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La strategia dei cowboy – Enrico Marino

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L’accelerazione, brutale e avventurista, impressa da Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti alla situazione siriana arriva all’indomani delle pesanti accuse lanciate dal generale Igor Kornashenkov, portavoce del ministero della difesa russo, sul ruolo svolto da agenti segreti inglesi nell’organizzazione della provocazione riguardante il bombardamento con gas in Siria. Non solo non ci sarebbe stato alcun bombardamento con agenti chimici da parte di Assad a Douma, ma addirittura tutto sarebbe frutto di una montatura organizzata dai servizi britannici. All’indomani della oscura e, per certi versi, grottesca vicenda dell’ex spia russa aggredita col nervino in Inghilterra, questo del bombardamento di Douma sarebbe, per Kornashenkov, un ulteriore tassello della velenosa campagna anti-russa condotta spregiudicatamente dal Regno Unito: "Abbiamo le prove che dimostrano il coinvolgimento della Gran Bretagna in un'operazione chimica provocatoria in Siria", ha reso noto il Cremlino, "Siamo certi che dal 3 al 6 aprile sui rappresentanti dei cosiddetti Caschi Bianchi sono state fatte fortissime pressioni da Londra perché realizzassero il prima possibile la provocazione (con armi chimiche) che era stata già preparata".

Se il condizionale in tutte queste vicende è d’obbligo, è altrettanto certo che la fretta con cui gli alleati angloamericani e francesi hanno lanciato nella nottata del 14 aprile almeno 120 missili sulle basi siriane è quantomeno sospetta. Perché non si è voluto attendere il responso della verifica condotta sul campo dagli ispettori dell’Onu? In un quadro di estrema incertezza sulla veridicità dello stesso attacco chimico, oltre che sulla responsabilità di Assad, s’è voluto forzare platealmente la situazione già estremamente tesa e densa di inquietanti sospetti.

Anche perché i precedenti non mancano e non depongono a favore delle tesi degli occidentali.

La vergognosa vicenda dell’antrace di Saddam, l’immagine grottesca di Colin Powell che esibisce una fialetta all’Onu, la “pistola fumante”, le tardive e ipocrite confessioni di Blair, la devastazione dell’Iraq, il processo farsa a Saddam e le migliaia di morti innocenti pesano ancora sulla coscienza degli angloamericani e dei loro alleati, ma all’epoca fornirono agli Usa il pretesto per ampliare il loro dominio planetario, installando nuove basi militari anche in Kuwait.

Il 19 marzo 2011 fu inaugurata dalla Francia “Unified Protector”, cioè l’operazione militare contro la Libia, con un attacco aereo diretto contro le forze terrestri di Gheddafi attorno a Bengasi, attacco seguito, qualche ora più tardi, dal lancio di missili da crociera tipo "Tomahawk" da navi militari statunitensi e britanniche su obiettivi strategici libici. A distanza di anni, spulciando fra le mail dell'allora Segretario di Stato Usa Hillary Clinton, si è scoperto che l'attacco internazionale che portò alla caduta del regime e all'uccisione del Colonnello Gheddafi venne lanciato solo ed esclusivamente per rispondere a precisi interessi geostrategici francesi, con l'avallo statunitense. Il tutto non solo a detrimento degli interessi italiani, perché la guerra voluta da Sarkozy era un mezzo per estromettere il nostro Paese dal controllo del petrolio libico, ma a anche per ostacolare il progetto del raìs di soppiantare il franco francese africano con una nuova divisa pan-africana, nell'ottica di un'ascesa della Libia come potenza regionale in grado di raccogliere intorno a se un'alleanza di Stati africani. Una sporca guerra insomma, le cui conseguenze sono storia nota, con la Libia precipitata in un'atroce guerra civile, con due governi rivali che lottano tra loro per il controllo di pozzi di petrolio e giacimenti di gas. Nello spazio lasciato libero dal crollo del regime si sono insediate milizie, bande armate e gruppi di banditi tra cui alcuni hanno proclamato la loro alleanza all’ISIS che, in tal modo, spadroneggia sulle coste meridionali del Mediterraneo, manovrando anche un'ondata di migranti senza precedenti che si riversa sulle nostre coste.

E non è finita lì.

Oggi sappiamo senza alcun dubbio (lo ha confermato anche il Massachusetts Institute of Technology) che la Cia ha mentito e che il bombardamento di armi chimiche sulla periferia di Damasco del 21 agosto 2013, in realtà, fu compiuto da mercenari che combattevano contro Bashar al-Assad. Per settimane tutti i media occidentali dichiararono ossessivamente che “il dittatore sanguinario Assad” gasava e massacrava i propri cittadini. Verifiche?

Nessuna. Era solo il mantra bugiardo di Obama e della Casa Bianca che veniva rilanciato e amplificato nell’etere e sulla stampa. Arrivammo a un passo dal bombardamento di Damasco da parte delle forze americane e della Nato, per punire il “gasatore” e, allora, solo l’intervento deciso della Russia impedì un’ulteriore infamità degli atlantici. Da quel momento, si avviò da parte russa la provvidenziale ed effettiva opera di liquidazione dei terroristi dello Stato islamico e la bonifica del Paese che i convergenti interessi degli atlantici e degli israeliani avevano riempito di tagliagole in funzione anti-Assad.

L’odierna azione militare, per quanto è dato sapere, si connota più come un’esibizione muscolare e dimostrativa degli occidentali (pare infatti che il Cremlino fosse stato preventivamente avvisato dell’attacco portato in aree lontane da quelle presidiate dai russi) che, inchiodati sul terreno militare e sconfessati su quello propagandistico, rischiavano di rimanere intrappolati tra la possibile smentita delle loro accuse contro Assad e la vacuità delle loro azzardate minacce di ritorsione.

E tuttavia, rimangono sconcertanti la superficialità e l’arroganza di un presidente che twitta di missili “nice and new and smart”, di un capo di Stato con l’aplomb di un cowboy, più abituato a vacche e rodei che al contegno misurato e alla prudenza della diplomazia; rilanciano una deprimente impressione la perspicacia e l’affidabilità di un giovanotto francese che assume a sufficiente base per gravi decisioni strategiche i campioni di urine prelevati da cadaveri siriani; preoccupa il piglio isterico di una premier britannica che si slancia in un’avventura con sottomarini e missili senza fornire alcun elemento, scavalcando in fretta e furia il proprio Parlamento, rilasciando solo affermazioni apodittiche ma prive di riscontri.

Per tutto questo, occorre che stiamo tutti molto attenti: una leadership internazionale di criminali (o di irresponsabili) ha in mano un enorme potere militare e tutti i principali canali di informazione dell’Occidente. E’ già accaduto che questi stessi Stati abbiano trascinato il mondo in una guerra per sbarrare il passo a due popoli europei, a due Nazioni in marcia “contro Giuda e contro l’oro”. Sappiamo quanto possano essere privi si scrupoli e di morale.

Adesso abbiamo la prova che avremmo potuto essere trascinati in una nuova guerra da costoro e sappiamo anche che è già avvenuto ripetutamente. Sono armati. Bisogna togliere loro le armi della menzogna di cui dispongono.

Enrico Marino

Foto copertina: Corriere.it

La lettera di Julius Evola all’astrologo Tommaso Palamidessi – Quarta Parte. A cura di Gaetano Barbella

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Un mistero racchiuso in una donna,

“suo fedele corpo di guardia”

  1. Un curioso debito karmico da assolvere

L’impostazione della lettera in questione, presuppone il fatto che in precedenza, tra lo scrivente Julius Evola e il destinatario, Tommaso Palamidessi, si sia disposto un rapporto al riparo da implicazioni derivanti dai reciproci disaccordi rilevati da Francesco Baroni nel precedente capitolo. Sembra che entrambi siano concordi nel considerarsi come due forze disposte su un delicato equilibrio che non intendono smuovere. Sicché solo in tal modo si spiega, sia il tono della lettera (che è, chiaramente, senza acredine di Evola verso Palamidessi), sia i termini che, emblematicamente, sembrano però in contrasto fra loro e che riguardano le due parti di essa. La prima, si concentra sulla stesura del  trattato di astrologia iniziatica, che verrà fatto da Palamidessi ovviamente, in cui si contempla il suo gran desiderio, non risolto tempo addietro con l’approccio con l’astrologo Waldner, cioè il suo oroscopo natale (con la previsione della sua data di morte, se possibile); e poi vi fa seguito l’appianamento della questione sulla donna, punto di scontro frontale fra i due che invece si sbiadisce e scompare. Evola infatti, nella lettera, ritiene inutile « ad esempio, il definire la donna assoluta e l’uomo assoluto, che empiricamente sono quasi inesistenti, è di grande utilità per l’analisi di quelle donne e di quegli uomini che sono tali solo approssimativamente, o con mescolanze (vedi Weininger) », espresso nella lettera. Insomma tutto sembra disposto fra Evola e Palamidessi ad un occulto compromesso su ciò che resta da soppesare in relazione alla discordia fra di loro sul Cristianesimo che sappiamo, ma che negli ultimi tempi si è sfocata. Ed è come se dal resoconto del progetto del trattato di astrologia iniziatica, che dovrà essere sviluppato da Palamidessi, dipenda l’esito sull’effettivo apporto del Cristianesimo, conoscendo la solidità dei principi del suo ordine iniziatico di Archeosofica che si fonda sul cristianesimo. In altri termini, è come se il trattato di astrologia iniziatica, in cui sembra far da “faro” l’oroscopo di Evola, diventi, paradossalmente l’emblematico « caso » dell’alchimia e di quell’ Hans Jean Arp, dadaista che sappiamo. Tant’è che, lo stesso cronista storico, Francesco Baroni, non è stato in grado di raccogliere successive notizie sul seguito della lettera di Evola in studi. Ma resta la seconda parte di questa lettera che è davvero altrettanto emblematica, tanto da ridurla, in rapporto alla prima parte, similmente ad una formula matematica squisitamente del genere algebrica. Stiamo a vedere.

Questa seconda parte della lettera, è concepita come se non fosse importante e solo casuale, ma è qui l’inganno perché si dimostra chiaramente come il classico « caso» “insignificante”, caro al noto Ekatlos del Gruppo di Ur.

Evola ci doveva tenere a sapere sul conto della sua supposta (da me) “pupilla”, da lui definita “appartenente al suo corpo di guardia”, il quadro astrologico (il cosiddetto “tema natale”). Ma, in “apparenza” (notare queste virgolette per mettere in guardia sul mistero che vi è racchiuso) non voleva farlo pesare e perciò scrisse «... Se per caso avesse un po’ di tempo da sciupare per una ricerca più che sommaria...».

Tuttavia, a mio avviso, questa frase non doveva essere posta in questi termini, a Palamidessi  capo di un ordine iniziatico, l’Archeosofia.  Era inevitabile che questi  capisse la vera identità esoterica della donna, cioè che fosse la sua vergine terrena che ospitava nel suo “petto” il Nume di Evola. Di conseguenza “dovette venire” (ma in apparenza) meno in Palamidessi la stima per l’Uomo Evola nel quale vedeva un suo pari come capo di un Ordine metafisico. Nondimeno le disposizioni esoteriche avvenute in tempi precedenti, e in particolare il “lascito” alchemico di Evola nella supposta “pupilla”, erano state fatte, e certamente non furono forse scalfite da questo “biasimevole” episodio (in apparenza) della richiesta di Evola. “Non fu un atto eroico delle gesta dell’uomo del passato”, che forse già si stava preparando a migrare per “luoghi” adatti, ma è tutta una messa in scena come ora farò capire.

A questo punto resta in sospeso la possibile risposta sul destino metafisico che è stato riservato all’eroe Julius Evola, che presumibilmente veramente era nel “petto” di quella donna della sua lettera a Palamidessi. E si deve presumere che fu proprio Tommaso Palamidessi a far la parte simbolica del “Guardiano della Soglia” per far luce sulle assonanze e divergenze espresse nell’articolo di Francesco Baroni che io ho sintetizzato nei relativi punti salienti nel capitolo 9.2. In realtà resta da esaminare il pomo della discordia fra Evola e Palamidessi, cioè il Cristianesimo.

Ecco, si è notato della mia esortazione a tener da conto delle frequenti frasi virgolettate? Ebbene la risposta risiede nel fatto che essi, in occasione del loro ultimo incontro, si “conobbero” molto bene (sul piano metafisico) tanto da stabilire un tacito accordo e rispetto reciproco. Così da accettare di riconoscersi come due capi di ordini metafisisici in parità. Dunque ciò che invece derivava dalla lettera doveva appartenere al « caso », secondo il solito discorso dettato dalle regole metafisiche, tanto da capovolgerne il senso in taluni punti. Ecco perché ho inteso paragonale la lettera in questione ad un messaggio criptico espresso in codice algebrico, dove il segno meno o più si invertiva. E questo in particolar modo per la famosa frase, marchianamente inaccettabile:  «... Se per caso avesse un po’ di tempo da sciupare per una ricerca più che sommaria...», che si riferisce alla richiesta del tema natale della donna “appartenente al suo corpo di guardia”.

Insomma, concludendo, debbo ammettere che la lettera di Evola sia un vero capolavoro di artista dadaista-alchemico, tanto da imbrigliare il pur dotto Palamidessi, astrologo per giunta. Evola sapeva bene che non poteva smontare la convinzione del suo antagonista sul Cristianesimo, ma contava in cuor suo, secondo me, su quell’antica luce buddica di quel tempo del suo suicidio salvato in extremis per avere giustizia. E tutto questo era nel “petto” di quella donna “appartenente al suo corpo di guardia” che egli metteva nelle mani di Palamidessi, come una innocente fragile Bambina su un certo “grato di una Chiesa”, quale pegno di garanzia. Era solida la sua idea, in cuor suo, di un Io universale da riscattare ma che non riusciva a veder nascere nella solidità della carne, questo era il problema. Julius Evola, ha sempre cercato di vedere la sua “terra promessa”, cioè un Io superiore, e lo voleva vedere come lo può un chiaroveggente, per esempio per il caso di  Mosè biblico, come si sa. Ma era più che certo che la donna messa nelle mani di Palamidessi (o chi per lui, potendo concepirsi l’idea che questi fosse un intermediario “occasionale”) avesse in seno il nuovo sole nascente del suo sole morente in lui. Evola si sarebbe accontentato di vedere il risultato del tema natale della sua “pupilla” per rassicurarsi sul quel sole nascente, ma non gli fu concesso a quanto sembra per quel che ne sappiamo, a causa dalla carenza documentale a posteriore del 20 gennaio 1972, la data della lettera in questione.

Ma quale la causa alla base della manifesta impotenza “visiva” di Evola, sul piano eterico? Cioè del cosiddetto “terzo occhio” carente in lui?

Il “terzo occhio” è il presupposto dell'“intuito” e della “chiaroveggenza”. Esso è situato nel centro della fronte leggermente sopra le sopracciglia. E' collegato al sesto chakra e alla ghiandola pituitaria o ipofisi, anche se è comune credere che la ghiandola pineale o epifisi sia la ghiandola del terzo occhio.

L'attivazione del sesto chakra comporta l'emancipazione dell'intuito personale. L'intuizione è la capacità di captare una verità senza l'uso della logica mentale.41

Mi è sorta l’idea che la causa della impotenza visiva di Evola risieda a monte a causa dei due dei del mito, Urano e Saturno in lui, cosa intravista dal lungimirante astrologo Waldner, i suoi Signori astrali, vittime delle primordiali evirazioni che poi devono essersi perpetuate nell’uomo, come cautela generativa, vedi il caso biblico di Giacobbe. Nel suo oroscopo fatto da Waldner (capitolo 2), « Urano è il pianeta delle forti scosse, dei terremoti e, naturalmente, l’ha colpito rendendolo invalido; Saturno, il padrone della materia, in quarta casa, dà una radice molto profonda e forte e non ha permesso che venisse distrutto; ha voluto, anzi, che egli assolvesse i suoi compiti, perché doveva ancora dare molto di sé. Marte è in ottava casa, in buon aspetto con Saturno; questa casa rappresenta il campo magnetico della piccola morte, perciò il suo organismo è stato parzialmente distrutto, ma la sua forza vitale è rimasta intatta e continua a sostenerlo. ». Cosa comporta questa situazione in Evola riscontrata da Waldner, se non quella di riflettersi in lui la mitica situazione dell’impotenza resa a Urano a vantaggio di Saturno? Ed è come se questa realtà si determinasse in Evola come debito karmico da pagare per aver innalzato da ribelle la bandiera della Scienza dell’Io.

Ma come giocò la legge del « caso », in virtù del detto di Kremmerz citato in questo scritto, cioè: «Il Tempo è una divinità saturniana; vi si agita dentro lo stesso Saturno. A mezzanotte, la falce dell’inesorabile e famelico Dio si solleva e cade sulle cose compiute che non hanno più ritorno: L’onnipotenza di qualunque Nume non può distruggere né cancellare le cose che sono passate realmente nella vita. L’uomo può dimenticarle, ma nessun Dio distruttore può fare che non siano state. Saturno solo può troncarle, falciarle, farle spegnere, ma non può decretare che non siano esistite. È lui stesso che vi si oppone - ...»? Cioè la memoria dell’antica mitica evirazione di Urano ad opera di Saturno.

La legge del « caso » non poté che chiamare sul banco degli imputati per giudizio su Evola lo stesso Palamidessi, coinvolto nel confronto della lettera in questione, come “plenipotenziario” del Guardiano della Soglia, da me supposto. E guarda altro curioso « caso », cosa si scopre su Palamidessi? Che fra le sue varie incarnazioni è stato il teologo cristiano Origene (185-254), le cui posizioni dottrinali, talora audaci e impregnate di un certo esoterismo, furono spesso avversate dalle gerarchie ecclesiastiche. Però il punto dolente riguarda il fatto che verso il 210, il suo estremo rigore ascetico nel seguire le Sacre Scritture lo portò forse ad evirarsi, pratica non del tutto sconosciuta nel cristianesimo delle origini. Secondo alcuni autori, per questa automutilazione il vescovo Demetrio non lo volle mai ordinare sacerdote42.

Non solo ma lo stesso Palamidessi afferma di essere stato anche la reincarnazione del medico, matematico ed astrologo del Cinquecento Girolamo Cardano (1501-1576), anch'egli impegnato nel coniugare scienze occulte e cristianesimo (Cardano redasse, per esempio, un oroscopo di Cristo). Come a indicare su che basi potrà essere esaminata la questione, ora emersa, dell’evirazione di Origene, un seme latente trasmesso nel tempo in Palamidessi. Di qui la necessità del ricorso alla matematica algebrica in relazione, alla decodificazione della lettera di Evola a Palamidessi, di cui sopra.

Che dire a questo punto sul Cristianesimo esoterico di Palamidessi, di certo influenzato dal suo antico incarnato Origene non in linea con il cattolicesimo della chiesa madre romana? La possibile risposta porta a ipotizzare che l’eccesso dell’Io terreno di Evola possa sanare la carenza dell’Io di Palamidessi, venuti in “contatto” con la lettera il  20 gennaio 1972.

E allora a chi dare la parola sulla legge « caso », per vederci chiaro nelle cose che risalgono alla creazione dell’io terreno, se non alle concezioni dell’Antroposofia di Rudolf Steiner che, con terso occhio chiaroveggente ha già intravisto il legame tra il bodisatva Budda e il Bambino della mangiatoia di Betlemme, cosa detta nei capitoli 6 e 7? Questo per dare respiro ad Evola  “anticristiano” e al contrario Palamidessi un “tiepido” cristiano.

Tuttavia abbiamo visto in che misura può influire la coppia Evola-Palamidessi attraverso la donna “appartenente al corpo di Guardia” di Julius Evola, nelle pure mani di Tommaso Palamidessi. Potremmo intravedervi effettivamente una sorta di Rebis filosofale, ma occorrerà vedere da vicino, da astro-geometra e occhio chiaroveggente, il tema natale della donna “pupilla” di Jiulius Evola, per averne la conferma “visibile”, indagine che presumibilmente non fu fatta da Palamidessi. Ma che potrebbe essere espletata da chi ne è capace.

In quanto ai presunti “debiti” di Evola da una parte e Palamidessi dall’altra, si spiega così:
  • per il primo non c’è stata nessuna avversità al Dio dei Cristiani, in quanto venerava il dio Saturno nella dea Saturnia Tellus Romana e l’unico suo torto è stato di non aver capito di essere incorso in un equivoco, poiché Saturno e Jehova (o Adonai) dell’ebraismo e, dunque dei cristiani, sono la stessa persona. Della prova di questo equivoco se ne parlerà nel prossimo capitolo. Il dio ebraico Adonai (altro nome di Yahvè) come divinità del Sole: un'interessante ipotesi storico-mitologica.;
  • per il secondo è bastato essere un considerevole astrologo, e per giunta un matematico in relazione a Cardano in cui si è incarnato, per fare la parte patrocinante di Urano, dio del firmamento, da riscattare.

Resta comunque il “debito” di Palamidessi per non aver fatto l’oroscopo Natale, della presunta “Pupilla” di Evola, ammettiamolo pure non sapendo nulla in proposito, ma per questo sto già provvedendo io, considerato che sono in grado di redigere temi di astro-geometria solare. Prova ne è la pubblicazione del saggio “La circonferenza della terra in codice numerico con l'astro-geometria solare” dedotto dal data di morte del grande matematico, scienziato e astronomo, Ahmed al-Biruni, un arabo vissuto nel decimo Secolo in gran parte a Ghazna (oggi Ghazni) dell'Afganistan, dove morì il 13 dicembre 1048. Al-Biruni, tra le tante altre sue ricerche che lo tennero occupato, misurò con buona precisione (per il suo tempo) il raggio della terra. Oggi si scopre, grazie alla mia Astro-geometria, che lo spirito di al-Biruni, nel lasciare questo mondo, affidò un suo “tesoro”, espresso in “codice numerico”, a certi “astri” geometrici generati dalla configurazione astronomica del sole e i relativi pianeti visti sul piano dell'eclittica in quello stesso istante. Quel favoloso “tesoro” messo così in chiara luce, con mia sorpresa, si può considerare la matrice della misura media esatta della circonferenza della terra che è 40030 chilometri43. E se questo è stato possibile facendo capo ad una data, perché non credere che la data di nascita della presunta pupilla di Evola, non celi un codice numerico rivelatore di chissà quale arcano e tante altre cose?

  1. Il dio ebraico Adonai (altro nome di Yahvè) come divinità del Sole: un'interessante ipotesi storico-mitologica

Di Andrea Di Lenardo

Ma la creazione del concetto teologico del Dio ebraico è da collocarsi in un contesto complesso e variegato di dèi e culti, onde per cui limitarsi ad un’identificazione del Dio ebraico con la divinità semitica della Luna sarebbe quanto mai semplicistico. A mio avviso infatti, quello che diverrà poi l’Unico Dio ebraico racchiude in sé gli archetipi ancestrali dell’umana adorazione per gli astri maggiormente visibili dalla Terra. Mi riferisco alla Luna, come abbiamo già visto, e al Sole, tanto adorato nell’Egitto antico, o Khemit, proprio quell’Egitto di cui ebrei e Hyksoi adottarono i costumi1 (e i nomi2), e quindi ragionevolmente anche il radicato culto del Sole. I due dèi-principii della Luna e del Sole potranno quindi convenzionalmente corrispondere ai nomi di Yahweh e di Adonai.

Analizzeremo prima i riferimenti ad Adonai come Sole, per poi soffermarci sui nomi ebraici dedicati al dio-Sole, come Salomone, Sh’lomo, Solomon, che contiene la parola “Sole” in tre lingue diverse, vale a dire Sol (in latino), Om (in sanscrito) e On (in egizio).

Lo studioso Ralph Ellis ritiene che il teonimo ebraico Eli contenga la radice indicante l’“ascensione” o “salita”, che allude al Sole che sorge3. Si ipotizza come il nome Israele, Ysiraal in Egitto e Is-ra-ilu a Ebla, sia composto dai teonimi Is/Ys, Râ e El/Ilu. Is starebbe per Iside, dea egizia del Sole4, ma anche della Luna (come secondo Plutarco5)6; Râ è la divinità egizia del Sole7; mentre di El sopra si è detto. La variante “Ilu” è l’“antenato” accadico dell’ebraico El8.

Secondo la già esaminata tradizione mandanea sul patriarca Abramo, «Bahram [Abramo] iniziò ad adorare Yurba, uno spirito del sole identificabile con l’ebraico Adonai9»10. Dopo essersi convertito al culto solare di Yurba/Adonai, Bahram/Abramo «[…] combatté contro i Mandanei, che catturava e circoncideva con la forza […]»11. È necessario sottolineare che la «[…] circoncisione era un’usanza egizia»12, al pari dell’adorazione del Sole. «Giunti all’età pubere i maschi venivano circoncisi; esistono due bassorilievi con scene che illustrano le fasi dell’operazione […]; dalle pitture tombali si rileva che la circoncisione era di uso comune, perché appare ben evidenziata negli uomini nudi che lavorano i campi»13.

Ritornando alla tradizione mandanea, si narra poi che in seguito alle circoncisioni forzate operate da Abramo, questi «[…] decise di pentirsi e il pianeta Saturno gli ordinò di sacrificare suo figlio (Isacco), ma, essendo stato il suo pentimento autentico, gli fu concesso di lasciarlo andare e di sacrificare al suo posto un ariete14»15.

In questa tradizione si affermerebbe dunque che Yurba/Adoani, dio del Sole, e il dio che chiede ad Bahram/Abramo di sacrificare Isacco sono due divinità distinte, indicate entrambe nella Torah come Elohim/il Dio ebraico. L’introduzione nella narrazione mandanea di una nuova divinità, Saturno, sostituito nella Genesi dal più indefinito “Dio” si spiega col fatto che nell’originale ebraico non compariva il termine “Dio” (El, Adon), bensì elohim, vale a dire “dèi”, “potenze divine”, al plurale. Saturno era una di queste, così come Yahweh e Adonai, poi fuse teocrasicamente nell’Unico quanto indefinito Dio giudaico-cristiano e poi islamico… 44.

1 R. ELLIS, Tempest and Exodus, Edfu Books, Cheshire 2000, p. 5.

2 Ibid., p. 5.

3 Ibid., p. 115.

4 M. Lurker, Dizionario di angeli, demoni e dèi, Piemme Edizioni, Alessandria 2004, alla voce “Iside”.

5 Ibid., alla voce “Iside”.

6 Ibid., alla voce “Iside”.

7 Ibid., alla voce “Re”.

8 F. BARBIERO, La Bibbia senza segreti, Profondo Rosso, Roma 2010, p. 265.

9 Cfr. E.S. DROWER, The Mandeans of Iraq and Iran, Oxford University Press, Oxford 1937, pp. 265-269.

10 A. COLLINS, C. OGILVIE-HERALD, La cospirazione di Tutankhamen, Newton Compton Editori, Roma 2005, pp. 252, 253.

11 Ibid., p. 253.

12 F. BARBIERO, La Bibbia senza segreti, Profondo Rosso, Roma 2010, p. 72.

13 F. CIMMINO, Vita quotidiana degli Egizi, Rusconi, Milano 1985, p. 232.

14 S. Gündüz, The Knowledge of Life, Oxford University Press, «Journal of Semitic Studies», Oxford 1994, p. 225.

15 A. COLLINS, C. OGILVIE-HERALD, La cospirazione di Tutankhamen, Newton Compton Editori, Roma 2005, p. 253.

  1. L’epoca dell’incarnazione planetaria di Saturno, la nascita dell’io terreno

È comprensibile la stretta relazione del nostro pianeta Terra con le concezioni dell’ermetismo che riguardano la trasmutazione alchemica dell’uomo, ma non si capisce in modo chiaro il nesso che li potrebbe unire. Si riesce comunque ad accettare l’idea che le due realtà convergono in un Tutto che a sua volta converge nell’UNO: questo in via di principio che è fondamentale nell’Ermetismo. Ma vale ancora di più capire che:

<<  Ognuno di noi è responsabile del mondo. >>

E, pertanto la sua trasmutazione conseguibile per via alchemica – mettiamo – non può fare a meno di concepirla anche per la sua unica base di appoggio che è il pianeta Terra, e naturalmente anche dei suoi simili umani, compreso il mondo dei viventi in generale.

<< Le leggi dell’Alchimia sono: “Tutto è in tutto”, “Il mondo materiale corrisponde a quello spirituale”, “Il mondo è frequenziale e ogni cosa corrisponde ad altre a frequenza simile”, “Il microcosmo corrisponde al macrocosmo e viceversa”. “E’ possibile evolvere passando da una frequenza inferiore ad una superiore”. >>45.

Ecco detto questo basterebbe per convincerci sulla stretta relazione, indissolubile, dell’uomo con il suo pianeta Terra su cui vive. Cioè  ad affermare che l’Io terreno dell’uomo, in predicato in Evola e Palamidessi (in eccesso nel primo e in difetto nel secondo), sia legato all’Io al suo esordio della creazione della Terra come pianeta. Di qui ci viene in soccorso l’Antroposofia di Rudolf Steiner che, indagando nelle Cronache dell’Akasha, così intravede il procedere della creazione della Terra.

« Per fare luce dunque sull’entità attuale dell’uomo, è utile rintracciarne l’evoluzione, partendo dal remotissimo passato, fin dalla prima cioè delle diverse incarnazioni planetarie. L’indagine occulta conferisce dei nomi a queste successive incarnazioni planetarie: da il nome di “Saturno” alla prima di esse, di “Sole” alla seconda, di “Luna” alla terza, mentre la quarta è appunto la “Terra”. Bisogna tuttavia tener presente, che non si devono porre tali designazioni della scienza occulta, in relazione ai nomi posti a indicare i corpi celesti, dell’attuale sistema solare. Nella scienza occulta, Saturno, Sole e Luna, rappresentano solo i nomi delle passate forme di evoluzione attraversate dalla nostra Terra… »46.

Tuttavia, esaminata l’ipotesi, contemplata nel capitolo precedente, che vede  nell’Elohim Adonai, ovvero Jahvè, uno dei sette, il dio Saturno, ci si può persuadere che la definizione dell’incarnazione di Saturno , solo come nome “fittizio”, nella prima fase dell’evoluzione della nostra Terra, non è solo casuale.

  1. Un cronista spuntato dall’ombra

A questo punto il lettore si chiederà: che centro io nella questione Evola-Palamidessi, sol perché sto facendo delle ipotesi su un tema senza avere avuto mai relazioni con loro? Tuttavia occorre dire di essere nato il 23 febbraio 1938, a Bolzano per la precisione, mentre si disponeva per Evola un anno pieno di successi come Io terreno reintegrato allo spirito. Come a far capire che quella data mi poteva accomunare intimamente a Julius Evola. Questo fatto da solo non avrebbe avuto senso, ne convengo, ma in realtà c’è molto di più, perché ora mi accodo alla cronistoria del prof. Francesco Baroni per aggiungere dei fatti inediti che mi riguardano, in stretta relazione alla lettera aperta di Evola a Palamidessi.

Dunque, tutto ha principio al tempo dei rapporti fra Evola e Palamidessi, cioè anni prima del 1972. Si sa che nel 1969 Tommaso Palamidessi fonda l’associazione Archeosofica, sulla base di costituire l’Ordine Iniziatico Loto+Croce, e poco dopo egli fa nascere in Italia associazioni con lo stesso intento iniziatico e una di queste sorge a Pisa, sua città natale.

Da mio canto, in quel periodo, il 1969, dopo il mio matrimonio celebrato a Caserta mi trasferii a Pisa per lavoro e qui ebbi frequentazioni assidue con amici comuni dell’Associazione Archeosofica, attratto dai temi esoterici che Tommaso Palamidessi proponeva.

Dopo la dipartita di Palamidessi avvenuta nel 1983, il gruppo pisano di Archeosofica si disciolse ed io, trasferitomi nel frattempo a Brescia, mi disposi ad altri  interessi.

