ad Evola esponendogli il progetto di una pubblicazione futura. Doveva trattarsi di uno studio, appunto, di “astrologia iniziatica”, che prevedeva una “tipologia delle razze interiori” stabilita sulla base di criteri astrologici. Palamidessi aveva intenzione di accludere al suo lavoro un’analisi del tema astrale di Evola, il quale nella lettera gli dà il suo consenso40.
Non sappiamo nient’altro di questo incontro: né se fu il primo, né se fu seguito da altri. Non sappiamo neppure se vi furono degli intermediari, anche se si può pensare che Evola e Palamidessi avessero delle frequentazioni in comune, dati i rispettivi interessi, e visto anche che entrambi avevano rapporti con le Edizioni Mediterranee (Evola fondò e diresse la collana “Orizzonti dello spirito” dal 1968 al 1974, anno della sua morte, mentre Tecniche di risveglio iniziatico di Palamidessi fu pubblicato dalla Mediterranee nel 1975). Infine, non sappiamo per il momento chi sia l’amica che rendeva “la vita impossibile” ad Evola, desiderando che quest’ultimo chiedesse a Palamidessi di farle il tema astrale (dettaglio che conferma la fama di cui godeva Palamidessi come astrologo a quei tempi).
Ciò che si nota senza difficoltà è che il tono di Evola è cordiale; non vi è nessuna traccia dell’acredine che aveva caratterizzato i rapporti tra i due, e che ancora traspare nella lettera di Evola a Hakl di alcuni mesi prima. Se vi sia stato un reale rappacificamento, ed in che modo questo sia avvenuto, è ormai difficile saperlo. »
22 Sull’atteggiamento di Evola nei riguardi del cristianesimo, cf. G. Lami, “Evola e il cristianesimo: uno scontro annunciato”, Studi evoliani 1999, Rome: Settimo Sigillo, 2001, pp. 31-42, e C. Bonvecchio, “Evola e l'impero interiore: una fine e un inizio’’, in Julius Evola, Imperialismo pagano [1928], Roma: Mediterranee, 2004, pp. 17-51 (si vedano in particolare le pp. 43-49).
23 Si vedano soprattutto la parte finale dell’Uomo come potenza, dedicata ad un raffronto tra tantrismo e cristianesimo (L’uomo come potenza, ed. cit, pp. 293-304), e Imperialismo pagano (Imperialismo pagano, capitolo V, “Valori pagani e valori cristiani”, éd. cit., pp. 129-150).
24 Evola iniziò a corrispondere con Guénon tra il 1929 e il 1930. Cf., al riguardo, R. Guénon, Lettere a Julius Evola (1930-1950), introduzione, traduzione e note di Renato del Ponte, Carmagnola: Edizioni Arktos, 2005, p. 23.
25 “Partendo dalla materia del cattolicesimo, saper giungere a ciò che in essa, per essere veramente “cattolico', ossia universale, va al di là del cattolicesimo, e permette di comprendere ciò che nell'antichità o fuori dall'Occidente si trova esposto in forme diverse da quella cattolica - tale sarebbe dunque, per un cattolico, la via per giungere al giusto punto di vista” (J. Evola, Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, Torino: Bocca, 1932, p.
26 Si veda in particolare il testo “Memoria delle vite passate e sua tecnica”, in Archeosofia, Roma: Archeosofica, 1989, Vol. III, pp. 5-41.
27 T. Palamidessi, Archeosofia, ed. cit,, Vol. II, p. 70.
28 Si pensi al caso di Guillaume Postel et della “mère Jeanne’’, nella quale Postel vedeva la “Madre del mondo”, ossia il nuovo messia femminile destinato a salvare l’anima dell’uomo (la parte inferiore, sensuale dell’anima umana), completando così l’opera del primo messia, il Cristo (cf. a tal riguardo gli articoli di J.- P. Brach “ ‘Deux en une seule chair’: Guillaume Postel et le messie féminin”, in Féminité et spiritualité, Cahiers du G.E.S.C. n° 3, Milano-Parigi: Arché, 1995, pp. 35-42 e “Dieu fait femme: G. Postel et l'illumination vénitienne’’ in La face féminine de Dieu, Parigi: Noêsis, 1998, pp. 41-61).
29 T. Palamidessi, Archeosofia, ed. cit., Vol. II, p. 63.
30 Ibidem, p. 77. Il corsivo è nostro.
31 Ibidem.
32 J. Evola (sotto lo pseudonimo di “Ea”), “Il problema dell’immortalità”, ora in Introduzione alla magia, Roma: Mediterranee, 1971, Vol. I, p. 164.
33 J. Evola, Metafisica del sesso, Roma: Mediterranee [1958], 1996, p. 148.
34 T. Palamidessi, Archeosofia, ed. cit., Vol. II, p. 106.
35 T. Palamidessi, Archeosofia, ed. cit., Vol. III, p. 39.
36 T. Palamidessi, Archeosofia, ed. cit., Vol. III, p. 39. Cf. C. Casagrande, S. Vecchio, Anima e corpo nella cultura medievale. Atti del V Convegno di studi della Società Italiana per lo Studio del Pensiero Medievale, Firenze, SISMEL, Edizioni del Galluzzo, 1999.
37 Si veda a questo proposito l’articolo “Esoterismo e mistica cristiana”, pubblicato sotto lo pseudonimo di “Ea” in Introduzione alla magia, ed. cit, Vol. III, pp. 274-295.
38 J. Evola, Lettere 1955-1974, catalogate, annotate e commentate da R. Del Ponte, Finale Emilia: la Terra degli Avi, 1996, p. 162.
39 Quanto all’accusa di “sfruttare l’astrologia per fini di lucro”, va pur detto che Palamidessi aveva fatto dell’astrologia il proprio mestiere; si può dunque ritenere che rientrasse nella logica delle cose che ne ricavasse dei profitti.
40 Circa questa pratica, ricordiamo che diversi quadri astrali di personaggi celebri, spesso accompagnati da una breve analisi, vennero inseriti nell’edizione postuma di Astrologia mondiale di Palamidessi del 1985 (cf. T. Palamidessi, Astrologia mondiale, Roma: Archeosofica, 1985, pp. 415-520). Roma, 20 gennaio 1972.
L’immigrazione in Italia è cominciata come una bufala.
Ci dicevano che il fenomeno era epocale, che non poteva essere fermato ma solo controllato. Non si poteva impedire a masse africane giovani, esuberanti e in continua espansione di approdare in un’Italia pigra, pingue e in crisi demografica. Questi nuovi italiani sarebbero stati il futuro, sarebbero stati loro che col loro lavoro avrebbero risanato le casse dello Stato, pagato le nostre pensioni e salvata l’economia del Paese. Inoltre, ci spiegavano che erano arrivi praticamente a costo zero, perché quei miseri 35 euro che costava il loro mantenimento giornaliero erano forniti dall’Europa che avrebbe dovuto provvedere ad accogliere anche le eccedenze dei flussi, perché tutti quei migranti erano solo in transito ma, in realtà, avrebbero voluto spingersi a nord per cercare lavoro e ricongiungersi con parenti e amici. S’è poi visto come sono andate le cose e come l’Europa abbia chiuso tutte le frontiere di terra, lasciando che il nostro Paese si trasformasse in un gigantesco campo profughi, accollandocene anche i costi.
L’immigrazione in Italia è continuata come una truffa.
Il 3 ottobre 2013, dopo il naufragio a poche miglia dal porto di Lampedusa di un'imbarcazione libica che provocò 366 morti e circa 20 dispersi, il governo italiano, guidato dal presidente del Consiglio Enrico Letta con Angelino Alfano agli Esteri, decise di rafforzare il dispositivo nazionale per il pattugliamento del Canale di Sicilia autorizzando l'operazione “Mare Nostrum”, la cui finalità era di prestare soccorso ai migranti prima che potessero ripetersi altri tragici eventi nel Mediterraneo. Dall'inizio dell'operazione Mare Nostrum, invece, il numero di persone annegate durante l'attraversamento del Mediterraneo è aumentato e, contemporaneamente, sono aumentati gli sbarchi e l’invasione di clandestini che quell’anno hanno portato in Italia circa 166.700 stranieri. Il Ministero degli Esteri inglese è stato il più esplicito nel considerare Mare Nostrum, un “pull-factor” (fattore di spinta) per i flussi migratori verso l’Europa. Nell'agosto del 2014, dopo che Mare Nostrum ci era costata 9milioni di euro al mese per 12 mesi, il commissario europeo per gli affari interni Cecilia Malmström dichiarò che l'operazione sarebbe stata sostituita dal programma europeo "Triton", curato dall’agenzia europea Frontex e, successivamente, la UE ha rinnovato tali interventi fino ad approdare all’odierna operazione Sophia.
Frontex dovrebbe aiutare i paesi dell'UE e i paesi associati alla zona Schengen a gestire le loro frontiere esterne, fornendo assistenza tecnica e know how, ma non ha mai operato per una limitazione degli sbarchi né ha mai effettuato controlli sulla legalità dell’attività svolta dalle navi di organizzazioni private operanti nel Mediterraneo. Di conseguenza, nell’opera di “taxi del mare” si sono impegnate particolarmente le molte Ong che, approfittando della colpevole tolleranza dell’autorità italiana, si spingevano in accordo con gli stessi scafisti all’interno delle acque territoriali libiche a raccogliere i clandestini provenienti dall’Africa, giustificando tale comportamento illegale con presunte ragioni di carattere umanitario. Inoltre, dall’avvento di Triton, tutte le unità navali che partecipavano all'operazione, sotto il comando di Roma, sono state autorizzate dal governo Renzi, in cambio di sovvenzioni economiche, a sbarcare sul territorio italiano. In quegli anni, ci hanno bombardato di propaganda immigrazionista, raccontandoci che era nostro dovere salvare vite umane e riempirci di profughi che fuggivano da guerre e persecuzioni d’ogni genere. Ci hanno narrato che l’accoglienza era un dovere e che l’integrazione sarebbe stata facile e indolore se avessimo sparso in ogni comune un certo numero di immigrati, senza timore che fra questi potessero infiltrarsi terroristi o foreign fighters.
Abbiamo scoperto, invece, che l’immigrazione era soprattutto un business, un affare per cooperative e mafie, che si arricchivano con questo traffico più che con la droga. Abbiamo scoperto che non c’erano profughi che fuggivano da guerre, ma frotte di giovani africani che aspiravano solo alle comodità e ai consumi dell’Europa, che venivano accolti e mantenuti in alberghi e, inoltre, pretendevano cellulari gratis, wi.fi e internet, paghe e pasti etnici, il tutto a spese degli italiani e alla faccia dei milioni di poveri, disoccupati e pensionati italiani ridotti alla fame. Abbiamo scoperto che questi clandestini, pur non avendo alcun diritto a restare in Italia, non venivano rimpatriati e finivano in mezzo alla strada, a mendicare, a molestare, a sporcare, a delinquere e a spacciare impunemente. Abbiamo scoperto che tutti questi irregolari costavano ogni anno allo Stato almeno 5 miliardi di euro, che avrebbero potuto più opportunamente essere utilizzati in molteplici interventi sociali a favore degli italiani. Abbiamo scoperto che queste centinaia di migliaia di clandestini sparpagliati nel Paese costituivano un pericolo.
E così l’immigrazione in Italia s’è rivelata essere un crimine.
In un Paese provato dalla crisi, con migliaia di aziende fallite e altre che delocalizzano, con milioni di disoccupati e licenziati, l’arrivo di manodopera a buon mercato ha rappresentato una manna per imprenditori senza scrupoli e un attentato alla vita e all’impiego di tanti lavoratori italiani. Già questo si configurava come un atto criminale verso milioni di italiani, ma non paghi di questo misfatto, dopo averci riempito di irregolari, i progressisti hanno tentato addirittura di imporci lo ius soli, per portare a compimento il progetto folle e scellerato dello stravolgimento completo della nostra identità. Invece di tutelare la comunità nazionale, i suoi principi e la sua cultura, i democratici hanno proceduto ove possibile allo smantellamento delle nostre tradizioni e alla negazione dei nostri costumi per “non offendere” le altre culture, cioè gli estranei insediatisi nelle nostre città e nei nostri quartieri. Quegli stessi estranei che pretendono i sussidi, le case, l’assistenza e quant’altro è di spettanza del popolo italiano, che l’ha ottenuto a prezzo di enormi sacrifici. Il crimine più spregevole verso l’integrità della nostra stirpe e verso il futuro della Nazione s’è consumato all’ombra delle farneticazioni antirazziste e xenofile della sinistra radicale, intellettuale e mondialista che vorrebbe rinunciare alla nostra sovranità nazionale e nel contempo accogliere più africani prefigurando e desiderando il meticciato universale. Ma non solo. La follia progressista ha consentito lo stanziamento di migliaia di clandestini in zone divenute poco alla volta off limits per gli italiani, divenute centri di illegalità, centri di indottrinamento integralista e di radicalismo terrorista. La convivenza nei quartieri degradati s’è trasformata in un incubo per milioni di italiani abbandonati dallo Stato in ostaggio dei delinquenti stranieri. Centinaia di episodi di così detta microcriminalità hanno investito la nostra società, accompagnati anche da una serie di veri e propri delitti commessi da immigrati irregolari e culminati, ultimamente, nell’atroce vicenda di Macerata, con l’uccisione e lo scempio del corpo di una giovane italiana a opera di nigeriani privi di permesso di soggiorno. Ultimamente, dopo tanti proclami anestetizzanti, abbiamo scoperto di trovarci anche nell’occhio del ciclone del terrorismo islamista, con la presenza di scuole coraniche integraliste, di centrali terroristiche con ramificazioni sul territorio e di immigrati, anche di seconda generazione, che si preparavano a operare attentati a Roma, a Udine e nel resto del Paese. Il terrorismo islamista, connesso all’immigrazione irregolare e tante volte negato, s’è così palesato in tutta la sua subdola ed effettiva pericolosità.
Hanno tentato fino all’ultimo di farci credere che l’immigrazione fosse un evento incontrollabile, inarrestabile, ineluttabile, un destino al quale dovevamo rassegnarci, una circostanza con la quale avremmo dovuto convivere volenti o nolenti. Sappiamo, invece, che la cooperazione coi Paesi africani, una politica di aiuti internazionali mirata alla reciprocità, la fornitura di mezzi di controllo e di contrasto degli scafisti e delle partenze dei clandestini, il blocco navale delle acque territoriali dei Paesi di provenienza con i respingimenti in mare e il sequestro delle navi delle Ong che operano illegalmente, sono tutti fattori che possono stroncare queste migrazioni e l’arrivo di migliaia di irregolari e provvedere al loro rimpatrio.
Sappiamo che la volontà politica è alla base del nostro destino e della possibilità di indirizzare gli eventi in un determinato senso. I progressisti della sinistra radicale sono stati stracciati nelle urne dal giudizio del popolo, che ha decisamente espresso la sua volontà di una totale inversione di rotta. Una qualsiasi maggioranza che voglia contraddire le politiche sin qui adottate dovrà, pertanto, escludere qualunque collaborazione con le sinistre responsabili del degrado del Paese e affossate dagli italiani.
Ora pretendiamo che questo cambiamento abbia inizio e alle parole seguano i fatti. Chi volesse annacquare e tradire quella volontà chiaramente espressa dovrà trovare la più ampia e ferma opposizione. Nessun compromesso al ribasso può essere tollerato, in nome di nessun pretestuoso interesse alla stabilità o vincolo europeo o altro, altrimenti meglio tornare al voto.
