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Il lunedì del villaggio. Debito e prestiti deteriorati – Roberto Pecchioli

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Ricordate Il sabato del villaggio, la lirica leopardiana dell’attesa gioiosa seguita dalla delusione della realtà? “Questo di sette è il più gradito giorno/ pien di speme e di gioia;/ diman tristezza e noia/ recheran l’ore/ ed al travaglio usato/ ciascuno in suo pensier farà ritorno”. La festa elettorale con le sue promesse è passata. Si torna ai fatti, nessuno ha la forza di voltare pagina.

Rientriamo nei ranghi dei poteri esterni, nel mirino di banche, UE, mercati, speculazione. Il lunedì del villaggio è particolarmente cupo; la voce più sincera è quella di Mario Monti, il Dottor Morte della giunta esecutiva che ha depredato l’Italia in conto terzi dal 2011. E’ favorevole ad un governo di larghe intese con i 5 Stelle per far digerire scelte impopolari. Traduzione: nuove cessioni di sovranità, tasse, privatizzazioni, macelleria sociale, distruzione di ciò che resta del tessuto produttivo della nazione. Il prossimo DEF – documento di economia e finanza – verrà presentato da Paolo Gentiloni a nome di un governo travolto dal voto. Conterrà molte pagine bianche; la misura più prevedibile sarà un aggiustamento da 4/5 miliardi: tagli o tasse.

I veri nodi verranno al pettine tra qualche settimana, finita l’apparente tregua elettorale concessa dai domines europoidi e finanziari. Si chiamano debito e NPL, non performing loans, i prestiti definiti pietosamente non performanti. Il debito non ha smesso di aumentare, passando dal 111 per cento rispetto al Prodotto Interno Lordo del crepuscolo di Berlusconi al 133 odierno, via Monti, Letta, Renzi. Il Tesoro deve piazzare mensilmente titoli per circa 40 miliardi, dei quali il 40 per cento va a compratori internazionali. Con il cosiddetto quantitative easing di Draghi, l’acquisto da parte di BCE ha consentito nel 2017 un interesse dello 0,63 per cento. Quest’anno pagheremo di più, ma che succederà appena il rubinetto di Francoforte si chiuderà al termine dell’era Draghi, fra pochi mesi? Il fabbisogno ci costerà di più, forse molto di più; la previsione di aumento dei tassi potrebbe altresì innescare un effetto gregge che sgonfierà la presente bolla azionaria.

Il vero incubo sono gli effetti della falsa liquidità creata da BCE, uniti all’intenzione dell’Eurotower di mandare in vigore già da aprile le nuove norme sull’ammortamento dei crediti in sofferenza. In Italia il contraccolpo è certo, e non solo per istituti come Montepaschi. I crediti difficili dovranno essere iscritti come perdite entro due anni se non assistiti da garanzie, gli altri entro otto. Diciamola tutta: diversi istituti non hanno i soldi (veri) per coprire le perdite. In più, tutti saranno indotti a restringere ulteriormente il credito, aggravando la crisi delle imprese.

Il governo, con o senza le stelle, non potrà che correre a Bruxelles e Francoforte con il cappello in mano per implorare aiuti e dilazioni. Sono in agguato, oltre alla Troika, il Meccanismo Europeo di Stabilità, i simpatici banchieri cui stiamo conferendo decine di miliardi affinché ce li prestino (!) imponendo svendite, privatizzazioni e politiche recessive, nonché i fondi avvoltoio, intenzionati a comprare al 15-20 per cento gli NPL per aggredire con i loro denti da squalo i malcapitati debitori, destinati a lasciare sul terreno beni immobili, capannoni, macchinari, i risparmi di intere vite. Parliamo di somme ingentissime, il 15 per cento di tutti gli impieghi secondo i dati ufficiali, molti di più nella valutazione corrente, almeno 250 miliardi.

Nessuna obiezione sarà tollerata, a meno di mostrare i denti, ovvero una nazione unita decisa ad accettare un certo grado di sofferenza in cambio del domani. Ipotesi del tutto improbabile. La storia italiana è una lunga vicenda di divisioni intestine, tradimenti tra connazionali, intelligenza con lo straniero nemico. Restano ineludibili alcuni punti: il rigetto del rapporto del 3 per cento tra debito e deficit pubblico; l’eliminazione del pareggio di bilancio dalla Costituzione; il controllo statale sulla Banca d’Italia (legge 262/2005), per ristabilire la sovranità monetaria e un rapido ritorno in mani italiane del debito; un regime di doppia moneta, tipo i mini Bot teorizzati dagli economisti Borghi e Bagnai.