Questo, in sintesi, è quanto mi lega alla memoria di Tommaso Palamidessi e la sua Archeosofia, ma non manca anche un occulto significativo legame con Julius Evola, al tempo della mia vita da padre a Brescia.

All’epoca della sua morte, avvenuta come si sa l’11 giugno 1974, la mia prima figlia Ilaria nata nel 1970, poco più di un mese prima, mentre era a passeggio, venne investita da un’auto e ridotta in fin di vita. Non ci fu verso per salvarla e la sua agonia, in stato di coma irreversibile, si protrasse fino a pochi giorni dopo la morte di Evola e il 28 giugno morì. Ma questo non bastò per addolorare me e la madre, perché due settimane prima del decesso di Ilaria, nacque Francesca (quindi quando morì Evola), la sorellina che desiderava tanto, ma con gravi problemi di malformazione cerebrale. Non ci fu nulla da fare per fronteggiarli chirurgicamente e dopo un mese il destino volle che Francesca e Ilaria si incontrassero nell’Aldilà per “abbracciarsi”.

[caption id="attachment_27155" align="alignright" width="298"] Emblema dell’Ordine Iniziatico Loto+Croce Archeosofica fondato da Tommaso Palamidessi[/caption]

Dell’Associazione di Archeosofica pisana resta il segno dell’emblema dell’Ordine Iniziatico Loto+Croce, che io e mio fratello disegnammo al tempo della sua fondazione, e che ora è custodito a Pisa nella casa di chi ne fu promotore. Con l’illustr. 1 mostro la foto di parte del quadro in cui è inserito l’emblema, che forse è l’unico, così fatto, esistente dell’Ordine fondato da Tommaso Palamidessi.

Di importante di Archeosofica resta in me l’aver imparato molte cose di natura esoterica e particolarmente le basi teoriche e pratiche dell’Astrologia, cosa che mi ha incanalato a un nuovo modo di concepirla, e che ho chiamato Astro-geometria solare. Ne ho dato prova col saggio, “La circonferenza della terra in codice numerico con l'astro-geometria solare”, citato al capitolo 9. Forse è questo il segno di un mandato occulto da parte di Tommaso Palamidessi perché io eseguissi, a tempo debito, nel modo consono ciò che gli aveva chiesto Julius Evola sul conto della sua “Vergine”. Ed è ciò che ho già iniziato a fare, come accennato in precedenza.

Brescia, 20 marzo 2018 NOTE 41 Fonte - Riflessioni.it 42 In Johannes Quasten, Patrologia. I primi due secoli (II - III), Marietti, 1980, p. 316 43 Fonte: Ereticamente.net 44 Fonte: Informazione consapevole.com 45 Fonte: Esonet.org 46 Fonte: fisicaquantistica.it

Il come ed il perché del Populismo – Umberto Bianchi

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Al termine di un confronto elettorale decisamente serrato, il verdetto uscito dalle urne ha, indiscutibilmente, premiato tutte quelle formazioni che, in qualche modo, si rifanno o sono considerate esse stesse “populiste”. Il riferimento vale sia per la Lega che per il Movimento 5 Stelle, il Presidente Usa Trump, la transalpina Lady Marine Le Pen, che, nel più recente passato per la Forza Italia dei tempi d’oro ed, addirittura, in tempi recentissimi, come da qualcuno azzardato, anche per il Renzi della primigenia versione “rottamatoria”. Un termine nella cui accezione è stato incluso un po’ di tutto ed il suo contrario.

Ma cosa intendiamo esattamente per “populismo”? Quale è l’esatta accezione politica in cui va collocato questo termine, oggidì tanto di moda? A volersi rifare alla lettera della storia dei movimenti politici, per “populismo” si intendono una serie di movimenti che, a fine Ottocento si svilupparono in disparati contesti. In Russia il Populismo fu rappresentato dai “narodnjki”, i cui più autorevoli esponenti furono il colonnello e professore di matematica dell'Accademia militare Pëtr Lavrovič Lavrov, fautore di un populismo in chiave socialista, assieme al suo divulgatore ed idelogo, il sociologo e critico letterario Nikolaj Konstantinovič Michajlovskij, avente per oggetto l’emancipazione delle masse contadine, partendo dalla comunità rurale/“obscina”. La Francia invece, iniziò con la Lega dei Patrioti di Paul Déroulède, che unitasi ad un altro movimento populista di massa, il Boulangismo (dal nome di Georges Boulanger, carismatico generale dell'esercito francese) si fece fautore di un nazionalismo radicale e revanscista, sempre connesso al sempre più diffuso malcontento delle masse, nei riguardi della giovane repubblica parlamentare francese, tanto da conseguire nel 1888-89, dopo aver ottenuto l’appoggio dei monarchici, delle significative vittorie elettorali. Negli Stati Uniti fu il Partito del Popolo (People's Party), noto anche come Partito Populista (Populist Party), sommariamente chiamati “Populisti”, quale partito istituito nel 1891 negli Stati Uniti d'America che, durante il periodo “populista”, prese piede verso la fine del XIX secolo. Supportato dalle classi meno abbienti, soprattutto da coltivatori ostili verso le élite in generale, ebbe il suo culmine tra il 1892 e il 1896.

Tutti questi movimenti, con le rispettive varianti storiche ed ideologiche, condivisero un comune destino: quello di sparire o, quantomeno, come nel caso del populismo russo, di finire riassorbiti nel “mare magnum” di un’ideologia, nel caso russo per l’appunto, quella bolscevica. Sia nel caso dei populismi che precedettero il secondo conflitto mondiale che, nel caso di quelli ad esso posteriori, il populismo si fa portatore di una carica di forte ostilità nei riguardi delle elites. Una ostilità che, generalmente permane sul generico, in quanto non si fa portatore di alcuna specifica istanza ideologica della quale, però, può costituire il trampolino di lancio, come nel caso del peronismo o del posteriore bolivarismo chavista. Pertanto, del populismo si può tranquillamente dire che esso costituisce il momento politico immediatamente precedente la nascita di una qualsivoglia formazione politica inquadrata in solide basi ideologiche, oppure, ne costituisce la fase finale, dissolutoria, “liquida”, come nel caso dell’odierno populismo europeo, nella fattispecie della Lega, ma anche, di quello dei vari movimenti nord europei anti immigrazione, come il Front National francese, il Partito Democratico Svedese, Alternative fur Deutschland, l’FPO austriaco,la olandese Lista per Pym Fortuyn e tanti altri ancora.

Tutti questi movimenti sorgono o, quantomeno, assumono, una connotazione populista, con il graduale dissolvimento delle grandi narrazioni ideologiche totalitarie e rivoluzionarie novecentesche, rappresentate dalle due grandi famiglie ideologiche del Marxismo e del Fascismo, in tutte le loro varianti. Questo perché, di fronte all’impetuosa avanzata della Tecno Economia, ambedue le ideologie totalitarie hanno dimostrato una inadeguatezza ed una incapacità ontologiche nell’adeguarsi al processo Tecno Economico e, pertanto, a dare delle risposte, proprio a causa di quella tendenza che ne accomuna le sorti alla controparte Globalista, atta ad omologare, operando una “totalitaria” “reductio ad unum”, volta a precludere, in tal modo, qualunque tipo di apertura al molteplice che, invece, ne avrebbe consentito una comprensione più completa della realtà, permettendone la sopravvivenza politica.

Di fronte alla tendenza all’omologazione planetaria, va sempre più manifestandosi una spiccata controtendenza alla diversità, al molteplice, alla differenziazione si et si, alla fuga da qualsiasi istanza di rigidità intellettuale precostituita e questo sia in positivo che in negativo, con le ricadute in quella “liquidità”, in quella fluida instabilità, in quello stato di precarietà che tutto rende vano ed incerto, eccezion fatta per un solo fattore: quello di un compulsivo desiderio di profitto, espanso oltre ogni umano limite. Il Populismo, facendosi portavoce di istanze che incarnano un generico “buon senso” delle masse, inizialmente prive di una definita connotazione ideologica, (e pertanto di quella rigidità intellettuale che, abbiamo già visto, ne determinano il superamento ed il sopravanzamento da parte della Globalizzazione, sic!), può divenire lo strumento, la piattaforma di lancio da cui partire per portare l’attacco al cuore del sistema globale.

Questo però, a patto che quella medesima piattaforma sappia, nel tempo, trasformare quelle istanze medesime di cui sopra, in contenuti ideali e proposte, tali da poter assumere un ruolo di contraltare al Globalismo. Altrimenti, il rischio è quello di rimanere fermi all’ enfasi di una iniziale protesta che, in quanto tale e proprio a causa di una sua connaturata genericità, finirebbe con l’esaurirsi in sé stessa. Due esempi sopra tutti: in Italia la fine dell’Uomo Qualunque di Giannini che, nel dopoguerra riuscì ad ottenere degli eccezionali risultati elettorali, proprio facendo leva sul malcontento che, anche allora serpeggiava nella nostrana opinione pubblica ma che, proprio a causa della propria vuota genericità, scomparve dalle’agone politico con la medesima velocità con cui era apparso. Il secondo esempio è quello, anch’esso post-bellico, del francese Pierre Poujade, che durò pochi anni ed avrebbe invece costituito il battistrada per un Populismo di marca più ideologizzata e duratura, rappresentato dal Front National di Jean Marie Le Pen.

Il Populismo, come abbiamo già avuto modo di dire, costituisce pertanto, una fase di passaggio metodologica fondamentale, un momento di transizione, di raccolta di istanze generiche, dal quale bisognerà poi passare ad una fase di risposte più specifiche , in grado di unire attorno ad un comune motivo tutta la multiforme varietà delle componenti umane, politiche e sociali, tipica delle società più sviluppate. Nel più recente passato, il Populismo ha costituito quella piattaforma attorno a cui si sono coagulate tutte quelle forze che, in determinate realtà del Terzo Mondo, hanno poi dato luogo delle vere e proprie rivoluzioni nazionali, come nel caso del Nasserismo in Egitto, del Peronismo in Argentina o delle varie rivoluzioni bolivariste in Nicaragua, Venezuela e nello stesso Ecuador. Nel riportare qui quanto già precedentemente accennato, bisogna vedere se l’attuale pullulare di formazioni populiste in Europa, darà luogo a degli sbocchi concreti nella lotta al Globalismo, o finirà per sfociare nel nulla della genericità e dell’inconcludenza che hanno caratterizzato e caratterizzano tante, troppe, esperienze politiche europee.

Ed anche qui l’Europa mostra, una volta in più, se mai ce ne fosse stato il bisogno, la propria peculiare e centripeta multiformità che ne fa un vero e proprio “unicum” geopolitico e geo-spirituale. Populismi e nazionalismi vanno per la maggiore in quell’Europa dell’Est, in paesi come la Polonia, l’Ungheria (e perché no?Anche nella Russia di Putin…), indelebilmente marchiati da decenni di Bolscevismo sovietico, mentre nell’Europa dell’Ovest traccheggiano, restando troppo spesso confinati allo stato di semplici ed irrisolte aspirazioni protestatarie. La famosa Cortina di Ferro, in verità, non è mai caduta. Smontata materialmente, essa è però rimasta nello spirito di quei popoli d’ “oltrecortina” che, rimasti orfani del Socialismo Reale, oggi trovano del tutto naturale ricercare in istanze identitarie e nazionali di tipo populista, un contraltare all’inanità ed alla mancanza di senso che caratterizzano oggidì le democrazie liberali. Ed allora, l’interrogativo che ci dovremmo tutti porre, è verso “cosa” dirigere il Populismo…

La risposta ci indirizza verso una categoria politologica, oggidì apparentemente caduta in disgrazia. Si tratta del Socialismo, tanto decantato negli anni passati ed ora, a seguito di un’incontrollata euforia all’insegna del liberismo globalista, messo frettolosamente in disparte. Le scuole di pensiero comunitariste di area anglosassone, con i vari Sandel, Mac Intyre, Walzer, Taylor, ma anche quelle di tipo anarco-comunitario, come quella di un Nozick, o quelle più “pauperiste” di un Piketty, le stesse riflessioni portate avanti da decenni, da svariati esponenti e riviste del nostrano pensiero “non conforme”, ci indirizzano decisamente verso l’irresoluto contrasto tra Individuo e Comunità ed, ancor più, tra Economia e Comunità, per i quali la risposta non può che essere il Socialismo. Se da tutte queste riflessioni si evince che, mai come ora, il Liberismo e le stesse democrazie liberali sono entrate in una crisi che va, vieppiù, facendosi sempre più profonda ed irresolubile, attraverso un sempre più frenetico alternarsi di crisi e momenti di euforia dei mercati, d’altro lato però, un Socialismo del 21° secolo, non potrebbe mai più avere le caratteristiche di burocratico agglutinamento, tipico di certi modelli del 20° secolo, né tantomeno, finire con l’identificarsi ed immedesimarsi con il progressismo piagnucoloso e buonista dei vari Bernie Sanders o del labour-buonista d’Oltremanica Jeremy Corbin.

Si tratta di ritornare a dare senso alla vita dell’Individuo e della Comunità, a riconfigurare il rapporto tra questi ultimi e l’Economia quale rapporto tra un fine ed un mezzo e non viceversa, come ora accade. Non senza dimenticare che, cemento e collante di questo progetto, non può che essere quell’Identità, quell’anima profonda di un popolo che, ad oggi, il Globalismo sta cercando di eliminare, per lasciare il posto ad un anodino e mercificato modello di società, omologata al comun denominatore Tecno Economico.

E, al di là di qualunque dettagliata e puntigliosa riflessione o analisi intellettuale che dir si voglia, di fronte a quella che pare essere una questione riconducibile ad una mera dimensione politologica, l’unica via d’uscita, apparentemente legata ad una logica dell’assurdo, sembra esser quella derivante da quell’ “Epochè/Sospensione” delle nostre prefissate coordinate di pensiero. E da qui immedesimarsi in quell’heideggeriana “Ereignis”, in quella “parmenidea” coincidenza tra Essere ed Azione, che si traduce in quella “poiesis”, di cui quel “poietein/creare”, dell’Uomo è attitudine primaria. E creare dal Nulla, la stessa possibilità di far fuoruscire l’Essere dal Non-Essere, la possibilità, anche solo a livello teorico, di poter scardinare le razionali coordinate del pensiero occidentocentrico, fa dell’Individuo un Mago. E “magico” non potrà che essere quel pensiero che, d’ora in avanti, avrà il compito di contrapporsi al mostro globale, per restituire senso, bellezza ed armonia ad un mondo, ad oggi, ottenebrato dal grigiore e dall’uniformità globali.

   

Italiae Fashion: LIDEL 1919 – 1935. A cura di Emanuele Casalena

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      [caption id="attachment_27209" align="alignleft" width="174"] Copertina di LIDEL, anno I- Maggio 1919[/caption] [caption id="attachment_27208" align="alignright" width="196"] Copertina di LIDEL, Febbraio-Marzo 1922[/caption]

   Milano nel maggio del 1919 trovò in edicola una nuova rivista, destinata a fare la storia del giornalismo femminile divenendo, per circa tre lustri, un punto di riferimento assoluto per gli amanti della moda e dell’eleganza: Lidel. La testata era l’acronimo di “letture, illustrazioni, disegni, eleganze, lavoro”, ma soprattutto della sua fondatrice e direttrice, Lydia Dosio De Liguoro, una intraprendente giornalista piemontese che, ancor giovanissima, nel 1910, aveva iniziato la sua attività collaborando al prestigioso rotocalco torinese “La Donna”.  Con Lidel però voleva mettere su carta, in piena autonomia,  le sue di idee, per altro già propugnate pochi mesi prima. Nel marzo dello stesso anno, si era tenuto il Primo congresso nazionale dell’industria e dell’abbigliamento, svoltosi a Roma sotto gli auspici del ministero dell’Industria e del Commercio. “Proposito principale del congresso era di liberarsi dall’assoluto dominio francese in fatto di moda”, un compito assai arduo vista la totale dipendenza del mercato italiano dai couturiers parigini fin dal Settecento. Anche sulle riviste nazionali di moda venivano pubblicati solo modelli parigini e le sartorie italiane acquistavano i diritti di riproduzione degli abiti dalle maisonnes d’Oltralpe. Che si trattasse di un obiettivo difficile da raggiungere in tempi rapidi, data anche  l’assenza di un’ industria della moda italiana ben strutturata, capace di competere con quella francese, lo dimostra il fallimento della principale proposta del Congresso: la nomina di una Commissione incaricata di sottoporre al giudizio del governo lo schema di un Ente nazionale della moda e di un Istituto nazionale dell’abbigliamento. La proposta finì nel nulla, anche a causa delle turbolenze politiche in atto  con la caduta del governo Luzzatti pochi mesi dopo. Ma quelle giornate romane misero in luce le idee e la personalità di due partecipanti: Fortunato Albanese e Lydia De Liguoro  che lottavano insieme  per l’affermazione di una moda nazionale, tanto che il primo, nel 1917, presenterà al Ministero dell’Industria un suo opuscolo dal titolo Per una moda italiana.

Lidel nasceva da questo obiettivo focale, promuovere la genesi di una moda italiana, fondendosi col clima di fervore nazionalistico post bellum che animava la borghesia e proponendosi, agli esordi, come una rivista indirizzata all’élite imprenditoriale con l’obiettivo di realizzare, in concreto, il sogno di un Italiae fashion. La rivista rappresentava per la De Liguoro:” La volontà di un saldo cuore di donna, che intendeva rivolgersi al fiore delle donne d’Italia per fare loro apprezzare ogni nostra cosa bella e degna, incoraggiando i nostri creatori artisti in favore di una moda nostra”. Ma non c’era solo moda nel mensile bensì un insieme di temi ed argomenti ritenuti i più adatti per la dama italiana della nuova era di pace. Quelle pagine facevano breccia nel desiderio acceso di conquistare all’Italia  la definitiva autonomia in tutti i campi ammainando ogni provinciale esterofilia. Difatti già nel 1920 in occasione della Fiera Campionaria di Milano nel padiglione della moda, sfilarono le creazioni di stilisti italiani quali Ventura, Ferrario, Radice, Galli, Fumach ed altri.

Sempre in quegli anni aprirono i primi grandi magazzini italiani a cominciare dalla Rinascente, nome coniato dal Gabriele D’Annunzio, fondata nel 1917 dalla famiglia Borletti. Nel 1919 nasce la U.P.I.M. ( Unico Prezzo Italiano Milano) con capitali della stessa Rinascente. Nel 1931 si formerà la Standard che nel ’37 cambierà il proprio acronimo nella più italiana Standa.

La rivista femminile Lidel nacque, come già detto, nel maggio del 1919, in un contesto molto florido per l’editoria italiana, che aveva fatto di Milano la sua capitale indiscussa. Nella pubblicazione di riviste popolari e femminili, sono soprattutto due le case editrici che si contendevano il primato delle tirature: la Mondadori e la Rizzoli, e fu proprio quest’ultima, tra le prime, a introdurre in Italia il sistema della stampa a rotocalco, facendo dei periodici illustrati uno dei settori di punta della sua editoria.

Il rotocalco femminile, in genere, era rivolto ad un pubblico di estrazione sociale medio-bassa, la cui lettrice di riferimento era la casalinga. Si impose letteralmente sul mercato, divenendo “l’evoluzione più significativa nel momento in cui la lettura si afferma come consumo di massa” fu il paradigma della stampa femminile che sopravvisse oltre la seconda metà del Novecento.

Accanto a questa editoria di largo consumo, prosperava anche la rivista di lusso, strumento di diffusione dell’alta moda, facendo riferimento ad un pubblico di tutt’altra tipologia rispetto al rotocalco,  in particolare ad una donna dall’alto tenore di vita in possesso di un certo grado di indipendenza culturale, sociale e di shopping.  Lidel può essere iscritta in questo secondo filone di stampa; anzi, si può affermare che ne rappresenti il caso più emblematico. Al mensile collaboravano il fior fiore degli intellettuali quali  Massimo Bontempelli, Grazie Deledda, Amalia Guglieminetti, Luigi Pirandello, Margherita Sarfatti, Carlo Carrà e molti altri.

All’indomani della fine del primo conflitto mondiale, l’Italia fu attraversata da una grave crisi sociale, economica e politica di drammatica intensità ( basti ricordare il biennio rosso ) e la rivista non intendeva sottrarsi alla trattazione di temi solitamente considerati  sconvenienti per un giornale di moda. Anzi in questa prospettiva proprio questo settore, per sua natura effimero, diventava un terreno fertile per la discussione di temi caldi quali il lavoro, la ricostruzione industriale ed economica del Paese, in una visione di riscatto nazionale compresa la vexata quaestio di affrancamento della moda italiana dai dettami di quella francese. Questa battaglia, condotta in prima persona dalla direttrice De Liguoro, trovò in solido  anche la stilista Rosa Genoni ( politicamente all’opposto) che possiamo, senza dubbio, riconoscere come la madre dell’Italian style.  Entrambe avevano compreso che per rifondare una moda nazionale vincente occorreva un forte impegno di investimento nell’industria tessile e dell’abbigliamento, era indispensabile creare un sistema Italia. Infatti le pagine di Lidel davano ampio spazio al dibattito sulla  promozione e rilancio del settore manifatturiero italiano a supporto di un’ autentica indipendenza italiana nel campo della moda. l’Italia infatti svolgeva ancora un ruolo meramente esecutivo, le sartorie acquistavano dalle grandi case francesi i modelli e li riproducevano fedelmente perpetuando un antico rapporto di sudditanza che sarebbe purtroppo proseguito per anni, nonostante questi primi tentativi di costruire una moda nazionale. A questo punto bisogna lasciare la scena ad una grande stilista italiana, la mamma dell’Italiae  fashion, appunto Rosa Genoni. Valtellinese di nascita, “piscinella”dalla zia Emilia in quel di Milano a soli 10 anni, per togliere una bocca alle 18  da sfamare per il padre ciabattino.  La città di S, Ambrogio ha un tessuto manifatturiero tradizionale dove è occupato ben l’ l’85% delle donne, tra “piscinine”(apprendiste tuttofare), sarte, ricamatrici, cucitrici e stiratrici. Rosa sbarca a Milano con la III elementare ma apprende il mestiere con grande vocazione e chiusa la bottega della zia, va a  frequentare i corsi serali per prendere la V elementare, segue persino quelli comunali per imparare la lingua francese. Già perché in quelle sartorie le mani erano italiane ma i modelli da confezionare erano tutti transalpini. Frequenta da adolescente casa Turati dove entra in amicizia con Anna Kuliscioff  divenendone grande ”compagna” ed abbracciando il socialismo riformista al quale resterà sempre fedele. Nel 1887  sbarca nella Ville lumiére assunta in una sartoria di rue de la Paix dove oltre a perfezionarsi nel disegno come stilita, impara de visu i processi della catena produttiva, dall’ideazione dei modelli al lavoro d’equipe per realizzarli, in più riscontra che les couturiéres non sanno solo eseguire bene il lavoro ma hanno con sé un bagaglio culturale che le guida nella loro professione, ne sanno di Storia dell’Arte e di Storia della Moda. Un anno le basta per tornare  Milano ed essere la stilista della sartoria Bellotti, fioccano i primi consistenti guadagni che le permettono di aiutare i fratelli, in particolare Emilio emigrato in Australia e Carlo accusato dell’ omicidio del socio. Per quest’ultimo paga la parcella dell’avvocato socialista Alfredo Podreider che diverrà suo amante, poi sposo nel ’24, dalla loro unione nascerà l’unica amatissima figlia Fanny.

La fine dell’Ottocento coincide al periodo luccicante della Belle Epoque, la moda francese libera le donne dai mutandoni sotto cumuli di inutili sottovesti, via anche le stecche dai busti e sotto le gonne ridondanti. Sta prendendo sostanza e forma la catarsi femminista della donna, gli abiti ne esaltano l’emancipazione sociale, ma restano i ghetti delle classi di appartenenza che Rosa vorrebbe abbattere. Nel 1903 viene promossa Direttrice della Maison Haardt et Fils di Milano, intrudendo nella produzione suoi modelli oltre a quelli francesi. Ricordandosi di quanto appreso nell’atelier di rue de la Paix, si convince che le sartine debbono avere un’istruzione adeguata, così, dal 1905, sale in cattedra per insegnare Storia del Costume nella Scuola professionale femminile della Società Umanitaria della quale era socia. Sono questi gli anni effettivi della nascita dell’Italian style propugnato da Rosa con grande energia. All’Expo milanese del 1906 presenta otto modelli tutti ispirati ai grandi del Rinascimento, da Raffaello a Botticelli, dal Veronese a Mantegna, nasce il ponte con la grande sartoria italiana del passato che aveva dominato le corti europee, si torna alle matrici venete, fiorentine, milanesi. Tutto nel suo stand è italiano, dai manichini romani, agli abiti, agli accessori fino ai gioielli prodotti dagli allievi orafi della Società Umanitaria.

[caption id="attachment_27206" align="alignright" width="186"] Rosa Genoni, La Primavera, Milano, 1906[/caption] [caption id="attachment_27207" align="alignleft" width="202"] Rosa Genoni, mantello Pisanello, Milano, 1906[/caption]

Non solo passato però ma coniugazione con la donna moderna se Rosa mette in mostra anche la prima gonna pantalone! La stampa internazionale, da Le Figro a La Prensa argentina, decreta il successo dei modelli proposti per la loro originalità ed attualità, Rosa si aggiudica il 30 novembre il Grand Prix della Giuria Internazionale. Nel 1908 sarà invitata al I Congresso della Donna Italiana in veste di delegata della Società Umanitaria, il suo intervento, applauditissimo, ne consacra la persona. Nel suo discorso partendo dalla constatazione di fatto che non esisteva più una moda italiana, ripercorre il passato glorioso del settore al quale ispirarsi innestandovi le grandi professionalità femminili presenti nel nostro Paese. La scuola professionale femminile diventa pertanto un investimento fondamentale per  dare attuazione ad un moda italiana protagonista sui mercati. Rosa espone le sue idee su riviste di moda molto quotate da “La Margherita” al “Marzocco”, da “Vita d’Arte” a “L’Eleganza” ottenendo l’adesione di attrici e nobildonne come Letizia Bonaparte moglie del duca Amedeo d’Aosta e la divina attrice Lyda Borelli.

Nel 1909 nasce il “Comitato per una moda di pura arte italiana” presieduto da Giuseppe Visconti di Modrone, gentiluomo della regina Elena, padre del regista Luchino Visconti, nonché imprenditore del velluto nel settore tessile, presidente dell’Inter e creatore di profumi. L’organismo è  patrocinato da Franca Florio, Borsalino, Lanerossi, Jesurum e diversi altri imprenditori.

Nel 1911 il Comitato bandisce sulla rivista senese “Vita d’Arte” il  concorso per un abito da sera. La partecipazione è enorme e di alta qualità, il premio viene assegnato all’artista  di Faenza  Francesco Nonni disegnatore, pittore, incisore e ceramista. Nello stesso anno con la ricorrenza del cinquantesimo dell’unità d’Italia, all’Esposizione Internazionale delle industrie e del lavoro di Torino viene allestito un padiglione dedicato tutto alla sartoria nazionale.

All’impegno per una moda italiana Rosa in parallelo mette quello di ardente socialista nel battersi per il miglioramento delle condizioni del lavoro femminile, per il diritto al voto, per l’ orario massimo di lavoro di otto ore, per il no al lavoro notturno, per il congedo retribuito per la maternità, ecc…. Siamo alle soglie della I Guerra mondiale, lo scontro interno al Partito socialista è forte tra interventisti e pacifisti, Mussolini lascia il Partito insieme a componenti anarchiche nazionaliste, Rosa si batte contro l’intervento militare in Libia quanto contro l’ingresso dell’Italia nel conflitto mondiale. La sua residenza milanese si trasforma in sede del Movimento Internazionale per la Pace, spazio di aggregazione quanto megafono  del pacifismo europeo.

Nel 1915 partecipa all’Aja al Congresso Internazione delle donne contro la guerra, invitata dalla futura premio Nobel per la pace Jane Addams fondatrice della Women’s International League for Peace and Freedom che la porta con se all’incontro con il Primo Ministro olandese e il Ministro degli Esteri inglese, invocano un intervento per arrestare il conflitto, durante il quale la Genoni tiene a battesimo l’associazione “Pro Humanitate” volta all’assistenza dei prigionieri di guerra.

Gli avvenimenti postbellici si susseguono convulsi, dal biennio rosso alla contemporanea nascita del fascismo fino alla chiamata alla Presidenza del Consiglio di Mussolini nel ’22.

Nel 1924 avviene l’incontro con la teosofia di Rudolf Steiner di cui segue alcune lectures, durante un viaggio in Cornovaglia con la figlia Fanny, restandone profondamente influenzata nel pensiero come nel fare arte. Nel 1925 muore la sua amica e compagna di battaglie Anna Kuliscioff, per lei si aprirà un vuoto enorme.  Eppure con il marito mette su un laboratorio da sarta nella sezione femminile del carcere di S, Vittore con annesso asilo nido per le detenute mamme. Sempre nel ‘25 esce il primo dei tre volumi (resterà l’unico) della sua Storia della Moda attraverso i secoli.  Nonostante il suo antifascismo Rosa continuerà a mietere successi nel campo della moda fino alla perdita del coniuge avvenuta nel 1936 a Sanremo. Con l’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale Rosa e Fanny si stabiliscono a Varese dove la Genoni risiederà fino alla data della sua morte il 12 agosto 1954.

Era dovuto chiamare in causa la Genoni perché, con la nazionalista De Liguoro, costituisce la radice del nostro Made in Italy che ha avuto un parto cesareo con due ostetriche di segno politico opposto ma accomunate dallo stesso obiettivo far nascere l’Italiae fashion. Il fermento di emancipazione della moda italiana ambiva all’affermazione patriottica nel settore dell’abbigliamento, nel quale tradizionalmente il nostro Paese si era distinto per capacità, abilità sartoriale e competenza estetica almeno fino alla seconda metà del ‘500. Per meglio comprendere tutto ciò, prendiamo in considerazione un articolo firmato da Lydia De Liguoro, La donna nelle nuove opere di rivendicazione nazionale, che compare sul numero 8 di Lidel dell’agosto del 1920. Vi si legge: “Non è la prima volta che in Italia si scrive e si discute intorno all’opportunità di creare una moda la quale si emancipi completamente dalla servitù straniera, fiorendo rigogliosa in questa terra di esteti e d’artisti”. E ancora: “Le rivendicazioni di cui ci occupiamo, invece, riguardano la questione economica dal punto di vista dell’industria nazionale, messe in relazione con il risveglio della nuova coscienza femminile”. La giornalista sostiene la necessità di creare sinergie tra le industrie italiane manifatturiere e quelle di confezione, di modo da produrre modelli appetibili anche per il mercato estero, dando il giusto valore a tutti quei lavoratori e lavoratrici che operano nel settore, stesso pensiero di Rosa Genoni. Molteplici erano gli intenti che la De Liguoro perseguiva: convincere le signore italiane a preferire i modelli nostrani rispetto a quelli stranieri, facendo leva in particolare su quelle appartenenti all’élite sociale ed economica del paese, incoraggiare le case di moda italiane a firmare i propri modelli, non utilizzando nomi che evocano le creazioni francesi; dare impulso a questo settore attraverso  manifestazioni, da tenersi nelle più importanti città italiane; mettere in luce tutto questo movimento usando le riviste di moda che si debbono impegnare a promuovere la produzione nazionale. .Altro tema specifico affrontato da Lidel è la semplicità, dell’abito privo di fronzoli,  dibattuto quasi sempre all’interno delle rubriche dedicate alla moda. L’argomento poi presta il fianco alla discussione di tematiche che sconfinano nell’economia, nella politica e nel ruolo sociale della donna della nuova epoca fascista. Come in tutte le riviste femminili d’ inizio Novecento  anche in Lidel insegna l’educazione all’eleganza ed al buon gusto della donna, tanto che la corrispondente Maria Croci (Mag), da  Parigi, scrive in proposito: “Sedurre è il compito della giovinezza: non è per essa una vana civetteria, ma il maggior pregio del suo fascino deve risiedere nella semplicità […] c’è bisogno di essere ragionevoli, di non esagerare mai... L’importante è dar prova di buon gusto.”