In questo breve sonetto G. G. Belli traccia un affresco del pittore trasteverino a partire dalla capigliatura con ciocche di capelli che scendevano sul viso fino al suo vizio mortale di tracannar vino all’osteria der sor Torrone, facendo bisbocce e dilapidando tutto ciò che guadagnava, anzi Bartolomeo era pieno de buffi. In più morì scomunicato perché era un laico impenitente in vita come ar momento della morte. Difatti nel giorno di san Bartolomeo del 1834, il suo nome fu pubblicato nella chiesa omonima all’Isola Tiberina, era sulla lista degli interdetti per inadempimento al precetto depijà a’ communione almeno a Pasqua. Morì l’anno dopo, fu il pesce d’Aprile del 1835, gli fu fatale una sonora sbronza all’osteria del Gabbione. Il funerale fu a spese degli amici dell’Accademia di S. Luca, lo seppellirono, chissà perché, in una chiesa importante quella dei SS. Vincenzo e Anastasio, vicina a Fontana di Trevi, dove si custodivano, in urne di ceramica, le interiora dei Papi al tempo che i loro corpi venivano imbalsamati. Quando nel 1927 un’associazione romana vi si recò a ricercare la sepoltura di Pinelli, questa era sparita logicamente con tutte le sue ossa così ne nacque un mistero, uno dei tanti di Roma, ancora irrisolto. Ma, c’è sempre un ma nelle cose d’Italia, è più realistico pensare che le spoglie der pittore de Trestevere siano state buttate via, che c’avrebbe fatto er corpo d’un laico ‘mpunito con le frattaje de li papi?
Come riporta nel sonetto il Belli non s’era voluto confessà neppure in punto di morte, né ricevere dal parroco l’estrema unzione, però proprio all’ultimo respiro gli aveva teso la mano, Dio solo sa se in cuor suo si pentì, ma senza parlà, come il buon ladrone.
Prendiamo per vera la data del 19 novembre per la sua nascita, l’anno è sicuro, il 1781 a Roma nel quartiere de Trastevere vicino all’ospedale S. Gallicano, la sua casa natia è da un ber pezzo che nun c’è più. Papà Giovanni Battista era un artigiano della creta, campava facendo statue de santi e pupazzetti. mamma Francesca di professione era casalinga. Stando a bottega fin da piccino anche Bartolomeo imparò dal padre l’arte di modellare l’argilla insieme ai primi rudimenti del disegno.“Fu Bartolomeo Pinelli di media statura, di fisonomia e di portamento vivaci; portò folta la capigliatura che a lunghi boccoli gli incorniciava il viso e gli scendeva inanellata dinanzi […]; i tratti del viso ebbe marcati, ma regolari, e non portò che i piccoli mustacchi come appare anche nel suo busto che fu posto al Pincio. Di costumi fu bizzarro, amante anche troppo dello scherzo. Vestì negligentemente a modo del popolo e lo si vide sempre girare per Roma accompagnato da due grandi mastini e munito di mazza che aveva per pomo una figura di bronzo. Era facile all’ira quantunque fosse di consueto allegro e faceto; fu scettico [ateo] come molti degli uomini di ingegno del suo tempo e fu patriota a suo modo, cioè innamorato di Roma […]”. Alberto Sordi c’ha lasciato un grande acquerello del marchese Onofrio del Grillo, diventato famoso, nelle leggende popolari, per i suoi scherzi narrati nel romanzo di Desiato, ma B. Pinelli non era certo da meno, si sollazzava in questo con arguzia e impertinenza riuscendo sempre a farla franca e minchionà i malcapitati. A 11 anni il monello s’era trasferito, con la famiglia, nella città di Balanzone, Bologna, dove poté continuare gli studi all’Accademia Clementina grazie alle tasche del principe Giovanni Lambertini che incoraggiava le doti artistiche del ragazzino co’ na famijapovera ‘n canna. Proprio nella città felsinea sale sul podio più alto, vince il primo premio nella scultura con un tondo dal titolo Bruto condanna i suoi figli a morte, tema e stile neoclassici, d’altronde siamo nel 1798.
[caption id="attachment_27118" align="alignright" width="300"]Image may be NSFW. Clik here to view. Bartolomeo Pinelli, Bruto condanna i suoi figli a morte, litografia[/caption]
A Roma nella prima metà del ‘600 era sorto un vernacolo d’artisti fiamminghi che il popolino chiamava “ i Bamboccianti” per via del fatto ch’ er più de loro, l’olandese Pietre van Laer, era soprannominato bamboccio per la deformità del viso rimasto infantile. Questi si dilettavano nel dipingere piccoli quadri di soggetto popolare, dove le comparse della vita e il loro ambiente erano i primi attori. Pittura di genere, dal carnevale romano, alle scampagnate, dall’elemosina, al saltarello e così via. Il mercato dei turisti era fiorente per queste scenette guignolesche strappate sulle scenografie di Roma antica, assai meno bene sentenziava la critica accademica che disprezzava tecnica e soggetti. L’Urbe che “Pinelli immortalò” era la stessa per canovaccio del racconto, una commedia dell’arte della Roma di Giocchino Belli ( suo contemporaneo ), quella pe’ capisse de Rugantino, Bartolomeo era un gran disegnatore dal vero e non dimenticherà mai gli anni di studi anche all’Accademia di S. Luca, per cui le sue figure sono apolli e veneri co’ la retina in testa e ercortello come il trasteverino Meo Patacca o col corpetto stretto e il fazzolettone per le donne. Pinelli s’inventò il neoclassicismo popolano, la quotidianità interpretata da corpi di gladiatori e messaline con quell’orgoglio trasteverino che nun s’abbassa manco si mori. Il romano di Pinelli è un fusto palestrato per due ragioni, la prima perché discende in linea retta con gli antichi avi che fecero della guerra una missione fondando il più grande Impero d’Occidente, erano uomini valorosi perché incarnavano le virtù fondamentali quali l’amore per il diritto contro i soprusi, la moralità severa, il profondo senso dello Stato. In guerra come in pace i cittadini gareggiavano tra loro per virtù, coltivavano la parsimonia, stimando gran cosa la fedeltà nell’amicizia, curavano l’audacia in battaglia quanto l’equità in tempo di pace. Esercitavano il potere più col concedere benefici che con l’incutere timore. Preferivano perdonare invece che punire, sed vae victis se in ballo c’era Roma
(liberamente tratto da De Catilinae coniuratione di G. Sallustio, 9 ). Allora Michelangelo insegnava che tanta virtù di spirito si poteva esprimere, da artista, solo con un corpo altrettanto bello, una metafora insomma. L’altra ragione è quella vanitosa di mostrare la propria forza fisica, una competizione spavalda pe dimostrà chi è er mejo der bigonzo, sia che si tratti di fare a lotta o giocare a bocce a campo Vaccino, fare colpo sulle pischelle o sfidasse a una bevuta di vino ( il Baccanale romano ). Scanzonato, guascone, arguto nelle battute, amante delle bisbocce ma pure fumantino, il romano giovinotto una cosa nun c’aveva: ‘avoja de lavorà e s’è cucito addosso questo vestito anche grazie a Bartolomeo.Tornato nella sua Roma nel 1799, Pinelli prese casa vicino a via Lata ( via del Corso ) nel Rione Trevi, resterà sempre nel centro de Roma spostandosi poi a piazza di Spagna e infine a via Sistina dove si fermò dal 1822 insino alla morte. Fu amante del disegno ben fatto seguendo i canoni dell’Accademia di S. Luca, che ne premiò le prove per ben tre volte, e fors’anche gli insegnamenti di un pittore neoclassico ma bizzarro come fu il piemontese Felice Giani, artista emulo del Manierismo di Giulio Romano. Quella classicità pronipote del Rinascimento, perde l’idea che l’arte fosse espressione fisica del Bene come del Vero e cala, con Pinelli, nel quotidiano quasi fosse un racconto popolare recitato in vernacolo ma con dizione perfetta.
[caption id="attachment_27117" align="alignleft" width="300"]Image may be NSFW. Clik here to view. Bartolomeo Pinelli, Costumi Pittoreschi, 1811[/caption]
[caption id="attachment_27116" align="alignright" width="300"]Image may be NSFW. Clik here to view. Bartolomeo Pinelli, Cortelli e sassi, 1830[/caption]
Di professione fu incisore, con il bulino realizzò circa 4.000 soggetti, a diversi aggiungendovi il colore ad acquerello, o utilizzando la tecnica dell’acquaforte, poi ci ha lasciato duemila disegni e in tutto 29 statuette in terracotta. Detto del suo lavoro passiamo al certificato familiare, stato civile coniugato con Mariangela Latti che gli diede due figli, una femmina Maria, nata nel 1806 e forse morta precocemente ed un maschio, Achille (1809-1841) che continuerà la professione paterna. La biografia più completa sulla sua vita è contenuta in un libricino scritto da Oreste Raggi nel 1835 dal quale è possibile ricostruire la cronostoria delle sue opere fino alle sculture in argilla degli ultimi anni, ““fece, negli ultimi giorni, molti gruppi in creta di piccola grandezza, che pure rappresentavano moderni costumi, e che vendeva, come era solito, a tenuissimo prezzo”.
[caption id="attachment_27115" align="alignnone" width="1085"]Image may be NSFW. Clik here to view. Bartolomeo Pinelli, Burattini, incisione, 1831[/caption]
Nei primi tempi del suo ritorno a Roma collaborò con il pittore svizzero Franz Kaisermann, il suo compito era di popolare di figurine umane gli acquerelli del vedutista elvetico creando un’atmosfera bucolica, incantata tra le rovine di Roma, un genere “pittoresco” che incontrava consenso e baiocchi tra i turisti, come i suoi acquerelli con scene e costumi di Roma e del Lazio datati 1807 e raccolti oggi a Firenze nel Gabinetto delle stampe e dei disegni. F. Kaisermann c’aveva studio a piazza di Spagna, conobbe Pinelli nel 1803 e fino al 1806 la loro collaborazione artistica continuò finché lo svizzerotto non prese la decisione di sostituire Bartolomeo con un suo cugino tal J. F. Knébel.
[caption id="attachment_27114" align="alignnone" width="700"]Image may be NSFW. Clik here to view. Kaisermann, Cecilia Metella F. Kaisermann. Il Foro romano[/caption]
Messosi per proprio conto, Pinelli diede sfogo col bulino alla sua “corte dei miracoli romana”, fiero d’appartenervi da sanguigno trasteverino, perché fu autentico patriota ma per lui l’unica vera Patria era Roma. Nel 1809 esce una sua prima Raccolta d’incisioni dedicata a Cinquanta costumi pittoreschi, dove fissa l’iconografia del popolino romano, miscelando classicismo e pittoresco, nasceva così il suo stile inconfondibile che lo renderà famoso.
Nel 1810 circolano anonime per i salotti romani 20 acquaforti erotiche da lui realizzate in rilettura delle calcografie, sullo stesso tema di Giulio Romano prima, poi di Marcantonio Raimondi, illustrazioni antesignane di Playboy finite al rogo sui sonetti licenziosi di Pietro l’Aretino. La raccolta si intitolava per l’appunto La scuola di Priapo inventata da Giulio Romano,ma il tratto di Pinelli è più morbido dei predecessori, pur nella statuarietà dei corpi, diciamo che l’effetto è assai più coinvolgente per le prurigini di chi le osserva, c’è più eros e meno meccanica dei fatti.
[caption id="attachment_27112" align="alignleft" width="232"]Image may be NSFW. Clik here to view. Copia da M Raimondi di incisione del 1524[/caption]
[caption id="attachment_27111" align="alignright" width="230"]Image may be NSFW. Clik here to view. Bartolomeo Pinelli, incisione d La scuola di Priapo,1810[/caption]
Il 17 maggio del 1809 la Francia di Napoleone s’era pappato lo Stato pontificio, Papa Pio VII venne arrestato e trasferito, i cardinali dispersi come un gregge senza pastore, giù scomuniche ed anatemi ma il vento giacobino soffiava forte sulla città dei papi. Ci tornano ancora alla mente le immagini del film di M. Monicelli Il marchese del Grillo ambientato proprio nel 1809, anche Onofrio si guarda bene dal difendere il potere del Papa anzi coglie con gioia l’aria frizzante e rivoluzionaria dei francesi, così, in parallelo, anche Pinelli si schierò con Bonaparte ricevendo commesse dai cugini transalpini almeno fino al fatidico 1814 (Lipsia). A Bartolomeo restò l’acquolina in bocca, avrebbe dovuto dipingere quattro grossi pannelli da installare nel bagno di Napoleone al Quirinale con scene della storia romana, restarono soltanto in mente Dei. L’opposizione armata ai francesi la fecero solo i briganti, un fenomeno assai diffuso nell’Agro romano e nel Castelli che Pinelli immortalò storicamente prima con l’incisione della fucilazione del brigante Spadolino alla Bocca della Verità (1812) poi con l’illustrazione di Venticinque soggetti di briganti (1822) ed infine con la cronaca illustrata della Raccolta de’ fatti li più interessanti eseguiti dal capo brigante Massaroni per la strada che da Roma conduce a Napoli dall’anno 1818 fino al 1822 (ed. 1823), il romanticismo pinelliano era sbocciato. Negli anni ’20 coglie i primi forti fermenti del Risorgimento, lo affascinano le idee che promuovono l’antico sogno dantesco di una Patria unita radicato nell’humus storico comune a tutto il Paese. Già nel 1811 aveva illustrato il poema virgiliano dell’Eneide riscuotendo notevoli consensi, così nel ’19 realizza 100 tavole a commento iconico dell’Historia romana di Tito Livio, furono tre anni di duro lavoro. In successione seguirono raccolte sui soggetti più rimarchevoli della storia greca e romana, tavole per l’Istoria degli imperatori che terminò nel 1829 e settantuno acquerelli di tema mitologico. Accanto a questi soggetti si applicò ad illustrare anche testi letterari fondamentali per la nostra cultura umanistica, dalla Divina Commedia di Dante alla Gerusalemme liberata di Tasso all’Orlando furioso dell’Ariosto, fino all’Asino d’oro di Apuleio lavoro rimasto incompiuto. Tra tanta aulica letteratura si cimentò nel ’23 con la leggenda popolare di Meo Patacca personaggio centrale dell’opera in versi romaneschi di Giuseppe Berneri (1637-1701) illustrandola con 52 tavole, freschissima testimonianza degli usi e costumi della Roma di fine ‘600.
[caption id="attachment_27110" align="alignnone" width="1100"]Image may be NSFW. Clik here to view. Bartolomeo Pinelli, Il Meo Patacca o vero Roma in festa nei trionfi di Vienna, 1823[/caption]
Negli anni ’30 Pinelli sperimentò la nuova tecnica della litografia con la quale prese a illustrare il romanzo principe della letteratura scolastica I Promessi Sposi, un lavoro durato due anni. Nel 1834 interpretò il capolavoro di M. Cervantes con Le azioni più celebrate del famoso cavaliere errante don Chisciotte della Mancia che, per certi versi, tanto gli somigliava.
Lui così miscredente, pe’ campà, ne aveva fatte d’incisioni di santini e storie tratte dalla sacra Bibbia, Via Crucis, come pure cerimonie religiose dandoci un’acuta testimonianza delle liturgie. Chissà se s’èsarvato? Certo quella mano data al prete in punto de morte ce fa sperà nella misericordia divina, in fin dei conti il suo talento non l’aveva sotterrato anzi.