Un libro dei sogni, specie dopo il voto che ci ha consegnato una radicale divaricazione di interessi tra il Nord a trazione leghista e il Sud schierato per l’assistenzialismo. Un’osservazione aritmetica: ci ossessionano con il debito che sale, segno del fallimento delle politiche della lesina, ma anche della volontà di ignorare il “moltiplicatore keynesiano”. Se aumentiamo la spesa di 10, persino attraverso lo sgangherato sussidio universale, esso andrà sommato alle altre voci del Pil. Con moltiplicatore 1,5 il PIL salirà di 15. 133 più 10 fa 143, fratto 115. Il rapporto debito/PIL scenderebbe al 124,3 per cento. E’ la prova che si può fare politica a debito, con prudenza, mettendo denaro in mano alla gente, scommettendo sul futuro.

Non accadrà, il lunedì del villaggio si preannuncia tempestoso. L’alternativa sarà la distruzione disordinata del sistema Italia o una pesante moratoria affidata alla curatela della troika. Per un governo che faccia gli interessi nazionali non resta che cambiare Paese.

ROBERTO PECCHIOLI

La palude dei camaleonti – Enrico Marino

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Il Gattopardo, simpatico felino africano simile al nostro gatto selvatico, gode suo malgrado di una fama poco lusinghiera poiché, nell’omonimo romanzo di Tomasi di Lampedusa, è associato al Principe di Salina – nel cui stemma nobiliare è effigiato – cioè all’archetipo dell’opportunista, sufficientemente astuto e cinico da comprendere che i tempi stanno cambiando e che il potere politico e istituzionale è ormai in mano a una nuova classe di ricchi borghesi. Per adeguarsi al tramonto dell'aristocrazia e difendere il prestigio della propria casata, il Principe si adatta immediatamente al compromesso anche con la generazione emergente degli “sciacalli” e delle “iene”, pur di far rivivere il passato in un presente artefatto, disponibile a cambiare tutto affinché niente cambi.

Ebbene, non c’è nulla di quella decadente grandezza con cui Tomasi di Lampedusa tratteggia nel suo romanzo quel passaggio epocale nell’odierno scenario politico, scenario nel quale al gattopardo si sono sostituiti i rettili squamati, i camaleonti, cioè politici impudenti pronti a cambiare pelle e colore, pronti ad adattarsi e sguazzare anche nella sconfitta più umiliante, pronti a rinnegare tutto quello che avevano affermato fino al giorno prima pur di conservare, insieme alle loro rendite, il potere di indirizzare il Paese sui sentieri nefasti della conservazione.

Sono ancora lì, reduci da una colossale bocciatura popolare, ripescati grazie a una truffaldina legge elettorale, pronti a riesumare loro stessi e le loro indecorose ricette dinanzi a una Nazione che ha manifestato nei loro confronti tutto il rigetto, il discredito e la repulsione che si possono esprimere e rappresentare in una tornata elettorale.

Sono gli ultrasinistri Laura Boldrini, Pietro Grasso, Pier Luigi Bersani, Guglielmo Epifani, Nico Stumpo, i sinistri Minnniti (che ha finto di bloccare gli sbarchi solo per questioni elettorali), Orlando e Martina, Guerini, Rosato, Serracchiani, Fassino, De Micheli, Cantone, Speranza, Pezzopane, Paolo Siani, Francesco Boccia e persino Valeria Fedeli, cioè il ministro dell’istruzione più ignorante della storia repubblicana.

Sono lì nella loro indecenza, pronti a riproporre le giaculatorie oscene a favore della nostra soggezione all’Europa, a favore della “stabilità” espropriatrice di sovranità nazionale, della mondializzazione affossatrice delle nostre imprese, della disgregazione omologante rinnegatrice delle nostre tradizioni, del meticciato distruttore della nostra identità razziale, culturale e sociale. Per continuare sono disposti a tutto, anche a trattare e accordarsi con chi hanno osteggiato e screditato fino al giorno prima, con quegli stessi avversari che avevano dipinto come inaffidabili, incapaci, avventuristi e populisti. In queste loro spudorate giravolte sono sostenuti da tutto il mainstream mediatico-culturale, dal più becero progressismo apolide e supponente, ipocrita e opportunista: da campioni della globalizzazione, come Confindustria o Marchionne, da interessi collegati a élite straniere, come la Bce e l’UE, da turpi profeti della mescolanza etnica, come Scalfari. E’ una congrega indegna che cacciata dalla porta, tenta di rientrare dalla finestra affidandosi alla negoziazione, facendosi ipocritamente scudo con gli “interessi del Paese” per mascherare i propri miserabili propositi. Una congrega che vuole mantenere inalterato il sistema e che cerca tra gli avversari, come partner di riferimento, quelli ritenuti più malleabili, per affossare e condizionare la nuova legislatura.

In questo, l’insidia più subdola è quella portata avanti dai supporters della stabilità e della conservazione, come Mattarella e il suo entourage, individui di vecchia tradizione e scuola ex democristiana, formatisi nella prima Repubblica e avvezzi a cavalcare ogni situazione e a imbrigliare ogni crisi nelle pastoie delle soluzioni parlamentari più oblique e fantasiose, dalle convergenze parallele agli appoggi esterni fino alle non sfiducie, pur di svuotare di ogni carica innovativa qualsiasi scenario politico si affermi nel Paese.