  [caption id="attachment_27205" align="alignnone" width="1500"] Disegni di Moda su Lidel, 15 agosto 1927[/caption]

Le ragioni di questa lotta in nome di una sobria eleganza sono da ricercare in fattori di diversa natura. Innanzitutto nella situazione socio-economica del Paese nel periodo seguente al primo conflitto mondiale: le industrie avevano subito una forte crisi; i prezzi dei prodotti erano aumentati notevolmente, provocando non poco disagio tra i cittadini che, in assenza di lavoro, faticavano a dotarsi di beni di consumo anche di prima necessità. In un simile contesto, in cui la maggioranza della popolazione viveva in condizioni di forte precarietà, è naturale che la rivista cercasse di frenare la vanità delle signore alto-borghesi, lettrici di riferimento di Lidel, esortandole ad abbandonare gli sprechi, le vesti esageratamente ornate, i tessuti costosissimi, proponendo di optare per mises semplici, evidenziando come l’eleganza non consistesse  nell’abito costoso, quanto nei comportamenti che la donna doveva adottare sia in pubblico che in privato, ritenendo l’eccesso un segno di cattivo gusto, anzi un “oltraggio” alla Patria. Paride era lo sposo, il vero arbiter elegantiae della consorte: “Un marito intelligente ha più interesse di un sarto a far fare bella figura alla moglie e ad impedirle di commettere qualche eresia estetica” (in “Lidel”, n. 2-3, febbraio-marzo 1922). Donna come “angelo del focolare”? sottomessa al coniuge, tutta dedita a far figli ed allevarli come la Sofia Loren di Una giornata particolare di E. Scola? Lidel fu anche un veicolo di riscatto del piccolo mondo antico della donna italiana tutta casa, figli e chiesa, fu merito della rivista averla portata al centro dell’attenzione disegnandone un nuovo profilo, pur nelle indubbie resistenze ataviche che anche il fascismo nutriva per il suo ruolo sociale. Lo scopo autentico era la competizione nazionale con l’haute couture d’oltralpe che non poteva prescindere da un modello di donna tutta italiana a qualunque fascia  appartenesse, proletariato, middle class, nobiltà, alta borghesia rampante. Tutte vestono bene se vestono italiano, anzi indossano quanto di meglio per il loro stato sociale, un messaggio di concreta, acuta propaganda. Si torna oggi, timidamente, a parlare di Patria ebbene questa entità comune fu il cuore autentico del messaggio di Lydia De Liguoro come di Rosa Genoni.  Lidel spinse a tavoletta sulla grandezza italiana espressa in ogni campo a costo di enormi sacrifici soprattutto per riconquistarsi la vetta dopo la fisiologica  depressione economica del primo dopoguerra. Negli anni ’20 la rivista prese aperta posizione a supporto della rivoluzione fascista là dove serviva cooperare  al riscatto nazionale in ogni campo nel fare come nel sapere. Il 1927 Lidel cambia Direttrice a Lydia De Liguoro subentrerà un maschietto Gino Valori, laurea in giurisprudenza, giornalista, regista di film da soffitta. E Lydia? Lasciata la direzione di «Lidel», passa a dirigere un’altra rivista, «Fantasie d’Italia», voce ufficiale della Federazione nazionale fascista dell’industria e dell’abbigliamento.

Emanuele Casalena Bibliografia: Carrarini, 2003, La stampa di moda dall’Unità a oggi, in Storia d’Italia. Annali 19. La moda, a cura di C.M. Belfanti, F. Giusberti, Torino, Einaudi Alberto Malfitano, Storia e Futuro rivista online, Laboratorio n. 41, Numero 45-Dicembre 2017. Eugenia Paulicelli, Genoni, Rosa, Dizionario biografico degli italiani, Enciclopedia Treccani, 2017.              

Junger e la battaglia come esperienza interiore* – Alessandra Pennetta

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E l’essere umano è buono. Altrimenti come ci si potrebbe addossare gli uni agli altri? Ognuno sostiene di essere buono. Nessuno ha attaccato. Tutti sono stati aggrediti” [1].

La pace, prima di diventare tale, ha fatto la guerra. Ci avete mai pensato?

Ogni uomo si comporta come è nella sua natura. Gli uomini uccidono altri uomini perché in loro è naturale farlo: “per prima cosa siamo esseri umani (...) Ma proprio perché siamo esseri umani verrà sempre il momento in cui dovremo saltarci addosso” [2], per un sogno di conquista, un desiderio di vendetta, una volontà di rapina. Perciò Junger scrive “vivere significa ammazzare” [3]. Ci vuole una punta ben arrotondata per far passare un uomo per un instancabile cacciatore di mosche [4] piuttosto che per un assassino consumato. Il bambino che roteava i pugni chiusi è oggi il pacifista che con le mani in tasca “va a vedere gli incontri di boxe” [5].

La pace è la superficie fredda di un’anima morta. La guerra, intesa come battaglia interiore, sgorga come lava sensibile e onnipotente dal cratere dello spirito ardente quando ha rotto ogni limite [6]. La battaglia è anche una forma di vita, la cui intuizione virile pulsa come sangue vivo e in salute nel polso di colui che è predestinato. “Solo chi è forte tiene il proprio mondo in pugno: il debole è destinato a farlo evaporare nel caos” [7].

Junger fa uscire l’uomo dalla caverna esistenziale del suo piccolo guscio primitivo per espanderlo e unirlo illimitatamente alla vita; il filosofo infatti demolisce la gabbia della cecità ideologica e il cuore della coscienza riprende a battere illuminato da mille soli detonanti. La luce del cambiamento respira. L’oceano del destino si rovescia sul deserto dei sepolti vivi. L’esistenza scroscia sulla terra scoppiando come un temporale. L’uomo accalorato è nudo sotto il diluvio d’amore, egli ama la vita e la vita ama lui. Mondo interiore ed esteriore si baciano.

Junger è il filosofo combattente o il combattente filosofo (che poi è la stessa cosa) capace di prendere un alito della vostra vita ordinaria, imprimergli forza, farlo crescere sino a trasformarlo in un vento muscoloso che sposta e cambia il futuro. Mentre il borghese si spegne nell’ignoto come l’effimero fascio di luce al tramonto, l’uomo combattente di Junger è sempre vivo. La Storia non ama gli uomini proni né addossati al muro della terra di nessuno. La Storia fa il suo corso, gli uomini per lo più fanno la loro vita. Ma voi fate incontrare la Storia e la Vita. Fate incontrare il vostro tempo e il tempo della Storia. Il tempo: il tempo non si ferma mai, non si solidifica. Non fategli un monumento né un sepolcro. Il tempo è sempre vivo, siate vivi voi stessi. Questo è l’invito di Junger.

La vita si tende in interminabili giorni. Meravigliose albe di fuoco eterno. Tramonti rossi che non muoiono mai. Canti primaverili di soldati. Ciò che sembrava destinato a perire nella vecchia vita, anzi non-vita, ora vive e combatte. “Cosa c’è di più sacro di un essere umano combattente?” [8]

Nei boulevards il sangue del pacifista scorre festante avanti e indietro come un buon bicchier di vino rosso nella gola dell’ubriaco. È la marcia della pace.  Il giudizio di Junger affonda inarrestabile nella verità della carne: “la propria persona è quanto di più sacro, motivo per cui [il pacifista] fugge o teme lo scontro” [9]. La pace è la superficie levigata come il marmo lucente, lontana, irreale, di uno stesso tavolo da gioco le cui gambe leonine si piegano nel profondo buio di un buco di vita di trincea. “Si è forgiato il più puro spirito guerriero; si è combattuto, perché era nelle cose” [10].

Il coraggio è “l’assalto dell’idea alla materia” [11] del vaso immobile del mondo e possedere coraggio significa, per Junger, essere all’altezza del proprio destino sotto qualsiasi forma, anche quella del fischio mortale della guerra. C’è un singolo angolo di tempo nella vita di ogni uomo in cui l’esteriorita’ della lotta, cioè il mondo esterno, si spegne come una torcia nell’istante in cui la volontà si accende e ogni ostacolo attorno muore in un lampo [12]. Così, sotto una cascata danzante di fuoco spirituale, esondante dal braciere vulcanico della battaglia interiore, l’uomo viene ribattezzato a nuova e disinibita vita. L’uomo è finalmente salito sul promontorio dell’universo per gettarsi nell’infinito. È la vittoria della vita spirituale sulla morte.

Il pacifista ha una sola, raffinata, femminile [13], idea: la pace, una graziosa statua emersa dagli scavi dell’umanità. Egli continua a scavare mentre l’umanità affonda e la terra diviene un groviglio di uomini vivi e morti. Alla radice della lotta non c’è sempre una volontà di morte, a volte è la vita che lotta per vivere. Il pacifista non saprebbe tenere la posizione né andare avanti. Su ogni sporgenza di vita che va sbriciolandosi sotto il peso della Storia troverete un soldato tutt’uno con il suo buco: non può “rimanere là sotto, eppure mostrarsi in superficie era morte certa” [14]. In quale mercato rionale del pianeta morale il pacifista è andato a vendere le sue scarpe tirate a lucido affinché possa dire non ho piedi per marciare?

Il pacifista è l’uccellino che pigola per non uscire dal nido.

Note:

* l’articolo è stato sviluppato intorno a due dei 13 capitoli nei quali il libro La battaglia come esperienza interiore di E. Junger (1922) si divide: Pacifismo e Coraggio [1] E. Junger, La battaglia come esperienza interiore, Piano B, Prato, 2017, pagg. 75-76 [2] cit., pag. 65 [3] cit., pag. 57 [4] “Ma quando sei tu, in piena goduria, a startene accovacciato dietro la mitragliatrice, quel movimento là davanti altro non è che una danza di mosche”, cit., pag. 65 [5] cit., pag. 56 [6] “Le vere fonti della guerra sgorgano dal profondo del nostro petto, e tutto l’orrore che poi inonda il mondo è solo un’immagine riflessa dell’anima umana che si palesa negli avvenimenti”, cit., pag. 59 [7] cit., pag. 56. Junger ironizza su coloro che, lontani dal fronte, “si scandalizzavano della guerra per iscritto per poi sostenere di aver avuto il polso della propria epoca!”, cit., pagg. 79-80 [8] cit., pag. 66 [9] cit., pag. 56 [10] cit., pag. 71 [11] cit , pag. 66 [12] “La perfezione. Ecco il punto. Lo spingersi agli estremi delle proprie capacità, il modellare la realtà nella sua forma più pura”, cit., pag. 76 [13] “Esiste un solo punto di vista per contemplare il fulcro della guerra, ed è quello mascolino”, cit., pag. 72 [14] cit., pag. 63.

Alessandra Pennetta

DECIMA FLOTTIGLIA M.A.S.: propaganda per la riscossa (X parte) – Gianluca Padovan

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«… a chi ci accusa di essere antifascisti rispondiamo: - non eravamo né anti, né pro, eravamo solo impegnati nel proseguire una guerra che avevamo cominciata e che sapevamo di già perduta: - avevamo “poca prora per l’insidia vasta”»

Pasca Piredda; 1944

  La guerra in casa.

Sabato 18 settembre Benito Mussolini parla agli Italiani da Radio Monaco. Il 23 rientra in Italia e si stabilisce momentaneamente a Rocca delle Carminate, in Romagna, per poi trasferirsi a Gargnano, sul Lago di Garda, a Villa Feltrinelli.

Sempre verso la fine di settembre, con la costituzione della Repubblica Sociale Italiana e delle Forze Armate, il Capo dello Stato e Comandante Supremo delle FF. AA. Repubblicane è Benito Mussolini; il Ministro delle Difesa Nazionale e al contempo Capo di Stato Maggiore Generale è il Maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani, mentre il Segretario Generale dell’Esercito Repubblicano è il Generale di Brigata Emilio Canevari.

Canevari lo si ricorda per avere scritto il libro Graziani mi disse, pubblicato nel 1947, ma anche prima per essere stato “curiosamente” allontanato dal ruolo che ricopriva, poi arrestato e infine entrato a fare parte dei così detti “fascisti rossi” di Giovanni Antonio de Rosas alias Stanis Ruinas nell’immediato dopoguerra. (1)

Alessandro Pavolini diviene segretario del P.F.R. (Partito Fascista Repubblicano), mentre Renato Ricci è il Comandante della Guardia Nazionale Repubblicana (G.N.R.). L’Ammiraglio di Squadra Antonio Legnani (2) è nominato Sottosegretario di Stato per la Marina, ma deceduto in un incidente d’auto il 20 ottobre la nomina passa al Capitano di Vascello Ferruccio Ferrini, ex sommergibilista. Anche costui, dopo avere fatto arrestare il Comandante Borghese, sparirà dal “direttivo” della R.S.I. ed entrerà a fare parte dei “fascisti rossi” a fine guerra.

    Repubblica “di Salò” o di Gargnano?

Puntualizza Sergio Nesi, combattente decorato della Decima: «La costituzione e la composizione del governo (un governo provvisorio come lasciò intendere Pavolini) furono decise a Roma il 23 settembre e comunicate per radio lo stesso giorno, dopo laboriose riunioni. Come si è visto in precedenza, la prima seduta del governo, invece, si svolse il 27 alla Rocca delle Carminate alla presenza di Mussolini, assente a Roma. Fra le decisioni prese, importante fu quella di decentrare i vari ministeri, sparpagliandoli tra Lombardia e Veneto. A Salò furono collocati soltanto il Ministero degli Esteri e quello della Cultura Popolare, per cui non ci si spiega il vezzo antistorico di chiamare la R.S.I. la Repubblica di Salò» (Nesi Sergio, Junio Valerio Borghese un Principe un Comandante un Italiano, Editrice Lo Scarabeo, Bologna 2004, p. 251).

    Solo promozioni sul campo e solo per merito di guerra.

Il 5 ottobre 1943 Benito Mussolini riceve il Comandante Borghese. Nell’opera Gli ultimi in grigioverde Giorgio Pisanò raccoglie anche la testimonianza postbellica del Comandante Borghese su quei momenti: «“L’incontro con Mussolini consacrò in un certo senso le origini della ‘Decima’ come forza armata della R.S.I. Da quel momento, infatti, noi tutti ci considerammo soldati della Repubblica sociale, e sotto la sua bandiera combattemmo fino all’ultimo. Ma quel primissimo, avventuroso periodo, venne contrassegnato anche da alcuni particolari che credo interessante ricordare. Quando mi accorsi, infatti, che attorno a noi si era creato il vuoto, che istituzioni, strutture, enti, comandi, e così via, non esistevano più, capii che era necessario intraprendere in senso rivoluzionario la nuova realtà, e fornire agli uomini che stavano radunandosi attorno a me delle direttive atte a rompere decisamente con gli schemi di un passato e di una tradizione che non avevano retto alla prova dei fatti. Emanai così alcune disposizioni fondamentali: 1) Rancio unico per ufficiali, sottufficiali e marinai. 2) Panno della divisa uguale per tutti. 3) Sospensione di ogni promozione sino alla fine della guerra, fatta eccezione per le promozioni per merito di guerra sul campo. 4) Reclutamento esclusivamente volontario. 5) Pena di morte per i militari della “Decima” che vengano riconosciuti colpevoli di furto o saccheggio, diserzione, codardia di fronte al nemico”» (Giorgio Pisanò, Gli ultimi in grigioverde. Storia delle Forze Armate della Repubblica Sociale Italiana (1943-1945), Vol. II, Edizioni FPE, Milano 1966, pp. 1038- 1040).

    I nuovi combattenti della Xa FLOTTIGLIA M.A.S.

Borghese afferma che la nuova formazione militare è al servizio della Patria e non del partito, riferendosi evidentemente tanto al vecchio P.N.F. quanto al nuovo P.F.R.

Pertanto: «“accorsero decine di migliaia di uomini di ogni età, di ogni classe sociale. Si verificarono anche casi di generali che si presentarono per arruolarsi, e a me che li volevo respingere a causa della loro età e del grado ricoperto, risposero: ‘Io sono qui per obbedire e combattere come marinaio semplice’. Tutta la storia della ‘Decima’ dal settembre del ’43 all’aprile del ’45 sta del resto a testimoniare quale forza morale e rivoluzionaria abbia ispirato la condotta dei miei marinai. Un riflesso di tale carica spirituale può essere anche identificato nello ‘scudetto’ da braccio che adottammo sulle uniformi: la ‘X’ della ‘Decima’ su campo azzurro, sormontata dal teschio con la rosa in bocca. Tale scudetto nacque, come del resto la canzone della ‘Decima’, in un piccolo alberghetto presso Lerici, dove erano ospitate la mia famiglia e quelle di altri ufficiali e dove qualche volta, di sera, riuscivamo a trovarci per trascorrere qualche ora di distensione. L’idea dello ‘scudetto’ con il teschio e la rosa rossa ci venne ricordando il comandante Todaro, Medaglia d’Oro, una delle figure leggendarie della ‘Decima’ ante 8 settembre. Todaro, come Teseo Tesei, un altro dei nostri eroi, aveva lasciato in noi della ‘Decima’ una traccia profonda e indelebile. Todaro era il mistico di un determinato tipo di vita, che cercava più che la vittoria, la bella morte: ‘Non importa’, ci diceva ‘affondare la nave nemica. Una nave viene ricostruita. Quello che importa è dimostrare al nemico che vi sono degli italiani capaci di morire gettandosi con un carico di esplosivo contro le fiancate del naviglio avversario’. Tra l’altro, prima di cadere, ci aveva parlato del suo desiderio di coniare un distintivo dove apparisse l’emblema di una rosa rossa in bocca a un teschio: ‘Perché per noi’, ci aveva detto ‘la morte in combattimento è una cosa bella, profumata’. Nel suo ricordo disegnammo così lo ‘scudetto’. E mai, forse, un distintivo fu ‘capito’ e portato con tanta passione. Perché sintetizzò veramente lo spirito rivoluzionario, beffardo, coraggioso, leale che animò, in terra e sul mare, gli uomini della ‘Decima’ repubblicana”» (Ibidem, p. 1040).

    Il saluto militare della Decima.

Un altro particolare segno distintivo della Xa Flottiglia M.A.S. riguarda il saluto militare: «Il comandante di reparto apriva le assemblee rivolgendo ai suoi ragazzi un forte: “Decima, marinai!” e la truppa schierata rispondeva a una voce, altissimo: “Decima, Comandante!”. Il grido esprimeva la stretta unione fra chi dava gli ordini e chi li eseguiva, e insieme prometteva da una parte all’altra, lealtà e fiducia» (Guido Bonvicini, Decima Marinai! Decima Comandante! La fanteria di marina 1943-1945, Ugo Mursia Editore, Milano 1988, p. 26).

Anche questo aspetto dava un marcato senso di fastidio a molti politici e militari di regime. In ogni caso il rapporto tra la Xa Flottiglia M.A.S. e il Governo Italiano vengono chiaramente stabiliti: «l’indipendenza formale e sostanziale che era garantita dal patto con le forze armate tedesche veniva completata da una volontaria adesione al governo repubblicano italiano, riconosciuto come esistente di fatto e di diritto» (Ibidem, p. 16).

Alla fine del mese di settembre, come scrive Donald Guerrey «Borghese incontrò a Berlino l’ammiraglio Doenitz, comandante in capo della Marina, col quale concordò di mettere la flottiglia, o almeno una sua parte, sotto il comando congiunto di essa e dell’Abwehr. Per i due mesi seguenti vi fu un’aspra disputa sui rispettivi ruoli di queste due organizzazioni [sopraggiunte a seguito della costituzione della Repubblica Sociale Italiana e culminati con l’arresto del Comandante Borghese. N.d.A.], ma i primi del 1944 si raggiunse un’intesa, dopo di che reclutamento, addestramento ed espansione furono accelerati. La componente navale della Decima fu incorporata nei KdK [Kommando der Kleinkampfverbände, Comando delle unità minori di battaglia. N.d.A.] e la maggior parte degli uomini Gamma vennero posti a disposizione dell’Abwehr II per i sabotaggi. Sotto il controllo italiano rimasero i battaglioni di fanteria, guastatori alpini e genio (Barbarigo, San Giusto, Lupo, Serenissima, Freccia) e un reggimento di artiglieria (Condottieri). All’inizio fece parte della Decima anche il I° reggimento fanteria di marina San Marco, comuni combattenti non specializzati, impiegati come fanteria; questo però fu un serbatoio cui attinsero i tedeschi per le operazioni dell’Abwehr. L’espansione portò la Decima, innalzata al rango di divisione dal 1° maggio 1944, a un totale massimo di quasi trentamila uomini, inquadrati in battaglioni o gruppi di fanteria, artiglieria e genio, più una quantità di reparti speciali (sempre chiamati X Flottiglia MAS, ma solo una parte del tutto) di sabotatori, nuotatori-paracadutisti eccetera. Nei primi mesi del 1944 il reggimento San Marco aveva contribuito a formare la X divisione MAS o X MAS, per cui il suo nome fu dato alla divisione di fanteria di Marina della RSI, addestrata in Germania fino al luglio-agosto 1944, quando venne trasferita in provincia di Savona, dove rimase di stanza, in attesa di uno sbarco alleato che non si ebbe mai; fu impiegata nella repressione del movimento partigiano e, in misura minore, sul fronte della Garfagnana contro brasiliani e afroamericani» (Donald Guerrey, La guerra segreta nell’Italia liberata. Spie e sabotatori dell’Asse 1943-1945, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2004, p. 94). (3)

    Le forze in campo.

Le forze combattenti italiane vengono “nominalmente” riunite sotto un’unica bandiera, seppure da subito sorgano tensioni di vario genere perché da un lato si vorrebbe una Milizia forte e sotto cui militi l’Esercito, dall’altro un Esercito sotto cui militi anche la Milizia.

Non si può sottacere come le truppe italiane passate al nemico siano fatte combattere anch’esse sotto un’unica, ma diversa bandiera: però si tratta di soldati che fanno parte del Corpo Italiano di Liberazione, che non ottengono né subito né mai la qualifica di “alleati”.

Dalla storia bellica narrata da più autori e da molteplici angolazioni, dai resoconti militari e dai documenti emerge sempre e chiaro il dato di fatto che discordie meramente personali, ideologiche, partitiche e militari non siano messe da parte per fare “fronte comune” innanzi alle reali urgenze dettate dalla guerra in corso. Non si può sottacere che taluni personaggi possano avere agito in accordo con l’avversario, ovvero con gli angloamericani, oppure avere obbedito a direttive emanate dalle logge massoniche d’appartenenza, il che equivale, in entrambi i casi, a quello che il Codice Penale Militare indica con il nome tradimento. (4)

Nel frattempo l’11 gennaio 1944 a Verona sono fucilati come traditori alcuni personaggi di spicco del passato regime fascista, tutti appartenenti al decaduto Gran Consiglio del Fascismo; altri, come ad esempio Dino Grandi, sono condannati in contumacia. (5)

Senza scendere in dissertazioni sull’ancora oggi controverso argomento e sulle successive conseguenze politiche e militari, si può ricordare che l’organizzazione militare della R.S.I. è ben lungi dal poter essere dichiarata operativa. Difatti le uniche truppe pronte a combattere, seppure solo in parte adeguatamente addestrate, si trovano nelle fila della Xa Flottiglia M.A.S.

Il 13 gennaio, il Comandante Borghese è “curiosamente” fatto arrestare da Ferrini a Gargnano, dove si era recato per conferire con Benito Mussolini, ed è tradotto in carcere nel castello di Brescia, antica fortificazione presidiata dalla G.N.R. Arresto quanto mai “inopportuno” dal momento che gli angloamericani s’apprestano ad un nuovo sbarco che avviene il 22 gennaio a Nettunia, meglio noto come “sbarco di Anzio-Nettuno”.

    Borghese non s’arrende.

La storia dalla “rivolta di Borghese”, ovvero dalla sera in cui il Comandante ha udito alla radio l’annuncio di Badoglio fino al 25 aprile 1945, è stata presentata e commentata da numerosi autori con versioni tutt’altro che concordi tra loro.

Innanzitutto Junio Valerio Borghese è un militare e come tale ha prestato giuramento, intraprendendo la guerra come richiesto dallo Stato che l’aveva dichiarata. I rivolgimenti politici del luglio 1943 gli fanno capire che il Regno d’Italia potrebbe chiedere una pace separata. Vista la perplimente conduzione sia della politica italiana sia della guerra e soprattutto da parte della Regia Marina, ritiene che ci si debba opporre a “una pace separata e vergognosa”. Difatti lui sta conducendo la guerra come ci si può aspettare da un qualsiasi soldato ed è conscio che l’unica possibilità di uscirne con onore è battersi lealmente.

In questo ambito non si è in grado di affermare se Junio Valerio Borghese fosse perfettamente al corrente della situazione in cui versava lo Stato Maggiore Italiano. Oppure se fosse a conoscenza della ferma intesa tra personaggi di spicco di Casa Savoia, tra i quali il Re in primis, nonché tra persone della politica e delle Forze Armate, con personaggi altrettanto di spicco e appartenenti a Stati contro i quali si sarebbe potuti entrare in guerra. Certamente doveva essere a conoscenza del fatto che numerosi alti ufficiali erano affiliati a logge massoniche e l’obbedienza di costoro andava innanzitutto alle logge d’appartenenza e non già alla Bandiera su cui avevano giurato e innanzi a uno Stato che li stipendiava più che lautamente.

Certamente a Borghese molte faccende non dovevano essergli ignote, soprattutto dopo avere sperimentato in prima persona il fallimento di numerose missioni di guerra e non certo per imperizia sua o dei suoi marinai. Come ampiamente dissertato da vari autori vi sono stati fin dall’inizio delle ostilità una chiara incapacità nei settori di comando e un chiaro tradimento da parte di taluni e sicuramente di troppi.

La guerra porta Junio Valerio Borghese ad avere contatti con ufficiali Tedeschi e ad apprezzarne l’operato. Pertanto, dopo due anni di guerra, reputa che non si possa tradire l’Alleato con “una pace separata e vergognosa”. Non essendo uno sprovveduto e un disinformato si sarà anche reso conto a che cosa sarebbe andata incontro l’Italia a seguito di una resa. Altrettanto certamente non aveva previsto, quel 9 settembre del 1943, che in Italia si sarebbe scatenata una vera e propria guerra civile protrattasi fino al 1947, con strascichi anche negli anni successivi. Si ritrova inoltre “imbrigliato” nella costituzione di una Repubblica, quella Sociale, con elementi del vecchio Partito Fascista e con tutte le pregiudiziali che questo comportava per la buona conduzione della guerra.

Questo avrebbe comportato il dover affrontare tanto il sospetto quanto la sfiducia delle Forze Armate Tedesche, sentimenti rinnovati dall’approssimativa conduzione della guerra anche da parte della R.S.I.

    Commilitoni passati al nemico.

Borghese deve fare consequenzialmente fronte non solo ai noti avversari, ma anche agli ancor meglio noti ex-commilitoni oramai combattenti nell’opposto schieramento. Deve fare fronte, soprattutto, alle “forze partigiane” (meglio definibili “bande parteggianti”) che combattono nel suo stesso territorio: con esse cercherà, quando possibile, di giungere ad una sorta di accordo innanzitutto perché considera che tale guerra sia fratricida e non desidera vedere ulteriore sangue italiano versato, ma si preoccupa anche per l’incolumità dei suoi uomini, fatti oggetto d’attentati e di attacchi “alle spalle”. Soprattutto la sua preoccupazione va alla popolazione civile, inevitabilmente coinvolta dalle “operazioni partigiane” e sottoposta alle rappresaglie conseguenti agli attentati contro le forze combattenti. A tutto ciò si aggiungono le rappresaglie perpetrate dai “partigiani-parteggianti” contro i civili considerati “collaborazionisti”.

Sul fronte carsico, nella Terra d’Istria italiana, nel Friuli e nella Venezia Giulia dovrà necessariamente trovare accordi con talune “formazioni partigiane” e successivamente con gli angloamericani affinché i civili non vengano continuamente trucidati dalle forze combattenti comuniste agli ordini del Maresciallo “Tito”, ovvero il sig. Josif Weiss (o Broz), fondatore del Partito Comunista Jugoslavo di confessione ebraica.

Non in ultimo, si prodiga affinché le forze tedesche in ritirata evitino di causare ulteriori problemi e lutti alla popolazione italiana.

    L’indiscutibile operato.

Parlando dell’operato proprio e della Xa Flottiglia M.A.S., Borghese scrive: «Ha assistito la popolazione bisognosa; ha evitato in tutti i modi la disastrosa guerra civile, ma ha lottato – sempre con buona guerra – contro il banditismo, mai contro il patriottismo. Ha collaborato per evitare distruzioni [e] sabotaggi da parte germanica; ha il merito della salvezza del porto di Genova. Ha difeso al massimo limite delle sue possibilità il suolo della Patria contro gli invasori e, in particolare, la Venezia Giulia contro le orde di Tito» (Junio Valerio Borghese, La Xa Flottiglia MAS, Effepi, Genova 2016, p. 73).

Il Comandante Junio Valerio Borghese ha fatto tutto l’umanamente possibile per cercare di salvare il più possibile nel corso dell’affondamento della Nazione.

Leggendo i testi dei Manifesti e dei Volantini conservati presso collezioni sia pubbliche sia private si può affermare che il Comandante Borghese fosse perfettamente conscio del valore dimostrato in guerra da lui e dalla Xa Flottiglia M.A.S. Ed era altrettanto conscio della rilevanza che avrebbero avuto nella storia futura dell’Italia le gesta prima (ante 8 settembre) e la decisione di non recedere poi.

Nel Volantino vincere nel tempo c’è scritto: «A noi, marinai della Decima, questa coscienza dà forza e certezza. Chi potrà domani tracciare una storia dell’Italia senza ricordarci e senza ammirarci? Sì, ammirarci anche: giacché la storia ricorda solo coloro che ne sono degni».

  Dopo la conclusione della guerra Junio Valerio Borghese scrive di suo pugno:

«Oggi il dovere di ciascuno di noi è di lavorare: con i nostri principi di allora e di sempre: onestà, lealtà, coraggio e competenza»

(Associazione Combattenti Xa Flottiglia Mas, Capitano di Fregata Medaglia d’Oro al Valore Militare Junio Valerio Borghese, 1906-2006 centenario della nascita, Milano 2006, p. 69).