[caption id="attachment_27109" align="alignnone" width="640"]Image may be NSFW. Clik here to view. Autoritratto con sonninese, 1824, matita acquerello su carta[/caption]
Da notare i due mastini che B. Pinelli era uso portare al guinzaglio quando usciva.Emanuele CasalenaImage may be NSFW. Clik here to view. In copertina: Gabriele Vangelli, busto in bronzo di Bartolomeo Pinelli a V.le TrastevereBibliografia:
David Silvagni, La corte e la società romana nei secoli XVII e XIX, Roma, Forzani & C. Tipografi del Senato, 1881-4, voll. 3, vol. III, p. 395.Fagiolo, Maurizio e Marini, Maurizio (a cura di). Bartolomeo Pinelli (1781-1835) e il suo tempo. Catalogo della mostra tenuta a Roma nel 1983. Roma, Rondanini, 1983.Palma Bucarelli, Pinelli Bartolomeo, Enciclopedia Treccani, 1935.Sergio Natalizia, www.laboratorioroma.it/bartolomeo-pinelli.html
L’epidemia mentale nell’occidente contemporaneo, è giunta adun livello tale che sembra davvero difficile distinguere un malato psichico dal resto. Non a caso in questo clima la psicanalisi sguazza come un vero e proprio culto di massa. Su questo tema, interessante l’insieme di scritti di Julius Evola dal titolo “L’infezione psicanalista”, con prefazione di Adriano Segatori, della casa editrice Controcorrente. In questa prefazione si utilizza il quadro di riferimento evoliano per un’operazione di discernimento del positivo dal negativo in tutto il sapere psicanalitico. Il saggio, poi, prosegue sulla base di tale discernimento, proponendo la via atta al “superamento” dell’Uomo, propria alle concezioni tradizionali. Questa differisce dall’esaltazione, invece, di tutto ciò che è subconscio, subliminale ed infero, tipico della psicanalisi, in pratica l’esatto opposto.Image may be NSFW. Clik here to view.
Per Evola stesso la conoscenza, non semplicemente intellettualistica ovviamente, del sovrasensibile fornisce la capacità di scendere nella profondità del proprio Io. Grazie a una disciplina ascetica “la soglia stessa della coscienza è rimossa, la zona luminosa scende più in basso, e non si arresta più dove si aprono i fiori emergenti delle forme della coscienza esterna, ma ne coglie gli steli, prima immersi nelle acque profonde dell’incoscienza”. Riuscire ad identificare gli impulsi a base del proprio Io, è possibile attraverso una conoscenza del mondo spirituale, diversamente, la psicanalisi non riesce, per sua stessa essenza, a fare il cammino inverso. Essa, così per come è stata concepita da Freud, è monca del lato spirituale dell’individuo, e quindi considera l’Uomo come semplice aggregato di parti, istinti, pulsioni e riflessi di tipo neuro-vegetativo. Anche la libido, se da un lato è per davvero forza vitale e creatrice, dall’altro viene esclusivamente vista in chiave materialista.
Sulla psicanalisi junghiana, poi, Evola è ancora più critico, in particolare per la sua pretesa a rendere spirituali delle cose che di spirituale non hanno nulla. Su tutte la tendenza ad eguagliare le divagazioni e le veggenze di pazienti nevropatici con i simbolismi delle antiche tradizioni e concezioni metafisiche. Oggi, come dicevamo, c’è una sovrabbondanza dei temi psicanalitici, tanto che la psicanalisi è divenuta una vera e propria forma mentis. Non si rimane più nell’ambito strettamente medico e diagnostico, di soggetti con problematiche di tipo psichico, bensì si tende a psicanalizzare tutto e tutti. Ma questa operazione ha arrecato dei danni alla integrità della persona davvero notevoli, non a caso l’identificazione evoliana della psicanalisi come “infezione” – un qualcosa che tende alla dissoluzione dell’Io. Direbbe Hillman “100 anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio”, ed è sotto gli occhi di tutti l’affezione morbosa che l’uomo moderno intraprende verso ciò che è subconscio.
Ovunque ci sono dettagli da analizzare, sogni da rielaborare, pulsioni limite della propria psiche da liberare e non tenere repressi, particolari da assolutizzare e ancora “retropensieri” che primeggiano sulla stessa evidenza dei fatti, e poi domande, domande e domande. Il semplice rapporto sereno con la propria coscienza è stato sostituito da questa specie di “manicomi a riflessione continua” che sono le menti dell’uomo moderno.
Una sera, ad una cena, mi capitò di conoscere una signora che era in cura dall’analista da circa 20 anni, sic!, e mi chiedevo quale “strage” abbia mai potuto commettere una persona che avesse bisogno di tutta questa rielaborazione. Tra gli scritti sulla psicanalisi, Evola Image may be NSFW. Clik here to view.affronta anche Wilhelm Reich e la sua teoria “pansessualista”, tanto apprezzata negli ambienti anarcoidi ed edonistici contemporanei. Innanzitutto potremmo dire che se l’intento di questa concezione era utilizzare l’energia sessuale, e il discorso sull’Orgone, come catalizzatore di una possibile “rivoluzione sociale”, questa cosa non è riuscita. Anzi, oggi, proprio gli alfieri dell’incatenamento “peggiore” dell’Uomo, vanno avanti a colpi di pansessualismo. E’ evidente che c’è sesso ovunque, a partire dai programmi per bambini. Certo, direbbero i reichiani, non è in quella direzione che deve andare la rivoluzione sessuale, ma fatto sta che essa è strumento nelle mani delle oligarchie. Molto più probabile che tutto il presupposto della repressione dell’energia sessuale che genera violenza è sbagliato. Eros e Thánatos, in realtà, sono due principi che vanno sì bilanciati, ma che convivono nell’individuo, e pensare di abolire il lato distruttivo, è impossibile oltre che innaturale.
Fondamentale è poi analizzare il ruolo stesso degli operatori del settore: psicologi, terapeuti ed analisti. Nel più dei casi soggetti dal culto morboso verso il subconscio “altrui”. Di conseguenza non medici che, presentata la diagnosi al paziente, fanno il possibile per sostenerlo nel suo processo di guarigione. Sovente, abbiamo addirittura dei peggioramenti della condizione di partenza, o comunque dei miglioramenti che si interromperanno per regredire di nuovo, laddove si interrompe il rapporto medico-paziente. A parte che non c’è pratica più sbagliata di mettersi a risolvere i problemi altrui, infatti la crescita sta proprio nel cavarsela da solo – sbagliando si impara! Visti i livelli in campo, poi, si realizza una piena similitudine tra l’analista e quelli che sono i suoi pazienti, che in più dei casi rende difficile una reale distinzione. E non è una bella cosa, così come viene proposta in modo da rappresentare l’idea che fondamentalmente “siamo tutti uguali”. C’è davvero da meravigliarsi come personaggi di questo tipo, non siano essi stessi in terapia, essendo portatori di problematiche, come quelle accennate, e bisognosi di cure. E teniamo conto, anche, dell’unico dato, questo sì, costante e tangibile, ovvero il portafogli del “cliente” che seduta per seduta si svuota sempre più.
Fra i simboli tradizionali a carattere universale, pertanto riscontrabili in tutte le forme religiose ed iniziatiche, sia esse orientali che occidentali, arcaiche o ancora esistenti- il cui significato più profondo rileviamo essere distintamente metafisico, pur se trasponibile per legge di analogia in chiave ontologica e cosmologica- trova certamente posto il “Punto”: simbolo confluito e conservatosi anche nell’antica massoneria operativa e, da lì, trasmesso in seguito al deposito simbolico-dottrinale della massoneria speculativa. Proprio in ragione del carattere puramente tradizionale della massoneria nonché della funzione “conservativa” cui essa assolve nell’attuale contesto ciclico in Occidente, non poteva essergli estraneo un elemento simbolico il quale, di per sè, possiede l’indiscutibile valore ontologico di essere proprio il “Punto” d’origine dal quale si diparte ogni opera edificatrice il Tempio: sia esso il Tempio Universale che quello interiore costruito nell’iter di ogni viatico iniziatico, così come quello che lo rappresenta nel mondo esteriore nei vari contesti tradizionali. Image may be NSFW. Clik here to view.Torneremo tra poco ad interessarci della conoscenza del “Punto” così come si presenta specificatamente in ambito muratorio, volendo dapprima iniziare con l’offrire una breve panoramica d’assieme generale.
Scrive Guénon: “Secondo la Cabala, l’Assoluto, per manifestarsi, si concentrò in un punto infinitamente luminoso, attorno al quale erano le tenebre; questa luce nelle tenebre, questo punto nell’estensione metafisica senza limiti, questo nulla che è tutto entro un tutto che non è nulla, se così possiamo esprimerci, è l’Essere nel seno del Non-Essere, la Perfezione attiva nella Perfezione passiva. Il punto luminoso è l’Unità, affermazione dello Zero metafisico, rappresentato dall’estensione illimitata, immagine dell’infinita possibilità universale”. Il Punto è simbolicamente quello che presenta la maggior “semplicità”- intendendo questo termine nelle sue valenze metafisiche di Unità e “indivisibilità” che ne chiariscono l’essenza – e che racchiude, al contempo, la maggior “ricchezza” essendo la fonte dell’indefinita molteplicità che prende forma all’interno della manifestazione universale:«Come la molteplicità possiede una certa unità, definita unità della molteplicità (ahadiyat al kathran)» scrive Ibn Arabi «allo stesso modo anche l’Uno possiede una certa molteplicità, definita molteplicità dell’Uno (kathran al-wahid); Egli è dunque l’Uno molteplice ed il molteplice-Uno».Il medesimo concetto lo ritroviamo nei commenti di Sankara ai Brahma Sutra:«Una creazione molteplice può esistere anche in Brahma, Uno come Egli è, senza privarlo del suo carattere d’Unità». Dal Punto origina pertanto lo spazio, l’estensione ed il suo sviluppo susseguente, nonché tutte le forme geometriche le quali dipendono dall’esistenza universale. Afferendo simbolicamente all’Essere puro, da cui si attualizzano tutte le possibilità di manifestazione in esso potenzialmente contenute, Essere il quale si pone come “centro” di tutte le cose, pur non occupando spazio alcuno ed essendo fuori dal tempo e dalla manifestazione stessa poiché assolutamente trascendente, il “Punto” in questione è identico al: « punto a cui tutti li tempi son presenti» (Dante, Paradiso XVII,17), “luogo” al quale Plotino, nelle Enneadi, attribuisce una metafisica permanente attualità: «Là tutto non è che un giorno, senza che vi sia successione; nessun ieri, nessun domani». Quale centro di tutte le cose, il Punto ne definisce quindi i limiti manifestativi dirigendo il suo “compasso” per precisarne i confini e dare “Ordine” all’estensione. Coomaraswamy fa notare come esso possa anche essere considerato quale una “punta acuminata”, un “asse” o un “ago”; quest’ultimo termine lo ritroviamo presente anche nell’evangelica “cruna”, il cui significato si riconduce simbolicamente a quello di “porta” d’uscita dal cosmo, esemplificata anche dall’equivalente “chiave di volta” della Massoneria del Royal Ark. Tanto è vero che il termine sanscrito āni- “punta dell’asse”- è impiegato nei testi indù per descrivere come «gli immortali stanno saldamente sulla punta dell’asse (cosmico)», corrispondendo qui tale “punta” in tutto e per tutto alla stessa «punta dello stelo a cui la prima rota va dintorno (…) da quel punto depende il cielo e tutta la natura», così come scrive Dante nel Paradiso, rispondendo in tal modo, indirettamente, alla domanda su «quanti angeli possono stare sulla punta d’uno spillo?». Meister Eckhart, non discostandosi assolutamente da una visione integralmente ortodossa della struttura metafisica ed ontologica della manifestazione universale, pur se tratteggiata attraverso l’influenza del linguaggio cristiano che ne permea l’esposizione, parla del mondo come di un “cerchio” centrato in Dio le cui opere sono la sua circonferenza: «Questo è il cerchio sul quale l’anima gira in tondo, tutto ciò che la Santa Trinità ha operato(…) e, com’è detto nel Libro dell’Amore, “Quando scopro che è sempre senza fine, allora mi lancio verso il centro del cerchio”…Quel punto è la potenza della Trinità, dove essa ha compiuto tutte le sue opere restando essa stessa immota. Lì, l’anima diventa onnipotente (…) così uni-ficata, essa è capace di ogni cosa (…) il punto essenziale, dove Dio è tanto lontano quanto è vicino a tutte le sue creature… lì essa in-siste eternamente» (M. Eckart, Pfeiffer). Discutendo del «fato», troviamo come ben prima di Meister Eckhart sia stato Boezio a paragonare il tempo alla circonferenza di un cerchio il cui centro (punctum medium) è l’eternità, evidenziando come «ogni cosa è tanto più libera dal fato, quanto più si avvicina al cardine (cardo) di tutte le cose; e se aderisce saldamente alla stabilità della Mente Superna, essendo libera dal movimento, essa trascende anche la necessità del fato»: cioè, sfugge all’efficacia causale degli atti, i quali «hanno luogo» solo nel mondo al quale il “Liberato” non appartiene più, benché possa essere in esso. Le formulazioni di Boezio e Meister Eckhart, fondate, come dicevamo, su corretti assunti ontologici, si incardinano in una visione “geometrica” dell’universale diametralmente opposta alla famosa sententia secunda presente in un trattato pseudo-ermetico del XII sec. -il Liber Philosophorum- e secondo la quale «Dio è come una sfera il cui centro è dappertutto e la circonferenza in nessun luogo». Lo stesso Guénon farà notare come essa rovesci il corretto punto di vista metafisico e spirituale: nell'ordine spirituale infatti, il Centro, l'Origine, il Principio, non è più contenuto nel tutto, ma avvolge e contiene il tutto. Sarà così il centro- d’altronde non potrebbe essere diversamente - a non occupare alcun luogo, essendo per sua natura atemporale e privo di dimensioni. Il centro, o il Punto che è la medesima cosa, non può di fatto essere colto in alcun luogo della manifestazione, e ciò in virtù della sua totale trascendenza rispetto a questa. Così, nel suo aspetto più elevato, il “Punto” viene a coincidere con il “Vuoto”: luogo della “presenza divina” e principio non-agente (wei-wu-wei).
Vorremmo fugacemente far osservare come anche l’atomicità e l’immensità siano simultaneamente attribuite alla realtà ultima del Punto nella quale tutti gli estremi coincidono: «Più piccolo degli atomi, nel quale sono stabiliti i mondi e i loro abitanti, quello è l’imperituro Brahma, la Verità, l’Immortale (…) a un tempo immenso e sottilissimo, quello è questo Sé atomico» (Mundaka Up); «Più piccolo d’un chicco di riso (…) più grande di questi mondi» (Chandogya Up.). Queste formulazioni le rinveniamo essenzialmente identiche anche in Occidente; in Dionigi l’Aeropagita troviamo infatti testualmente scritto:«Le scritture attribuiscono la grandezza a Dio (…) così come la piccolezza o la sottigliezza, le quali si riferiscono rispettivamente alla Sua trascendenza e alla Sua immanenza» (De Div. Nom., IX,1), mentre da Filone d’Alessandria apprendiamo come sia:«lo Spirito di Dio, atomico, indivisibile, pienamente diffuso in e attraverso tutti gli esseri» ( De Gigantibus). Per la tradizione ebraica, nel momento in cui si manifesta il Punto nascosto è identico allo Jod, lettera che designa il Principio e composta di “tre punti” che ne formano uno solo ed i cui significati sono attinenti all’inizio, il Centro e la Fine della manifestazione stessa , ovvero alle funzioni espresse dal ternario Brahmà, Vishnu e Shiva e del tutto omologhe alle medesime funzione espresse da Sapienza, Forza e Bellezza operanti nell’ambito della ritualità massonica. Singolari in tal senso sono le parole di Guènon:«Può essere interessante segnalare ancora che, nella Cabala, lo “iod” si considera formato dall'unione di tre punti che rappresentano le tre “middoth” supreme e sono disposti a squadra; quest'ultima è d'altronde volta in senso contrario a quella che forma la lettera greca Γ, il che potrebbe corrispondere ai due sensi opposti di rotazione dello swastika». Nei suo scritti Guénon fa anche osservare un particolare alquanto importante, vale a dire come i tre punti in questione possano essere, lecitamente, assimilabili ai tre punti della massoneria, il che implica come il “Nome” divino sia celato in un “segno” spesso tracciato da ogni massone, ma certamente non conosciuto sino in fondo nelle sue più pregnanti valenze simboliche ed “operative”. Con questa considerazione torniamo dunque ad interessarci più particolarmente alla conoscenza del Punto per come la ritroviamo in ambito muratorio e, più specificamente, in relazione a quel “misterioso” Punto “noto ai soli figli della Vedova”, i cui significati svarianoImage may be NSFW. Clik here to view. da quelli più puramente contingenti ed esteriori- quindi accidentali e legati, per lo più, all’ubicazione della loggia intesa nelle sue coordinate spazio-temporali secondo una lettura meramente “essoterica”, ci si passi il termine, di dati strettamente esoterici- sino a quelli più autentici ed essenziali i quali esorbitano lo spazio ed il tempo rientrando, quindi, in un topos adimensionale il quale vuole indicarci il vero “luogo non luogo” cui allude la massima muratoria suddetta.