      Note   1) La voce dei “fascisti rossi” è la rivista fondata a Roma nel 1947: Pensiero Nazionale, finanziata anche dal Partito Comunista Italiano. Sull’argomento “comunismo” vedere utilmente l’articolo Falce e maglietto, apparso su Ereticamente. Sul ruolo giocato anche dal P.C.I. nel dopoguerra prendere visione di Prigionieri!, sempre su Ereticamente. Gioele Magaldi nel libro Massoni dichiara d’essere affiliato alla loggia “Thomas Paine”, che è «la più antica Ur-Lodge del mondo (risale al 1849-1850)» (Gioele Magaldi -con collaborazione di Laura Maragnani-, Massoni. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges, Chiarelettere Editore, Milano 2016, p. 22). Affiliati a questa loggia figurano, tra i tanti, Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi, Charles Darwin, George Orwell, Eleanor Roosewelt, Gandhi, ecc. Per quanto concerne le Ur-Lodges: «È un network di superlogge che nascono costitutivamente su base cosmopolita e vocazione identitaria e operativa sovranazionale» (Ivi).   2) Un breve nota sull’Ammiraglio di Squadra Antonio Legnani (Asti 1888 – Lonato 1943): «All’atto dell’armistizio, fervente sostenitore del regime, scelse senza esitare la collaborazione con le forze germaniche e aderì alla R.S.I., assumendo il 23 settembre 1943 l’incarico si sottosegretario di stato per la Marina. Morì per incidente automobilistico meno di un mese dopo, il 20 ottobre del 1943, a Lonato (Brescia). A seguito del decesso, nel dopoguerra non fu aperto procedimento nei suoi confronti. La revisione critica della storia militare del dopoguerra ha sollevato sul suo operato di comandante in capo dei sommergibili alcune valutazioni negative, specie per quanto attiene il suo intervento nel 1937-1938, teso a chiudere definitivamente le sperimentazioni, pur positive, fatte nel 1933 sul sommergibile H 3 sull’impiego del sistema “ML” (noto un decennio più tardi come schnorkel) del maggiore del Corpo del Genio navale Pericle Ferretti (vds.), che permetteva la navigazione in immersione delle unità subacquee con i motori termici e con la piena capacità di arieggiare i locali interni del battello. La documentazione della giustificazione del diniego a proseguire le sperimentazioni e della decisione di demolire i sistemi “ML” già pronti oggi non esiste, ma i più accreditati critici la ritengono in linea e consona ai criteri d’impiego dei sommergibili dell’epoca» (Paolo Alberini, Franco Prosperini, Uomini della Marina 1861 – 1946. Dizionario biografico, Ufficio Storico della Marina Militare, Stato Maggiore della Difesa, prima ristampa, Nadir Media, Roma 2016, p. 297). Per quanto concerne la valutazione dei “più accreditati critici”, dissento fortemente. In ogni caso si consideri che ogni lavoro dell’Ufficio Storico della Marina Militare dello Stato Maggiore della Difesa è indubbiamente ben documentato, ma altrettanto certamente risente di più d’un “vizio di forma” perché la Regia Marina si consegnò al nemico. Oggi lo stato italiano non è tale perché soggetto al diktat militare americano costituito innanzitutto da una guerra persa dall’Italia e dall’odierna esistenza di 114 basi militari operative americane sul suolo italiano. Taluni “storici” possono forse scrivere qualche cosa di differente da quello che è stato imposto a seguito della resa incondizionata? Costoro, se vogliono mantenere il loro posto di lavoro, possono scrivere qualche cosa che si discosti dall’imposto “pensiero unico”?   3) L’Abwehr (Difesa della Sicurezza) è il servizio di sicurezza e informazioni della Werhmacht e dipende direttamente dall’OKW (Oberkommando der Wehrmacht), ovvero il Comando supremo delle Forze Armate Tedesche (Esercito, Marina e Aeronautica). È utile ricordare che l’Ammiraglio Wilhelm Canaris (Aplerbeck 1997 – Flossenburg 1945) è il capo dell’Abwehr dal 1935 fino al 1° marzo 1944; implicato nell’attentato del 20 luglio 1944 al Cancelliere di Germania Adolf Hitler è incarcerato e giustiziato l’anno seguente. L’Abwehr è assorbito nel marzo del 1944 dal RSHA (Reichsicherheitshauptamt), il Comando Supremo della Sicurezza del Reich responsabile già della Gestapo (Geheime Staatspolizei, Polizia Segreta di Stato), della Kripo (Kriminalpolizei, Polizia Giudiziaria) e del SD (Sicherheitsdienst, Servizio di Sicurezza del Partito Nazionalsocialista). L’SS-Obergruppenführer Ernst Kalterbrunner (Ried im Innkreis 1903 – Norimberga 1946) diviene Comandante in capo del RSHA a seguito dell’assassinio del Viceprotettore di Boemia e Moravia SS-Obergruppenführer Reinhard Heydrich (4 giugno 1942).   4) Il Codice Penale Militare di Guerra, nel Libro Terzo, Dei reati militari, in particolare, Titolo Secondo Dei reati contro la fedeltà e la difesa militare, Capo I Del Tradimento, Art. 51 (Aiuto al nemico), dice: «Il militare, che commette un fatto diretto a favorire le operazioni militari del nemico ovvero a nuocere altrimenti alle operazioni delle forze armate dello Stato italiano, è punito con la morte con degradazione»; l’Art. 52 (Nocumento alle operazioni militari) recita: «Il militare, che, fuori dei casi preveduti dall’articolo precedente, impedisce od ostacola lo svolgimento di attività inerenti alla preparazione o alla difesa militare, è punito, se dal fatto è derivato nocumento alle operazioni di guerra dello Stato italiano, con la reclusione non inferiore a dieci anni» (Ministero della Guerra, Codici Penali Militari di pace e di guerra, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1941 anno xix, pp. 379-380).   5) Vengono condannati a morte e fucilati: Galeazzo Ciano, Emilio De Bono, Luciano Gottardi, Giovanni Marinelli e Carlo Pareschi; Cianetti è condannato a 30 anni di reclusione. Condannati a morte in contumacia: Acerbo, Albini, Alfieri, Bastianini, Belella, Bignardi, Bottai, De Marsico, De Stefani, De Vecchi, Federzoni, Grandi, e Rossoni. Oggi è certo che almeno la buona parte del Gran Consiglio del Fascismo fosse affiliato alla Massoneria. Pertanto ci si chieda: il Gran Consiglio del Fascismo poteva essere avverso alla Massoneria nonostante l’esistenza della Legge del 1925 inerente le associazioni segrete?  

Ecumene Greco Romana. Il Tempio di Giove onorato dai rappresentanti YSEE

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Il 18  aprile 2018 e.v., MMDCCLXXI a.V.c., il tempio di Giove diviene sede  dell’Ecumene Greco Romana, il progetto che Pietas, YSEE e Thyrsos stanno avviando in concreto per la rivalorizzazione e riattualizzazione della Religione Greco Romana, fondato sullo studio e sulla pratica degli elementi comuni tra le teologie e le pratiche di questi due ma unici popoli.

Il progetto partì nel 2014, durante i festeggiamenti dei Natali di Roma, proposto dal Gruppo Thyrsos in visita a quello che era l’inizio del santuario romano della Pietas.

Oggi Thyrsos, Pietas e YSEE stanno collaborando su questo importante progetto.

Il presidente YSEE Vlassis Rassias, atterrato a Roma per impegni istituzionali, ha comunicato alla Pietas che era suo intento onorare, per prima cosa, il tempio di Giove.

Egli è giunto con una delegazione al Tempio di Giove, dove ha condotto in dono le ceneri di una fiamma accesa sull’altare del Monte Lyaion, considerato il più antico in assoluto nel mondo Greco. Esse sono state riposte sull’altare di Giove, da dove poi si è svolto il rito agli Dèi per sancire la fratellanza delle nostre genti.

La delegazione ha poi consegnato un dono alla domina del Santuario, la signora Barbera, consistente in un busto di Giorgio Gemisto Pletone, ora collocato nell’aula Minervae del Sanctuarium Pietatis. Il gesto nella sua simbologia esprime un fatto importante: i gruppi di pratica Greca nascono e si riattivano grazie allo studio di questo e di altri importanti personaggi neoplatonici del nostro rinascimento: medesima base ebbe l’Associazione Tradizionale Pietas, la cui generazione fondatrice negli anni ’60 partì alla ricerca dei filoni della Tradizione proprio dopo lo studio approfondito di Pletone, Ficino, Pico della Mirandola e altri neoplatonici del fiorente periodo suddetto.

Al rito agli Dèi, finalizzato a sancire e rinnovare l’impegno della collaborazione, è seguito un simposio dove sono state definite le basi operative della suddetta ecumene Greco-Romana.

Il rettore del Tempio di Giove, il presidente Giuseppe Barbera, ha fatto dono alla delegazione greca di un tondo con l’aquila di Giove, simbolo del nostro tempio.

Le fiamme del tempio hanno illuminato non solo la notte del 18 aprile, esse sono anche una luce accesa contro il buio mentale della società contemporanea.

Giuseppe Barbera

Aquarius – parte terza – Gabriele Adinolfi

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PARTE TERZA

Non piramide ma anelli

Non è agevole immaginare questo nuovo genere di organizzazione se non si ricorre ad un'immagine plastica anche se obbligatoriamente approssimativa. Si tratta non di un'organizzazione a piramide, ma che possiamo descrivere piuttosto ad anelli concentrici. Le circonferenze più esterne sono rappresentate in primo luogo dagli organismi di reclutamento pubblico (partiti, movimenti) che sono tuttora convinti che la propria azione abbia una funzione primaria e che tutto quanto arruolano o costruiscono debba essere strumentalizzato ad essi quando invece è l'opposto che si deve maturare: la funzione politica di questi organismi è in ultima analisi ancora troppo materiale e politicamente limitata. Viceversa essi hanno un potenziale enorme come vivaio per crescite al proprio interno di risorse da impegnare altrove in azioni di profondità. Alla circonferenza esterna corrispondono sotto forme assai diverse gli organismi di azione nel sociale, nel lobbismo ecc. Una seconda circonferenza è tracciata dalle realtà di comunicazione a rete e dalle nervature delle relazioni tra i soggetti politici che devono essere anche dotati di un'efficace e attualissima scuola quadri a livelli distinti, volta anch'essa all'azione comune, sinergica, impersonale e non tribale o settaria. E questa, anche se in molti l'ignorano o fingono d'ignorarla, c'è!  Questa è la dimensione che corrisponde all'anima del tutto, mentre al primo livello si restava ancora nel muscolare. L'anello più stretto e più essenziale è quello che si dedica alla strategia e allo spirito.

Compiti strategici

Quali sono le direzioni in cui procedere e con quali strumenti? Su chi fare conto per la propria azione? A chi indirizzarla? Individuiamo in primo luogo le direttrici strategiche. - Oggi l'intero pianeta è capitalista, comprese le potenze esotiche ritenute alternative e quelle stesse che hanno dei regimi che si denominano diversamente. Non esistono conflitti tra Capitalismo e Noncapitalismo ma tra concorrenti che al tempo stesso sono soci altrove. La nota “unità e scissione” leninista. Le rivoluzioni epocali, in primo luogo la traslazione dell'asse mondiale dall'Atlantico al Pacifico, contrassegnano i nuovi confronti. Tra questi il più importante è quello che sta producendo la volontà di emancipazione europea e di affrancamento dall'egida americana che si sviluppa, per ora, intorno all'asse francotedesco. Capitalista sì, ma quanto tutti gli altri e perfino con varianti sociali altrove assenti. Le opzioni strategiche fondamentali sono quindi: il sostegno e il pungolo per l'accelerazione militare, satellitare, politica e di potenza dell'Europa; lo sviluppo di una funzione italiana che riporti Roma ad un ruolo attivo in Europa. Più Italia in Europa, più Europa nel Mondo.  A questo si devono aggiungere le proiezioni strategiche che hanno diretta connessione con altre questioni di natura sociale, culturale, demografica ed economica: ovvero una politica per il Mediterraneo; lo sviluppo concreto e non teorico di una linea Eurafricana; il collegamento preferenziale con l'America Latina; la realizzazione di capisaldi amici nel Pacifico, in particolare Cile e Giappone. Non si tratta di un esercizio fine a se stesso: quanto possano incidere minoranze che promuovono rapporti commerciali e culturali è incommensurabile, vieppiù in un mondo sempre più correlato nel quale gli schemi del bipolarismo, del tripolarismo, del multipolarismo hanno presa relativa perché in realtà ognuno dipende da tutti gli altri, anche dai suoi rivali, ma va anche per conto suo e c'è quindi un potenziale enorme per ristabilire la nostra corretta sfera d'influenza.

È una funzione che possiamo definire di supplenza alla latitanza statale sul piano nazionale, europeo e internazionale. - La miscela tra Capitalismo e squilibri economici e demografici sta depauperando e disarticolando la società, sempre più priva di riferimenti, di organizzazioni sociali, deresponsabilizzata e sempre meno produttiva. Il compito strategico è di realizzare le nuove organizzazioni sociali e di rilanciare lo spirito produttivo nel segno dell'autonomia operativa. Il valore aggiunto che si deve fornire alla svolta dell'europeismo attivo va assolutamente accompagnato da quello dell'aggressione corporativa, dalla costruzione di localismi a spirito imperiale e dalla difesa identitaria nei confronti del liberalismo amorfo.  È una funzione che possiamo definire di supplenza alla latitanza statale sul piano economico e sociale per la realizzazione di una nuova sovranità popolare nell'organicità e nella direzione delle autonomie e del corporativismo. - C'è poi lo scontro di civiltà, quello vero, tra la Sovversione devirilizzante, antigerarchica, antiverticale, antidentitaria, piallante, disperata e disperante e la Rettifica, virile, gerarchica, verticale, felix, che non può essere frutto di un'opposizione tra modelli astratti né di un presunto recupero di valori, ma dev'essere un aggancio consapevole e assoluto ai principii dai quali esprimere valori corretti che siano in linea con l'epoca nuova e con le modifiche sociologiche e antropologiche in atto. È una funzione che possiamo definire di supplenza alla latitanza statale sui piani spirituale, esistenziale, culturale, etico ed esemplare. Come per caso gli obiettivi strategici corrispondono alla tripartizione.

Dove e come

Se ci limitassimo a definire gli obiettivi resteremmo nel consueto astrattismo. Preferiamo indicare con quali strumenti si può operare settore per settore, fermo restando che quanto stiamo esponendo è già ampiamente avviato nel pratico. - Per quello che riguarda le opzioni strategiche, gli strumenti utili, alcuni dei quali proficuamente attivi, sono di diversa natura. Think tank di qualità e spessore; agenzie di collegamento diplomatico ed economico internazionale tra Europa, Africa e America Latina; piena trasversalità politica negli ambiti strategici determinata dalla comune volontà di rigenerazione europea. - Nella direzione della riorganizzazione sociale e della sfida corporativa vanno coordinati una serie di soggetti diversi: in particolare i piccoli e medi produttori ai quali va fornita la capacità di autonomia e di autofinanziamento. Va anche modificato il ruolo della rappresentatività sindacale saldandolo con le nuove forme di espressione degli interessi delle categorie che in Italia come in Europa s'iniziano ad articolare nei denominati stake holders, ovvero i rappresentanti di categoria nelle sedi nevralgiche delle trattative e della legislazione economica, istituzioni che per natura intrinseca sono elementi corporativi in nuce. Infine l'implosione sociale e il localismo crescente aprono spazi per il radicamento come sostituti elargitori di quel minimo essenziale che lo Stato non fornisce più. Vanno organizzate l'autonomia dei ceti produttivi e delle politiche locali, introducendo la logica dell'indipendenza tramite gli smarcamenti da ogni forma eterodiretta. Alla vecchia formula cielliena “più società meno Stato” non si risponde con un banale “più Stato” ma assumendo l'Idea di Stato (logica imperiale) e svolgendola in proprio da uomini liberi che si disciplino: anarchi e gerarchici . Autonomie sociali, produzioni, organizzazioni corporative, devono essere intese come assi portanti di una riconquista popolare che non si avvii verso l'atomizzazione ma che si unisca invece ben coesa attorno a un'idea trascendente e libera, di origine imperiale. Non si devono impugnare queste frizioni a scopo propagandistico né incanalarle in un antagonismo astratto e sterile, devono fare sistema e rappresentare l'alternativa fattiva, reale, vivente, che si libera e libera gli spazi attorno a sé senza alcuna retorica e senza protagonismi.

A questo ogni persona, ogni comunità, gruppo, organizzazione, movimento, partito, o qualunque altra forma, devono essere dediti e decisi a strumentalizzarsi consapevolmente e di propria volontà. Tutte queste caselle non possono essere coperte da un organismo solo. Oltretutto soltanto nello scenario del radicamento locale è possibile centrare risultati con un'etichetta precisa o sotto una bandiera, come diversi movimenti hanno fatto in Lombardia, Veneto, Toscana e Lazio, ma si deve comunque essere consapevoli che il segno dei tempi impone continue repliche concorrenziali ed esclude egemonie assolute. Il successo in quest'arena sociale è quindi possibile soltanto frammentariamente e strumentalmente; perché diventi strategico lo si deve concepire a rete e ad effetto domino. Non è necessario che tutti ne siano consapevoli perché si ritrovino coinvolti di fatto in qualcosa che li trascende, ma sarebbe preferibile che lo sapessero e ne fossero entusiasti. - Sul piano dello scontro di civiltà il ruolo delle realtà radicali è in prima linea.  Anche qui servono però un dosaggio e una stratificazione, perché se da un lato si tratta di formare delle scarne ma solide élites per il futuro, ad un secondo piano, in un momento immediatamente successivo, devono intervenire altre forme organizzative e di reclutamento, che devono essere necessariamente trasversali, frutto delle azioni svolte a rete sugli altri piani strategici, e non possono presentarsi come ideologiche nella forma. Perché si devono educare nuovi padri e nuove madri e si deve istituire qualcosa di realmente strategico, come ad esempio una scuola per docenti e per giornalisti. Tutto questo non può effettuarsi efficacemente sotto un'etichetta e una bandiera o con un marchio di una scuderia, ciò per natura stessa escluderebbe il grosso degli interlocutori e neutralizzerebbe a monte quello che si deve andare a rigenerare.

SEGUE

  Gabriele Adinolfi

Non preghi un Dio chi non sia un Dio! – Andrea Anselmo

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Considerazioni al termine delle celebrazioni per il Natale di Roma del 21 Aprile 2018.

La vicenda leggendaria del primo Re di Roma, Romolo, nella quale si condensano miti e ascendenze dal comune passato indoeuropeo ci danno l’occasione per una serie di riflessioni sui significati della regalità, della ritualità e dell’interiorità di chi occupa il potere sovrano.

Il termine Rex romano, come vorrebbe Benveniste, deriverebbe da un comune termine indoeuropeo (Rig, da cui Vercingetorix, Raja sanscrito, Rex latino) il quale farebbe riferimento alla funzione primordiale del sovrano di tracciare una linea retta, stabilendo così un confine sacro, un limite ed una regola. Stabilirebbe in altre parole un ordine sacro; ordine il quale, in sanscrito rtasi, si collega semanticamente anche al rito.

Ma cos’è dunque il rito? Per Mircea Eliade il rito è un nuovo inizio che invera nuovamente l’origine nella storia, permettendo dunque quell’irruzione del sacro di cui parla anche Giandomenico Casalino. L’origine corrisponde cosmologicamente ad un sacrificio primordiale, ad una messa a morte, che non crea ex nihilo ma che plasma una realtà preesistente. Lo squartamento del macrantropo primordiale, Ymir per i norreni, Purusha per gli inni vedici, è la scaturigine del cosmo ordinato. Così nel mondo latino al tracciare il solco da parte del Rex/Rig Romolo corrisponde successivamente l’uccisione di Remo, il quale non è in grado di mettere ordine e sacralità al contrario del fratello.

La sovranità del mondo indoeuropeo conosce delle coppie di sovrani, simbolicamente rappresentabili come il cielo notturno ed il cielo diurno. Quest’ultimo e quello che richiama il termine latino Deus, sanscrito Deva, greco Zeus, alto germanico Tiuz/Ziu/Tiwaz poi espresso come Tyr dagli scandinavi, Mitra per gli indoiranici. D’altro canto di non meno importanza e cosmologicamente anteriore si staglia il cielo notturno di Varuna, di Urano e di Wuotanaz. Nella storia leggendaria di Roma a Romolo spetta la funzione “varunica” mentre a Numa quella propriamente diurna, sacra e legislativa di Numa.

Sempre per Benveniste il germanico Wuotanaz e il latino Dominus sarebbero strettamente accomunati. Il primo indicherebbe il signore della schiera dei posseduti (angriffenheit) dal furore (id est furor lo definì Adamo da Brema) che solca i cieli notturni d’inverno nella caccia selvaggia. Il secondo sarebbe il signore della Domus, non intesa come edificio ma come comunità sacra e sociale al tempo stesso.

Romolo, conformemente alla sua funzione varunica, durante la battaglia cruciale contro i potenti riproduttori, i sabini, conseguente al tradimento della vestale Tarpeia, alzate le armi al cielo comanda magicamente a Iuppiter di intervenire e di cambiare le sorti della battaglia e così accade. Come giustamente ricordato pubblicamente da Luca Valentini e Giandomenico Casalino nelle recenti celebrazioni del Natale di Roma, l’intervento “magico” del sovrano ricorda il termine tedesco macht e inglese make. Un altro sovrano del cielo notturno, Wotanaz nella prima guerra del mondo contro i Vani, potenti riproduttori anch’essi, esercita il suo potere a distanza, tramite il lancio della lancia nella battaglia susseguente l’irruzione della gigantesca Gullveigr, senza intervenire direttamente nella mischia. Se la Vestale è chiaramente legata al fuoco di Vesta così Gullveig viene bruciata tre volte rinascendo sempre.

Così l’effetto immediato, comandato dal sovrano “terrifico” e “tremendo” Romolo, è determinato dal suo non appartenere ad una umanità ordinaria, ma piuttosto ad una umanità qualificata in senso spirituale. “Non preghi un dio chi non sia un dio” d’altro canto è stabilito dalla letteratura vedica. Romolo che verrà poi divinizzato come Quirino viene non a caso assunto in cielo.

In questo senso Giandomenico Casalino nell’ultimo numero della rivista Pietas parla della “forza necessitante del rito ben eseguito, il suo potere di rendere la realtà visibile specchio dell’ordine divino. L’inesistenza di problemi di natura psichica e/o sentimentale in chi compie il rito ai fini dell’efficacia”. D’altro canto è ben noto il detto di Plotino “Non sono io che devo andare agli Dèi ma gli Dèi che devono venire a me”.

Solo calore interiore della pratica spirituale, il tapas conseguente alla trasformazione interiore dell’uomo propiziata dal fuoco sacrificale di Agni/Ignis rendono l’uomo in grado di imporre questa “macht” sulle forze invisibili. D’altro canto dal latino tepeo, la cui assonanza con taps è evidente, deriva l’italiano tepore.

Non a caso, la mistica cristiana di Meister Eckhart parla del distacco come superiore alla pietà e alla compassione: poiché il distacco operando nell’interiorità dell’uomo quello svuotamento, quel silenzio che fa risuonare il vero urgrund, il fondo dell’uomo, agisce necessariamente attirando Dio nell’interiorità dell’uomo, poiché il distacco e il vuoto interiore sono necessitanti come in un processo fisico. Raggiunto il supremo distacco Dio non può non riempire tale vuoto interiore.  Dunque resta imperativo rendersi atti a far intervenire necessariamente la divinità tramite la nostra azione spirituale interiore la quale può rendersi autonoma rispetto a qualsiasi sfoggio di erudizione, di mitologia e di formalistica rituale.

Andrea Anselmo (http://polemos.info/)

La “vergine” di Julius Evola. 1^ parte – Gaetano Barbella

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LA “VERGINE” DI JULIUS EVOLA  SUO “FEDELE CORPO DI GUARDIA”

L’Astro-geometria solare del tema natale

A cura di Gaetano Barbella

Prima parte

1. Un Tema Natale, “una cosa da sciupare

Nell’ultimo capitolo dell’ultima parte mio lavoro, < La lettera di Julius Evola all’astrologo Tommaso Palamidessi.” Un mistero racchiuso in una donna, “suo fedele corpo di guardia” >, pubblicato da EreticaMente net, prometto di portare a termine una richiesta, a quanto pare mai corrisposta, di Julius Evola all’astrologo Tommaso Palamidessi. Si tratta dell’oroscopo natale di una misteriosa donna, “appartenente al suo fedele corpo di guardia”. Più intimamente dimostro in termini esoterici kremmerziani che questa donna altri non sia che la “vergine”, nel cui “petto” conserva il Nume di Julius Evola, e che presumibilmente sia il dio Saturno. Occorre dire che se  Palamidessi avesse fatto l’oroscopo di questa donna, naturalmente, l’avrebbe concepita in termini astrologici, e questo si aspettava Evola, tuttavia non so fino a che punto, questi avrebbe potuto rivelargli cose sul mistero del supposto Nume che ella celava nel suo “petto”. Salvo a immaginare che potendo Palamidessi avvalersi di una sua supposta veggenza ultrafanica, poteva sondare i registri akashici, che rappresentano la memoria universale, la Coscienza cosmica1. Ma, a questo punto occorre domandarsi se poteva essergli concesso di ottenere tanto dai maestri di luce, dalle alte guide spirituali, per non essere un “perfetto” in termini di fede cristiana a causa del suo atavico incarnato in sé, il “tiepido” Origene. Come si suppone, Origene temendo la debolezza della carne si procurò l’evirazione, ma poteva contare sulla forza della fede che gli poteva pervenire dallo Spirito Santo, l’azione pentecostale promessa dal Signore. Di qui la possibile spiegazione che non ci fu effettivo seguito alla nota lettera di Evola a Palamidessi.

Dal mio canto, se sono stato spinto a occuparmi delle cose di Julius Evola, ed ora del mistero sulla “vergine” che recherebbe nel suo “petto” il suo seme, un sole nascente segno della sua eredità, forse si spiega col fatto di avere avuto relazione, nel 1969,  con l’Associazione  di Archeosofica pisana,  fondata da Palamidessi. Ne ho parlato a conclusione dello scritto < La lettera di Julius Evola all’astrologo Tommaso Palamidessi.” Un mistero racchiuso in una donna, “suo fedele corpo di guardia” >. Forse, ogni cosa in merito, è tutto ben conservato in un emblema dell’Ordine Iniziatico Loto+Croce, che io e mio fratello disegnammo al tempo della sua fondazione, e che ora è custodito a Pisa nella casa di chi ne fu promotore.

  [caption id="attachment_27292" align="alignleft" width="298"] Illustrazione 1: Emblema dell’Ordine Iniziatico Loto+Croce Archeosofica fondato da Tommaso Palamidessi.[/caption]

Con l’illustr. 1 mostro la foto di parte del quadro in cui è inserito l’emblema, che forse è l’unico, così fatto, esistente  dell’Ordine fondato da Tommaso Palamidessi. Di questo ne ho già fatto cenno nel suddetto citato scritto.

Di importante di Archeosofica resta in me l’aver imparato molte cose di natura esoterica e particolarmente le basi teoriche e pratiche dell’Astrologia, cosa che mi ha incanalato a un nuovo modo di concepirla, e che ho chiamato Astro-geometria solare. Ne ho  dato prova col saggio, “La circonferenza della terra in codice numerico con l'astro-geometria solare”2. Forse è questo il segno di un mandato occulto da parte di Tommaso Palamidessi perché io eseguissi, a tempo debito, nel modo consono ciò che gli aveva chiesto Julius Evola sul conto della sua “Vergine”. Ed è ciò che ho già iniziato a fare, come accennato in precedenza.    Ma    prima    di    addentrarmi

 

nell’astro-geometria solare della “Vergine” di Julius Evola è possibile colmare il vuoto della tema astrologico che avrebbe dovuto fare Palamidessi. Oggi è un lavoro a portata di tutti poiché il web offre delle risorse straordinarie per redigere qualsiasi oroscopo natale conoscendo i dati di nascita, compreso l’ora e il luogo con precisione. Palamidessi, invece avrebbe dovuto fare i calcoli personalmente avvalendosi di formule e tabelle e poi fare le dovute interpretazioni. Nel capitolo che seguirà, perciò, verrà sviluppato il Tema Natale chiesto da Evola a Palamidessi che ha caratteristiche di carattere “generico”, essendo il solito tema astrologico convenzionale fino ad oggi praticato. Ma la tesi portata avanti da me in merito tende a dimostrare invece che il vero scopo della richiesta di Evola a Palamidessi sia quella di ottenere invece dall’amico astrologo una visione esoterica intravisibile nella donna appartenente al “suo fedele corpo di guardia”. Dunque a che potrà servire il Tema Natale astrologico che fra poco esibirò?

Ma è chiaro come il sole, perché tutto torni in pari fra le apparenze terrene (dei tanti «casi» “insignificanti” di quell’Ekatlos del Gruppo di UR), e quelle che Julius Evola intravede nell’antica Tradizione Primordiale3, cioè nella Tradizione Ermetica, ovvero la “Via del cielo”: e tutto sommato, si tratta di una necessaria equazione che soddisfa le apparenze emergenti nella sua discussa lettera del 20 gennaio 1972 a Tommaso Palamidessi. Infatti così essa è intesa leggendola superficialmente:

«… Un’altra cosa. Una mia amica, appartenente al mio fedele corpo di guardia, avendo saputo della Sua visita e conoscendo il Suo nome, mi rende la vita impossibile perché vorrebbe avere da Lei un quadro astrologico del suo carattere e dei suoi “destini”. Se per caso avesse un po’ di tempo da sciupare per una ricerca più che sommaria, i dati sono: nata il 25 febbraio 1945 alle 15.20, (Venezia). Con cordiali saluti, suo J. Evola. »

   
  1. Tema Natale della “Vergine” di Julius Evola
Sviluppato secondo le istruzioni fornite dal sito ASTRA, vedasi ai link: Oroscopo Astra

In Astrologia ogni individuo è caratterizzato da una Carta Astrale che dipende dalla sua data, ora e luogo di nascita, e per questo unica. La Carta Astrale illustra la posizione dei Pianeti nel momento esatto della tua nascita.

Il Tema Natale  è  uno  strumento per consentire all'individuo  di conoscere meglio le sue caratteristiche psicologiche, emotive, intellettive, nonché i suoi punti di forza e i suoi punti di debolezza al fine di comprendere meglio se stesso.

Il Tema Natale (o Carta Natale) viene redatto considerando le posizioni planetarie al momento esatto della nascita ed è rappresentato da un cerchio diviso in dodici parti uguali di 30° ciascuno che rappresentano i segni zodiacali, dove il centro del cerchio rappresenta la Terra, raffigurando la cosiddetta Mappa Astrale di un individuo.

Il Tema viene poi orientato ponendo a est (a sinistra) l'Ascendente e a ovest il Discendente e quindi suddiviso, secondo alcuni criteri di domificazione, in 12 parti (le case) che rappresentano dodici settori della nostra vita, identificando quindi in quale settore i pianeti, vale a dire l'argomento da analizzare, andranno a posizionarsi.

Di seguito sono inseriti nome, sesso, nazione, luogo, data e ora di nascita per calcolare il Tema Natale.

 

Nome: “Vergine” di Evola Sesso: Donna

Data di nascita: domenica 25 febbraio 1945 15:20 (time zone = CET -1 ore)

Venezia (Venice), Italy

Latitudine 45,43972219°

Longitudine 12,33194444°

    [caption id="attachment_27294" align="alignleft" width="300"] Illustrazione 2: Schema Tema Natale “Vergine” di Evola.[/caption]   [caption id="attachment_27293" align="alignright" width="300"] Illustrazione 3: Pianeti nei segni, nelle case e aspetti fra loro.[/caption]                  

Di seguito Astra riporta gli aspetti dei pianeti fra loro nei segni. Solo per il Sole è previsto la relazione con la casa dell’Ascendente (la prima) e nel segno dei Pesci.

Sole in Pesci ASCENDENTE in Leone

Coesistono in te due nature fra loro estranee. Da una parte sei oscuro, vago, misterioso, dall'altra aperto, diretto, impositivo. Insomma, cosa nasce dall'unione delle influenze planetarie di Sole e Nettuno? Una personalità complessa, che trova la sua maggiore gratificazione nel realizzare  grandi ideali. Ideali che concernono la carriera, dove ambisci a posizioni di prestigio, oppure che riguardano il mondo degli affetti e qui la meta diventa la creazione di un ambiente armonico, dove ambisci alla posizione di leader. Sei un amante sfuggente e combattivo, che vuole essere amato, ma ha paura di amare tutte le volte  che  sente  i  propri  sentimenti  invadere  la  sfera  della  razionalità.

 

Sole in Pesci

Sei fantasioso, altruista, spesso molto divertente e spiritoso. Sei sempre disposto al dialogo, ma anche tanto imprevedibile. I tuoi pianeti dominanti sono Giove e Nettuno, simboli rispettivamente di magnanimità e socievolezza il primo, di idealismo e di senso artistico il secondo. La tua sensibilità è fuori del comune ed è per questo che talvolta sei tanto permaloso o hai intuizioni che ti consentono di vedere al di là delle apparenze. Ti piace moltissimo spendere, viziare te stesso e le persone cui vuoi bene, e affronti con grande curiosità tutto ciò che appare incerto e misterioso. Temi la noia, non sopporti una vita priva di colpi di scena e, nonostante il tuo accentuato bisogno di sicurezza, ritieni l'incertezza e l'imprevedibilità potenti antidoti alla routine. Con gli altri sei generoso e volubile e con gli amici alterni periodi di folle passione ad altri di freddezza. Quando rompi un rapporto non succede mai per caso o per distrazione perché, fin da piccolo, sei terribilmente permaloso. Ma se nell'infanzia usi la suscettibilità come arma di ricatto verso i genitori, cui minacci di non rivolgere la parola per intere serate, da adulto rischi a volte di crogiolarti nel vittimismo e di distruggere relazioni consolidate per sgarri che soltanto a te sembrano tali. Nel tempo libero ami passare intere giornate nell'ozio. Sei disordinato, leggi moltissimo e ti piacciono le chiacchiere con persone vicine e poco conosciute. I tuoi hobby contemplano la pesca subacquea e il collezionismo, il golf, come anche i lunghi viaggi. Al lavoro hai un atteggiamento un po' discontinuo, dovuto per lo più alla tua instabilità congenita e ai tuoi variabili umori. Ti impegni quasi con accanimento, senza concederti un attimo di riposo, anche per lunghi periodi e, tutt'a un tratto, ti stufi e pianti lì, distratto da qualche problema, che spesso non ti riguarda neppure direttamente. E' per questo che la tua carriera corre veloce sull'orlo di un precipizio lungo il quale la volontà di successo, anche precoce e notevole, si alterna a momenti di sconforto e di passiva rassegnazione alla monotonia della routine. Grazie al tuo intuito eccezionale sei spesso un giocatore fortunato e non hai timore di fare investimenti sbagliati. Così, spesso riesci a guadagnare molto e molto in fretta. In amore sei affascinante, grazie anche a quell'atteggiamento ambiguo e sfuggente che assumi tutte le volte che stai per intraprendere un nuovo rapporto. Ipersensibile e vulnerabile, sempre pronto a lasciarti andare ai sospiri d'amore, sei un inguaribile romantico e le tue storie sono sempre dominate dalle emozioni, che prediligi lanciare a briglia sciolte, convinto che la ragione uccida qualsiasi slancio. Nel partner cerchi protezione, affetto e affidabilità, ma anche mistero e un pizzico di brivido. Ti piace scoprire per gradi chi hai di fronte e hai il terrore di non essere sufficientemente amato. Per proteggerti dall'insicurezza tendi a tenere in piedi più relazioni: intriganti amicizie telefoniche, corteggiatori devoti, miti da inseguire con la fantasia, popolano le tue giornate, spesso anche dopo il matrimonio. In famiglia riesci ad assumerti con grande senso del dovere le responsabilità maggiori, ma mantieni un atteggiamento di quotidiana instabilità. Sei infantile, infatti, a tu per tu con l'amato bene e i figli. Se il primo deve dimostrare una gran pazienza davanti ai tuoi innumerevoli capricci con i secondi sei meraviglioso. Giochi con loro come fossi un coetaneo, divertendoti e divertendoli ogni volta che i doveri 'da adulto' te ne concedono il tempo.

 

Luna in Leone

Quinto segno dello Zodiaco, il Leone è un segno di Fuoco governato dal Sole. La Luna in questa posizione potrebbe non esprimere al massimo le sue prerogative femminili e di passività, ma non va considerata una posizione complessa, dato che qui il nostro satellite si riconcilia con il principio e l'essenza della virilità, di cui il Sole è il massimo rappresentante nello Zodiaco. I nati con questa Luna spesso avvertono una certa dualità riguardo all'espressione dei sentimenti, difatti è la Luna che racchiude i nostri 'feeling' più reconditi, le  nostre  emozioni e  la nostra necessità di protezione  (non dimentichiamoci che essa raffigura i nostri primi anni di vita e la ovvia dipendenza di tutti i piccoli). La persona con una posizione lunare forte non ha alcun freno inibitorio per ciò che riguarda l'espressione dei sentimenti e dei suoi stati d'animo, nel piangere o nel sollecitare aiuto. Nel segno del Leone la Luna non esprime queste caratteristiche, e soprattutto gli uomini con questa posizione lunare possono essere stati condizionati fin da bambini a non far trapelare le proprie debolezze. Si parla di debolezze perché inconsciamente, per questa Luna, i sentimenti possono essere confusi con labilità emotiva. In compenso, a differenza della lamentevole Luna in Cancro, nel Leone la Luna si esprime con una energia più teatrale, ma anche più ottimista. È tipica delle persone molto generose e che spesso dimostrano il loro affetto con dei tributi materiali. Adorano fare regali ed amano la compagnia. Sono fin da giovani molto socievoli ed in qualche modo vogliono primeggiare accentrando l'attenzione, ma questo è tipico del Leone, che non lo fa con cattiveria ma semplicemente perché finalmente lui è il Re (o la Regina). Le persone con questa Luna reagiscono bene alle crisi emotive e raramente soffrono di depressione, o perlomeno il loro recupero è veloce, anche perché difficilmente esse si isolano e reagiscono magari cercando gratificazioni sostitutive. Ad esempio, nel caso di una perdita affettiva, non li vedremo mai cadere nell'autocommiserazione caratteristica di molte posizioni lunari. Sono molto leali con gli amici, adorano il lusso e quasi sempre possiedono una notevole capacità di seduzione. È caratteristica di molti oroscopi di artisti, architetti, attori o comunque di personaggi leader. Diventa problematica quando è lesa da altri pianeti dato che, se non si canalizza bene la necessità di protagonismo del Leone, sono frequenti svariate nevrosi. In genere le persone con Luna in Leone si propongono alla vita con entusiasmo e gioia e non si schermiranno mai di fronte ai complimenti . L'amore è il vero grande motore della loro vita, mentre il denaro è vissuto come veicolo per procurarsi piacere e comodità, ma soprattutto per rendere felici le persone che amano!

 

Mercurio in Pesci

Ultimo dei segni zodiacali, governato dal misterioso Nettuno, simboleggiante la metamorfosi, l'intuizione e l'abnegazione. Non è facile per chi abbia questo Mercurio mantenere un atteggiamento mentale lucido e pratico, dato che questo segno priva Mercurio della lucidità razionale e dell'approccio ottimista verso la vita. Qui la logica si diluisce nell'oceanico mare della fantasia, dove la concretezza non trova posto: 'Alice nel paese delle meraviglie' raffigura pienamente questa posizione planetaria. Essa si avvale però di una fulminante intuizione e di una straordinaria capacità di immaginazione, che rendono la persona estremamente creativa, seppur carente di quei valori razionali atti ad un processo di discernimento fondato sul raziocinio. La memoria è spesso labile, così come è presente un'estrema sensibilità alle critiche ed alle opinioni della gente.

 

Venere in Ariete

Tradizionalmente esaltata nel segno della Bilancia, Venere è qui dinamizzata con slancio e passionalità dal pianeta Marte, governatore del primo segno dello Zodiaco. E' una Venere che esprime l'affettività con slancio, spontaneità e determinazione. Un punto difficile di questa posizione è spesso la diffidenza implicita dell'Ariete e, nelle donne, è spesso un indice di mascolinità. E' indubbiamente una posizione che conferisce passionalità e che si esprime felicemente, soprattutto per i nati nel segno dei Pesci e del Toro ai quali aggiunge quell'elemento di fuoco necessario a far sì che l'affettività sia libera da una eccessiva suscettibilità . Per un uomo che possieda questa Venere nell'oroscopo, l'ideale di donna sarà quello di una compagna attiva, dinamica e decisa.

 

Marte in Acquario

 

L'Aquario è sicuramente un segno molto intelligente, dotato di straordinarie doti di inventiva e di originalità, Qui il pianeta Marte diviene assolutamente influenzato dalla simbolica presenza di Urano, con cui si fonde dando vita ad un essere dotato di facoltà eccezionali per ciò che riguarda l'azione. Si tratta infatti di un attivismo che si esprime in modo peculiare, molto 'opportunistico' nel vero senso della parola, perché sempre pronto a valorizzare le occasioni che la vita gli presenta. L'intelligenza e la forza bruta si alleano qui per percorrere insieme svariati sentieri che possono condurre il soggetto verso la conquista di mete a prima vista irrealizzabili. Anche la socievolezza è qui accentuata ed il soggetto con questo Marte sarà spesso al centro dell'attenzione, assumendo un ruolo di leader ed esibendo, spesso e volentieri, idee e trovate piuttosto insolite ma sempre pragmatiche. È un Marte che aiuta a prendere decisioni anche grazie ad un'intuizione fulminea e sempre opportuna.

     

Giove in Vergine

Giove non è nella sua posizione ottimale, soprattutto per quanto riguarda la simbologia edonistica di questo pianeta. L'ottimismo e la socievolezza sono smorzati dalla Vergine, che pare invece accentuare il lato della ricerca del benessere economico rappresentata da Giove. Qui Giove facilita gli introiti, la parsimonia ed una buona amministrazione dei beni materiali. Perde anche buona parte del suo carattere provvidenziale, offrendo poche possibilità di aiuto esteriore e obbligando l'individuo a contare unicamente sulle proprie possibilità.

Saturno in Cancro

La necessità di potere e di appagamento delle ambizioni, legate al pianeta Saturno, vengono indebolite nel passivo segno del Cancro. E' una posizione piuttosto infelice per questo pianeta, che priva il soggetto di quella spinta sana e necessaria per il raggiungimento di traguardi materiali. A meno che non sia sorretto da ottimi aspetti planetari collaterali, può indicare una persona particolarmente sfiduciata nelle proprie capacità e spesso evidenzia un carattere rinunciatario. Predispone a problemi gastrointestinali. Quasi sempre gli anni dell'infanzia sono stati poco felici, contrassegnati da forti delusioni familiari.

Urano in Gemelli

La caratteristica vivacità, la prontezza dei riflessi, la destrezza mentale corrispondente al segno dei Gemelli si alleano felicemente con l'intelligenza superiore e la praticità di Urano. Qui l'intelligenza si applica con profitto soprattutto nelle materie scientifiche. L'amore per le novità e lo spirito di ricerca fanno di Urano in Gemelli una posizione planetaria fra le più felici che spesso riscontriamo come aspetto di genialità. Questa sinergia conferisce una straordinaria prontezza di riflessi e di coordinamento, l'espressione verbale è convincente, incisiva, chiara ed è spesso impiegata anche in buona fede come arma manipolatoria. E' un aspetto che rende la mente molto sveglia, vigile e curiosa. La riscontriamo spesso in persone che dormono poco e che affrontano la vita con un ritmo piuttosto frenetico.

Nettuno in Bilancia

L'ultimo soggiorno di Nettuno in Bilancia va dalla fine del 1942 alla fine del 1956. Ha inciso a livello generazionale e si è espresso negli individui dotandoli di una fantasia creativa indubbiamente piuttosto accentuata. Questo si deve alla fusione con il pianeta Venere, governatore della Bilancia, la cui valenza energetica è estremamente affine a quella di Nettuno: l'armonia, l'espressione artistica, lo sfoggio di un talento che sfiora la genialità sono frutto di questa unione. Durante quegli anni, prendendo in considerazione l'influenza di Nettuno nel mondo culturale italiano, assistiamo ad esempio ad un  forte revival del melodramma, come pure delle nuove tendenze architettoniche degli immortali anni '50. Nettuno può essere considerato come una Musa dell'architettura ed infatti molti dei grandi architetti contemporanei, sono nati in quel periodo. Quegli anni furono caratterizzati anche da indimenticabili interpretazioni musicali, che videro a livello internazionale il teatro La Scala come scenario di esecuzioni leggendarie di opere e di balletti, dove ad esempio si univa il talento di Toscanini o di Luchino Visconti a quello della mitica Callas o di Maja Plissetskaja.

Plutone in Leone

Una delle simbologie legate a Plutone è indubbiamente quella del protagonismo e dell'istrionismo, che vengono esaltati nella natura solare di questo segno. Plutone entra nel Leone nel 1939, alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale; i suoi effetti generazionali si manifestano quindi con un'espressione perversa della simbologia di autoritarismo espressa dal Leone che, alleandosi con Plutone, fa sì che ne scaturisca una figura come quella di Hitler. Ovviamente la sete di potere plutoniana è qui espressa all'ennesima potenza.

Giunone in Gemelli

Influisce sulla scelta del partner e porta a preferire un tipo di persona con cui esista un feeling di tipo intellettuale. Frequentemente la si riscontra in persone che nutrono una forte ammirazione per le doti di comunicazione o per il bagaglio culturale del proprio partner. Si ritrova inoltre questa posizione di Giunone  negli  oroscopi  di  persone  che  si  sono  sposate  più  di  una  volta.

 

Vesta in Bilancia

 

Vesta in questo segno d'aria, governato da Venere, non esprime le sue peculiarità simboleggianti la moralità, l'ordine, l'amore per le tradizioni. Attraverso la mia statistica ho notato che qui questo asteroide mette in risalto il gusto per il bello e l'armonia. Predispone agli studi artistici e lo si riscontra sovente anche negli oroscopi di fotografi

[caption id="attachment_27295" align="alignleft" width="300"] Illustrazione 4: Mappa di Venezia con le coordinate.[/caption]

affermati. Agisce quindi rispecchiando ed esaltando le qualità venusiane della Bilancia. Vesta in questo segno non ha un peso decisivo sull'affidabilità morale del soggetto e si mostra prevalentemente neutra, così come non appare particolarmente tradizionalista. È facile trovarla anche negli oroscopi di persone che possiedono un tono di voce particolarmente accattivante. La si riscontra anche in persone il cui modo di fare e di corteggiare è particolarmente tradizionalista,  rispettoso, romantico. Finora non sono riuscito a stabilire una corrispondenza anatomica specifica per Vesta in Bilancia, dato che questo segno corrisponde ai reni e alle vertebre lombari, mentre non è riscontrabile a livello di statistica un'influenza di Vesta in Bilancia sulle patologie in questione.

    NOTE
  1. I Registri Akaschici rappresentano la memoria universale, la Coscienza cosmica. In sanscrito il termine “Akasha” significa etere. Sono un elevatissimo regno vibrazionale di Luce, nel quale è contenuta e custodita la memoria dell’intero Universo. È una dimensione di altissima vibrazione, dove regna l’Amore Incondizionato. Vi risiedono Esseri di Luce, Maestri, Guide spirituali. Fonte: http://quanticmagazine.com/archives/06/05/2013/registri-  akashici
  2. Fonte:  http://www.ereticamente.net/2018/02/la-circonferenza-della-terra-in-codice- numerico-con-lastro-geometria-solare-gaetano-barbella.html
  3. Sulla Natura Spirituale Romana, a 49 del libro SIGILLUM SCIENTIAE, Giandomenico Casalino, dice: « Noi possiamo cogliere la dimensione profonda, sostanziale, in una parola l’ontologia del ciclo eroico-guerriero romano (come anche quello ellenico) solo “guardandolo” dal punto di vista ermetico-alchemico. Se la Tradizione di Roma, infatti, si configura come Via eroica al sacro, al di là ed al di sopra della metafisica della storia e della relativa visione di carattere tradizionale, è necessario penetrare ancora di più in tale realtà (che è la costante dell’Occidente, dell’Europa, cioè della razza dello spirito indoeuropea) per cercare di giungere al suo nocciolo esoterico, procedendo secondo le precise leggi che la tradizione Ermetica stessa insegna per quanto riguarda proprio la Via Eroica del Sacro, cioè per quel tipo di realizzazione del Sé che qualifica il guerriero nel suo eroico tentativo di resaturare la regalità Divina Primordiale. ».

Emilio Malerba detto Gian Emilio (1878-1926) a cura di Emanuele Casalena

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Ti scioglievi sulla sedia [caption id="attachment_27313" align="alignright" width="261"] Gian Emilio Malerba, Il cappello nero, olio su tela, 1912[/caption] dove ti avevo lasciata durante la tempesta quella volta, l’ultima! Diventavi dura come legno spigolosa come la sedia su cui eri seduta quando ti sei squagliata. Ed io … divenni un tarlo ghiotto del tuo legno passavo il tempo a roderti dentro. (Il tarlo di Gian Emilio Malerba)
      

Il cappello nero è  un olio su tela datato 1912, fu acquistato da Re Vittorio Emanuele III nel 1914 ed entrò a far parte della Pinacoteca  di Casa Savoia (ora è al Quirinale), fu l’imprimatur ufficiale al lavoro di questo grande artista dimenticato. Aggiungerei che i versi della poesia da me riportata accanto, sono in sintonia con SAR, si sa che “sciaboletta” con la sua amata Yela di Montenegro era proprio un tarlo a letto.

Bene, in questo dipinto “vivente” si coglie la radice del naturalismo lombardo a partire dal milanese M. Merisi detto il Caravaggio, vediamo un  ritratto con accanto una natura morta, un fondale bruno, la sagoma del cappello la si percepisce appena, è la luce che crea il soggetto ma, in questo caso, lo avvolge maternamente non lo abbaglia. Vi scorgiamo il veneziano F. Hayez di Pensiero malinconico, ma qui la fanciulla ci ammicca sorridente, le rose nel vaso traboccano barocche, nella figura del veneziano tutto invece appassisce sciogliendosi nel brodo del tempo, Emilio al contrario coglie l’Eros eterno, motore della vita. C’è il Piccio della Scapigliatura con la lirica del chiaroscuro che arretra il segno dei contorni fino ad annullarlo nella sfumatura. C’è soprattutto la lezione di Leonardo nella resa dei “moti dell’animo” oltre che nella costruzione della figura con un leggero contrapposto delle masse, il busto ruota un poco rispetto alle gambe, così il capo riguardo al grande fiocco che lo incornicia.

Quelle grasse rose nel vaso sono schiuse come le labbra della fanciulla, le loro corolle profumano di voluttà. Il corpo rilasciato di lei senti che  freme,  si aspetta ghiotto la prima carezza, si squaglia alla ricercata tenerezza dei sensi. Sessualità intrigante d’ un momento magico, atteso, che ci afferra, ci trascina tra le sue braccia, vinti dal suo magnetismo femminile. Il corteggiamento ha fatto breccia,  la femme fatale si apre all’amore senza porre condizioni, il resto, sembra dirci con sfida e fiducia, tocca a noi. L’unico legno della poesia è rimasto nella spalla destra, il resto è solo linea curva, dolce, continua e quel gran fiocco di chiffon messosi di sghembo, disegna due ali bianche che le fanno volare il viso come una farfalla. Fiamminga la sua figura riflessa sulla pancia del vaso d’argento, ricordo forse dell’armatura di Federico da Montefeltro nella Sacra conversazione di Piero conservata a Brera e che di certo Malerba s’era studiata.

[caption id="attachment_27312" align="alignright" width="150"] Gian Emilio Malerba, Mezza figura di donna alla toeletta, olio su tela, 1913[/caption]

“Dopo l’amore. Per continuare a sognare “ chiude il testo di una romantica canzone di C. Aznavour, sembrano parole adatte alla stessa fanciulla appoggiata alla sua toeletta, volutamente discinta. Il tarlo ha bucato il legno, superfluo chiedersi con Gaber se ha provato il piacere dell’amore,  rinverdisce a memoria il volo dei suoi sensi, la via umida d’una conoscenza dionisiaca alla quale volentieri si abbandona con una posa manierista. Il vero abito è la sua pelle chiara, d’ambra, il busto si piega dolcemente formando una S sinuosa, i seni sono coppe di champagne, i capezzoli turgidi  inseguono il piacere che in lei si rinnova. Il rossastro dei fiori allude ala passione amorosa, il resto è candido bianco striato dal bruno delle pieghe, la vestaglia un utile  drappo per celare il pube, ma volutamente disinvolta nell’aprire al desiderio il corpo.

Sensualità della Belle epoque colta da  un artista raffinato, in certo senso figlio d’arte vista la professione del papà Maurizio, antiquario. Meneghino purosangue Emilio Giuseppe Giovanni era nato un anno prima di mio nonno, nel 1878. Forse l’atmosfera del negozio paterno ricco di robe antiche che ti trasportano nel tempo aumentando di fascino e rarefatta bellezza, forse l’intuito del genitore nel cogliere nel figlio il moto della sua vocazione, spinsero il ragazzo ad intraprendere il tortuoso sentiero delle arti. Studi alla prestigiosa Accademia di Brera dove fu allievo del ferrarese Giuseppe Mentessi amico di Gaetano Previati e del savonese Cesare Tallone ottimo ritrattista, maestro di Giuseppe Pelizza da Volpedo e, pensate un po’, dell’inquieto Carlo Carrà. A Brera la pittura seguiva tecnica e soggetti dell’antico naturalismo lombardo sul quale s’era innestata la Scapigliatura di Daniele Ranzoni, Tranquillo Cremona, Giuseppe Carnovali (detto il Piccio) e di Giuseppe Grandi nella scultura. Come già detto la Scapigliatura è un vernacolo arruffato del naturalismo della Bassa che godeva di radici profonde nel fare arte quanto i pioppi. Pochi ricordano che il genere ritratto fu il punto forte della nobile cremonese Sofonisba Anguissola, forse la prima grande pittrice europea a cavallo tra tarda Rinascenza e Manierismo. Accanto ai ritrattisti come Giulio Campi, si sviluppò il genere del paesaggio già nel ‘600 seguendo quel realismo che aveva in Leonardo il grande padre. La prospettiva aerea ne era un caposaldo, lo studio minuzioso, empirico dell’aria, delle pulviscolari brume lombarde che cangiano i colori naturali della scena, furono applicazione pignola del pingitor cortese di Lodovico il Moro. C’è un forte retaggio di realismo in quella pittura come testimoniano i Foppa, Borgognone, Moretto, Savoldo, ecc.. padri nobili di Caravaggio, come arguì il critico Roberto Longhi a proposito del DNA artistico del Merisi. Pittura del concreto, dei sensi, espressione d’un popolo industrioso composto più da tessitori e mugnai che astratti filosofi, dentro una religione delle opere seguendo il cardinal Borromeo o per chi lo ricorda il manzoniano fra’ Cristoforo.

Detto questo si comprende meglio lo stile del nostro Gian Emilio quando poggia il pennello sulla tela ma anche il suo lavoro continuo  nel campo della pubblicità dove cura i manifesti delle industrie milanesi, dalla Stucchi biciclette alla famose Officine grafiche Ricordi che accanto agli spartiti musicali affiancava la stampa calcografica di manifesti per conto d’ una vasta committenza nazionale. Lui stesso ama e compone brani musicali. L’attività di grafico gli dava di che vivere ed essere indipendente economicamente per curare la sua passione vera  per la pittura, con la quale esordì a 28 anni nel 1906 alla I Mostra nazionale di belle arti di Milano, esponendo due opere:  Convalescente e La signorina Anna Maria Malerba che era sua sorella. Nel frattempo nel 1906 aveva messo su famiglia convolando a nozze con la signorina Amalia Diani di buona famiglia.

 

Certo i suoi soggiorni parigini lo stimolano a trasformare il mestiere di cartellonista ed illustratore in un vero, nuovo settore dell’arte, un po’ come la fotografia e il cinema. Le figure dei suoi manifesti risentono del buon disegno rinascimentale, corpi sinuosi, perfetti che vestono abiti pastello scintillanti capaci di colpire come frecce il pubblico a cui sono indirizzati. La bellezza frivola, champagne, gioiosa della Belle Epoque vi si respira ed annuisce agli avventori di una borghesia rampante amante del lusso e del progresso dentro un sottile refrain di magico erotismo. Continua la sua collaborazione grafica con la Ditta napoletana Mele per la quale disegna manifesti pubblicitari ma dal 1908 collabora come illustratore alle edizioni della rivista mensile del Touring Club Italiano, alle campagne pubblicitarie della Società petroli Italia, la Società anonima Pellicce, la Campari ecc. In parallelo è presente annualmente alle mostre di belle arti milanesi dalle quali riceve riconoscimenti importanti per l’opera Il cappello nero della quale abbiamo già parlato ma anche per Mezza figura di donna alla toeletta con la quale vince il Premio Cremona nel 1913. Il Futurismo aveva già pubblicato su Le Figaro  parigino il suo Manifesto, in quel 20 febbraio del 1909 era sbocciata con fracasso la prima ed unica avanguardia artistica italiana, capace di attraversare più generazioni di artisti, il nostro Malerba non l’accolse, non era nelle sue corde di pittore realista, amante del buon disegno e del colore ben steso, c’erano in lui i germi del gruppo Novecento. E’ del 1916 la medaglia d’oro assegnatagli dal Ministero della Pubblica Istruzione per l’opera La Pietà all’Esposizione nazionale di Belle Arti, c’è molta differenza con La madonna con bambino del 1900, quasi un santino votivo dono nuziale ad una coppia di amici. Questa Pietà è molto più solida nella costruzione concedendo meno alla retorica emotiva del fatto in luogo del realismo.

Anche Autoritratto è del 1916: occhio tondo deflesso, quasi stanco,  da aristocratico annoiato con due pennelli lunghi nella mano destra che sembrano prestati, quasi fossero un impiccio della posa più che protesi del mestiere, alle sue spalle scorgiamo una grande tela vergine in paziente attesa. Le gote d’un rosato fanciullo, alla Parmigianino, colorano di buona salute il suo ovale, bianca di bucato la camicia stirata, blu la cravatta, con su una giacca da lavoro o da camera con la  spalla sinistra calata come le palpebre, a riposo. Capelli ben pettinati, incollati, dritta la riga, baffi curati a misura  sovrastano come un timpano con la bocca. Sembra un piccolo borghese in posa, catturato per caso dal suo nulla ozioso. Un artista è un’artista anche per la fisiognomica, che ci azzecca Malerba con l’apollineo Bucci, il severo Sironi, il gigolò Oppi, il dandy Funi e così via. C’è un uomo che respira piano, parla poco, dipinge da lombardo la realtà senza sconti con un velo di  crepuscolo nel soggetto che si scioglie nei colori pastello. Il suo autoritratto è il Dasein di Martin Heidegger, l’esser-ci qui, ora, nell’esistenza quotidiana con la coscienza della morte nella luce dello sguardo. Fine prematura quel taglio delle Parche, fu nel ’26 quando Gian Emilio lavorava alla I mostra del Novecento Italiano presso il Palazzo della Permanente di Milano. Ci torna quel disincanto dell’espressione, inconsapevole premonizione di un destino breve a cui sembra dare il piegato consenso.

       [caption id="attachment_27308" align="alignleft" width="243"] Gian Emilio Malerba, Autoritratto, 1916[/caption]

Le sue figure salde, ben disegnate, silenti e trasognate oramai mescolano atmosfere metafisiche e Neue Sachlichkeit (Nuova Oggettività) teutonica in una miscela che sarà nominata “Realismo magico” termine coniato dallo studioso tedesco  Franz Roh nel 1925. Lo stile è cambiato, la Scapigliatura è alle spalle, Malerba è approdato sulle sponde del ritorno all’ordine, la tavolozza si semplifica, la campitura dei colori è ben stesa entro i confini disegnati, si torna al mestiere come ebbe a sostenere Giorgio De Chirico con un occhio fisso alla grande tradizione del Rinascimento.  Nel ’20 partecipa alla sua prima Biennale veneziana e nello stesso anno a Brera espone l’olio Femmina volgo quasi una fotografia di questa donna grassoccia e sgraziata in contrasto col divano damascato e l’aggraziato bouquet di fiori. E’ del 1922 l’olio enigmatico Maschere, quattro i personaggi colti dietro le quinte brune di un teatro, attori in relax dopo una pièce, Arlecchino è l’unico maschietto piuttosto serioso sotto il copricapo che ne cela gli occhi che immaginiamo chiusi. Le donne al contrario sono ben vive e allegre, sfoggiano sorrisi, forse per una battuta, la più discinta è la stessa modella di Femmina volgo ed una Colombina sorregge un bel mazzo di fiori forse dono di un ammiratore. La figura in piedi avvolta in un lucente soprabito scuro sembra un frammento del simbolismo raccolto da A. Böcklin o F. von Stuck, però il tutto ha un taglio fotografico, un fermo immagine frontale d’ un attimo di vita solo in apparenza fresco, immediato, nella realtà assai studiato seguendo il metodo del secondo Degas.

[caption id="attachment_27307" align="alignright" width="275"] Gian Emilio Malerba, Maschere, 1922[/caption] [caption id="attachment_27314" align="alignleft" width="275"] Gian Emilio Malerba, Femmina volgo, 1920[/caption]                

Che differenza tra l’eros della signorina con il cappello nero o della stessa alla toeletta, con il lindo dipinto La collegiale datato 1923 . si dice assorba il vento di Valori Plastici, accostandosi al romano Antonio Donghi, io ci vedo gli ovali e le posture del triestino Pietro Marussig, osservate il confronto, ma non è detto affatto che non sia il secondo a prendere spunti dal primo.

      [caption id="attachment_27306" align="alignleft" width="275"] Gian Emilio Malerba, La collegiale, 1923[/caption]     [caption id="attachment_27305" align="alignright" width="276"] Pietro Marussig, Donne al Caffè, 1924[/caption]              
                   

I due si conoscevano complice il salotto milanese di Margherita Sarfatti dove sbocciò una sera del 1922 il gruppo Novecento composto da sette artisti quanto le braccia della Menorah ebraica, in ordine Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig, Oppi, Sironi.

Scrive la Sarfatti:“Era un atto di orgoglio. Certo, era un atto di fede in quei primi anni grigi e bui del dopoguerra (…) Così sorse in Milano il gruppo del Novecento Italiano, con quel nome come parola d’ordine (…) In realtà, quegli artisti volevano soltanto proclamarsi italiani, tradizionalisti, moderni. Affermavano fieramente di voler fermare nel tempo qualche aspetto nuovo della tradizione”. E ancora:“Quattrocento’ e ‘Cinquecento’ designano periodi dell’egemonia italiana nel mondo del pensiero. Disse allora qualcuno, a questo proposito, a Milano, nel 1920, in quel crocchio di amici: ‘Il nostro secolo sento che vedrà ancora il primato della pittura italiana. Sento che ancora si dirà nel mondo e nel tempo: Novecento italiano”.

E così fu anche se il piccolo gruppo non era omogeneo per molte ragioni sia tecniche che programmatiche, erano un sommatoria di individualità anche gelose del proprio percorso di ricerca come sacerdoti di diversa religione. Il credente più acceso restò Mario Sironi, il migliore tra loro, almeno finché Novecento restò in piedi poi si volse alla riscoperta della pittura murale firmandone il Manifesto nel dicembre del’33.