Parafrasando Anassagora, abbiamo la stessa differenza per cui: «Le cose apparenti sono la visione delle cose invisibili». Che si tratti di un “luogo” il quale si colloca in medio mundi, è d’altra parte confermato, se solo si applicasse la “Logica” trasponendola in chiave iniziatica, quando è detto che tale Punto è noto ai soli figli della Vedova, apparendo qui abbastanza chiaro come non possa trattarsi di un punto qualsiasi, ancorché segreto, soltanto per il motivo che la sua ubicazione non viene svelata al volgo profano. A prescindere dal fatto che, oggi come oggi, essendo la massoneria scivolata sempre più in direzione del mondo profano, perdendo così da un lato il suo carattere d’inafferrabilità iniziatica e dall’altro macchiandosi inevitabilmente di molte istanze provenienti dall’ambito mondano, non può più esser precipuamente segreta, pena l’ esser perseguita nei suoi appartenenti a termini di legge, ciò potrebbe indurci a pensare che il “segreto”- inteso qui nella sua chiave più esteriore- verrebbe automaticamente a decadere non avendo più motivo di sussistere. Ma il fatto che ritualmente tale osservanza si sia mantenuta nel tempo, costituendo uno degli imprescindibili assi portanti della simbologia muratoria, suggerisce che il suo dominio e la sua funzione siano di ben altra natura.
A tal riguardo René Guénon in Considerazioni sull’iniziazione scrive quanto segue:«Infine, ogni organizzazione iniziatica è anche «inafferrabile» dal punto di vista del suo segreto, quest’ultimo essendo tale per natura e non per convenzione, e non potendo di conseguenza essere in nessun caso penetrato dai profani, ipotesi che implicherebbe in se stessa una contraddizione, perché il vero segreto iniziatico non è nient’altro che l’«incomunicabile», e soltanto l’iniziazione può dare accesso alla sua conoscenza» ed ancora: «Tra il vero segreto iniziatico e un disegno politico che si tenga nascosto, o anche la dissimulazione dell’esistenza di un’associazione o dei nomi dei suoi aderenti per ragioni di semplice prudenza non è evidentemente possibile nessun paragone (…) esso (…) non potrebbe mai esser in alcun modo tradito, poiché è d’ordine puramente interiore e, come abbiamo già detto, risiede propriamente nell’«incomunicabile».
Siamo quindi in presenza di una differenza di natura ontologica, poiché da quel che si deduce chiaramente dalle parole di Guénon, la natura del segreto iniziatico, del «mistero» etimologicamente inteso e quindi anche del “Punto” noto ai soli figli della Vedova, è assolutamente inerente il dominio dello spirito, il quale sfugge alle categorie oggettive spazio-temporali e ad ogni lettura di carattere profano che, usualmente, si attaglia alla parola segreto ed ai suoi rimandi mondani. Abbiamo qui qualcosa la cui portata è tale da fondersi con la stessa “inesprimibilità” del secretum iniziatico stesso giacché, invero, riguarda un “Punto” “segretamente” celato da questa stessa inesprimibilità la cui essenza è incomunicabile ed impenetrabile proprio perché appartenente all’ambito spirituale.
Il Punto in questione, tra l’altro, è definito tradizionalmente “geometrico” e ciò in quanto l’azione divina ed ordinatrice viene simbolicamente assimilata all’arte della geometria e, di conseguenza, anche all’architettura. Le due scienze sono infatti intimamente connesse, così come dimostra anche il termine arabo hindesah che si traduce misura ma che indica al contempo sia la geometria che l’architettura. Lo stesso Platone, già 2500 anni fa, dimostra come l’azione manifestativa divina fosse sin d’allora assimilata alla geometria se consideriamo come fu egli ad affermare che “Dio geometrizza sempre” e che nessuno potesse accedere agli insegnamenti esoterici se non conformando il suo agire allo stesso agire divino: “Nessuno entri se non è geometra”. Secondo le prospettive qui esaminate, la loggia assurge al ruolo di “Centro del Mondo”, un “luogo” in cui si riflettono più luoghi, più mondi apparentemente diversi ma convergenti. Massonicamente questo luogo è simbolicamente ubicato tra squadra e compasso, cioè fra Cielo e Terra, luogo d’incontro di tutti coloro spogliatisi dalla “metallica” temporalità dell’individualità egoica e del loro “nome” profano per divenire proiezioni coscienti degli archetipi celesti e dell’influenza spirituale che presiede all’iniziazione di questa specifica forma tradizionale.
In virtù del fatto che il “Punto” noto ai soli figli della Vedova possiamo rilevarlo nella sua funzione di “centro” in ogni grado dell’essere- è questo il senso per cui la loggia può riflettere più luoghi- non può non essere qui preso in considerazione un aspetto concernente il Quadro di Loggia- omologo, nella sua funzione di centro della Loggia, al Image may be NSFW. Clik here to view.bindu che segna il centro di ogni mandala e yantra indiano- aspetto che si ricollega alla legge fondamentale che regge la stessa manifestazione universale e, quindi, tutte le forme del simbolismo che ad essa si ricollegano: vale a dire il “rapporto di analogia inversa”. Secondo questa legge- rilevabile simbolicamente nei due vegliardi presenti nel sigillo di Salomone- «ciò che è primo e più grande nell'ordine della realtà principale, diviene o, per meglio dire, è al contempo - senza tuttavia essere minimamente alterato o modificato in sé stesso - l'ultimo e il più piccolo sul piano della manifestazione», in assonanza, ovviamente, con il significato del detto evangelico: «Gli ultimi saranno i primi».
Mi sembra molto corretto quanto scrive a tal fine Giorgio Rocchi puntualizzando come:«Secondo questo rapporto di analogia inversa, le realtà metafisiche adombrate dal Quadro di Loggia, appartenendo all'ordine spirituale, al metacosmo, contengono necessariamente in esse il cosmo, sebbene questo «contengono» non debba essere inteso in senso spaziale. Passando all'ordine materiale è la Loggia, simboleggiante il cosmo, che deve racchiudere nel suo centro - inteso questa volta nel senso spaziale - il Quadro, adombrante nel suo tracciato il metacosmo». Il Quadro di Loggia è il “Punto” in cui si coagulano tutte le influenze spirituali mosse dal Rito in quanto, non dimentichiamolo, esso è posto esattamente sotto l’egida del filo a piombo, rappresentando in tal senso il “polo terrestre” che nell’antica massoneria operativa era simboleggiato da uno swastika posto proprio al di sotto del filo a piombo stesso: quest’ultimo, rappresentazione di Mahat l’Intelletto Universale o “grande principio”- volendo utilizzare qui termini indù per esemplificare meglio il concetto- la cui azione partecipa dei tre guna, è concepito come ternario nell’ordine dell’esistenza universale e si identifica infine alla trimurti divina Brahmà, Vishnu e Shiva le cui Shakty sono adombrate perfettamente dai “tre pilastri” al centro del tempio massonico.
Ma come passare da una conoscenza puramente teorica ad una conoscenza reale ed identificatrice tra il soggetto umano ed il soggetto divino rappresentato dal Punto, differenziazione sotto un certo riguardo illusoria, ma tuttavia percepita reale nel nostro stato d’esistenza? «Per conoscerlo dobbiamo essere in esso» scrive Ruysbroeck, in De septem custodiis, « di là dalla mente e al di sopra del nostro essere creato; in quel Punto Eterno dove iniziano e terminano tutte le nostre linee, quel Punto dove esse perdono il loro nome e ogni distinzione, e diventano uno con lo stesso Punto, e con quello stesso Uno che il Punto è, eppure restano sempre in se stesse nient’altro che linee che giungono al termine», il medesimo Punto già noto nell’antico oriente ed in cui lo Lo Yogi «senza alcuna relazione soggetto-oggetto conosce tutto, poiché esso comprende tutto in un punto (bindu) geometrico e in un istante (..). Il tempo è sprofondato nell’eternità».
«Quando solo il ricordo resterà a tener viva la realtà molteplice e profonda di questa guerra, tutti dovranno riconoscere che in un’Italia disorientata noi rappresentammo un indirizzo; che fummo, in un paese disunito, una forza che sapemmo, in un popolo senza più decisione, volere ed agire; e che avemmo, in una nazione senza scopi, un ideale e una bandiera. Qui stanno, per tutti i marinai della X, i motivi della loro esistenza»
Reparto Stampa Flottiglia Xa M.A.S., Noi, della «Decima», 1944
La calda estate del 1943 volge al termine...
Nelle puntate precedenti abbiamo visto l’invasione dell’Italia da parte degli angloamericani e l’ammucchiarsi delle tessere del P.N.F. e della M.V.S.N. negli angoli bui di qualche vicolo.
Ma in molti si preparano a dare l’assalto al potere e prendere possesso di Roma per trarre il massimo profitto dalla torbida situazione italiana architettata “ad arte”.
Ricorda Giorgio Pisanò a proposito dell’operato del Generale Giacomo Carboni e dell’appoggio da parte del Ministro della Guerra Antonio Sorice: «I primi contatti con i capi del PCI ebbero luogo alla fine di agosto e si concretizzarono ai primi di settembre. Per conto del PCI parteciparono agli incontri, che si tennero nella sede del Servizio informazioni militari, Luigi Longo, Giuseppe Di Vittorio e Antonello Trombadori. Nel corso di questi contatti il piano di Carboni acquistò forma e sostanza» (Giorgio Pisanò, Storia della Guerra Civile in Italia (1943-1945), Vol. I, Edizioni FPE, Milano 1966, p. 50).Image may be NSFW. Clik here to view.
Nell’agosto del 1943 Badoglio nomina Giacomo Carboni (Reggio Emilia 1889 – Roma 1973) Commissario straordinario del S.I.M. (Servizio Informazioni Militari), il cui compito è anche di occuparsi di organizzare la difesa di Roma in caso di occupazione da parte delle truppe tedesche.
Inoltre, in previsione di attaccare i Tedeschi presenti nella Capitale: «Carboni aveva pensato di costituire delle squadre d’assalto, formate di comunisti, alle quali affidare il compito di attaccare, qualche ora prima dell’annuncio di resa, gli alberghi e gli edifici che ospitavano i tedeschi. L’attacco avrebbe dovuto svilupparsi nelle prime ore del mattino. Il segnale sarebbe stato dato dalla distruzione di tre alberghi, che squadre di genieri dell’8° Reggimento avrebbero minato nelle fondamenta durante la notte dopo essersi avvicinati agli obiettivi percorrendo le fogne. Perché il generale ritenne che squadre di comunisti fossero più indicate dei soldati e dei carabinieri in imprese del genere? La risposta è semplice: perché nelle file delle forze armate non era facile reperire degli individui pronti ad azioni che richiedevano la soppressione fredda e spietata di altri esseri umani. E l’attacco ai tedeschi doveva concludersi in una carneficina tale da stroncare di colpo ogni possibilità di azione germanica nella capitale. I comunisti, come è logico, accettarono subito la proposta di Carboni» (Ibidem, p. 51).
L’accordo è stabilito il 4 settembre, ma all’ultimo momento le azioni furono ben altre.
La sera, sempre a Roma, il Generale Giacomo Carboni consegna a un gruppo di partigiani, tra cui figurano Luigi Longo, Adriano Ossicini e Antonello Trombadori, due camion dell’Esercito Italiano carichi di armi e munizioni. Per quanto riguarda Carboni: «Mentre Bergamini va a fondo con la sua nave e i suoi uomini [affondamento della corazzata Roma. N.d.A.], a Roma Giacomo Carboni, commissario straordinario del Sim, si presenta in ufficio e vuota la cassaforte. Nove giorni prima Cesare Amé gli aveva passato le consegne e stilato un verbale dal quale risultava che in cassa c’era 1.980.893,95 lire in contanti, 7.500.000 di lire in vaglia bancari, valuta estera e monete d’oro per 2.828.369,30 lire. Sono cifre del 1943! Tutto sparito. Insieme a Carboni, volatilizzato. Nei giorni della catastrofe c’era chi cercava di salvare la dignità, chi scappava e chi tirava al quattrino. Il generale dell’Esercito Italiano Giacomo Carboni coniugava le ultime due categorie: scappava con i quattrini. Dopo la guerra, sulla sparizione della cassa del Sim venne condotta un’inchiesta affidata al generale Pietro Maravigna di cui non si è saputo mai niente. Chi ha cercato il fascicolo nell’archivio della Difesa non lo ha trovato» (Carlo De Riso, Roberto Fabiani, La Flotta tradita. La Marina italiana nella Seconda Guerra Mondiale, De Donato-Lerici Editori, Roma 2002, p. 240).
I “tre moschettieri”.
Chi sono i beneficiari delle “attenzioni” del Generale Giacomo Carboni?Image may be NSFW. Clik here to view.
- Luigi Longo (Fubine 1900 – Roma 1980), in gioventù aderisce al P.C.I. e partecipa alla Guerra di Spagna militando nelle Brigate Internazionali. Dopo l’8 settembre entra nelle Brigate Garibaldi; alla morte di Palmiro Togliatti diviene Segretario Generale del Partito Comunista Italiano.
- Adriano Ossicini (Roma 1920), è figlio di Cesare Ossicini, dirigente dell’Azione Cattolica e fondatore del Partito Popolare Italiano. Durante la Seconda Guerra Mondiale si avvicina al P.C.I. e assieme ad Amedeo Coccia e Lombardo Radice fonda il giornale Pugno Chiuso, clandestino.
- Antonello Trombadori (Roma 1917 – Roma 1993), tra il 1937 e il 1940 partecipa ai Littoriali della Cultura e dell’Arte. Durante la guerra s’iscrive al P.C.I., costituisce a Roma i G.A.P. (Gruppi d’Azione Patriottica); rimane nel P.C.I. fino al 1983, avvicinandosi poi al P.S.I. di Bettino Craxi.
7 settembre 1943.
Se il giorno 8 settembre 1943 la resa incondizionata del regno d’Italia agli angloamericani è prima annunciata a Radio Algeri dal generale statunitense Dwight David Eisenhower e poi all’E.I.A.R. (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche) dal maresciallo Pietro Badoglio, che cosa succede il giorno prima?