Comunque il gruppo aveva due traguardi da tagliare: creare una sintesi tra la grande tradizione artistica del Rinascimento e l’arte contemporanea di italica radice, riportare l’universo artistico dell’Italia al primo posto nel mondo, partendo da un centro vitale come Milano. A dire il vero c’era anche un terzo nastro da spezzare, quello di dare un’arte al passo con la rivoluzione fascista, testimone raccolto fino alla fine solo da Sironi. C’era di che far tremare i polsi per i compiti assunti dal programma di Novecento, in fondo quegli artisti erano quasi tutti legati al lavoro di studio, alla pittura di genere incentrata sulla scelta del soggetto, chiusi tra tele e barattoli nel loro egocentrismo che mal si coniugava con la visione morale dell’ artista militante. Da subito Malerba dimostrò titubanze già dopo la prima mostra collettiva del gruppo “Sette pittori del Novecento” alla Galleria Pesaro nel marzo del’23. L’anno seguente i “sette” moschettieri sono invitati alla XIV Biennale d’Arte di Venezia, vengono esposte tre opere di Malerba: Nudo, Mezza figura e Bambine che ottengono lusinghieri commenti critici dalla Vergine rossa M. Sarfatti in merito allo smalto dei colori, alla volumetria solida dei soggetti, al rigore geometrico della composizione. Ma i dissapori nel gruppo produssero lacerazioni, per Emilio insanabili, ed a maggio del ’24 decise di dimettersi da Novecento insieme ad A. Bucci e L. Dudreville pur partecipando alla mostra di "Venti artisti italiani" presentata da Ojetti alla galleria di Lino Pesaro di Milano. Due anni più tardi, nel ’26, da il suo assenso ad esporre sue opere alla "Prima Mostra del Novecento Italiano" da tenersi presso la Società per le Belle Arti ed Esposizione Permanente di Milano, ma durante i preparativi per la vernssage, il suo cuore cede, l’artista si spegne alla giovine età di 46 anni. Fu un uomo quieto, diremmo borghese, dedito al suo lavoro efficace di illustratore di riviste alla moda, pubblicitario per grandi nomi della produzione industriale, pittore monastico da studio, avulso dai fermenti politici rivoluzionari di Sironi e Achille Funi, ma fu un grande artista purtroppo “scordato”.

Emanuele Casalena     Bibliografia: Bucarelli Palma, Novecento da Enciclopedia Italiana, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1934. Francesca Franco, Dizionario Biografico degli Italiani,volume 68 (2007), Enciclopedia Treccani. Dalmazio Frau, Eclettico Novecento, Gian Emilio Malerba tra Rinascimento, Realismo magico e Novecento, Il Giornale, 2016.
  1. Pontiggia, Il Novecento italiano, in Carte d'artisti, n. 33, Milano 2005.
  2. Pirovano, in La pittura in Italia. Il Novecento/1, Milano 1992.
   

The dark side of the band – prima parte – Stefano Eugenio Bona

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La parte scura della band, sì, perché se ci fermassimo alle dinamiche dei tre diversi periodi (generalmente classificati come quello capitanato da Syd, 1965-1967, da Waters, tra il 1968 e il 1985 e infine da Gilmour dal 1985 in poi), agli album più importanti, ai riconoscimenti, ai pettegolezzi, alle grandi tematiche, rimarrebbe comunque fuori la musica. Può sembrare paradossale ma se ci focalizzassimo su di essa, noteremmo come un elemento sia sempre in ombra nei ricordi e nell’immagine della leggenda: Richard Wright (tastiere e voce). Difatti vedremo come il vero predominio di Waters non sia assolutamente tale prima di Animals del 1977. Altra parte di queste considerazioni verterà sull’irripetibilità della band, in nome del perfetto incastro tra le differenze reciproche. Ovviamente chi ha una concezione organica sa come sono nati e come si sono sviluppati i pezzi, quantomeno nel periodo dove band fu, sa quanto il tastierista sia importante almeno fino al 1975, con accenni di gusto incomparabile comunque anche in Animals del 1977. Con The Wall la frattura con Roger Waters (basso e voce) sanguinerà e le cose non saranno mai più come prima.

Furono entrambi, con Nick Mason (batteria) e Syd Barrett (chitarra e voce) i fondatori dei Pink Floyd; Bob Klose, chitarrista prettamente rhythm and blues, lasciò dopo la registrazione di alcuni brani nel 1965 e ciò fu un primo passaggio determinante, poichè Syd ebbe via libera nella dilatazione dei brani (come una enorme tela ove sfogava la sua essenza primaria, che ripeteva essere quella del pittore più che del musicista): la base rock blues del ‘65 si evolverà in un percorso di sempre maggior originalità (a tratti cercata in modo spasmodico), tra sperimentazioni e ambizioni culturalmente più elevate rispetto alla media del pop. Nei Pink Floyd, dall’inizio fino alle mastodontiche esibizioni live a Venezia (1989) o all’Earls Court del 1994 (se eccettuiamo la parentesi egocentrica di Waters), il centro della scena non è mai stato di qualche solista o di qualche esibizione fuori dalle righe, come vuol la tradizione del rock più selvaggio e sboccato, ma sempre e soltanto nella pura evocatività delle luci, con Mr Screen (l'occhio gigante dei Floyd in un altro universo, come si diceva nei primissimi tempi della Swinging London) al centro dello spettacolo anche nella ricostituzione dell’ ’87 e del ’94, volta a volta schermo per immagini o girandola per i giochi di luci.

I Pink Floyd hanno sempre incarnato un altro volto nel roccambolesco mondo del rock: sul palco non si dimenavano come ossessi, nessun protagonismo, piuttosto apparivano freddi e very very British (soprattutto nel post Syd). Non interpretavano il caotico ballo del basso ventre, e non mettendosi di mezzo personalmente riuscivano a creare quell'alone di mistero, quell'aura sovrapersonale e quel fluido magico tra i loro strumenti che si perderà quando ammetteranno altri a collaborare al sound. Le singole personalità erano tutte fondanti l’unicum finale, ma non essendo mai esposti in prima persona come un Mick Jagger, come un Robert Plant o un David Bowie, i loro volti non erano così riconoscibili: in loro le luci, i colori, le copertine erano l'epifania dei solchi del disco. D'altronde alcuni fecero notare che i musicisti non ebbero come altri un potere iconico attraverso la fisicità, sono stempre stati riconoscibili per altri aspetti e anche Waters e Gilmour, i volti più noti, nei '70 tendevano a non farsi fotografare, per porsi nella zona d'ombra rispetto alla musica. Questi peculiari aspetti rendono la band inglese unica e molto meno legata di altre alle degenerazioni del music business, che pur li colpì, inevitabilmente nel post Dark Side. Sulla relativa indipendenza data dal non essere rock star "fisiche", puntuale un’osservazione del tastierista, da uno dei migliori testi sulla band (Nicholas Schaffner – Saucerful Of Secrets – The Pink Floyd Odyssey, che sarà la fonte delle nostre citazioni, ove non riportato altrimenti), rilasciata durante il tour di fine anni ‘80: "Ci sono due vantaggi nella nostra anonimità, nel nostro non esserci mai venduti per la nostra faccia...Uno è che puoi andare in giro per la strada senza problemi. L'altro vantaggio, che stiamo scoprendo ora, è che, dal momento che nessuno ci vede come rock star, possiamo andare in giro a quarantacinque anni a suonare, perché nessuno ci ha mai considerati come Mick Jagger o Rod Stewart. Verrà un giorno in cui la gente non accetterà più Mick Jagger, un sessantenne che balla. Ma oggi riesco a immaginarmi i Floyd che suonano a settant'anni. Perché uno spettacolo dei Pink Floyd non è centrato sugli individui. È la musica, sono le luci."

La loro particolare coesione negli anni d’oro (per i watersiani finiscono con The Wall o addirittura con The Final Cut, per chi scrive con Wish You Were Here) non mette mai in risalto nessuno come solista, in più nemmeno l’anima musicale Gilmour/Wright possiede quell’esubero di tecnica propria ad altri mostri del prog; infatti anche nelle classifiche per strumento, in voga in ogni rivista del settore, i Floyd (specialmente quelli sperimentali pre Dark Side), non comparivano mai: segno che la loro entità come band era un’alchimia inscindibile, come un'astronave calata nel mondo della musica e di vedetta sul futuribile, non una mera esercitazione per misurare le proprie abilità strumentali (di proprietà delle forme più degenerate del progressive rock e del progressive metal, soprattutto). Le loro fantasmagorie sono state definite da alcuni come pregne di atmosfere occulte (ma hanno sempre smentito un reale interesse per la materia, ammettendone invece uno per la fantascienza: Robert Heinlein e Ray Bradbury sugli altri), nella prima fase, ma sembrerebbe più opportuno definirle oniriche o figlie di un trasporto futuristico per lanciare avanti il pop, schiantarlo in uno scenario tra Blade Runner e la Terra di Mezzo. La loro unicità era così autoevidente, che non vollero mai gruppi di spalla, dopo il primissimo periodo. I concerti potevano anche durare tre ore, ma non doveva esserci spazio per una rottura vibrazionale, nei loro spettacoli.

Visto che l'approfondimento verte su una figura spesso trascurata, chiariamo anche altri luoghi comuni. La leggenda lisergica è talmente consolidata, che in passato nominarli significava di fatto riferirsi all'Lsd: giovani piuttosto intellettuali rispetto alla media dei loro colleghi, non si lasciavano trasportare più di tanto da ciò che fu il movimento psichedelico, poiché come ricorda Mason "era accaduto attorno a noi - non dentro di noi" (dal Melody Maker del gennaio '67)...E anche qui l'unico ad andare fino in fondo fu davvero Syd, lui viveva l’eccesso senza filtri, sentendosi artefice e pittore di quadri musicali, mentre gli altri (Mason e Waters) cavalcarono il periodo tenendosi anche snobisticamente in disparte. D’altronde Waters dichiarò che prese acido solo un paio di volte in vita sua, quindi non fu il collante sommo per produrre le loro atmosfere immaginifiche, come recita la vulgata che li vede tutti e quattro a profondere note allucinate in preda alla droga. Fu solo Syd a prendere la tangenziale. Come nei manicheismi su "Chi è Pink?" (sarcastico refrain di Have a Cigar, proprio per il loro non apparire come rock star di rappresentazione canonica...) bisogna prestare attenzione al fattore Wright, così bisogna essere cauti nell'inglobarli semplicemente in una corrente, quella psichedelica, che esauriscono mentre mutano pelle tra primo e secondo disco, visto che abbandonando gli stilemi della prima psichedelia, calcarono sull'avanguardia, per la massiccia dose di ricerca introdotta in tal senso del tastierista, amante di Stockhausen e del jazz, e molto meno legato agli stilemi rock e pop rispetto al resto della band. Dopo Atom Heart Mother del 1970 la definizione generica fu progressive, ma anche qui c’è qualcosa che non riesce a racchiudere l’essenza. Così come nel definire in toto il genere, bisognerebbe aver sempre molto chiaro come la loro psichedelia non ebbe nulla in comune con quella americana: notò ciò anche Chet Helms, impresario texano dell'Avalon Ballroom (tempio della psichedelia di San Francisco), che ricordava come le band americane (Quicksilver Messenger Service, The 13th Floor Elevators, Big Brother and the Holding Company, Grateful Dead, Moby Grape, etc.) affondassero comunque le radici nel blues, mentre "loro erano più inflenzati dall'avanguardia classica, Stockhausen. La mia prima impressione fu che erano atonali e amelodici, musica spaziale, muri di suono e feedback...”.

Anche circa la musica giovanile come figlia del proletariato (e tali erano le maggiori band dell'ondata precedente, Beatles e Stones in testa), bisogna ascoltare le parole di un amico intimo del periodo, che arrivò a dichiarare: "Waters e Mason rappresentano tutto quello che Syd rifiutava. Anche se suonavano in un gruppo rock, erano soddisfatti di esser stati studenti di architettura, e per aver seguito in tutto l'amabile copione dei ragazzi della buona borghesia...". Quindi Syd era l'artista puro, estraneo anche alla band dove suonava (ai 2/4, visto che Wright gli fu vicino, per sensibilità, amicizia e capacità di visione). Altri due punti che li distanziarono dagli usi e costumi della tribù del rock sono esemplificati da queste dichiarazioni: «Non tentiamo di vendere noi stessi, ma soltanto la nostra musica. Abbiamo adottato questa linea di condotta fin dall’inizio. Non abbiamo mai avuto un agente pubblicitario e non ne abbiamo mai sentito il bisogno. Non andiamo alle feste mondane, così come non frequentiamo i locali di Londra. Per strada la gente non ci riconosce, e se anche lo facesse non sarebbe un problema» (Richard Wright). E poi Nick Mason: «I Pink Floyd non sono mai stati una band che fa leva sul sesso: noi non ci mettiamo a saltellare qua e là per il palco, con il pacco bene in vista! I nostri fan non ci hanno mai considerato sexy...». Pessima disponibilità a mostrarsi in società, refrattari ai compromessi e per nulla propensi ad esprimere alcunché col corpo (circa le esibizioni dal vivo, molti giornalisti li bollarono come automi): parvero degli alieni nel circuito della musica, percepiti algidi fino a risultare molto antipatici ai più.

In questa ricerca strumentale (prima di tutto) ognuno ha svolto la sua parte; si ha la perfetta rappresentazione dell’anima psichedelica del primissimo periodo, con la stella di Barrett ben alta, in Astronomy Domine e Interstellar Overdrive: due capolavori. Nel primo la profondità delle tastiere aleggia e permea i passaggi dove le chitarre sono veri e propri rasoi, ma lo stile di Barrett, primordiale ed istintivo, verrà levigato in parte nella resa dal vivo del pezzo, come su Ummagumma del 1969: lì il Gilmour che sulle prime si limita a cercare di riempire il posto del Genio Pazzo, iniziò a far sentire tutta la sua peculiarità. Nella resa dal vivo, c’è il break nel quale l’organo di Rick sospende il tutto, sollevando spettrali accordi che ridiscendono come onde, per poi riprendere nel caos ritmico d’uno zigzag tra gli astri. Interstellar Overdrive, dal vivo si dilatava enormemente e diventatava il brano ove il carisma di Syd si esprimeva nel modo più libero. La versione definitiva è contenuta in Tonight Let’s All Make Love in London (una sorta di documentario su quei vivaci anni); i Floyd insieme ai Soft Machine erano di vedetta nella comunità psichedelica dell’epoca (il tempio per loro era l’UFO Club), si conoscevano bene tra loro, ed ebbero un problema comune subito dopo il primo disco: il loro elemento più eccentrico dava segni di scarsa integrabilità con l’industria musicale e (nel caso di Syd) di squilibrio portato dalle droghe. Quando Syd e Kevin Ayers lasciarono i rispettivi gruppi, l’angolatura dovette per forza mutare, ovvero sia i Soft sia i Floyd non ebbero mai più quel candore infantile, come da fola acida.

In questo doloroso cambio di prospettiva i Floyd provarono quello che avrebbe potuto essere, ma non è mai stato, se non come utopia: la formazione a 5, con Barrett che avrebbe dovuto assumere il ruolo ricoperto nei Beach Boys da Brian Wilson (elemento parimenti ingestibile ed instabile che ad un certo punto fungerà da autore dietro le quinte) o anche quello che poi fu di Peter Sinfield nei King Crimson: poiché credevano potesse ancora essere il paroliere, l’illuminatore che scrive per altri ma che ormai non riesce più a saltare sul palco del rock. Fu solo un abbozzo, perché Gilmour ne prese il posto definitivamente. Uscendo di scena il Diamante Pazzo, la collaborazione fu la chiave della ricerca e in tutta questa fase il contributo di Richard Wright fu enorme (che per la verità costruisce il muro tastieristico già nel primo disco, spesso dominato dalla Rick’s Turkish Delight, come chiamavano per scherzo i suoi ricami orientaleggianti ed ipnotici su scale modali indiane), proprio nella transizione da una psichedelia giocosa, infantile e fatata (in cui c’era un solo mattatore) ad una più fredda, liquida, di pura ricerca a squarci eterei (partecipata da tutti e quattro).

Il passaggio da Piper at The Gates of Dawn (1967) a Saucerful of Secrets (1968) mise sulle spalle del tastierista l’incarico di compositore melodico del gruppo, mentre il nuovo arrivato Gilmour dovette certamente guardarsi intorno ed ambientarsi (riguardo alla title track disse che il “merito fu degli studenti di architettura” – gli altri 3), cosa che non gli fu difficile visto il grande gusto ed il carattere accomodante, tuttavia la pressione post-Syd lo mise alla prova. Mason mise tutto l’impegno possibile, dispensando battute e solidità nel ruolo, mentre Waters con la sua innata predisposizione a compattare le forze in vista di uno scopo, fu colui che evitò il disperdere delle forze, il sergente di ferro necessario. I Floyd dovevano continuare con o senza Syd, per cui il bassista/cantante sentì tutta la responsabilità, nel vuoto creativo che si era venuto a creare. Ma la rotta cambiò nell’alchimia perfetta tra le parti, e proprio in questi primi anni in cui Gilmour non aveva ancora trasposto l’apporto chitarristico nei territori melodici che gli sono propri (doveva volente o nolente cercare di ricalcare lo stile abrasivo di Syd almeno fino ad Ummagumma), Wright si mostrò un motore inesauribile, ovverò colui che fornì profondità e dinamismo ai non sempre euclidei incastri tra le parti; molti dei pezzi più lunghi erano collage di frammenti nati da uno solo di loro e poi ricomposti, quindi appare chiaro che l’organo fu lo strumento per far percepire meno traumatici questi veri e propri cambi di prospettiva. Il suo lavoro rendeva meno irruenti gli sciabordii o li incrementava, come nella vorticante A Saucerful of Secrets, dove nella versione dal vivo (parte centrale) prendeva letteralmente a schiaffi il proprio strumento. Questo brano contiene tutta la differenza tra la prima e la nuova psichedelia. Il brodo primordiale, una sorta di pozzo da cui attingere per tutto il resto della carriera: qui le parti strumentali sono aggregate come fossero esplosioni d’altri sistemi solari.

Il pezzo presenta una tripartizione, una sorta di immersione nell'oscurità tramite la prima parte, con la tensione che sale a mille; poi la mediana con i suoi rumori violenti è la guerra dell'esistenza nel suo svolgimento. Infine la risalita a battaglia conclusa: una conclusione che sa di vittoria, di sacrale apoteosi su tutto ciò che ci aveva fatto temere, inabissandoci nella violenza precedente. Il finale, con le struggenti note di Celestial Voices, è il punto in cui le tastiere dettano la danza liberatoria, che esplode in una maestosa colonna sonora per il risveglio solare, dopo le tempeste della nostra Selva Oscura. Brano estremamente suggestivo soprattutto dal vivo, tanto che il dj e giornalista John Peel (non uno qualunque, ma probabilmente l’essere umano ad aver visto più concerti) descrisse l’esecuzione ad Hyde Park (in occasione dell’uscita del disco si esibirono in un concerto gratuito) in questi termini:

"Dico sempre che il miglior concerto all'aperto che mi sia mai capitato di vedere fu quello dei Pink Floyd ad Hyde Park. In quell'occasione noleggiai una barca a vela, remai fino in mezzo al Serpentine e mi sdraiai ad ascoltare la band: la loro musica allora s'intonava perfettamente all'aria aperta...Eseguirono A Saucerful of Secrets e altre canzoni. Sembrava che riempissero l'intera volta celeste e tutto lo spazio attorno. In sintonia perfetta con il movimento dell'acqua, degli alberi e di tutto il resto. Insomma un evento perfetto. Penso che sia stato il più bel concerto che abbia mai visto”.

Rimase uno dei punti di forza dei loro concerti fino al ’71, quando Rolling Stones notò acutamente: “La distanza cui il gruppo l’ha portata, anche rispetto alla registrazione dal vivo di Ummagumma è notevole. Il gruppo, e soprattutto Wright, ha raggiunto una complessità e una profondità nel costruire nuances sul filo conduttore della musica, ben oltre quanto è contenuto nella versione in studio o in quella concertistica”. Uno dei massimi capolavori dei Pink Floyd, dove la forma canzone viene distrutta, oltrepassata, dove si lancia il testimone per le sperimentazioni ardite del Kraut (pensiamo ai primi Tangerine Dream ma anche agli Ash Ra Tempel) e da dove si risalirà per ritrovare la propria forma-canzone, non una qualsiasi. Via via fino a Dark Side, l’album giusto nel momento giusto, come notò Rick in un’intervista del ‘88 a Schaffner, durante la tournée: “Perché continui a vendere non so. Ha toccato le corde giuste, all'epoca. Sembrava che tutti stessero aspettando quest'album, che qualcuno dovesse farlo."

In questa transizione in cui Gilmour era un poco intimidito nel rimpiazzare Barrett e non era ancora integrato a mille nella formazione, con un Waters che faceva il diavolo a quattro per tenere unita la band ed un Mason a ruota, Wright riceveva su di sé la responsabilità di orchestrazione (in tal veste compare esplicitamente in Atom Heart Mother) del Pink Floyd sound, essendo anche l’unico a saper leggere uno spartito. La band dell’immediato post-Barrett fu da un lato costretta a compattarsi, mentre dall’altro sorsero naturalmente dei nuovi equilibri: Roger era quello che teneva assieme gli intenti, colui che caratterialmente spronava gli altri; Wright era il compositore melodico, che costruì qualche singolo (Paintbox, It Would Be So Nice) per non far affievolire l’attenzione (visto che la stampa era più interessata a Barrett che al resto dei Floyd e non dava molto credito ai restanti, senza il primo leader); il nuovo entrato Gilmour si integrò pian piano e, musicista di rara sensibilità, diventò il portavoce dell’anima musicale negli anni più tardi, quando Wright apparentemente esaurì la sua vena creativa, o propriamente si fece da parte anche per demerito suo, a causa di un carattere remissivo, che non andava di pari passo col talento; Mason era il burlone e l’unico amico di Waters, il solo ad aver partecipato ad ogni registrazione, ad ogni disco del Pink Floyd Sound (come lo chiamavano all’inizio): delle volte il meno artistico si ritrova in una strana dimensione, in occulta plancia di comando.

Nel passaggio dalla psichedelia barrettiana a quella successiva, non è la semplice somma ad esser maggiore delle singole parti, ma è il prisma a brillare di quattro luci, di tre menti creative principalmente, con anche Mason comunque a firmare i brani corali. Ma in nessun caso si parlerà di una figura a scalzare le altre, prima di Animals, e ciò è messo in evidenza da un’intervista rilasciata in Australia nel 1971, contenuta nello splendido cofanetto del 2016, Reverber/ation. Gilmour lì sottolineò (anche con un certo imbarazzo): “Credo che sul palco ci sia una collaborazione musicale, ma non funziona così in studio...Non si tratta di un rapporto musicale tra di noi. Siamo individualità che lavorano insieme e spesso ci sono vere e proprie battaglie”. Sollecitato, Waters chiarì come venivano prese le decisioni interne: “Si tratta di trovare un terreno comune. E ognuno nella band ha una sorta di potere di veto. Cioè se qualcuno è entusiasta di qualcosa e qualcun altro dice che non gli va...Allora il veto tende ad essere la forza più forte. Quindi viene scalzato”. Anche l’atteggiamento e il tono del bassista qui paiono molto differenti da quelli che avrà successivamente: negli anni dell’apprendistato i Pink Floyd avevano quindi trovato una formula per unire personalità, stili, sensibilità ed intelletti diversissimi e la ferrea regola del veto che chiunque poteva porre sull’altro era lo stimolo ad operare al meglio nel crogiolo, a rendere più preziosa e sfumata la proposta.

La psichedelia di A Saucerful si fa più fredda di quella degli esordi (riscaldata da qualche illusione flower power, dagli abusi di droga e da uno sperimentalismo più acido); Piper è un capolavoro quanto lo è A Saucerful, ma sono lo specchio di due inizi: il primo reca in sé anche il rimpianto per tutto quel che poteva ancora dare il menestrello Barrett; il secondo è l’inizio a 5 (Barrett figura autore di un solo brano, un commiato raggelante, di ossimorica, disturbata lucidità: È incredibilmente premuroso da parte vostra credermi qui / E vi sono molto riconoscente per aver chiarito / Che in realtà non sono qui /E mi chiedo chi potrebbe scrivere una canzone come questa), il volo nei terreni di uno sperimentalismo più riflessivo ma meno fatato, in una liquida ed esoterica esplorazione nelle possibilità della tecnologia. Le alchimie sonore non passarono da grandissima tecnica personale né nel primo né nel secondo disco (come nel resto della carriera), la spigolosa frammentarietà dei viaggi cosmici dei primi dischi andrà smussandosi solo dopo il periodo più estremo e terminerà con l'anno 1969 e la pubblicazione di Ummagumma, ove tutto si riversa in prospettiva visionaria e ben poco legata a virtuosismi. È esemplificativo che Mason confessi la sua invidia per un gruppo dalla potenza atomica: i Cream. "Il gruppo che mi faceva pensare: Questo è quel che vorrei saper fare". Ma con musicisti di quella preparazione non sarebbero mai nati i Pink Floyd.

Con il 1968 c’è già uno stacco, anche temperamentale: i quattro Floyd sono l’esatto opposto del pathos, sul palco, e senza Syd non ci fu più quell’istinto incendiario, nessuno aveva la qualità di “brillare” da solo...Con quelle mani protese verso la folla...Mentre riverberavano le note di Astronomy Domine...Non potevano contare più sulla sola autentica figura che s'avvicinava ad esser un'icona rock. Per cui la band serrò i ranghi e divenne forzatamente un gioco di squadra, senza l’unico vero solista: tanto lavoro, estremo sacrificio in quegli inizi dove dovettero reinventarsi. Poi soddisfazioni da dividere equamente, almeno fino ad Animals. Ciò che si mette in moto con A Saucerful ci porterà al cuore del periodo d’oro, che comprende Wish You Were Here, ma che ha un punto di termine ideale già con Dark Side of The Moon. Ovviamente ci sarà chi farà notare come il periodo di massima coesione creativa tra tutti, nell’ottica watersiana è soltanto propedeutico alle realizzazioni personali di The Wall e di The Final Cut, ma noi faremo notare come il periodo d’oro finisca quando la spinta di Richard Wright viene meno. È una questione di prospettiva, che non annulla l’altra, va integrata o separata. Ovvero si può pensare a Waters leader maximo, ma nel post Wish You Were Here, prima era già l’encomiabile ed infaticabile tessitore, ma le trame dell’ordito non gli sarebbero mai riuscite con il suo solo filo. Il creativo che sta in ombra un po’ per sua volontà, e un po’ per la preponderanza della personalità degli altri è simboleggiato da quel famoso “fattore Harrison”, ovvero il terzo incomodo dietro la coppia Lennon/McCartney nei Beatles, così la stessa cosa si può dire per John Paul Jones dei Led Zeppelin dietro a Page/Plant, ma nel caso di Wright non è propriamente di subalternità e di contributo di pochi pezzi che si parla, bensì di vitale partecipazione alla scrittura e alla resa di tanti tra i brani più noti (in misura abbastanza considerevole anche JPJ contribuisce nella scrittura di molti brani celebri, in parte certamente minore Harrison, che tuttavia sforna almeno un paio di capolavori prima della carriera solista).

La coesione tra le parti che crea un’entità superiore alla somma è esemplificata nelle grandi suite (firmate da tutti): A Saucerful of Secrets, Atom Heart Mother, Echoes, considerando Shine on You Crazy Diamond, anche se a firma del trio Wright/Gilmour/Waters, l’ultimo grande capolavoro figlio di questa arte combinatoria tra i talenti individuali, che fecero di necessità virtù dopo l’abbandono del Diamante Pazzo (ed infatti Interstellar Overdrive, a firma Barrett/Wright/Waters/Mason è una suite di tutt’altra natura), proprio per cercare l’unione dopo aver seguito sostanzialmente il carisma del primo leader, fin dove reattivo. Altri esempi di grande coesione sono Careful with That Axe Eugene, One of These Days, Time: tutte a firma collettiva. È soprattutto la struttura ipnotica di Attento con quell’ascia, Eugenio (b-side del singolo Point Me at The Sky) ad acquisire status di brano dal vivo per eccellenza, e di esso troviamo una versione definitiva in Ummagumma (1969), album doppio che operò una soluzione interessante: il primo disco li ritrae al meglio del loro potenziale ed è uno dei live più importanti della storia del rock, il secondo reca composizioni non di gruppo ma di ogni singolo, separate, proprio come i Soft Machine che in Third (1970) riservarono una facciata a ciascun componente. Album che vede le tastiere di Wright onnipresenti nella parte live ed inizia in studio proprio col suo Sysyphus: ottimo esempio di avanguardia che preludia i pezzi più bucolici (e al contempo acidi) di Waters, la cavalcata straniante di Gilmour e i sincopati suoni di Mason, che ci invita ad uscire dal disco prendendo un tè con uno sbiadito Gran Vizier della memoria.

Con Atom Heart Mother (1970) sarà la dimensione orchestrale ad imporsi e anche qui noteremo il grande apporto di Wright, con l’organo a dirigere le chitarre di Gilmour in apoteosi, mentre tutto si unisce in un sommo pastiche. Rick insieme all’arrangiatore Ron Geesin (uno dei pochi esterni il cui nome compare nei crediti del periodo d’oro) controllò la partitura della suite di testa, che germogliò da un riff iniziale di Gilmour. Fu il primo album numero 1 in Inghilterra. Oltre alla suite che dà il titolo, ve n’è un’altra meno riuscita, ricordata con estremo senso critico da Wright "per essere onesti è un pezzo scadente” e da Gilmour " la cosa che abbiamo messo assieme più a casaccio", ha all’interno comunque momenti di pura poesia psichedelica: tra i suoni della Colazione di Alan vibrano le note di una band che muta mese per mese (concerto per concerto i pezzi si stratificano) e qui fissa in suono il proprio desiderio di eccedere il rock in una mistura che non esiteremmo a definire “classica psichedelica per raffinati bohémien”.

Meddle (1971) contiene un brano apicale come Echoes: all’interno di esso vi è proprio l’incastro tra il testo poetico e l’evocatività vulcanica (si staglia in una perfezione assoluta con le immagini che girarono tra i miasmi del Vesuvio) della furia strumentale, con l’intermezzo che pare una discesa nel “bosco”, nella Selva Oscura, fatto di un buio intenso a raggi di rapidi graffi nelle profondità della psiche, per poi risalire, esser crisalide (per riferirci alla maglietta indossata dal batterista durante il Live at Pompeii). In Echoes le idee musicali vennero più da Dave e Rick (memorabile l'inizio, con il suono del piano attraverso l'altoparlante Leslie, che crea una risonanza onirica...). Il lungo brano è davvero la somma di tutte le parti: ovvero il perfetto esempio di musica progressiva in cui persino la non brillantissima sezione ritmica cavalca e contribuisce a far si che sia il loro "poema epico sonoro", per usare parole di Waters. Così come Echoes partì dalla nota di Rick, One of These Days prese vita da un riff di basso su una nota, filtrato attraverso l'unità eco Binson. I pezzi melodici dell’album sono zuccherini beatlesiani di ottima fattura, ma One of These Days è concretamente l’avvistamento di una musica a venire: qui il basso di Waters non fa prigionieri, la chitarra è come una fucina dal quale zampillano i fiotti, le tastiere non incidono con grandi variazioni ma sottolineano il poderoso incedere del tema, a tocchi precisi, chirurgici, e Mason ha una delle rare occasioni da “cantante” (ovvero presta la voce per quel falsetto rallentato e fintamente minaccioso: “uno di questi giorni ti taglierò a pezzettini”).

La fusione tra avanguadia-classica-surrealismo grafico-psichedelia e pastiche filmico si ha in Atom Heart Mother, mentre con Meddle l’elemento fantascientifico si fa roboante, poiché One of These Days continua a suonare imprendibile, proiettata in un futuro senza confini. Echoes è la pura evocatività che ricama se stessa, nella perfetta unione con i miasmi di Pompei, a ben vedere il filmato. Nell’antico anfiteatro i quattro si stagliano ritualmente, distaccati, si assiste dunque ad un’esibizione dell’assenza dall’alto valore simbolico (chi non apprezza la fase del pieno successo reputa il Live at Pompeii la fine della band, ad ogni modo il termine del periodo più arditamente sperimentale), come negli stessi intenti del regista Adrian Maben:

La combinazione tra l’anfiteatro vuoto di Pompei e la musica dei Floyd fu una grande idea. Non dimentichiamoci che quel film fu creato come un qualcosa che andasse contro l’idea di Woodstock e quindi: isterismi, flower power e esperienza hippie. La musica era davvero importante combinata con la strana atmosfera della predestinata città di Pompei. L’una amplificava l’altra. Mi dissero: i Pink Floyd hanno davvero suonato per i morti! Quando i Pink Floyd iniziarono a suonare nell’anfiteatro, Peter Watts, l’ingegnere del suono della band, mi disse che il suono prodotto era straordinario. Le risonanze rimbalzavano sui muri di pietra e producevano degli effetti eco che ancora oggi sarebbe impossibile riprodurre in uno studio”.

segue...