Apparentemente poco!
Il 7 settembre gli ufficiali statunitensi Generale Maxwell Davenport Taylor e il Colonnello William Tudor Gardiner, incaricati di esigere che l’armistizio venga annunciato per il giorno seguente, sono accolti a Roma dal Maggiore Luigi Marchesi e dal Colonnello Giorgio Salvi, questi alle dipendenze del Generale Giacomo Carboni. Nelle ore successive incontrano anche Carboni e Badoglio.
Ma la Storia non si esaurisce in questi pochi ultimi fatti, che sono semplicemente i più evidenti.
Per quanto riguarda i comandi angloamericani essi «decidono di non comunicare al generale italiano la data in cui l’armistizio verrà reso noto, né quella dello sbarco dei paracadutisti americani in difesa della capitale (operazione Giant2). Castellano però, in una lettera, comunica al generale Ambrosio che il generale Smith gli ha fatto capire che lo sbarco alleato avverrà tra il 10 e il 15 settembre, probabilmente il 12. Badoglio ed Ambrosio, convinti di avere ancora alcuni giorni a disposizione, si preoccupano per prima cosa di mettere in salvo parenti e beni [la figlia e la nuora di Badoglio sono a Losanna il giorno 7. N.d.A.] e, la sera del 7 settembre, quando giungono segretamente a Roma il generale Taylor e il colonnello Gardiner per comunicare che l’operazione avrà luogo la notte tra l’8 e il 9 settembre e prende accordi, il Maresciallo d’Italia non ha ancora predisposto alcun tipo di difesa. Badoglio, preso dal panico, invia un telegramma ad Eisenhower in cui afferma che non è più possibile accettare l’armistizio immediato e chiede un nuovo incontro. Eisenhower rifiuta, e l’intempestivo messaggio ha solo l’effetto di annullare l’operazione Giant2 l’8 settembre, mentre Badoglio rassicura l’ambasciatore tedesco Rahn che l’Italia continuerà la guerra accanto la Germania» (Solange Manfredi, Psyops. 70 anni di guerra psicologica in Italia, come ci hanno manipolato messi l’uno contro l’altro mandato in guerra terrorizzato per controllarci meglio, Solange Manfredi, 2014, p. 116). (1)
L’annuncio dell’armistizio sorprende, come più volte accennato, ogni reparto del Regio Esercito Italiano operante tanto in patria quanto all’estero, lasciando ufficiali e soldati privi d’ogni ordine militare e specifici piani anche nei giorni seguenti.
Al chiaro e comprensibile plauso dei civili per la presunta cessazione delle ostilità fa seguito la presa di coscienza: comunque è in corso una guerra mondiale e l’Italia è già stata invasa dall’esercito angloamericano.
Dal Re d’Italia, al Capo del Governo Italiano e al Comando Supremo Italiano, nessuno di costoro si assume la responsabilità, o meglio il dovere, di diramare specifici ordini, circostanziate disposizioni né ai militari né tantomeno alla popolazione civile. In pratica nessuno spiega come ci si debba comportare, innanzitutto, nei confronti di nemici e alleati, o ex nemici ed ex alleati.
A proposito della sera dell’8 settembre Sergio Nesi ha scritto che Borghese ha chiesto all’ammiraglio Aimone, già duca di Spoleto, duca d’Aosta e cugino del Re, di essere ricevuto con urgenza. Costui dichiara di non sapere alcunché dell’armistizio: «Tra il duca d’Aosta, gli ufficiali che erano accorsi accanto a lui e il Comandante Borghese si intavolò allora una discussione sul da farsi. Mentre venivano fatte proposte del tutto empiriche e fantasiose, testimonianti il generale disorientamento, il Comandante Borghese fu pragmatico: “Armistizio significa che la guerra è momentaneamente sospesa. Può ricominciare o venire la pace. In ogni caso, il nostro solo e preciso dovere consiste nel restare con le armi al piede”. Il duca approvò in pieno. Poi ci pensò un attimo per poi esporre un suo fulmineo “distinguo”, quello che quel dovere, se andava bene a Borghese che era solo un ufficiale, non andava bene a lui. Stesse pure con le armi al piede con i suoi marinai, lui no. Lui era un principe di Casa Savoia e la sua posizione dinastica gli imponeva dei doveri che, sempre secondo lui, erano superiori a quelli militari. “In caso di emergenza – proseguì il duca – il mio dovere mi impone di accorrere subito a fianco al Re. Anzi, sarà opportuno che io sappia subito dove è il sovrano e dove possa raggiungerlo”. Ma dov’era il Re?» (Nesi Sergio, Junio Valerio Borghese un Principe un Comandante un Italiano, op. cit., p. 210).
Il Re si era già dileguato assieme a Badoglio e con altri ufficiali e il giorno seguente, il 9 settembre: «Sua Altezza Reale l’ammiraglio di squadra Aimone di Savoia-Aosta era già in alto mare da oltre due ore» (Ibidem, p. 212).Image may be NSFW. Clik here to view.
“Boia chi molla!”
All’alba del 9 settembre 1943 Junio Valerio Borghese affida a von Martinez una lettera da consegnare al Generale Friedrich-Wilhelm Hauck, Comandante della 305a Divisione di fanteria di stanza a La Spezia: «“Questo è il Comando dei Mezzi d’Assalto della Marina Militare Italiana. Il Comandante della Flottiglia dà la sua parola d’onore di soldato che non prenderà le armi contro i tedeschi e chiede l’onore di poter conservare il suo comando e le sue armi fino a quando sia stato raggiunto un accordo con le Autorità Tedesche”» (Sergio Nesi, Junio Valerio Borghese un Principe un Comandante un Italiano, Editrice Lo Scarabeo, Bologna 2004, pp. 212-213).
Scrive Sergio Nesi a ricordo del giorno 9 settembre: «Come se non fosse successo nulla, il trombettiere suonò l’adunata per l’alzabandiera. Gli ufficiali, i sottufficiali e i marinai si schierarono su di un lato del piazzale; l’ufficiale di picchetto per quel giorno, il guardiamarina Kalby (un sardo del reparto “gamma”) avanzò con il picchetto d’onore tenendo tra le braccia la Bandiera, ma avendo nella mano destra un paio di forbici. Si fermò davanti al pennone (che si scorge ancora dalla strada), spiegò il telo a metà e, senza profferire parola, tagliò dal bianco centrale lo stemma di Casa Savoia. La X Flottiglia M.A.S. aveva troncato i ponti con la Monarchia alle ore 08.15 del 9 settembre 1943» (Ibidem, p. 214).
Successivamente: «Il 12 settembre (quindici giorni prima che nascesse lo “Stato Nazionale Repubblicano”, prima denominazione della Repubblica Sociale Italiana) avvenne un fatto nuovo, una sterzata decisiva, imprevista e imprevedibile nella storia della ‘Decima’ di quei giorni. Era giunto a La Spezia per prendere il comando della Marina tedesca anche in quella base navale il capitano di vascello Max Berninghaus. Questi aveva assunto l’incarico di Kapitän zur See e Seekommandant Italien Riviera, ponendo il suo comando a Genova-Nervi e La Spezia era di sua precisa competenza. Era quindi la massima autorità della Kriegsmarine in Liguria e il suo superiore diretto era il Konteradmiral Meendsen-Bohlken. Il fatto che, appena arrivato, abbia voluto prendere immediati contatti con il Comandante della X Flottiglia M.A.S., lascia intendere che aveva avuto ordini precisi per farlo e tutto lascia supporre che quegli ordini glieli avesse impartiti o il governo tedesco o il Grossadmiral Dönitz in persona, con ampia delega» (Ibidem, p. 222).
La guerra continua accanto alla Germania.
Junio Valerio Borghese dichiara che la collaborazione con le Forze Armate della Germania sarebbe avvenuta a precise condizioni, secondo un preciso trattato.
Il 14 settembre 1943 a La Spezia il Comandante Junio Valerio Borghese e il Tenente di Vascello Max Berninghaus, il quale rappresenta la Kriegsmarine (Marina Militare tedesca), firmano l’accordo in cui si riconosce che la Xa Flottiglia M.A.S. combatterà al fianco delle Forze Armate tedesche e da esse dipenderà il suo impiego operativo.
Scrive il Comandante Borghese nel suo memoriale redatto subito dopo il termine della guerra: «Tale accordo è di capitale importanza, in quanto chiarisce e delimita perfettamente le funzioni della Xa nel quadro generale: gli accordi rimasero in vigore per 20 mesi – e non furono modificati neppure quando – sorto il governo della repubblica – questa concordava con i germanici altri accordi riguardanti lo statuto delle FF. AA. italiane. In base all’accordo, la Xa Flottiglia MAS – veniva riconosciuta da tutte le autorità germaniche:
Quale unità complessa militare navale italiana – con completa autonomia nel campo logistico, organico, della giustizia e disciplina, amministrativo.
Alleata delle FF. AA. germaniche, e quindi con parità di diritti e doveri.
Batte bandiere[a] da guerra italiana.
È riconosciuto a chi ne fa parte il diritto all’uso di ogni arma.
Il Comandante Borghese ne è il capo riconosciuto – con i diritti ed i doveri inerenti a tale incarico.
Con tale accordo ha nascita ufficialmente la Xa Flottiglia MAS post-armistizio» (Junio Valerio Borghese, La Xa Flottiglia MAS, Effepi, Genova 2016, pp. 18-19).Image may be NSFW. Clik here to view.
Guido Bonvicini, che è stato marò nel Battaglione Lupo, riporta una analoga versione del testo dell’accordo, ma in sei punti:
«La Xa Flottiglia MAS è unità complessa e appartiene alla marina militare italiana, con completa autonomia nel campo logistico, organizzativo, della giustizia e disciplina, amministrativo.
È alleata alle FF. AA. germaniche con parità di diritti e di doveri.
Batte bandiera da guerra italiana.
È riconosciuto a chi ne fa parte il diritto all’uso di ogni arma.
È autorizzato a ricuperare e armare, con bandiera ed equipaggi italiani, le unità italiane che si trovano nei porti italiani, il loro impiego operativo dipende dal Comando della Marina germanica.
Il comandante Borghese ne è il capo riconosciuto, con i diritti e i doveri inerenti a tale incarico» (Guido Bonvicini, Decima Marinai! Decima Comandante!, Ugo Mursia Editore, Milano 1988, p. 16).
Bonvicini comunque specifica che il testo dell’accordo non è mai stato reso integralmente pubblico durante la guerra e che la «prima pubblicazione, nel 1950, fu opera di Franz Turchi (Turchi Franz, Prefetto con Mussolini, Latinità, Roma 1950, p. 31), allora capo della provincia di La Spezia, che per la sua posizione poteva averne conosciuto direttamente i termini: 1. La Xa Flottiglia Mas viene riconosciuta dalle forze germaniche quale unità militare navale della Marina italiana, completamente autonoma dai tedeschi nel campo logistico, amministrativo e della giustizia e disciplina in base all’alleanza in atto fra i due paesi; parità di diritti e di doveri con le FF.AA. tedesche. 2. La Xa batte bandiera da guerra italiana. 3. Ha diritto di sovranità su tutti i materiali da guerra e di naviglio abbandonati dalla Marina italiana. 4. È riconosciuto a chi ne fa parte il diritto dell’uso delle armi. 5. Il comandante Borghese ne resta il capo riconosciuto con i diritti e i doveri inerenti a tale incarico» (Ivi).
Sergio Nesi scrive invece: «1. La X Flottiglia M.A.S. appartiene alla Marina Italiana, veste uniforme italiana. I suoi uomini, se dovessero presentarsene le circostanze, saranno giudicati da tribunali italiani; 2. La X Flottiglia M.A.S. batte bandiera italiana; 3. Tutte le unità navali già in possesso della X Flottiglia M.A.S. all’8 settembre 1943 tornano in possesso dell’unità; 4. La X Flottiglia M.A.S. è alleata del Reich germanico e dipende operativamente dal comando germanico; 5. Il Capitano di Fregata Junio Valerio Borghese è riconosciuto Comandante della X Flottiglia M.A.S.» (Nesi Sergio, Junio Valerio Borghese un Principe un Comandante un Italiano, op. cit., pp. 224-225).
Dallo specifico punto di vista del Comandante Borghese la guerra va proseguita accanto alla Germania, dove per effetto di tale alleanza in Italia e all’estero i militari italiani stanno combattendo accanto ai camerati tedeschi. Difatti il soldato tedesco non è considerato, o da considerarsi, un invasore. Pertanto Borghese, dopo aver ottenuto dal Comando tedesco la possibilità di combattere a pari titolo e dignità, con la costituzione della Xa Flottiglia M.A.S. e unitamente ai suoi collaboratori, promuove il proseguimento della guerra e chiama alle armi, nello specifico nelle fila della Xa Flottiglia M.A.S., nuovi combattenti: i Volontari.
Mario Arillo diviene il Vice Comandante della Xa Flottiglia M.A.S. e l’unità è raggiunta anche da altri combattenti di spicco: il Maggiore del Genio Navale Umberto Bardelli e il Sotto Tenente paracadutista Mario Bordogna.
La Xa Flottiglia M.A.S. diviene una realtà militare, non politica e non politicizzata, che rimarrà estranea alla riorganizzazione del nuovo Partito Fascista nella costituzione della Repubblica Sociale Italiana. Questo creerà non pochi problemi al Comandante Borghese.
Sulle peculiarità tecniche raggiunte in quel periodo dall’esercito è bene ricordare che cosa scrive Giorgio Pisanò: «In molti reparti della RSI (in particolar modo in quelli della Decima MAS e degli arditi paracadutisti dell’aeronautica), si riscontrano delle novità organiche tali da determinare un tipo di impiego assolutamente nuovo per quei tempi e realizzato poi, ma solo a distanza di anni, dagli eserciti moderni: gruppi tattici e raggruppamenti tattici; reparti pluriarma e plurispecialità in unità dell’ordine di battaglione e addirittura di compagnia; decentramento massimo delle armi controcarro e controaeree fino a livello di compagnia; massima autonomia logistica e operativa di molti reparti che potevano così costituire delle piccole-grandi unità autosufficienti soprattutto dal punto di vista logistico. Non solo: si nota, inoltre, il comparire di unità che anticipano le Special Forces americane attraverso l’istituzione di nuclei propaganda e stampa e di unità per la guerra psicologica anche in reparti a livello di reggimento; l’esistenza di speciali reparti di ardimento sul tipo Rangers statunitensi, e persino di formazioni “arditi ufficiali” (rau), del tutto simili ai reparti d’“ardimento” oggi realizzati dall’esercito italiano presso la scuola di Cesano. Di estremo interesse anche la costituzione del Servizio Ausiliario Femminile, pienamente allineato, in quanto a strutturazione organica e funzionalità, con i similari servizi ausiliari di altri eserciti. Fondamentale, infine, l’accentramento, al vertice, dei dicasteri della Guerra, della Marina e della Aeronautica in un unico ministero della Difesa Nazionale, il che portava al massimo coordinamento di tutte le Forze Armate» (Giorgio Pisanò, Storia della Guerra Civile in Italia (1943-1945), Vol. II, Edizioni FPE, Milano 1966, p. 621).
L’Esercito di Campagna era composto da: 1a Divisione Bersaglieri Italia, 2a Divisione Fanteria Littorio, 3a Divisione Fanteria di Marina San Marco, 4a Divisione Alpina Monterosa. Inoltre, come riporta Giorgio Pisanò, vi erano Unità non indivisionate, Reparti non indivisionati, la Guardia Nazionale Repubblicana (G.N.R.), la Marina Repubblicana, la Xa Flottiglia M.A.S., l’Aeronautica Repubblicana, le Brigate Nere, la Legione Autonoma Mobile Ettore Muti, il Servizio Ausiliario Femminile (S.A.F.) (Corpo Femminile Volontario per i Servizi Ausiliari delle Forze Armate Repubblicane), le Fiamme Bianche.
Inoltre: «Su tutto il territorio della RSI si organizzarono dei reparti con personale volontario delle classi 1927 – 28 – 29 – 30 – 31 – 32 denominati, dal colore delle mostrine, fiamme bianche e destinati all’assistenza della popolazione. Gran parte di questi giovanissimi però, circa 5000, si arruolarono nelle FF. AA. e le loro perdite, sia al fronte che dopo il 25 aprile, furono ingenti. Le fiamme bianche cadute sul campo furono 147» (Ibidem, p. 639).
Numerosi italiani si arruolano nelle Waffen SS (SS Combattenti), mentre altri vanno a costituire la “Legione SS italiana”.
Note 1) Ecco il testo letto da Badoglio la sera dell’8 settembre 1943:
«Il Governo Italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al Generale Eisenhower Comandante in campo delle forze Alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le Forze anglo-americane deve cessare da parte delle Forze Italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza» (Il Messaggero, 9 settembre 1943, p. 1. L’annuncio originale è ascoltabile in Internet: http://video.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/badoglio-annuncia-l-armistizio-dell-italia/139334/137875).
Stavo guardando mio Padre appena tornato dalla miniera, sporco di carbone, mentre si spogliava per entrare nella tinozza preparata in cucina perché potesse lavarsi.
Era un uomo vigoroso, e lo guardavo pieno di ammirazione e di amore, simulacro di quella forza che avrei voluto possedere.
Mia madre mi prese da parte e mi disse:
- Vedi quell’uomo sporco, tu non dovrai mai essere come lui, tu dovrai diventare un intellettuale, un signore.
Libera interpretazione dello scritto autobiografico di David Herbert Lawrence
***
Gli rispose il paziente, glorioso Odisseo:
Non sono un dio:
perché mi paragoni agli immortali?
Io sono tuo padre,
quello per cui singhiozzi e soffri tanto,
tormentato dalla violenza dei tuoi nemici.
Detto così, baciò il figlio,
e dalle sue guance scorrevano a terra
le lacrime che fino allora aveva trattenuto”. (XVI, vv. 186-191 )
Il ritorno di Ulisse.
***
“Non riesco a pensare ad alcun bisogno dell'infanzia altrettanto forte quanto il bisogno della protezione di un padre.”
Sigmund Freud
***
“E ancor curioso, e volessero gli Dei Maestro, che tu conoscessi la risposta,
Che nel parlar dell’anima mi appare come un’ombra la reminiscenza del Padre mio, di cui nulla so…
Di mia Madre, Alcmena, posso dirti tutto, ma di mio Padre nulla!
Vuoto,
E vuoto di nulla,
Come per l’anima…
Solo un’intuizione lontana,
Un ricordo di un ricordo…
Che non ricordo più.”
Danilo Leo Lazzarini: Ercole, La quinta Prova.
***
L’uomo è Padre e il Padre è uomo.
L’uomo è appartenenza al concetto primo di Padre e, parlando di concetti, viene d’obbligo parlare di archetipi, l’uomo è figlio materiale e spirituale dell’archetipo Padre, se vuoi distruggere l’uomo distruggi il Padre.
Nell’uomo, l’atto di essere Padre si discosta dalla mera paternità genetica, non si parla di questo, perché poca cosa sarebbe nei riguardi di ciò che significa essere Padre e, al di sopra e al di là delle analisi del DNA, la paternità si situa nell’empireo delle relazioni sublimi nate da un atto squisitamente volontario che riconosce nel procreato il proprio figlio.
Ogni figlio, per un Padre nasce esterno, un qualcosa d’altro, che conosce solo attraverso la donna con cui ha lo ha generato, nulla di carnale esiste in questo rapporto se non l’atto di volontà che assume la responsabilità di aver gettato uno spirito in una carne e che fa dire all’uomo “tu sei mio Figlio” e solo e soltanto in quell’esatto momento, l’uomo diventa Padre.Image may be NSFW. Clik here to view.
La figura del Padre nasce con la società degli Uomini, dubito che in natura esista una figura simile, perché essa ha bisogno di una potente consapevolezza e non credo, o non mi sento di affermare se non nella bruta formula genetica, che possa esistere nel regno animale.
Quindi l’uomo è appartenenza al Padre archetipico perché per essere Padre deve interpretare il principio “agente” che si contrappone, completandolo, al principio “patente” della Madre.
Azione e passione due opposti che si completano alla ricerca di un fine che abbia un senso nella duplicità, maschio e femmina, o meglio uomo e donna, l’indissolubile uno che trasla nel molteplice due fino alla formazione dell’ineffabile tre.
E l’uno, in questo suo essere indefinibile nasconde tutta la sua essenza contrapponendosi alla fin troppo evidente Madre la quale sempre certissima si trova ad essere.
Mater semper certa est…
Mantra Invocato e recitato con aria ieratica da coloro che sventolano una violenza di genere, affermando la poca conoscibilità del padre, nel tentativo di svilirne la figura considerata oppressiva e desueta, figura da affidare alla damnatio memorie, perché simbolo primo dell’oppressore.
Costoro, in realtà, ne sottolineavano l’estrema potenza concettuale, ponendo la figura del Padre in un ambito non raggiungibile da lacci e catene, perché posto nell’empireo dello spirito e della volontà e, in tale sito non può essere toccato neanche dalla più bieca ignoranza, neanche di quella che negando se stessa o non avendone computo, si esalta nella formulazione di strutture ideologiche atte a negare una qualsiasi possibilità di emancipazione dalla sfera dell’animale.
Ed è proprio in quel tentativo sottolineante l’incertezza della paternità, che si racchiude la chiave di lettura della figura archetipica.
In quel seme nascosto, in quell’atto lontano e discontinuo, nel grembo-terra, trova sviluppo e nutrimento quella vita che ha, però, come incipit qualcosa di diverso collegante al principio creatore, vivificante e fecondante, senza il quale la terra-grembo sarebbe svilita e sterile.
Quel seme che ricorda all’albero la sua origine, nascosta, e per questa concettualmente esoterica, in quel grembo che per la sua evidenza non può essere negato ma che nasconde per la sua esuberanza exoterica il principio altro.
Proprio quel seme ricorda la sottile essenza alchemica che contrappone la materia allo spirito, o meglio ne crea la sintesi.
E così nel seme si ritrova lo spirito insufflantesi nella materia, sganciando la materia stessa dall’essere solo massa, fecondata da un qualcosa che ne emancipa la sostanza.
Nel Padre quindi, si pone la figura che ricorda all’Uomo che la sua origine non è solamente quantificabile ma è sottilmente qualificabile.
Senza la figura del Padre l’origine viene nascosta o dissimulata dal “troppo evidente”, e si badi bene, non parlo puramente di un padre umano efficiente o meno, ma della figura stessa e del valore spirituale che una società dovrebbe e deve tributare al Padre.
Distruggendo il Padre io distruggo l’origine altra.
Se volessi distruggere l’uomo, io prima distruggerei il concetto di Padre, perché uomo e Padre sono la stessa cosa.
Alla fine tirerei un colpo ferale anche all’idea stessa di creatore, al ineffabile principio fecondante che nascosto nel invisibile agente dichiara all’universo il nostro essere cielo e non solamente fango.
In ultima analisi:
Se vuoi distruggere il creatore, distruggi il Padre.
“E’ semplicissimo. Vogliamo vincere. Vogliamo vincere perché sentiamo di essere degni della vittoria. Più ancora, perché il Paese attende da noi una parola rinnovatrice ed un’azione conclusiva, che realizzi quanto è contenuto nelle nostre premesse” (1)
DALLE PIAZZE AL PARLAMENTO
Contro ogni pregiudizio scaramantico, col numero 17, in edicola il 30 aprile, “L’Assalto” diventa quotidiano, e cambia la sottotitolazione da “Periodico del fascio bolognese di combattimento” nel più pretenzioso: “Quotidiano del Fascismo”. La scelta evidentemente ha carattere squisitamente elettorale: mancano 15 giorni al giorno del voto, e l’esigenza di potenziare al massimo gli strumenti di propaganda prevale sulla prudenza che le non rosee finanze suggerirebbe.
Nulla va trascurato, perché, alla vigilia del voto, si profila anche il rischio che i colleghi di lista del Blocco, più rodati nei maneggi schedaioli, riescano ad imbrogliare le carte. Il richiamo alla massima attenzione è, in questo senso, fermo e preciso:
“A tutti i fascisti !
In questo periodo di lotta elettorale, tutte le vecchie ambizioni delle vecchie camarille si sono scatenate, e dappertutto si tenta, in tutti i modi, di sfruttare il movimento dei Fasci di Combattimento, salvo poi a SABOTARE I CANDIDATI FASCISTI nei voti di preferenza.
Mettiamo in guardia tutti i Fasci e tutti i Nuclei fascisti, perché non si prestino al subdolo gioco, perché tengano costantemente l’effettiva direzione della lotta elettorale dappertutto, escludendo inesorabilmente gli elementi non fidati.
Tutti Fasci ed i fascisti hanno il dovere sacrosanto di favorire I LORO CANDIDATI e di attenersi scrupolosamente agli ordini che giungeranno dal Direttorio dei Fasci. Chi manca a questo sacrosanto dovere di DISCIPLINA tradisce la causa del Fascismo che è la causa d’Italia. Lavoro assiduo, sorveglianza costante e direzione nella lotta, disciplina.
ECCO IL SEGRETO DELLA NOSTRA VITTORIA FASCISTA.” (2)
I candidati di Bologna sono Arpinati, Baroncini, Grandi e Oviglio, mentre quelli di Ferrara sono Mussolini e Gattelli. Assente dalla competizione, per sua scelta, Balbo, che pure sarebbe plebiscitariamente eletto, per la fama che si è conquistato in pochi mesi.
Comunque, per il momento, a fare premio su ogni alchimia elettorale è l’urgenza degli avvenimenti. La prima pagina dello stesso numero 17 del giornale è interamente intitolata a Amos Maramotti, diciottenne studente di Reggio Emilia, a Torino per motivi di studio, caduto durante l’assalto alla Camera del Lavoro cittadina.Image may be NSFW. Clik here to view.
Episodio noto, e che non è qui il caso di riepilogare, se non per un particolare, che tale non è, perchè rivelatore dello “spirito” che anima questi ardimentosi. Maramotti, infatti, quasi per tragico presentimento, prima di partire per l’azione, ha scritto un biglietto alla madre, nel quale è detto: “Mamma, vado forse a morire. Non piangere, ma sii orgogliosa di tuo figlio. Viva L’Italia ! Viva il fascismo “
È proprio la tragica fine del giovane squadrista a segnare la differenza tra questo episodio e quanto avvenuto il 4 novembre dell’anno prima a Bologna. Per il resto, il piccolo numero, le modalità dell’azione, che conosce, in ambedue i casi, una forte reazione degli avversari, lo stesso obiettivo prescelto, segnano una costante di comportamenti tanto arditi e fino allora “impensabili”, quanto approssimativi nell’organizzazione, che contrassegnerà tutta la stagione rivoluzionaria.
Ciò che è certo è che a Torino, come nel capoluogo emiliano, un’azione si dimostra più risolutiva di mille parole: dal giorno 26, in città, il pericolo bolscevico sarà ridimensionato e non spaventerà più nessuno.
I fascisti di tutta Italia non potranno non trarne insegnamento.
La campagna elettorale bolognese scorre, in verità, abbastanza tranquilla, così che il giornale può orgogliosamente affermare, sul numero 19: “In città non trovate più un bolscevico, a cercarlo col lanternino”, né modifica più di tanto la situazione qualche non gravissimo incidente che si verifica qua e là nei paesi, ultimo residuo di regolamenti di conti ancora in sospeso.
Contro il Primo maggio socialista, manifestazioni si tengono, in molti centri della provincia, in occasione del 21 aprile, per celebrare quel “Natale di Roma” che, proprio a Bologna, il 3 aprile, Mussolini ha indicato come “giornata fascista” destinata a sostituire la tradizionale Festa del Lavoro.
Nella ventina di giorni che precedono la consultazione vera e propria, è quasi impossibile tenere il conto dei comizi fascisti in tutta l’Emilia. Essi, infatti, raggiungono anche i centri più piccoli, e talora si accompagnano alla costituzione di Fasci locali. In prima fila, instancabili, sempre Oviglio, Baroncini e Grandi.
Quest’ultimo ha un rapporto controverso con la base squadrista, che, da un lato resta diffidente verso la sua scarsa propensione all’azione (nella quale il primo attore resta il “silenzioso” Arpinati), ma dall’altro ne subisce il fascino oratorio e culturale.
Le sue posizioni di “sindacalista integrale” lo rendono invece poco gradito alla parte più conservatrice del Blocco elettorale, tanto che lo stesso giornale deve, sul numero 24 del 9 maggio, dedicargli un trafiletto (a lui, che ne è il Direttore !) contro “il malumore di quelli che, ai tempi della raffica bolscevica, non seppero far nulla di meglio che tapparsi nel proprio stabbio e tremar verga a verga”.
In effetti, quella che si svolge all’interno dello schieramento “nazionale” è una contesa aspra, che in parte si estende al campo fascista, dove vede contrapposti (anche con qualche venatura personalistica) Arpinati e Grandi, principali rappresentanti di due schieramenti che hanno le stesse motivazioni ideologiche di fondo, ma evidenziano sfaccettature diverse che sfuggono ad ogni tradizionale classificazione precedente.
Così, con Arpinati, pragmatico e sostenitore della priorità del Partito, si schierano insieme squadristi e sindacalisti della Camera Sindacale del Lavoro (potremmo dire, a sciabolate, uomini di una “nuova sinistra”), insieme – e questo non può non apparire strano ad un osservatore superficiale – a qualche esponente della destra fascista che spera di riuscire a “pilotare” l’azione “militare” dell’impetuoso capo.
Con Grandi, non molto gradito agli squadristi, come si è detto, ci sono i sindacalisti “di base” (ivi compresi molti che già furono delle vecchie associazioni leghiste e cooperative, che i vecchi modelli vogliono riproporre), mentre contro si mobilita la destra fascista e fiancheggiatrice, nonché i “giovani liberali” capitanati da Giuseppe Cangini e Giuseppe Osti.
Per ora, comunque, la campagna elettorale va avanti, e proprio Baronicini, che fu già sindacalista nella natia Imola, è protagonista di una vicenda personale i cui contorni restano non ben chiariti. La conclusione è che, con una lettera al Fascio, pubblicata integralmente da “L’Assalto”, e poi riprodotta in ogni numero, fino al giorno delle elezioni, egli – che pure è uno dei più attivi esponenti fascisti, con più di una chance di elezione – ritira la sua candidatura:
“Carissimi amici del Fascio di combattimento,
per un sentimento di disciplina accettai la candidatura fascista da voi offertami, ma per lo steso sentimento di disciplina e di attaccamento per il Fascio credo mio dovere ritirarmi dalla lotta per ridurre quanto più è possibile il numero dei candidati fascisti sui quali dovranno essere concentrate le preferenze di tutti coloro che riconoscono al Fascio di combattimento il merito di aver salvato il nostro Paese dal dissolvimento e dalla catastrofe.