  Stefano Eugenio Bona

«Alle frontiere dell’Occulto» – Gustav Meyrink

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Gustav Meyrink, «Alle frontiere dell’Occulto» A cura di Gianfranco de Turris e Andrea Scarabelli Traduzioni di Julius Evola e Piero Cammerinesi Con nove tavole di Danilo Capua e un saggio di Piero Cammerinesi Edizioni Arktos, Carmagnola 2018, pp. 368, € 26,00

Il libro Cabala e alchimia, yoga e spiritismo, teosofia ed occultismo, magia e antroposofia, sogni e fantasie letterarie: ecco alcuni dei temi affrontati in Alle frontiere dell’occulto, raccolta degli scritti esoterici di Gustav Meyrink (1868-1931). Un volume che colma un vuoto, fondendo due antologie ormai introvabili, Alle frontiere dell’Aldilà (tradotto e curato da Julius Evola) e Il diagramma magico.

Tutti i saggi contenuti si muovono lungo un crinale situato tra il noto e l’Ignoto, frontiera fondamentale per comprendere la narrativa dello scrittore austriaco, autore di capolavori come Il Golem, Il volto verde e L’angelo della finestra d’Occidente. Romanziere di successo, Meyrink s’interessò sempre al mondo dell’occulto, attraverso letture e studi approfonditi ma anche frequentando gruppi e società segrete, tra cui la SocietasRosicruciana in Anglia e la Loggia della Stella Blu, di cui figurò addirittura tra i fondatori. Come hanno compreso gli interpreti più acuti della sua opera – tra cui Scholem e Zolla, Jung ed Evola – per comprendere la sua narrativa è impossibile ignorare la sua visione del mondo, spirituale e allo stesso tempo nemica di medium e ciarlatani spiritisti. Tutte tematiche presenti in questo libro che, oltre alle prefazioni dei curatori, all’imponente corpus di note e alle appendici epistolari, è corredato da un saggio di Piero Cammerinesi e dalle incursioni pittoriche nell’Altrove di Danilo Capua, omaggio al genio di Gustav Meyrink.

I curatori Gianfranco de Turris, giornalista e scrittore, insieme a Sebastiano Fusco è stato tra i maggiori promotori della letteratura fantastica in Italia. Ha curato l’edizione di molte centinaia di volumi, una quindicina di antologie, e ha pubblicato ventidue libri. Direttore responsabile di «Antarès» e «Dimensione Cosmica», è stato fra coloro che hanno fatto riscoprire in Italia Meyrink, curando romanzi e antologie tra cui La casa dell’alchimista (ultima ed. Liberamente, 2008) e La morte viola (ultima ed. Coniglio, 2011).

Andrea Scarabelli ha collaborato con la cattedra di Storia della Filosofia (Unimi) ed è membro della Fondazione J. Evola. Per Edizioni Bietti dirige la rivista «Antarès» e la collana «l’Archeometro». Animatore del blog Attuali e inattuali (ilGiornale.it), suoi saggi, articoli e contributi sono apparsi su varie testate, cartacee e telematiche, e in diversi volumi e antologie. Con Giovanni Sessa e Gianfranco de Turris ha curato Il cammino del cinabro di Julius Evola e La crisi del mondo moderno di René Guénon.

L’indice Meyrink critico del falso spiritualismo di Gianfranco de Turris Alle frontiere dell’Io di Andrea Scarabelli Nota dei curatori Alle frontiere dell’occulto 1. Fachiri 2. La via del fachiro 3. Il libro del Dio vivente 4. L’occultismo 5. Il mondo invisibile 6. Risveglio di facoltà occulte mediante la disciplina del volere e alcune droghe 7. L’Alchimia, ovvero dell’impenetrabilità 8. Hashish e chiaroveggenza 9. Collegamento telefonico con la terra dei sogni 10. Magia e caso 11. Magia nel sonno profondo 12. Il diagramma magico 13. Yoga tantrico 14. Immagini dell’aria 15. La Guida Appendice I miei dolori e le mie gioie nell’Aldilà di Gustav Meyrink Lettere ad Alfred Müller-Edler di Gustav Meyrink Gustav Meyrink e il Sentiero del Risveglio di Piero Cammerinesi Titoli originali e fonti Indice dei nomi

DECIMA FLOTTIGLIA M.A.S.: propaganda per la riscossa (XI parte) – Gianluca Padovan

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«l’intelligenza col nemico. La piaga che più logorò la nostra resistenza fu quella dello spionaggio. Certo nessuna nazione andò immune dal lavoro delle spie, ma da noi le spie sapevano troppe cose, troppo in fretta e con troppa precisione. E, per giunta, rimanevano impunite. Non è una scoperta d’oggi, ma già durante la guerra fatti tenebrosi e altrimenti inspiegabili avevano indotto a gravi sospetti, se non addirittura ad assoluta certezza, sulla intelligenza con il nemico»

Antonio Trizzino, Navi e poltrone, 1952

    Direttive trasversali e tradimenti.

Come si è potuto fino a qui leggere, la direzione politica delle operazioni militari italiane, nonché la stessa conduzione delle guerre, a partire dall’ottocentesca costituzione del Regno d’Italia, sono tutt’altro che specchiate.

Le vicende umane possono essere complesse, controverse, magari contorte. Chiunque può vedere sorgere in sé stesso dubbi, perplessità, angosce e ripensamenti nel corso della propria esistenza. Tutto ciò fa parte dell’animo umano, delle sue “oscillazioni”, del conflitto di sentimenti ed emozioni nel corso della vita terrestre.

Un altro conto è avere la responsabilità di centinaia, migliaia e decine di migliaia di uomini, tutti alle proprie dipendenze, e accusare sentimenti contrastanti senza essere in grado di gestirli; oppure di non rispondere volontariamente e coscientemente delle proprie azioni. Questo senza tenere conto che tali responsabilità assunte, e qui ci si riferisce innanzitutto a ufficiali superiori delle FF. AA., sono ben pagate e a fronte di una diritta carriera in seno allo Stato. Se non si è in grado di assumersi le proprie responsabilità innanzi ai sottoposti si dev’essere coscienti di dover recedere dal proprio ruolo di comando, dimettendosi. Tutto ciò è tranquillamente comprensibile e accettabile, anche senza dover ricorrere a doveri e sentimenti quali “giuramento prestato”, “senso di responsabilità”, “patriottismo”, “spirito di sacrificio”, ecc. Altro conto ancora è se i dipendenti dello Stato percepiscono da questo uno stipendio e magari pure onori e onorificenze, ma in realtà fanno gli interessi di altri Stati o di “organizzazioni trasversali”.

Quando la Nazione entra in uno stato di guerra le conseguenze di chi non fa il proprio dovere, o peggio di chi tradisce ciò per cui ha giurato (e per cui è stipendiato), sono esponenzialmente più gravi che in tempo di pace e soprattutto costano vite umane.

Costano le vite degli uomini che si deve comandare e i quali ripongono, volenti o nolenti, nel proprio superiore la loro fiducia: pongono la propria vita nelle mani di chi li comanda. Quando la propria Nazione entra in uno stato di guerra ognuno ha la chiara e netta alternativa: combattere o non combattere, ma facendolo in modo chiaro, dichiarato. La vita, come si suole dire, è una questione di scelte, ma parrebbe che nelle guerre italiane le scelte di taluni che comandano siano, con allarmate incidenza, a favore di qualche cosa di non apertamente dichiarato, come si argomenterà in questo e nei prossimi contributi.

  Come dirigere il conflitto a favore del nemico.

Se il 10 giugno 1940 l’Italia entra in guerra al fianco della Germania, l’attacco contro la Francia si risolve in un insuccesso e le motivazioni sono state ampiamente esaminate in svariati libri e articoli durante settanta e passa anni di studi storici. Ma per quale motivo l’Italia entra in guerra? Anche a questa domanda sono seguiti veri e propri fiumi di parole. Vediamo quindi che cosa scrive il Comandante Junio Valerio Borghese sull’inizio del conflitto, ma soprattutto che cosa succede in ambito navale.

In primo luogo Borghese accenna alla supremazia della marina inglese e al fatto che le colonie italiane in Africa sono direttamente coinvolte nella guerra, affermando che «è compito della Marina assicurare il rifornimento continuo in armi e uomini oltremare» (Junio Valerio Borghese, Decima Flottiglia MAS. Dalle origini all’armistizio, Albertelli Edizioni, Parma 2005, p. 31).

E soggiunge: «Cosa avviene al nostro intervento? In quali forme si manifesta il vantaggio di aver noi scelto la data d’inizio? Quale piano d’azione militare, rapido ed improvviso, accompagna la nostra dichiarazione di guerra? Come sfruttiamo il vantaggio della sorpresa? Non succede assolutamente nulla: militarmente accettiamo la guerra sulle posizioni di partenza e con il rapporto di forze preesistente. Non si sviluppa un piano, non si persegue un obiettivo: si temporeggia. Sul fronte francese, sulla difensiva; sul fronte libico, modeste azioni di pattuglie (l’Egitto era, a quel tempo, quasi completamente sguarnito di truppe inglesi); Malta, la base navale inglese situata nel cuore del Mediterraneo sulla rotta Italia-Libia, la cui neutralizzazione avrebbe dovuto costituire da anni l’oggetto degli studi e dei piani dei nostri Stati Maggiori e la cui difesa aerea consisteva, il 10 giugno del ’40, in quattro aerei Gladiator, indisturbata; la flotta inglese del Mediterraneo, suddivisa fra le basi di Gibilterra ed Alessandria, inaccessibile. Questi i dati di fatto: a chi attribuirne la responsabilità, dirà lo storico futuro.[1]» (Ibidem, pp. 31-32) (1).

Sull’operato, o meglio sul “non operato”, dello Stato Maggiore Italiano a inizio conflitto ci si potrebbe tranquillamente scrivere un volume d’enciclopedia.

  L’ingegno e il coraggio italiani… traditi.

Rimaniamo nell’ambito delle operazioni sommergibilistiche e di quelle effettuate dagli incursori navali. Possedendo una marina militare di potenza inferiore a quella inglese (2), in Italia ancora una volta si pensa d’impiegare uomini addestrati in modo particolare e che mediante mezzi piccoli possano ottenere successi inversamente proporzionali. In pratica si riprendono in mano gli studi su macchine e ordigni definiti “armi segrete” andando a produrre, come già visto, soprattutto i mezzi d’assalto impiegati dalla Regia Marina Militare Italiana e successivamente, in misura minore per cause belliche, dalla Xa Flottiglia M.A.S.

Trattandosi di “armi segrete” tanto Junio Valerio Borghese quanto Antonio Trizzino sottolineano il fattore “discrezione” e soprattutto come le “faccende militari” debbano essere tenute riservate fin nei minimi dettagli, per ovvie ragioni, ma che queste in realtà divengono spesso ben note all’avversario.

A proposito del reclutamento dei volontari italiani per i mezzi d’assalto, Borghese scrive: «Il segreto, la necessità del più assoluto segreto, non solo sulle armi, sulle esercitazioni, sull’entità e dislocazione del reparto, sui nomi dei compagni e superiori, ma persino sulla propria appartenenza al reparto era il primo requisito richiesto ai volontari e la prima prova a cui erano sottoposti (…). Eppure a questo si pervenne con l’insegnamento, l’esempio e la scuola del carattere: per tutta la durata della guerra non mi risulta che vi sia stato uno solo fra i volontari dei mezzi d’assalto che abbia dato motivo a rilievi per indiscrezioni; e questo sia in Italia, durante i lunghi mesi di preparazione e vigilia, sia in prigionia, sotto il tormento dei continui interrogatori, per coloro cui fu riservata l’ingrata sorte» (Ibidem, p. 34).

Sia come sia: «le prime tre settimane di guerra furono disastrose per i sommergibili italiani. Dal 10 al 30 giugno del 1940, infatti, ne andarono perduti sei nel Mediterraneo (Provana, Diamante, Liuzzi, Argonauta, Uebi Scebeli, Rubino) ed altri quattro nel Mar Rosso (Macallè, Galilei, Torricelli, Galvani) degli otto rimasti a Massaua allo scoppio delle ostilità» (Antonio Trizzino, Settembre nero, Longanesi & C., Milano 1968, p. 8).

  Operazioni con gli S.L.C. nel 1940.

Nel 1940 si pensa di attaccare le navi inglesi alla fonda utilizzando gli S.L.C., trasportati da appositi sommergibili in prossimità delle navi avversare alla fonda, e in agosto le operazioni vengono avviate. Rimane evidente che troppe volte l’attrezzatura accusa malfunzionamenti e guasti e che il “segreto militare” appare di nome, ma non di fatto.

- 22 agosto 1940: prima missione contro le navi inglesi alla fonda nel porto di Alessandria d’Egitto. Il sommergibile Iride trasporta quattro apparecchi S.L.C., ma è individuato e centrato da aerosiluranti inglesi. Si ricorda che l’ammiraglio Domenico Cavagnari è il Capo di Stato Maggiore della Regia Marina Militare, l’Ammiraglio Edoardo Somigli, Sottocapo di Stato Maggiore, è al comando di Supermarina; l’Ammiraglio Raffaele De Courten (già visto in contributi precedenti, sempre su Ereticamente) comanda i Mezzi d’Assalto e il Capitano di Fregata Mario Giorgini comanda inizialmente la 1a Flottiglia M.A.S.

Sergio Nesi riporta il commento di Borghese aggiungendo lapidariamente il proprio: «“Così, con la perdita di un sommergibile, di un piroscafo e di molte vite umane, si concludeva il primo timido, estemporaneo e inadeguato tentativo d’impiego della nuova arma della Marina; per l’evidente superficialità e leggerezza nell’approntare il materiale e predisporre l’organizzazione, non v’era probabilità alcuna che esso potesse avere sorte migliore, anche se il siluro nemico non avesse troncato la missione al suo inizio. Era stata ordinata dall’ammiraglio De Courten dal quale, in quel periodo, dipendeva l’impiego dei mezzi d’assalto”. Un preciso siluro» (Sergio Nesi, Junio Valerio Borghese un Principe un Comandante un Marinaio, Editrice Lo Scarabeo, Bologna 2004, p. 120) (3).

 

- 21 settembre 1940: seconda missione, medesimo obiettivo e dal porto di La Spezia parte il sommergibile Gondar. Ma il 29 un telegramma di Supermarina informa che la flotta inglese è uscita dal porto e quindi il sommergibile deve sospendere la missione e raggiungere il porto di Tobruk (italiano). Individuato e attaccato da navi inglesi è colpito con bombe di profondità; anche questo battello va perduto. Mario Giorgini (Massa 1900 – Firenze 1977) è preso prigioniero a seguito del fatto ed è liberato dalla prigionia nel 1946 (4). Gli subentra il Capitano di Fregata Vittorio Moccagatta.

 

- 24 settembre: lo Scirè lascia La Spezia trasportando tre S.L.C. che devono attaccare le navi nel porto di Gibilterra, nella baia di Algesiras. Il 29 settembre Supermarina ordina di rientrare perché la flotta inglese ha lasciato il porto. Scrive Borghese: «Come si è detto, ordine analogo, lo stesso giorno 29, era stato impartito al Gondar, avendo anche la flotta di Alessandria inopinatamente lasciato quel porto poche ore prima della data prevista per l’attacco. Furono gli inglesi preavvertiti? Spionaggio? Intelligence Service? O invece pura coincidenza di operazioni delle forze navali, indipendentemente dai nostri piani offensivi? Mistero che non sono in grado di penetrare» (Junio Valerio Borghese, Decima Flottiglia MAS. Dalle origini all’armistizio, op. cit., p. 54).

Scrive Arnaldo Cappellini sul seguito dell’affondamento del Gondar: «I superstiti furono raccolti da una nave inglese e quando Toschi, che nessuno aveva ancora interrogato, sbarcò sulla banchina di Alessandria, con la barba di alcuni giorni e gli sleeps, un capitano di corvetta inglese lo avvicinò e gli disse: “How do you do, captain Toschi?” e in maniera analoga si rivolse agli altri superstiti. Gli Inglesi sapevano tutto, aspettavano il sommergibile, avevano fatto uscire le navi, e conoscevano i nomi degli operatori. Da chi avevano saputo? Chi avvertiva la Flotta inglese degli attacchi italiani?» (Arnaldo Cappellini, Torpedini umane contro la flotta inglese, Edizioni Europee, Milano 1947, p. 79).

 

- 21 ottobre 1940: lo Scirè salpa da La Spezia trasportando tre S.L.C. e l’obiettivo è nuovamente il porto di Gibilterra. Supermarina avvisa che le navi da battaglia sono nella rada e il giorno 30 vi è l’attacco. Tutti e tre i Maiali accusano gravi malfunzionamenti e così pure alcuni auto respiratori a ossigeno (A.R.O.) degli incursori, tant’è che la missione non consegue alcun affondamento di naviglio avversario.

Sergio Nesi riporta la relazione scritta da Teseo Tesei il quale, a rientro dalla missione, a proposito dei malfunzionamenti scrive: «“1°) Constato: Un forte annebbiamento del quadro strumenti in corrispondenza della bussola. 2°) L’irregolare funzionamento della pompa di travaso”» (Sergio Nesi, Junio Valerio Borghese un Principe un Comandante un Marinaio, op. cit., p. 131).

Nel prossimo XII contributo si parlerà delle operazioni compiute nel 1941 e di Duran de La Penne; intanto, in chiusura, ecco una nota di Borghese: «Un ufficiale di marina inglese del servizio segreto navale, destinato a Gibilterra durante la guerra, dice: “Lo Scirè, al comando del principe Valerio Borghese, portava tre equipaggi di mezzi d’assalto per un attacco alle navi da battaglia inglesi di Gibilterra. Cominciava così una guerra di tre anni, combattuta in silenzio sotto la superficie della baia di Gibilterra. Al prezzo di 3 morti e 3 prigionieri, le unità dei mezzi d’assalto italiani vi affondarono o danneggiarono 14 bastimenti alleati, per un totale di 73.000 tonn.» (Junio Valerio Borghese, Decima Flottiglia MAS. Dalle origini all’armistizio, op. cit., p. 68).

Complessivamente le perdite furono maggiori, anche solo pensando alla vicenda del Gondar e dell’equipaggio catturato, ma la sostanza non muta.

    Note.  

1) Nota [1]: «In un colloquio avvenuto nel 1942 a Palazzo Chigi, Galeazzo Ciano ebbe a dirmi: “Quando il Duce decise l’entrata in guerra, chiese a Badoglio: ‘Quali piani avete per Malta?’ ‘Nessuno’ rispose questi» (Ivi).

Gloster Gladiator: biplano, aereo cacciatore (caccia) inglese il cui primo prototipo è del 1934. Secondo altre fonti i Gladiator presenti ed efficienti a Malta alla data del 10 giugno 1940 erano tre.

2) Almeno secondo Antonio Trizzino occorre fare un’eccezione per la flotta sottomarina, la quale «era stimata la prima al mondo, non soltanto per numero di unità, ma per l’addestramento dei suoi equipaggi e la perizia dei suoi ufficiali» (Antonio Trizzino, Settembre nero, Longanesi & C., Milano 1968, p. 7). Numericamente era superiore quella sovietica, ma era troppo frazionata e molti battelli (sommergibili) erano di piccolo e piccolissimo tonnellaggio.

Borghese, pur non negando l’affermazione, puntualizza che nel periodo trascorso a Mamel sul Mar Baltico, in un corso istituito dai Tedeschi, constatò «che il personale dei sommergibili tedeschi, dai comandanti agli equipaggi, non era né individualmente né collettivamente sotto alcun aspetto superiore al nostro: ma usufruiva di un prolungato ed eccellente tirocinio teorico-pratico che dava ai tedeschi, in fase di addestramento, un’esperienza e capacità che i nostri comandanti di equipaggi acquisivano soltanto attraverso le missioni di guerra: ciò che, naturalmente, valeva solo per i sopravvissuti al duro tirocinio» (Junio Valerio Borghese, Decima Flottiglia MAS. Dalle origini all’armistizio, op. cit., p. 44).

3) Massimiliano Capra Casadio nella prima parte del corposo contributo sulla storia della Xa accenna anche alle sue imprese, ma curiosamente non parla di quanto argomentato da autori quali Borghese, Nesi e Trizzino in merito ai costanti malfunzionamenti di mezzi e attrezzature nonché sulle “fughe” d’informazioni militari che avrebbero dovuto essere tenute segrete. Fanno eccezione alcuni rari e brevi passi, come ad esempio un’affermazione sull’operazione a Gibilterra dell’ottobre 1940: «I piloti degli SLC non riuscirono ad attaccare nessuna nave nemica a causa di varie avarie dei mezzi e degli autorespiratori» (Massimiliano Capra Casadio, La storia della X Flottiglia MAS 1943-1945. Analisi di una politica oscillante. Prima parte: dalle origini all’8 settembre 1943; i giorni dell’armistizio; la nuova Decima e l’adesione alla R.S.I., in Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, Periodico Trimestrale, Anno XXIII, Marzo, Ministero della Difesa Editore, Roma 2009, p. 141).

Ma Capra Casadio non si spinge a scendere né in dettagli né tantomeno in personali considerazioni. Sarebbe invece utile e illuminante poter comparare i documenti segreti della Regia Marina riguardanti le operazioni e la perdita dei nostri mezzi con quelli inglesi e sui medesimi fatti.

4) Famiglia dalla storia interessante, quella dei Giorgini. Vediamo, seppur brevemente non essendo il tema del presente contributo, alcuni tratti di Giovanni Battista Giorgini (1898-1971), fratello del Capitano di Fregata Mario Giorgini, con le parole di Letizia Pagliai: «A Firenze nel 1924 fu ricostituita l’Associazione Cristiana dei Giovani (ACDG), il corrispettivo italiano della Young Men’s Christian Association (YMCA), organizzazione cristiano-evangelica fondata a Londra nel 1844, fortemente sviluppatasi negli Stati Uniti e in Canada sullo scorcio del XIX secolo. Il movimento, le cui linee programmatiche erano state delineate da John R. Mott, protagonista indiscusso del movimento ecumenico, voleva essere uno spazio di pacificazione universale per ricomporre le grandi famiglie cristiane che sotto le varie denominazioni protestanti erano separate dalla Chiesa; l’intento era quello di far conoscere al mondo intero l’evangelo, pur prescindendo dalle conversioni individuali, attraverso la ramificazione e la diffusione dell’organizzazione» (Letizia Pagliai, Unionismo fiorentino negli anni Venti. L’Associazione Cristiana dei Giovani di Firenze, in AA. VV., Annali di Storia di Firenze, VII, Rivista “Storia di Firenze”, Firenze University Press, Firenze 2012, p. 195).

Più avanti leggiamo: «Giorgini [Giovanni Battista. N.d.A.] era stato lasciato nella piena libertà di coscienza di decidere tra le due confessioni di famiglia, cattolica e protestante, ma aveva finito per accogliere dalla madre valdese, Florence Rochat (1860-1942), un’educazione religiosa in senso riformato. Il contatto fra i liberali Giorgini e il ramo toscano dei Rochat, facoltoso e impegnato nella vita sociale, che aveva nella Svizzera francofona un’antica ascendenza, era avvenuto nella seconda metà dell’Ottocento al Forte dei Marmi. L’Ottocento e il Novecento toscano ebbero indubbiamente in quattro generazioni di Rochat, a partire dal patriarca Jacques Henri, primo a stabilirsi a Firenze dopo aver fatto richiesta al Comune di L’Abbaye dell’acte de bourgeoisie, un gruppo di personalità di spicco che arrivarono a occupare posizioni ragguardevoli nella vita locale» (Ibidem, p. 199). Inoltre: «Quando l’ACDG fu presentata ufficialmente a Firenze in via de’ Serragli il 18 novembre 1924, il Consiglio provvisorio della neocostituita associazione incaricò ufficialmente Giorgini del ruolo di ‘ambasciatore’ affinché nei suoi giri per affari negli Stati Uniti portasse un’eco italiana, e fiorentina, ai responsabili delle varie sedi YMCA nelle città in cui avrebbe sostato per lavoro» (Ibidem, p. 200).

       

Il caso Alfie: quale etica? – Flavia Corso

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Il caso del piccolo Alfie, il bambino di quasi due anni ricoverato all’Alder Hey Hospital di Liverpool per una malattia neuro-degenerativa non ancora ben diagnosticata, sta assumendo sempre più rilevanza internazionale. La lotta della famiglia Evans per tentare di dare una disperata chance al proprio figlio ha commosso molte persone di tutto il mondo, e ha evidenziato – ancora una volta – l’urgenza della riflessione bioetica nell’ambito delle questioni di inizio e fine vita.

La Corte d’Appello di Londra e i medici dell’ospedale si oppongono fermamente alla possibilità del trasferimento in Italia, presso l’ospedale Bambino Gesù di Roma. Inspiegabilmente, si è dunque deciso di negare la speranza ai genitori di prolungare la vita del proprio figlio, sebbene il piccolo inglese non stia provando alcun dolore e stia resistendo al distacco del respiratore. Ma perché? Quali motivazioni di ordine morale vengono fornite a tale proposito?

Di norma, si individuano in bioetica due paradigmi inconciliabili: l’etica della sacralità della vita e l’etica della qualità della vita. Il primo paradigma, detto anche paradigma ippocratico, considera il medico il sacerdote della vita, l’assistente del finalismo vitale, colui che conosce il miglior interesse del malato e fa di tutto per non nuocere e promuovere la vita, in virtù dell’esistenza di doveri e divieti assoluti.

Oggi questa visione del rapporto medico-paziente sta perdendo sempre più terreno in favore dell’etica della qualità della vita che, al contrario dell’altra, non contempla la necessità di fare riferimento a doveri e divieti assoluti, ma si propone di scardinare l’antica etica medica per garantire al malato la possibilità di autodeterminarsi sia in salute che in malattia, anche attraverso l’utilizzo delle cosiddette “direttive anticipate”. Contrariamente al paternalismo medico di stampo ippocratico – che giustifica anche pratiche decisamente discutibili come l’accanimento terapeutico su pazienti sofferenti in fase terminale – il rapporto tra medico e paziente, in quest’ottica, costituisce un’alleanza terapeutica.

Ora, mi chiedo: in virtù di quale delle due etiche sono state prese decisioni così importanti nei riguardi del piccolo Alfie? La risposta è semplice: nessuna delle due.

Oltre all’abbandono di una visione sacrale della vita, in cui il medico dovrebbe sempre e comunque farsi promotore della vita e mai della morte, si assiste anche all’allontanamento dal paradigma della qualità della vita. Alfie, infatti, non sta soffrendo e non ha la possibilità di dare direttive di trattamento al personale medico. In questa situazione, le uniche persone autorizzate a decidere per lui sono – o comunque dovrebbero esserlo – i suoi genitori. Negare questa possibilità alla famiglia Evans significa di fatto negare il principio di autodeterminazione a cui si rifà l’etica della qualità della vita. Non si può accettare questo principio e farne un baluardo di civiltà solamente nel caso in cui si scelga autonomamente di interrompere il trattamento o di ricorrere all’eutanasia. La possibilità di autodeterminarsi dev’essere garantita anche nel caso in cui si decida di proseguire il trattamento e continuare a vivere il tempo che rimane a disposizione, e di tentare magari l’impossibile pur di allungare almeno di un po’ la durata della propria vita.

Questa possibilità, tuttavia, sta diventando sempre più un miraggio, come nel caso di Alfie. Si rinnegano contemporaneamente due etiche ugualmente percorribili e giustificabili, per alimentare quello che può essere considerato il terzo paradigma della nostra epoca: l’etica della qualità della morte. E’ molto meno costoso focalizzarsi sulla buona morte, piuttosto che sulla buona vita. E’ molto più facile ed immediato “staccare la spina” in una società di stampo utilitaristico che non vuole farsi carico di individui “difettosi”, piuttosto che rispettare la famiglia quale nucleo avente la propria autonomia decisionale.

In situazioni limite come questa, ogni famiglia dovrebbe avere il diritto di mettere in pratica la propria etica, senza subire alcuna interferenza dello Stato. Nessuna persona dovrebbe essere costretta ad alienarsi dall’intimità della propria morte, o da quella dei propri cari.Mi sembrano di buon senso, a questo proposito, le parole di Beppino Englaro:

Chi deve decidere quando e come mettere fine alle sofferenze di chi non può esprimersi? Sapevo cosa voleva Eluana e mi sono battuto perché potesse morire secondo la sua volontà. Il desiderio dei genitori di Alfie va rispettato, anche se la loro scelta potesse rivelarsi sbagliata. I medici dicono che la vita di Alfie è destinata ad essere breve e dolorosa, ma i genitori preferiscono un percorso palliativo in Italia. Perché ostacolare così la loro pazienza?

Flavia Corso

Alfie: Amor Omnia Vincit – Giuseppe Barbera

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Dal Tempio di Giove sdegno e preghiera.

Doveva morire per l’accidia di medici e giudici, ma grazie all’amore dei genitori Alfie sta sopravvivendo. Il caso che ha scioccato l’Europa è oramai all’ordine del giorno. Una di quelle storie commoventi sulle quali alcuni giornalisti godono perché sanno che avranno un pezzo di successo, altri, dai valori sani, ne scrivono sperando di smuovere qualcosa.

La nostra società, decaduta nel meccanicismo industriale ed informatico, abituata a giocare con la morte tramite il mezzo virtuale, ha perso il senso reale della vita e della natura. Si è perso il senso magico dell’uomo e s’è dimenticato il corpo del valore di cui i latini riempirono l’Europa: l’Amor.

Virgilio scriveva che l’Amore può vincere ogni cosa, Plauto che l’Amore può ogni miracolo. Dal tempio di Giove non può che partire un appello ai genitori di Alfie: non smettete di amarlo, continuate a lottare per amore e ricordate che l’amore può ogni cosa e che la Fortuna aiuta gli audaci. Ciò che lo stato inglese sta commettendo è un crimine verso l’umanità e non si può rimanere impassibili a ciò. Si accusano i nazisti di essere stati disumani, ma i giudici inglesi non si stanno mostrando migliori di quei gerarchi tedeschi.

Lo stato deve garantire il diritto alla vita e deve lottare perché esso sia applicato. I figli non sono oggetti da commercializzare o da gettar via quando si rompono: essi sono esseri umani come ognuno di noi e tutti noi dobbiamo avere la possibilità di lottare per la vita, tutti i genitori devono avere il diritto di poter fare ciò che ritengono più opportuno per le cure dei figli: loro gli hanno dato la vita e loro ne sono i tutori.

Lo stato inglese non si rende conto dell’atroce Nemesi che scatenerà contro se stesso alterando la natura delle cose in questo modo. Se l’Amor è la forza che costruisce il mondo bisogna capire che dove c’è Amore vi è crescita, dove vi sono il disamore e l’odio v’è caduta e distruzione. E’ sempre stato così e così continuerà ad essere. L’uomo, preso dall’avidità e dall’egoismo di imporsi sugli altri sta dimenticando l’Amore e si vuole sostituire a questa forza, non rendendosi conto ch’ella è incontrastabile. Dal tempio di Giove, piccolo luogo del culto latino e italico, non abbiamo certamente la forza di smuovere folle oceaniche a sostegno della vita, ma abbiamo la coscienza e l’etica necessarie a poter proferir parola e sottolineare che lo scopo delle leggi deve essere quello di tutelare i cittadini ed il vivere comune, e non quello di schiacciare e sottomettere gli abitanti dei territori. La grande rivoluzione di Romolo, nel segno di Giove, fu proprio questa: trasformare le leggi per dare il diritto agli uomini. Chiunque può approvare o criticare le metodiche degli antichi Romani, ma l’intento fu certamente spinto da un valore sano ed invincibile, che ancora oggi sopravvive: diffondere il diritto tra le genti.