In quest’ora tutti i vecchi Partiti e le vecchie consorterie tentano di sfruttare l’opera fascista e di sabotare i nostri candidati, ma io sono sicuro che il corpo elettorale, nel suo illuminato discernimento, saprà, con in voti di preferenza, designare a propri rappresentanti coloro che, con la loro intelligenza e col braccio prepararono questi giorni di rinascita nazionale.
La mia modesta opera rimane però tutta per voi, fino all’ultimo.
E faccio voti perché questa nostra battaglia segni una nuova gloriosa tappa del fascismo italiano.
Fraternamente, Bologna 6.5.21 “ (3)
Un gesto sicuramente generoso, in pratica teso a favorire, con la concentrazione delle preferenze, Dino Grandi, esponente di spicco di quella corrente di “democrazia rurale” nella quale il dimissionario si riconosce.
Sul piano normativo è da ritenere che il ritiro della candidatura non sia in sé produttivo di effetti, e valga, piuttosto, sul piano politico, come indicazione di “non voto” agli elettori. Infatti, la lista del Blocco Nazionale che il giornale riproduce praticamente su ogni numero, fino al giorno precedente il voto, continua a comprendere il nome del “rinunciatario”. Nel dettaglio, essa è così composta:
“Arpinati Leandro (fascista) – Baroncini rag. Gino (fascista) – Biagi avv. Bruno (combattente) – Cangini avv. Giuseppe (liberale) – Carlotti avv. Asvero (liberale) – Franchi avv. Guido (liberale) – Colliva avv. Cesare (liberale) – Gattelli barbato (fascista) – Grandi avv. Dino (fascista) – Levi ing. Giorgio (per i tecnici) – Manaresi avv. Angelo (combattente) – Mantovani ing. Vico (agrario) – Mussolini prof. Benito (fascista) – Orlandi avv. Antonio (radicale) – Oviglio avv. Aldo (fascista) – Pavone colonnello Giuseppe (combattente) – Pini Aldo (mutilati-tecnici) – Sitia prof. Pietro (liberale) – Tumedei dott. Cesare (nazionalista) – Tumiati prof. Leopoldo (combattente)” (4)
“LE LEGNATE FASCISTE SI SENTONO ANCHE AL KREMLINO DI MOSCA”
Sul numero dell’11 maggio del giornale appare un curioso articoletto, che riprende una corrispondenza da Zurigo del “Il Popolo d’Italia”, riferita ad uno scritto di Lenin apparso su “La Pravda”. Nel suo pezzo, il leader bolscevico, dopo aver lamentato il sacrificio inutile di “ingenti somme spese per la propaganda bolscevica” sembra prefigurare un esito non positivo delle prossime elezioni italiane, e quasi rinviare al futuro la ripresa del sovversivismo nazionale:
“Potranno entrare nella nuova camera 50 Deputati socialisti in meno – dice Lenin – ma il malcontento resta, la borghesia malata non sarà mai in grado di farlo cessare, e il popolo deluso tornerà a noi tra non molto, se sapremo comportarci in modo da riguadagnare la sua fiducia”. (5)
“Le legnate fasciste si sentono – a quanto pare – anche al Kremlino di Mosca. Si direbbe che il “divo” bolscevico è in uno stato d’animo piuttosto negativo per quanto concerne il pussimo italiano. Notiamo l’ammissione leniniana circa l’invio di forti somme in Italia. Denaro speso male, ha l’aria di pensare il dittatore non più del tutto bolscevico.
Quanto poi alle previsioni per il futuro, chi vivrà vedrà, e a vedere non sarà precisamente Lenin e i suoi gregari d’Italia.“ (6)
In verità, a Bologna e provincia, non è più tempo di “legnate”. Meno di quattro mesi sono bastati per polverizzare l’organizzazione di Leghe, Case del Popolo, Cooperative e Camere del Lavoro che sembrava invincibile, e autorizzare la rivincita di chi ieri fu costretto a subire.
Così, il rurale obbligato alla sera a passare alla sede della Lega, offrire da bere a tutti i presenti, e bere lui stesso, mentre legge, ad alta voce, l’articolo di fondo dell’Avanti, si toglie ora lo sfizio di far ingurgitare qualche cucchiaio di olio di ricino al prepotente che lo aveva ieri perseguitato, perché è sicuro dell’intervento di supporto, se occorre, della squadra fascista del paese.
La stessa squadra che se la ride, mentre vede sfilare i fifoni del “biennio rosso” che hanno preso coraggio, e se ne vanno cantando, sotto le poche residue bandiere con falce e martello esposte a qualche finestra: “E quando comandavi - a letto ci mandavi - ed ora che si comanda - a letto ti si manda”.
Beghe paesane che sono “anche” politiche, e che si possono rimandare ad altro momento. L’impegno ora è quello di arrivare ad un successo nelle urne. Le raccomandazioni “tecniche” ai rappresentanti del Blocco, invitati “in caso di osservazioni a rivolgersi sempre cortesemente, e con sangue freddo, al presidente del seggio”, si alternano ad un linguaggio militaresco, quasi si tratti di una battaglia della guerra appena conclusa.
Sul numero 26 del 12 maggio, il gergo trincerista è ripetuto due volte:
“Mobilitazione fascista
Nei giorni di venerdì, sabato e domenica (13,14 e 15 corr.) tutti i fascisti sono obbligati a passare alla sede (via Marsala 30) a prendere ordini.
Nessuno manchi.
.....
Ai cittadini elettori ricordiamo l’obbligo di recarsi a votare domenica 15 p. v. corrente.
Considereremo alla stregua dei disertori coloro che, per indolenza o per vigliaccheria, non si recheranno alle urne. Le nostre squadre vigilano. In guardia !” (7)
La chiusura della campagna è, in pratica, affidata a Grandi, mentre Arpinati è assente anche perché malato, come informa il giornale, per evitare ogni insinuazione, e specificando che trattasi di malattia che “pur non investendo alcun carattere di gravità, lo tiene obbligato al letto”.
Il discorso dell’avvocato imolese, pubblicato in prima pagina, e accompagnato dalla definizione di “forte”, affronta tutti i temi sul tappeto, dalla crisi dello Stato alla politica estera, dai rapporti tra Fiumanesimo e Fascismo alla prospettiva di una “nuova democrazia”.
Soprattutto, però, vi è la volontà dell’oratore di “spiegare” che cosa è il Fascismo:
“L’insurrezione fascista ha, infatti, gli stessi caratteri della Rivoluzione romantica dell’800. Essa è stata compiuta da due forze distinte: dalla giovinezza combattente che, tornata esausta e delusa dalla guerra, di fronte al tradimento perpetrato dalle classi dirigenti la nostra politica e la nostra economia, e di fronte allo sfruttamento demagogico ed al dileggio del combattente, ha ritrovato ad un tratto tutta l’antica fede mazziniana nel sacrificio.
E un’altra generazione, quella dei giovanissimi, gli adolescenti di ieri che hanno sentito nel Fascismo quel contenuto ideologico di cui erano ormai completamente prive le carcasse esauste dei vecchi partiti nazionali, e di cui tanto più è privo quel Partito socialista, il quale, nato dal più brutale determinismo storico, e dopo aver falsato perfino i suoi presupposti marxisti, si preparava ad instaurare in Italia una tirannide antiliberale e antisocialista....
Il Fascismo è stata una grande rivolta guelfa, ed il segreto della sua vittoria sta nell’intuito e nell’istinto che ha creato ad un tratto, nella parte migliore del nostro popolo, al di sopra di tutti i teoremi e di tutti i sillogismi filosofici, un’imperiosa necessità di salvare la razza dal dissolvimento e dalla decadenza più paurosa.” (8)
Che Grandi, e con lui tutto il Fascismo bolognese, conti molto sul discorso come decisiva carta per convincere anche gli incerti, lo dimostra il fatto che esso, oltre ad occupare l’intera prima pagina, è riproposto in un foglio allegato, come “supplemento”, probabilmente per il volantinaggio per le strade e la massima diffusione.
E, finalmente, le elezioni arrivano, e...passano. Sul giornale del 21 maggio, il primo dopo il voto, che torna alla sua vecchia periodicità settimanale, al centro della prima pagina, c’è l’elenco dei Deputati fascisti.
Elenco impreciso, che parla di 45 eletti, mentre fanno il loro ingresso in Parlamento solo 37 fascisti (35 eletti col Blocco Nazionale e 2 in liste autonome), ma l’errore poco conta, a fronte di ciò che sta per accadere.
Ad accendere la miccia è lo stesso Mussolini, con un’intervista, il 21 maggio, al “Giornale d’Italia”, nella quale prende di petto il problema istituzionale, affermando che il suo movimento non ha pregiudiziali monarchiche o repubblicane.
Posta così brutalmente, la questione della “tendenzialità” è destinata a provocare le proteste di alcuni dei neoeletti e dei Fasci del Mezzogiorno: a Bari, per esempio, duecento fascisti si dimettono. L’episodio, però, è destinato a rimanere isolato, mentre prevalgono nettamente le posizioni di appoggio al Capo.
Grandi, per esempio, dirà che, dopo l’ intervista, le adesioni allo squadrismo romagnolo raddoppiano, mentre Balbo il 30 maggio riunisce tutti i Segretari politici della sua zona, che manifestano pieno appoggio a Mussolini.
A Bologna, quindi, sintonia piena tra vertice politico e base squadrista. Ma non durerà molto....
NOTE
“L’Assalto”, numero 21 del 6 maggio 1921: “Vogliamo vincere”, in prima pagina
“L’Assalto”, numero 19 del 4 maggio 1921: “A tutti i fascisti”, in terza pagina
“L’Assalto”, numero 24 del 9 maggio 1921: “Il generoso gesto di Gino Baroncini”, in prima pagina
“L’Assalto”, numero 28 del 14 maggio 1921: “La lista del Blocco nazionale”, in seconda pagina
“L’Assalto”, numero 25 dell’11 maggio 1921: “Il rimpianto di Lenin per il denaro speso in Italia”, in prima pagina
Ibidem
“L’Assalto”, numero 26 del 12 maggio 1921, trafiletti in seconda pagina
“L’Assalto”, numero 26 cit.: “Il forte discorso dell’avv. Dino Grandi al teatro Comunale”, in prima pagina
Per chi scrive, il primo approccio con Profondo Rosso avvenne all’età di cinque anni. Ne adocchiai un abbozzo per televisione (era la metà degli anni ’80), abbastanza da rimanerne scioccato. La sequenza era quella in cui l’occhio scrutatore dell’assassino sbuca dalla più nera oscurità dell’appartamento di Amanda Righetti, la povera scrittrice cui verrà data una morte orribile con l’acqua bollente. La Righetti, come ricorderemo, è l’autrice del libro – chiaramente immaginario - Fantasmi di Oggi e Leggende Nere dell’età Moderna all’interno del quale è riportato il racconto di una misteriosa villa dove anni addietro era avvenuto un fatto di sangue legato a una canzoncina per bambini. In Profondo Rosso, così come in diversi altri lavori del regista, pensiamo alla trilogia zoonomica composta dai suoi primi tre lungometraggi, L’Uccello dalle Piume di Cristallo, Il Gatto a Nove Code e 4 Mosche di Velluto Grigio, l’occhio è un elemento fondamentale per comprendere la poetica argentiana. L’occhio pesantemente truccato dell’assassino, che si acconcia prima di “andare in scena” nelle sue cruenti scorribande dando libero sfogo al suo lato più recondito, alla sua parte Hyde, è il mezzo attraverso cui lo spettatore ha la possibilità di calarsi nella psiche malata di un individuo di cui non si conosce il sesso, ma di cui nondimeno viene dato di osservare i suoi feticci: coltelli, bamboline inquietanti, pupazzi diabolici e billie rotolanti, oggetti appositamente ingigantiti da un altro occhio, quello della speciale telecamera Snorkel, scelta dal regista per pervadere e suggestionare il più possibile l’occhio di chi osserva dall’altro lato dello schermo.Image may be NSFW. Clik here to view.
Addentrandosi nell’abitazione della sensitiva Helga Ullman, lo sguardo del protagonista Marc Daly, interpretato da un intoccabile David Hemmings, passa in rassegna una serie di lugubri quadri, abbacinanti rappresentazioni angosciose ad opera del pittore piemontese Enrico Colombotto Rosso (il colore nel cognome è del tutto casuale) rimanendo particolarmente impressionato da una composizione di volti per cui si convincerà di aver captato un particolare importante. Un po’ come succede al protagonista di Blow Up, in cui un medesimo Hemmings, ma con qualche anno in meno, scopre un dettaglio allarmante dall’ingrandimento di una foto. In Profondo Rosso, Marc non sa di essere uno spettatore vittima di una realtà ingannevole e invertita: egli vede sì un quadro, ma l’immagine da lui captata è solamente il riflesso di uno specchio. “Certe volte”, gli dice Carlo (un indimenticabile Gabriele Lavia), “quello che vedi realmente e quello che immagini si mischia nella memoria come un cocktail, del quale tu non riesci più a distinguere i sapori. No Marc, tu credi di dire la verità, e invece dici soltanto la tua versione della verità”.
In Profondo Rosso a predominare è l’aspetto onirico-surreale, dove tutto può sembrare il contrario di tutto e la logica finisce per essere inglobata dal senso dell’assurdo. Per paradosso l’assassino, pur essendo personificato da un’attrice ormai avanti con l’età (Clara Calamai aveva all’epoca 66 anni) possiede virtù infinite di ubiquità ai limiti dell’insensatezza; è in grado di insinuarsi nelle case delle sue vittime con una facilità indicibile, muovendosi con passo felino e armeggiando con gli interruttori della luce come se si trovasse contemporaneamente in più punti. Molti elementi paiono assurdi in Profondo Rosso, elementi tradotti però impropriamente - da critici e presunti tali - come veri buchi di sceneggiatura da cui dilagherebbe troppa irrazionalità. Il sangue è troppo corposo per sembrare vero; tralasciando l’epilogo, in cui Marta/Calamai si palesa agli occhi di Marc in tutta la sua natura folle e omicida, l’assassino presenta fattezze palesemente maschili ogni qualvolta entra in azione. Verrebbe quasi da pensare, a questo proposito, che a compiere gli omicidi sia più di un soggetto (si veda, ad esempio, l’omicidio Giordani, il cui nome viene pronunciato da una voce maschile e la cui brutale aggressione non è preceduta dalla classica nenia infantile, “il motivo conduttore dei delitti”, come lo stesso Professore definisce nel film). Si ha l’impressione che Argento fosse vieppiù interessato a rappresentare non un assassino in particolare, pertanto riconducibile a una persona specifica, bensì l’assassino per antonomasia, quello imbardato di scuro dalla testa ai piedi che ci rimanda a Sei Donne Per L’assassino, il giallo con cui un troppo spesso dimenticato Mario Bava ha imposto la figura classica del killer con cappello, impermeabile e mani guantate (mani che in Profondo Rosso, così come in altri suoi lungometraggi, sono sempre quelle di Argento). In molti faticano a comprendere che Profondo Rosso altro non è che la rappresentazione di un sogno morboso e angosciante, un incubo, e come tale dev’essere inquadrato. Marc si sente perseguitato da una presenza che lo anticipa in ogni sua mossa, una mente perversa che sembra quasi utilizzare la telepatia per entrare in contatto coi suoi pensieri, un po’ come succede con la povera Helga al Congresso di Parapsicologia. Egli è ossessionato dalla soluzione di quel mistero che gli ha investito il quotidiano e con l'aiuto della giornalista amante/amica Gianna Brezzi (una splendente Daria Nicolodi, poi compagna di Argento e madre di Asia) improvvisa un’indagine parallela a quella della polizia, istituzione che nei film di Argento si muove sempre a rilento e pure con una certa goffaggine.
Image may be NSFW. Clik here to view.Forte della sua passione per il pensiero freudiano, Argento chiama in causa temi come l’irrazionalità, l’angoscia, la paura, l’inconscio, il trauma. Lo stesso trauma che si insinua nel piccolo Carlo dopo essere stato suo malgrado spettatore del brutale omicidio natalizio ai danni del di lui padre perpetrato dalla di lui madre, donna affetta da problemi di schizofrenia. Un trauma e dunque un malessere così predominante che un Carlo in età adulta cercherà di occultare non solo annaffiandosi il fegato con l’alcol ma anche attraverso la musica, essendo anch’egli pianista come l’amico Marc. “Sai, Marc? La differenza tra noi due è una differenza politica”, dice Carlo a quest’ultimo. “Tutti e due suoniamo piuttosto bene, ma io sono il proletario del pianoforte, tu invece sei il borghese. Tu suoni per l’arte, […] io lo faccio per sopravvivere”. Il luogo dove Carlo suona per professione il suo strumento è il Blue Bar, la cui struttura fu fatta erigere appositamente da Argento riprendendo nel dettaglio il bar raffigurato nel superbo dipinto Nighthawks (“I Nottambuli”), composto nel 1942 dall’americano Edward Hopper. Ecco un altro omaggio all’arte pittorica, iperrealista, in questo caso, che non può far altro che arricchire un film da cui, oltre al sangue, scorrono abbondanze di riferimenti culturali. Come rimanere indifferenti davanti alle abbacinanti cornici architettoniche torinesi, come la storica Piazza C.L.N. delle due fontane, quella del Po (dove Carlo siede ubriaco) e quella della Dora Riparia; il Teatro Carignano, di cui osserviamo gli interni inondati da una patina di rosso profondo e accecante per concessione della splendida fotografia di Luigi Kuveiller; la lugubre “Villa del Bambino Urlante”, ovvero la superba Villa Scott, tra le vette architettoniche dell’Art Nouveau (o Liberty, se ci piace di più), nata sulla basa di un progetto dell’architetto Pietro Fenoglio, nel 1902, in un periodo in cui proprio a Torino il noto stile floreale viveva un momento di forte espansione. Il film è ambientato in una Roma immaginaria, giacchè i luoghi simbolo del film sono quelli della città sabauda ed è lì che il film fu girato in prevalenza. Il cimitero in cui si svolge il funerale della sensitiva è però quello monumentale di Perugia e diverse scene, sia esterne che interne, furono comunque riprese nei pressi della Capitale e agli studi De Paolis. All’inizio del film Marc/Hemmings dirige i suoi allievi tra le mura di un fantomatico Conservatorio (Hemmings era peraltro un pianista anche fuori dal contesto cinematografico). Siffatto luogo è lo splendido Mausoleo di Santa Costanza, a Roma. Quei giovani che suonano in modo “un po’ troppo pulitino” erano nella realtà gli allievi del jazzista Giorgio Gaslini, cui Argento aveva inizialmente affidato l’accompagnamento sonoro per il film. Certamente, senza la pregnanza della musica il capolavoro del thrilling all’italiana non avrebbe avuto l’impatto che ha avuto sulle generazioni che si sono succedute dall’epoca della sua uscita. Musica che appare sin dal primo secondo del film, che riproduce il famoso tema ad opera dei giovani Goblin, che tanto turbò le vite degli italiani. Lo stile cui si rifaceva (ma con un piglio più spettrale) la band di Simonetti, Pignatelli e gli altri era quello del rock progressivo inglese dei King Crimson, dei Genesis o dei Van Der Graaf Generator, genere che tanto predominava nel periodo in cui Profondo Rosso fu fatto. Pare che per le musiche Argento avesse inizialmente consultato anche i Pink Floyd, ma il gruppo declinò l’invito principalmente perché impegnato con le registrazioni dell’album Wish You Were Here. E fu un bene, perché con tutto il rispetto dovuto, Roger Waters e compagni non sarebbero mai stati all’altezza di comporre una colonna sonora altrettanto ispirata come quella lasciata ai posteri dal fu Giorgio Gaslini e dai geniali Goblin.
Si deve partire quindi dai fondamentali: stile, coscienza etica e metafisica, assunzione principiale e ideale. Questi fondamentali vanno coniugati con l'analisi delle rivoluzioni in atto nella società e nel mondo per fornire l'attualizzazione dei riferimenti assoluti trasformandoli in motori di una rigenerazione in itinere. L'attualizzazione dev'essere un progetto condiviso e duraturo, in quanto poi all'acquisizione di una strategia, essa non può prescindere da tre fattori essenziali:Image may be NSFW. Clik here to view.
- la conoscenza di tutte le leggi della società liquida nel contesto delle rivoluzioni in atto, senza la quale nessuna scelta operativa potrà avere successo reale e duraturo;
- l'articolazione della strategia nei confronti dei target strategicamente significativi che esporremo tra breve;
- la presa d'atto che nulla può esser fatto senza sinergie e privi di una direzione condivisa, ma anche che ciò è impossibile da prodursi se viene proposto con accordi a tavolino, è realizzabile invece con l'andare del tempo, quasi per automatismo, grazie alla forza delle cose. Purché ovviamente ci sia una minoranza anche esigua, ma qualificata, che è consapevole di questa necessità e che per essa, silenziosamente, lavora.
Da quest'ultima consapevolezza ne deriva un'altra e cioè che non è necessario che i singoli soggetti siano d'accordo con le sinergie per farne oggettivamente parte, per cui sarebbe sbagliatissimo escludere mentalmente dal novero dei protagonisti quelli che sono recalcitranti. La forza delle cose è più imponente dei capricci umani, delle vanità e degli egoismi e andrà avanti da sé, se ben indirizzata. Va aggiunto che non è affatto necessario che siano numerosi coloro che conducono consapevolmente un'azione strategica che coinvolgerà gli altri e anche che, in ultima analisi, i pochi consapevolmente attivi potranno non beneficiare in prima persona dei frutti del loro operato. Un'ultima accortezza prima di passare all'esposizione del cosa fare: chi è preso dall'angoscia per il domani e spera di passare un cancellino sulla lavagna per uscire dal mondo d'oggi e dalle sue problematiche farà bene a rassegnarsi, non ha scampo. L'operazione necessaria a cambiare le cose non è distruttiva ma creativa, non è negativa ma positiva, e seppure è chiamata a centrare successi tutti i giorni non potrà mutare il quadro significativamente se non nel giro di qualche decennio. Non c'è quindi posto né speranza per egoisti e innamorati di sé: sono arrivati al capolinea. Al massimo possono insistere ad illudersi chiudendo ostinatamente gli occhi.
Uomini decisi e bambini capricciosi
Chi non sopporta più pressione fiscale, crisi economica, fanatismo mondialista, discriminazioni giuridiche e politiche, meschine figure italiane in Europa e nel Mondo, immigrazioni massicce, nuove religioni, una classe politica risibile, una società disconnessa e in sfacelo, può solo rimboccarsi le maniche, impugnare gli attrezzi, iniziare a scavare e a costruire. Il che non è ovviamente possibile senza avere un progetto, dei disegni, una disciplina, degli strumenti. Se uno si mette all'opera deve prima prendere atto del terreno e del materiale e smettere d'immaginarlo nella sua testa. Scoprirà così che per esempio la migrazione non dipende solo da disegni di qualcuno e dagli sporchi interessi miliardari di qualcun altro e neppure dal fanatismo utopico di certa gente. Tutto questo è concausa, ma esistono un crollo demografico italiano, ancor maggiore di quello europeo, un'esplosione demografica in Africa e un sistema internazionale che produce inesorabilmente questa situazione che ovviamente non può essere modificata se non si combattono i responsabili dello schiavismo buonista ma non senza coordinare un piano di sviluppo in Africa per le nostre aziende e una cooperazione intergovernativa. Per colmare il divario demografico, ovvero per riportare in attivo una popolazione morente, servono almeno cinquant'anni e non sono decisivi gli incentivi economici perché sono in genere i poveri, non i ricchi, a fare figli. Semmai servono una nuova etica e una volontà di potenza, ma sempre di mezzo secolo si parla perché si possa eventualmente dire che si sarà invertita la tendenza. Non si può nemmeno immaginare di porre mano alla crisi economica se non si comprende quanto essa dipenda dalla nostra morte biologica oltre che dallo sviluppo aggressivo dell'Asia. Era prima che tutto questo si verificasse che la nostra economia andava meglio di oggi, non è stato l'Euro a distruggerla e men che meno la Ue che, a sua volta, è un effetto di risposta ai nuovi scenari mondiali. Il cambio sbagliato del 2002 ha avuto indubbiamente grandi responsabilità ma il problema è altrove. Chi pretenda di uscire da questi incubi tramite un risveglio popolare o una maggioranza parlamentare che cambierebbe tutto legiferando con una bacchetta magica riguardo dinamiche su cui i poteri istituzionali hanno incidenza molto limitata se non quasi nulla, ha bisogno di seguire qualche corso d'infarinatura di sociologia, di economia, di storia e di politica. E chi sogna che tutto si risolverà al più presto così com'egli vuole è soltanto un bambino capriccioso che pretende che la realtà che non gli piace non esista e spera di cancellarla negandola e magari anche frignando un po', come ha iniziato ad andare di moda in ambienti che pure si vorrebbero virili.
Dinamo e sintesi
Sappiamo perfettamente che saranno in molti a rifiutare rabbiosamente quanto abbiamo appena descritto e anche quello stiamo per esporre: per guardare dritto nel sole servono occhi d'aquila, per guatare l'abisso senza confondersi con l'abisso è indispensabile una saldezza che non ha necessità di stampelle. Servono virtù prische e tra queste gli Antichi Romani non hanno mai annoverato la speranza. I più si rifiuteranno di prendere atto della realtà perché si sgomenteranno: molto meglio aggrapparsi a illusioni fuori luogo e fuori tempo e riproporre i soliti gesti assecondando i riflessi condizionati, restando così sotto una rassicurante ipnosi. Poco male, anche se si negheranno a sinergie, potrà succedere che queste si verifichino di fatto, a prescindere dalla loro volontà. E se anche quello che fanno, magari con un bel po' di chiasso, di successo e di visibilità, non avrà in ogni caso alcuno sbocco strategico, il solo fatto di esistere e di creare aggregazione comporta comunque diverse potenzialità per l'avvenire.Per assumere una valenza strategica e dei ruoli funzionali, superando dunque l'atomizzazione e l'autoreferenzialità si deve partire da alcuni punti fissi.
- L'operato non deve essere bramoso né inquinato da desiderio di possesso. Quanto già era discutibile nella società solida è diventato addirittura inefficace nella società liquida. L'obiettivo non può perciò essere la crescita fisica o materiale del proprio io/gruppo e non può neppure essere quello della “conquista dello Stato (o del Parlamento)”, né l'ideologizzazione delle masse atomizzate.
Il solo obiettivo efficace è quello di trasformare la trasformazione; d'inserire nuovi simboli, colori, segni, e di tracciare alvei diversi per il fiume in cui scorre impetuosa questa fase storica. Si tratta non solo di dare più che di prendere ma addirittura di dare senza prendere. È il dare stesso, indirizzato a risultati concreti, a dover rappresentare il suo ritorno. “Io ho quel che ho donato”. O, come dicevano i nostri antenati: “È la virtù stessa la ricompensa della virtù”.
Non si tratta solo di filosofia o di retorica: in questa premessa risiede il segreto per la sola riuscita possibile.
- Poiché la realtà in cui si deve operare è molto articolata e frammentata e dato che le leggi connettive, comunicative e organizzative della nostra epoca sono liquide e fluide, è indispensabile che ci si organizzi in modo articolato e diverso, non monolitico e men che meno uniforme.
- Tenuto conto di queste due premesse dobbiamo maturare una nuova convinzione e cioè che da una parte ci dev'essere la dinamo, una sorta di motore a trazione posteriore o, meglio ancora un generatore, e dall'altra i suoi effetti che devono manifestarsi ovunque, in piena trasversalità, trascinando i germi per una Nuova Sintesi in divenire, con nuovi connotati, che si potrà e dovrà realizzare nel tempo.
Gerarchie inedite
È necessaria un'azione su se stessi, non solo etica, spirituale, culturale, stilistica e di disciplina, ma di decondizionamento mentale utile ad assumere una nuova forma mentis. Nella società liquida nulla è più nel posto in cui si trovava precedentemente, Image may be NSFW. Clik here to view.per questo il vertice non appare in cima, il solido non ha caratteristiche tangibili. Chi vuole suscitare qualcosa esprimendolo secondo gli schemi del passato forse non se ne accorge ma è costantemente raggirato perché all'atto pratico crea degli oggetti che sono soprattutto virtuali, legati dal cordone ombelicale ai social dai quali dipendono. I soggetti politici sono ormai diventati dei segmenti di una ghettizzazione scenica che si nutre di se stessa, obbligata dagli stessi social a vivere più in una realtà che non esiste che in quella tangibile. Ed è allora inesorabilmente costretta a strumentalizzare quel che è riuscita a realizzare anche nei radicamenti territoriali al fine d'ingrandire virtualmente la propria immagine tiranna invece di fare l'opposto come sarebbe doveroso. La rete l'avvolge e la svolge come un gomitolo, distraendola dal sostanziale che scade in una dimensione esclusivamente strumentale dove ogni azione non vale più di per sé ma come uno spot per suscitare frenetici I like. I soggetti politici sono condizionati e imprigionati; chi sa come usarli realmente ne è al di fuori o al di sopra, come Grillo e Macron e, in certa misura, Trump e Berlusconi. I partiti sono diventati oggi più dei robot web che non i taxi di cui parlava Enrico Mattei.
Per rispondere alle esigenze della nostra epoca si deve capire che gli strumenti classici sono desueti e che vanno gerarchicamente ridefiniti all'inverso rispetto all'era solida. In un'ottica che non sia quella della fiction i partiti sono concepibili esclusivamente come mezzi di comunicazione e di sussistenza, non di certo come fini e neppure come elementi strategici, in questo sono meno importanti dei movimenti politici che, a loro volta, poco incidono rispetto ai movimenti d'opinione e alle organizzazioni lobbistiche. All'interno dei movimenti e dei piccoli partiti quello che più conta in prospettiva sono l'educazione dei singoli e la crescita delle comunità che prima o poi si dovranno liberare dalle tare settarie che le soffocano e le inaridiscono.
Molto più importanti ed efficaci degli strumenti di reclutamento massiccio sono le strutture leggere: da piccole e snelle unità d'intervento, a reti di comunicazione, per poi salire mano mano ai centri di riflessione e di direzione strategica, fino al sobrio disegno di un archetipo di ordine. Sia dal punto di vista funzionale che da quello valoriale quanto abbiamo esposto risponde ai gradi gerarchici, salendo dalla periferia fino al centro. Poiché fluttuiamo nella liquidità va tenuto presente che non si tratta di gerarchie sclerotiche e soprattutto che le stesse persone possono rivestire più ruoli e funzioni al tempo stesso ritrovandosi quindi al contempo in graduazioni distinte. Infine i movimenti imposti dall'era sono così ondulatori e interrelati che la gerarchia stessa non può essere rigida, anche perché il progredire verso le autonomie e l'evoluzione dei ruoli dei singoli non possono che suggerire la logica delle unità imperiali e il recupero del motto “massima libertà, massima responsabilità”. Anarchi e gerarchici, non solo per passare al bosco come suggeriva Ernst Jünger ma per boschificare e, al tempo stesso, per essere autosufficienti quando si coopera con altri che sono ancora prigionieri di brame, di angosce o di speranze.