I gentili pii non potranno certamente scrivere comunicati altisonanti ed incisivi, quello tocca alle istituzioni che debbono muoversi con responsabilità, maturità e spirito di tutela della vita e di ciò che la produce, ossia la famiglia. Noi possiamo soltanto pregare, ma chissà che a volte un voto a Giove non possa più di cento nazioni.

Giuseppe Barbera Rettore del Tempio di Giove della Pietas.

La Dèa Feronia di Terracina – Paolo Galiano

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Terracina sorge su di un’esigua terra pianeggiante sulle rive del mare, tra il Monte S Angelo che la protegge a sud e le paludi pontine a nord: fondata dai Volsci con il nome di Anxur probabilmente intorno al V sec. a. C. e poi conquistata dai Romani che la chiamarono Tarracina, ebbe più volte ricostruzioni del tessuto urbano e dei suoi templi nel corso dei secoli fino all’età medievale, per cui i santuari che costituiscono il complesso del Monte S. Angelo nella forma che oggi vediamo risalgono tra la fine del II e l’inizio del I sec. a. C., ma sono certamente il rifacimento di costruzioni molto più antiche, come confermano alcune strutture ancora visibili.

Il complesso è costituito da due templi di età differente: il cosiddetto “tempio maggiore”, che si credeva dedicato a Juppiter Anxurus (il cui tempio è stato invece identificato con ogni probabilità sull’acropoli di Terracina nel giardino dell’attuale convento di San Francesco (1) ) ed oggi invece ritenuto aedes di Venus Obsequens, collegato alla conquista da parte di Silla della città nelle lotte contro Mario, e il “tempio minore”, più antico, dedicato a Feronia. La distinzione tra i due templi è evidente nella loro posizione rispetto alla città: il più antico tempio di Feronia ha asse principale nord-est/sud-ovest ed è rivolto verso di essa, così come le altre strutture più antiche quali il cosiddetto auguraculum, mentre quello di Venere, spostato sull’asse nord/sud, si affaccia sul porto e, trovandosi più in alto, non è quasi visibile da Terracina.

Una precisazione è necessaria: Venus Obsequens non è, come traduce semplicisticamente la Boccali (2), la “Venere obbediente” “che si inserisce perfettamente in un campo ideologico tanto femminile quanto servile, la divinità dell’obbedienza in tutti i suoi aspetti”, ma la “Venere favorevole” ai suoi seguaci, quale fu Silla, ai quali la Dèa offre il dono della sua grazia divina in quanto Dèa della Vittoria (3).

Complesso il significato della Dèa Feronia, divinità preromana (4) e di origine latina, o meglio volsca, popolazione originaria del nord della Sabina prima di spostarsi verso il sud del Lazio dove fondò le grandi città delle mura ciclopiche, che di Terracina fu la divinità protettrice, tanto che la città era situata tra due santuari, l’uno posto a sud, cioè il “tempio minore” di Monte S. Angelo, e l’altro a nord sulla Punta di Leano, oggi completamente scomparso ma del quale restano evidenze letterarie.  Feronia è adorata oltre che a Terracina anche in altre zone del Lazio, in primo luogo nel lucus Feroniae ai piedi del Soratte, ma era anche venerata dai Piceni e dagli Umbri (5) ed aveva altri luoghi di culto ad Amiternum nel delubrum Feroniae e forse presso la Fonte Ferogna di Narni (6).

A Roma, era celebrata alle Eidus di Novembre, dove era associata a Juppiter, cui sempre erano riferite le Eidus, e alla Fortuna Primigenia del Capitolium nella ricorrenza del dies natalis del suo tempio nel Campo Marzio. Anche se il suo culto privilegia luoghi lontani dai centri abitati preferendo zone selvagge, Feronia non è una divinità della selva, come Diana, ma si situa nel punto di passaggio tra il colto e l’incolto, dove inizia l’azione ordinatrice dell’uomo sul caos della boscaglia. Come scrive Dumézil (7): “Feronia tutela ‘la natura’, le forze ancora selvagge del mondo dell’incolto, ma per metterle al servizio degli uomini, della loro alimentazione, della loro salute (8), della loro fecondità”.  L’etimologia di Feronia viene riportata da Dumézil a ferus, cioè non cul¬tus, agrestis, il che rende possibile l’interpretazione di Feronia come analoga femminile del vedico Rudra (il cui nome è affine al latino rudis, sinonimo di ferus), il Dio “della boscaglia e della giungla, sempre pericolosa e inso¬stituibilmente utile, ‘signore degli animali’ e, grazie alle sue erbe, gua¬ritore… protettore non degli schiavi liberati [come Feronia] ma dei fuo¬rilegge” (9).

Carandini collega invece Feronia a far, il farro (10), sottolineando un carattere agricolo che però la Dèa non possiede come sua principale funzione, essendo non il “luogo” delle messi ma la “causa” di esse, differenza che bene spiega Ovidio parlando di Tellus e di Ceres: “Hanno Ceres e Tellus comune ufficio, / perché questa è causa delle messi, la se¬conda il luogo” (11).

Una terza ipotesi etimologica potrebbe collegare Feronia a feralis e ai Feralia e quindi al mondo ctonico, e questa ipotesi trova i suoi indizi a Praeneste, dove la Dèa potrebbe essere addirittura precedente la stessa Fortuna Primigenia (12): vi sono infatti elementi per una sua possibile identificazione con Juno (uno dei nomi di Juno è Juno Feronia, come si legge in un’iscrizione proveniente dal territorio di Verona (13), dove erano numerosi i cittadini prenestini emigrati), alla quale è dedicato un altare trovato a Praeneste fuori della Porta del Sole come Juno Palostica o Palosticaria, aggettivazione che potrebbe tradursi con “Juno che sta presso la palude” (14). Questo metterebbe in rapporto la Juno-Feronia prenestina con l’ambiente della palude, che ha sempre avuto connotati inferi e che ben si adatta a Feronia, la quale nel Corpus glossariorum (15) è detta Dea agrorum sive inferorum.

La sua “qualità” più importante è nell’essere madre di Dèi e di eroi fondatori di città: a Terracina è la madre di Juppiter Anxurus, raffigurato come un giovane imberbe, e a Praeneste del Re fondatore della città Erulo/Erilo (16). Questo crea una complessa rete di analogie con altre divinità del mondo latino e romano: in quanto madre di Juppiter può essere accostata a Fortuna Primigenia di Praeneste, madre della coppia Juppiter-Juno, e alla Greca Rhea madre di Zeus, ma in quanto protettrice dei campi coltivati (il suo aspetto “agricolo” si origina dalla connessione tra gli Antenati sepolti nella terra e i frutti che da questa nascono) a Ops, la Dèa dell’abbondanza, e, poiché è Dèa agrorum, anche a Fauna (17). Ma Feronia ha anche un’altra valenza: è la divinità a cui si rivolgono gli schiavi che divengono cittadini liberi con l’atto legale detto manomissio, che era spesso seguito da una cerimonia che a Roma si teneva nel tempio di Feronia, dove il liberto vestiva la toga del cittadino romano e poneva sul capo rasato un pileus, da cui l’espressione “servos ad pileum vocare” per significare la liberazione di uno schiavo (18).

Feronia segna il passaggio dallo stato selvatico a quello civile poiché lo schiavo non era considerato un essere umano ma una “cosa”: nella tenuta agricola lo schiavo altro non è che un “instrumentum vocale”, secondo la descrizione di Varrone (19), superiore solo all’“instrumentum semivocale” che è l’animale e all’“instrumentum mutum” che è l’aratro o la zappa, per cui veniva venduto in solido con tutto ciò che si trovava nella fattoria quando questa cambiava padrone. Qui di nuovo vediamo come la Dèa si pone sul limite tra il silvestre incolto e la zona civile e coltivata dell’ager, ma il rapporto con lo schiavo liberato non può non far pensare al rituale della Diana nemorense, in cui lo “schiavo” che riusciva ad uccidere il “Re dei boschi di Nemi” diveniva uomo libero e a sua volta nuovo Re.

Infine Feronia sembra avere, anche se non accertata da fonti letterarie o epigrafiche, anche una valenza profetica, il che spiega la funzione anche oracolare del santuario di Terracina: la sua “qualità tellurica” come Diva inferorum la mette in rapporto con il mondo dei morti che sono capaci di conoscere gli avvenimenti futuri, come sappiamo dal viaggio di Ulisse negli Inferi durante la sua permanenza nella vicina terra di Circe, a cui Feronia è riportabile essendo ambedue Dèe dei luoghi selvaggi e madri di Picus Re degli Aborigeni, che nelle diverse versioni del mito è detto figlio di Circe e Ulisse o di Ops-Feronia e Mars (20) .

NOTE (l’articolo di Galiano e la pianta dei templi di Anxur, opera di C. Lanzi, sono stati pubblicati sul sito online di Simmetria http://www.simmetria.org/sezione-articoli/articoli-alfabetico/43-altri-articoli/1025-il-tempio-di-giove-anxur-e-la-dea-feronia-di-p-galiano) 1 BOCCALI Esempio di organizzazione delle fonti antiche per la ricostruzione del quadro della vita religiosa di una città e del suo territorio in età preromana e romana : Terracina, in “Cahiers du Centre Gustave Glotz”, 8, 1997. pp. 181-222. 2 BOCCALI Esempio di organizzazione cit. p. 189. 3 Come abbiamo spiegato in GALIANO Venere, la Grazia divina, parlando del suo tempio nel Circo Massimo, il più antico tempio di Venere a Roma, esso precede quelli innalzati alla Venere Erucina, la Dèa della prostituzione sacra proveniente da Erice. 4 Per uno studio più approfondito di Feronia, con particolare riguardo ai suoi possibili rapporti con Soranus Pater e la Iuno di Praeneste, rimandiamo a GALIANO Il tempo di Roma, p. 369-367. 5 DUMÉZIL La religione romana arcaica, Milano 1977, p. 361. 6 COLONNA Culti dimenticati di Praeneste libera, in Le Fortune dell’età arcaica nel Lazio e in Italia -III Convegno internazionale di studi archeologici dell’antica città di Praeneste, 1994, pp. 91–98. 7 DUMÉZIL cit. p. 363. 8 Negli scavi del santuario del lucus Feroniae a Capena sono stati ritrovati numerosi ex voto che rendono certa la funzione di Feronia come Dèa guaritrice. 9 DUMÉZIL cit. pp. 364–365. 10 CARANDINI La nascita di Roma - Dèi, Lari, Eroi e uomini all’alba di una civiltà;, Torino 1997, p. 154 nota 7. 11 OVIDIO Fasti I, 673–674. 12 Sull’accostamento tra Feronia e la Juno di Praeneste ci rifacciamo a COLONNA Culti dimenticati cit. 13 DESSAU Inscriptiones latinae selectae, Berlino 1902, 2, II n° 3482. 14 Da un *palosticus che si forma da palus come domesticus da domus; analogamente a Roma l’arcaica Juno Caprotina era in rapporto con la Palus Caprae. 15 Corpus glossariorum latinorum, Lipsia 1894, vol. V p. 456. 16 VIRGILIO Aen VIII, 864. 17 Nel citato Il tempo di Roma abbiamo analizzato queste relazioni in rapporto al significato del nome di Rea Silvia madre dei divini Gemelli. 18 Nella Rivoluzione Francese l’uso del pileus, cioè del berretto frigio, diventerà il simbolo per eccellenza della libertà. 19 VARRONE De agric I, 17: “Ora dirò quali cose siano necessarie in agricoltura. Queste si dividono in tre parti: strumenti di genere vocale, semivocale e muto, il vocale nel quale si comprendono i servi, il semivocale i buoi, il muto gli aratri”. 20 CARANDINI cit. p. 208 nota 90. Paolo Galiano

Céline profeta e mago – Luca Negri

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Merline: così nei suoi diari parigini Ernst Jünger chiama Louis-Ferdinand Céline. Forse non solo per la rima, ma per sottintendere un rispetto che travalicava la scarsa simpatia dell’ufficiale tedesco per il francese con “sempre la morte” al fianco che manifestava con eccessi e volgarità tutta la potenza del nichilismo. Oltre al rispetto, forse, Jünger volle segnalareanche la presenza di celtica ancestralità, di un impulso attivamente magico e cavalleresco in senso medioevale. Potremmo ovviamente anche sbagliarci, accettare il fatto che Jünger abbia usato lo pseudonimo in tutt’altro senso, finanche ironico, ma un Céline non appiattito su solidi e disperanti orizzonti materialisti lo si può eccome vedere. Marina Alberghini raccolse parecchi indizi nel suo agile Céline magico, uscito per Solfanelli lo scorso anno, ma il lettore sensibile e attendo ne troverà ben altri in un poderoso volume (quasi 500 pagine) indispensabile per ogni amante dello scrittore, edito da Bietti, curato da Andrea Lombardi ed introdotto da Stenio Solinas. Un profeta dell’Apocalisseraccoglie scritti anche inediti in Italia, lettere, interviste testimonianze di suoi amici e contemporanei ma anche saggi e commenti di suoi lettori di peso (da Mussolini al duo Deleuze-Guattari, passando per Drieu La Rochelle e William Burroughs). Una visione di Céline a trecentosessanta gradi che dunque non può non attivare altre interpretazioni esoteriche della sua vita e della sua opera.

Il volume Bietti ci pare già felice a partire dal titolo, con il riferimento alla dote profetica, rivendicata da lui stesso quasi come affinità con gli ebrei che attaccò per motivi molto più terra terra mentre altrove pare innegabile una qualche sintonia con lo spirito semitico. Come un Ezechiele fustiga il suo popolo smidollato, sui nemici invoca pene ed ordalie. Crede nella fine della Storia, dell’uomo che si sopravvaluta, della civiltà nostra marcia da qualche secolo. Profetizza la fine, una qualche apocalisse e ancor prima un africanizzarsi della Francia, a partire dalla regione mediterranea. Céline non risparmia all’uomo bianco alcuna paura, prefigurando giovani e forti africani in giro per le nostre strade a conquistar le donne bianche. Ragiona spenglerianamente, denunciando la decadenza, la mancanza di volontà di potenza, di esistenza, di procreazione ormai conclamata in caucasici stanchi, troppo istruiti, troppo intontiti da cinema ed alcool. E se aggiunge bestemmie, parolacce e truculenze varie, lo fa per essere ascoltato, per necessità di scandalo. Un altro celta, del secolo prima, Arthur Rimbaud, aveva scritto di esser negro, aveva annunciato il suo violento ritorno in patria con la pelle scura. Céline gli si riallaccia nell’annunciare le future conquiste dei figli di Cam nel vecchio continente.

Bestemmia Dio o gli si rivolge con brusca confidenza come un profeta d’Israele, e gli è vicino anche nel negare Dio, poiché brevissimo è il passo dal monoteismo al nichilismo ateo. Céline si definisce un “mistico”, ma senza Dio. O meglio senza ciò che uomini e popoli prima di lui hanno chiamato con quel nome.  In lui accanto al profeta apocalittico c’è un qualcosa del saggio buddhista. Lo si intravede se si medita sulla virtù della compassione che esercitò non solo come scrittore di splendidi ritratti umani, ma anche come medico dei poveri, amante degli animali, esperto in sofferenze.

È però il suo senso per la musica che più ci suggerisce la sua natura magica, da druido e aedo. La scrittura di Céline è infatti canto, melodia cercata soprattutto nell’oralità. La sua è sempre prosa poetica, fa sempre il lirico, anche evocando le fabbriche della Ford negli Usa o la Germania sotto le bombe. Più che raccontare storie o ancor peggio spacciare idee, preferisce cantare, incantare. Sa che la sfera discorsiva, la dialettica, mummifica l’umano, mentre la resa emotiva concessa dalla musicalità promette e permette sempre e ancora vita.

Céline dunque druido, profeta, cantore, aedo. Un Orfeo che fin dal principio del viaggio nella notte, della stagione all’inferno, della discesa agli inferi inscenata nei suoi romanzi, decide di mai dare le spalle ad Euridice. Anzi la insegue, le dàla caccia la sottò. Avrebbe preferito raccontar di fate e leggende medievali, cullato da Ondine, mago e speziale in un castello, ma l’epoca lo costringe a scovare l’emozione ancora viva in un mondo di macerie morali, psichiche e materiali. E lui scrive per salvarsi e salvare, come in preghiera. Perché disse che non si scrive per lettori e critici ma sempre e solo “per la cosa in sé”. Come a ribadire che per comunicare veramente col prossimo occorre rivolgersi altrove. Verso ciò che la modernità kantiana confina nel campo del non sperimentabile e merita appunto preghiere, canti e rituali di Céline.

LUCA NEGRI

Aquarius – parte quarta – Gabriele Adinolfi

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Estremisti e radicali

Tutto quanto abbiamo esposto, che stiamo comunque perseguendo almeno in parte, ha delle caratteristiche particolari. Una strategia; una prospettiva storica e non antistorica; una continuità ideale non contaminata da cantonate di moda; un'articolazione leggera e sfumata; l'identificazione dei soggetti sociali sui quali operare; la convinzione che il risultato non debba avere visibilità per essere palpabile e che non ci si debba contornare quindi di successi apparenti o di numeri acclamanti per sentirsi vivi e forti; la certezza che sia invece l'opposto a corrispondere meglio all'essere e al creare. Siamo convinti che la sinergia, anche quando non voluta, sia vincente e che nell'impersonalità risieda l'unico trionfo. Crediamo che il seme fruttificherà, non concepiamo che il seme si pretenda frutto.

Ne devono discendere le considerazioni sui ruoli che è proficuo assumere e su quelli che sono sterili o controproducenti, nonché sulla differenziazione dei target e degli strumenti. Attenzione però a non acconsentire superficialmente e di sfuggita, come un concetto sul quale concordare in teoria: o lo si applica o è come se non esistesse. Un'impostazione di questo genere può confondere le idee a chi si senta perso e cerchi soluzioni belle e pronte, ma rappresenta il solo potenziale per un'azione adatta al tempo e che resiste al tempo senza obbligarci a ripartire continuamente da zero. Sono diverse le esigenze e le possibilità a seconda che si parli di soggetti politici o di singole persone che vogliono fare qualcosa. Vediamo cosa è adatto agli uni e cosa agli altri. Quale ruolo può assumere una realtà radicale e identitaria e quali invece non le sono consoni?

Una realtà identitaria ha due funzioni essenziali: quella di fornire al proprio popolo gli elementi identitari e una formazione etica, esistenziale, culturale, politica, spirituale al suo materiale umano e militante che deve rappresentare di per sé, e a prescindere dalla funzione fisica che assume, la colonna vertebrale di una società che nella liquidità s'ignora. Deve quindi essere avanguardia esistenziale e culturale con possibili incursioni corsare, stile Defend Europe per fare un esempio pratico.  Piantare lancia e bandiera sul terreno identitario serve a mantenere in vita una fedeltà e a captare energie giovani. Il vivaio poi non deve alimentare solo l'orticello di casa ed essere funzionale solo a questo; le persone non devono limitarsi a obbedire e a eseguire i compiti affidati dal gruppo, ma vanno invitate a studiare, a crescere anche professionalmente, scegliendo attentamente gli sbocchi. Se frequentano Giurisprudenza è meglio che puntino a diventare magistrati piuttosto che avvocati. Infine, se questa coesione identitaria è anche stilistica, e se si libera del narcisismo oggi tiranno, a questo livello si può essere esempio e un monito anche temuto nei confronti di quelli che la politica la fanno come professione. Altro insegnamento del passato sui ruoli e funzioni che sembra sia stato oggi dimenticato da quasi tutti.

Nessuno ovviamente può dissuadere le singole realtà dal seguire le strade abituali nel provare a ingrossarsi e a incidere con un'affermazione politica che ha soprattutto il valore di testimonianza. Per inciso sarebbe ora di abbandonare le derive economicistiche e i toni da tribunato qualunquista, di scegliersi dei nemici più significativi di quelli indicati e, soprattutto, di esprimere qualcosa che stia ben al di sopra delle diatribe di ragionieri e numismatici. Mi rendo conto che questo offre la decadenza, ma si può alzare un minimo la testa e dire qualcosa che faccia fremere i cuori e i polsi a gente che non si scaldi per delle emozioni a buon mercato. Questo, a prescindere dal risultato elettorale, è un fatto di buon gusto. La molla per il consenso non può essere rappresentata dal raccogliere la sfida degli antifa e dall'odio nutrito dai malvagi, serve qualcosa di molto più alto e profondo. Comunque lo faccia, nessuno impedirà a qualche realtà identitaria di continuare a presentarsi alle elezioni anche perché questo genere di routine gode di vetrine e facilita i reclutamenti.

Va bene anche questo genere di attività, resta da stabilire per farne che e poi bisogna capitalizzarlo. Si sia comunque consapevoli che queste scelte elettorali, fermi restando tutti i vantaggi che ne possono venire a chi le gestisce, non hanno sbocchi strategici. È il sistema odierno che lo vieta ormai da tempo e fa sì che l'estremismo sia nemico involontario ma certo della radicalità perché crea delle polarizzazioni emarginanti neutralizzando o comunque ostacolando le possibilità di produrre una trasformazione radicale delle élites. Non vi è alcun esempio in Europa dal 1946 ad oggi in cui sia accaduto qualcosa di diverso; questa maledizione ha inchiodato addirittura il Partito Comunista Italiano che pur entrando nella maggioranza di fatto non riuscì mai a liberarsi della pietra al collo che gli impedì di nuotare fino alla meta.  È pur vero che si sono verificate certe condizioni in cui partiti estremisti hanno inciso come equilibratori momentanei: accadde saltuariamente al Msi, è successo recentemente all'Afd. In altri casi hanno assunto un ruolo combattivo privo di possibilità di vittoria ma seriamente mobilitante, come il Front National di Jean-Marie Le Pen o Alba Dorata. Ma i partiti estremisti sono stati più spesso utili alla polarizzazione in negativo e ad essere impugnati dal di fuori a vantaggio del sistema com'è avvenuto paradigmaticamente per il Front National della figlia Marine e anche per lo Jobbik nella revisione costituzionale ungherese. Se andiamo a guardare ci accorgiamo che a gestire delle rivoluzioni sono stati sempre e soltanto degli uomini provenienti dal mondo moderato e lo hanno fatto, o almeno lo hanno tentato, con etichette moderate. Che si parli di Gronchi o di Mattei, di De Gaulle o di Pacciardi, di Craxi o di Mitterrand, di Orban o di Macron, la radicalità, di qualsiasi segno fosse o sia, si è condensata nel centro non nelle estreme.

Plus e/o handicap

Il che, sia più che chiaro, non è un invito all'entrismo che è tanto mortificante quanto inefficace; è ben diversamente un richiamo alle azioni a domino che sono ben possibili se si tiene perfettamente conto delle caratteristiche che si posseggono e se si sa riconoscere quando queste si tramutano in un plus e quando in un handicap. Fino a quando si è cioè un motore e a partire da quando si diventa invece un puro e semplice elemento di attrito. Immaginarsi tanto come una marcia in più quanto come un handicap e sapersi strumentalizzare a intermittenza, ora con la presenza e ora in incognito, è la chiave del successo.  Strumentalizzare se stessi, non utilizzare gli altri per nutrire il proprio ego! Lo scopo della dinamica politica non può essere né quello di una velleitaria polarizzazione estremistica, né quello di un grigio trasformismo. Si deve assumere la capacità di muovere un'azione proteiforme che sia destinata innanzitutto alla semina e alla fertilizzazione e quindi al suggerimento attivo di una forza centripeta e rivoluzionaria che nasca da mille rivoli, un po' come fu il caso del peronismo. Questo è qualcosa che avverrà, forse, in futuro, ma cui diamo importanza più per rassicurarci di quanta ne abbia di per sé. Nella società liquida poco conta infatti se si assumerà o meno una forma plastica, quello che conta è rivoluzionare ogni cosa, impalpabilmente o perfino tangibilmente, in ogni direzione e che ogni cosa rivoluzionata resti poi tale nello scorrere quotidiano che determinerà a sua volta. “Panta Rei”, tutto scorre, avrebbe sostenuto Eraclito e proprio nel saper come far scorrere affinché germoglino ovunque i germi dell'Eterno e del Retto risiede la chiave dell'azione di questo inizio millennio.

SEGUE Gabriele Adinolfi

Nati con la camicia – Nicole Ledda

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«Non volevamo provocare l'incendio, né uccidere. Doveva essere un'azione dimostrativa, come altre che avevamo fatto contro i fascisti a Primavalle. Ma al momento di montare l'innesco, mi si ruppe il preservativo... La Lilli, così si chiamava all'epoca la bomba artigianale, si costruiva con una tanica, un po' di benzina — due o tre litri — e i due preservativi servivano per l'acido solforico, il diserbante e lo zucchero. L'innesco doveva far esplodere i gas della benzina. Se tutto avesse funzionato, avremmo provocato un botto e annerito la porta dell'appartamento. Invece io sbaglio, l'acido mi cola tra le mani e scappiamo, lasciando la tanica inesplosa. Da quel giorno ho il dubbio su cosa sia davvero successo dopo. Non abbiamo mai pensato di far scivolare la benzina sotto la porta per dar fuoco all'appartamento. Mai.” ACHILLE LOLLO FEBBRAIO 2005 SUI FATTI DI PRIMAVALLE.

Bastarono queste parole alle orecchie delle sinistre per credere all'innocenza di Lollo e compagni, molto è stato scritto in merito, Per fatti simili ma di altra natura politica nessuno  ha mostrato cristiana pietà. Perchè esiste un sistema politico che difende i propri figli ed un altro che li piange solo quando  sono morti?

Lollo fu un militante di Potere Operaio, gruppo extraparlamentare di sinistra che si diede un gran da fare negli anni della lotta armata,condannato a 18 anni di reclusione dopo due anni di carcerazione preventiva in attesa di processo, latitante, si vide prescrivere la pena.

Achille Lollo oggi è GIURIDICAMENTE un uomo libero,  ha 66 anni, una moglie, quattro figli ed un lavoro. Achille Lollo esercita liberamente la propria professione di giornalista  ed il gran clamore attorno a questa vicenda mi ha dato l'input per voler andare più a fondo.

Vi è una sostanziale differenza tra ciò che consideriamo ETICAMENTE giusto e ciò che giuridicamente lo è. Lo spunto per questa vicenda me lo ha dato non l'indignazione perchè  Lollo non ha scontato nessuna pena dandosi alla latitanza bensì il furor di popolo che suscita il fatto che quest'uomo lavori.

A prescindere da chiunque sia la persona in questione, quando un uomo sconta una pena o la pena cade in prescrizione, la folla che grida Barabba dovrebbe rassegnarsi e capire che un uomo libero (sono uomini liberi tutti coloro che scontano una pena o per cui la pena decade, al pari degli incensurati) ha tutto il diritto e il dovere di esercitare una professione.

Non solo.

Nel nostro Paese  esistono Uomini di serie A e uomini di serie B, esistono detenuti di serie A e serie B, esistono ex detenuti di serie A e serie B. esistono terroristi o presunti tali di serie A e serie  B, tutto sta nel sedersi dalla parte giusta del tavolo, per intenderci. Cosa decreta quale sia la parte giusta? Mi sono interrogata lungamente su cosa determini la parte “giusta”  e mi sono data questa risposta: le persone che ti siedono accanto.

Possiamo prendere di nuovo ad esempio Achille Lollo e le lettere di Franca Rame a nome di Soccorso Rosso, o il fior fior di politici, artisti ed intellettuali che tesero le loro mani per proteggere e difendere uomini e donne con cui condividevano la stessa ideologia. Soccorso Rosso è una struttura, a sinistra, che ha offerto assistenza legale, economica, sostegno e tutela anche all'interno del carcere per  gli extraparlamentari. Mai è esistita una struttura del genere dall'altra parte della barricata, se di barricate possiamo parlare.  Chi ha scontato una pena, legata in una qualsiasi maniera agli anni di piombo, a destra, viene considerato un reietto. A destra, anche se non è una collocazione che mi aggrada, o abbiamo uomini che hanno scontato una pena che vengono considerati reietti  o uomini che si comportano da reietti. In merito al primo gruppo che ho citato, chi considera derelitti questi uomini?  Gli stessi con cui si sono condivise idee, battaglie ma non interessi, Guai al mondo a sporcare la propria immagine, sedendosi in pubblico accanto a chi ha scontato una pena, tanto più se tale pena è legata agli anni di piombo.

Sono partita dal percorso di Achille Lollo poiché come tante altre storie di quegli anni bui, è legato da un fil rouge con molte altre storie, la prima fra tutti è quella della tragica fine dei fratelli Mattei, proprio una manciata di giorni fa vi è stato l'anniversario della strage e proprio in quella data ha visto la luce un altro episodio di una violenza inaudita. Uomini liberi che vengono allontanati dal luogo del ricordo. Uomini liberi di cui non è gradita la presenza. Perchè? Il silenzio è assordante, ne chi ha assistito, ne chi ormai ha raggiunto o ha da tempo un incarico istituzionale ha detto una parola.

Achille Lollo ha 66 anni, una moglie, quattro figli ed esercita la professione che ha potuto liberamente scegliere. Achille Lollo ha avuto le persone giuste accanto che lo hanno difeso alla stregua. Politici, letterati, artisti. Achille Lollo non è mai stato un emarginato. Achille Lollo ha avuto qualcuno che gli copriva le spalle. Pensate mai quanto possa essere difficile la vita per chi non gode di protezione alcuna? Di chi deve camminare sempre sul filo del rasoio? Nonostante per la legge chi sconti una pena sia un uomo libero, c'è un ambientino che pur di salvarsi la faccia continua a trattare questi uomini come fossero ancora rei.

Pacificazione.  Moltissime volte ho sentito questo termine per spiegare cosa accadde alla fine degli anni di piombo, poi ho capito cosa si intende veramente: relegare personaggi scomodi all'oblio. Da Valle Giulia in poi, i ragazzini che “animavano” le sezioni missine vennero utilizzato come carne da macello, per chi decise di intraprendere la via della lotta armata la strada fu ancora più tortuosa; se a sinistra chi imbracciava un ferro veniva coccolato e protetto, dalla parte opposta, una volta iniziato questo processo fantomatico di pacificazione, venne condannato due volte.  I mezzi economici senza dubbio non erano gli stessi, ma mai sono state pronunciate parole di sostegno e solidarietà. Remissione e paura. Remissione e fame d'arrivare. Remissione e tradimenti, c'è chi si venderebbe la madre per un posto al sole.

I neofascisti difatti, impararono ben presto che per ottenere poltrone e consensi avrebbero dovuto rinnegare e dissociarsi da quegli anni violenti e quegli stessi ragazzini che avranno avuto sui vent'anni in quel periodo storico, oggi organizzano il presente ai caduti, piangono lacrime amare, sciorinano ricordi e evitano come la peste chi è rimasto ma ha preso un'altra strada, la strada sbagliata. Esiste chi ha capito il proprio errore e lo ha pagato, ma sul serio. C'è chi non ha pagato  e chi ha pagato un po per tutti, da solo, con i propri affetti coinvolti in prima persona, chi da anni lavora per qualcosa di buono e forse questa etichetta non riuscirà mai a togliersela di dosso.

Alle Donne coraggiose, agli Uomini liberi, a chi non ha paura di mettersi in discussione nonostante non abbia le spalle coperte.

Fonte foto: Nextquotidiano.it
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