E’ questo il rischio più grande che aleggia sul post voto, l’eventualità che l’assenza di un effettivo vincitore fornisca l’alibi per soluzioni di compromesso che rimettano in gioco i rottami della precedente legislatura, spostando in avanti la possibilità di un vero cambiamento di rotta, ancorandoci alle imposizioni della UE e impedendo di recidere alla base scelte fallimentari, programmi sbagliati, riforme rivelatesi controproducenti e dannose.

E’ questo che sperano tutti gli sconfitti e tutti quelli che hanno come obiettivo il tradimento del voto degli italiani. E’ questo che può celarsi dietro le fumisterie politichesi del “governo di programma” o del “governo del presidente” e dietro ogni altra formula che spinga verso un’ammucchiata, la più larga possibile, in cui l’eterogeneità dei programmi produca l’effetto di un sostanziale immobilismo.

Più si protrarranno queste formule, più ci sarà il tempo di vincolarci ancor di più ai dettami europei e a subire tutte le conseguenze politiche, economiche e sociali delle scelte operate dai governi precedenti, a cominciare dai disastri del mondo del lavoro, per continuare con i problemi dei licenziamenti, dei giovani inoccupati, degli anziani e dei pensionati, della scuola e, infine, dell’invasione africana.

Più si consoliderà il fronte delle non-scelte, tanto più saremo esposti ai tentativi di riproporci scenari orribili e rivoltanti, a cominciare dalla legge Fornero fino allo jobs act, dall’educazione gender imposta ai fanciulli nelle scuole fino all’indottrinamento immigrazionista, dalla mistificazione antifascista fino alle farneticazioni antirazziste, fino ai tentativi di introdurre a forza lo ius soli.

Per questo, gli italiani che hanno detto basta a questo sistema, che hanno sconfessato il regime del pensiero unico, che sono stufi di accettare lezioni di democrazia da gente come Balotelli, che giudicano inaccettabili le manifestazioni dei senegalesi a Firenze, che hanno bocciato le riforme contro il lavoro che hanno prodotto la precarietà nel Paese e arrecato la disperazione in milioni di famiglie, i milioni di italiani che non vogliono più sentire le prediche della sinistra e non vogliono tra i piedi radical chic né centri sociali pretendono che, in assenza di un nuovo esecutivo effettivamente politico, si torni a votare per cacciare definitivamente i ladri dal Tempio e i camaleonti dal governo del Paese.

Enrico Marino

La morale liquida di Zygmunt Baumann – Umberto Bianchi

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Bel testo, quello di Zygmunt Baumann, sulla “Modernità Liquida”. Scritto con linguaggio quel tanto erudito che possa bastare per esser comprensibile, ci offre una panoramica a tutto campo di una Post Modernità, il cui aggettivo “liquido”, risulta esser più che mai, calzante. Baumann, difatti, ci snocciola e sviscera minuziosamente la fenomenologia di una (Post) Modernità, il cui status ontologico, non può che esser descritto proprio all’insegna di quella “liquidità” acui abbiamo or ora accennato, sintomo e sinonimo di quella precarietà o volatilità che dir si voglia che, di questa presente fase storica, sembra esser divenuta la caratteristica portante.

Si parte da un concetto di libertà, sempre più coniugato e rivolto alla sfera dell’individuo, anziché a quella del “cives”, visto lo sbriciolarsi delle nazioni sotto la spinta agglutinante di una globalizzazione che tende ad omologare sotto di sé tutto e tutti, all’insegna di una stretta interrelazione tra Tecnica ed Economia. L’uomo si fa così oggetto e soggetto di consumo. Egli non crea più. Nell’economia Post Moderna la creazione è lasciata al libero fluire dei capitali che, oramai liberi da qualsivoglia vincolo e controllo programmatico, etico, politico ed economico, come per capriccio, si insediano solo laddove i locali governi ( o quantomeno, quel che ne resta…) offrano agevolazioni ed aggi tali, da poter sfruttare senza ritegno risorse, diritti, di un popolo, sino a prosciugarlo ed alienarlo, lasciando all’individui la sola possibilità di poter sfogare le proprie elementari ed egotistiche pulsioni , nella pratica dello shopping “compulsivo”.

Apparire, mai essere, questo è il nuovo “must” ideologico della società liquida. Consumare per nulla creare. ”E’ il mercato bellezza!”, direbbe qualcuno che conosciamo bene…Quello stesso mercato che ha, però, dovuto frettolosamente adeguarsi alla progressiva “liquefazione” dello scenario globale socio economico. Da una fase di economia decisamente “solida”, produttivi sta, volta a produrre creare,alienare ma anche a conferire solide certezze ai suoi umani protagonisti. Il posto di lavoro fisso, la famiglia, la morale, una coscienza unitaria, sono tutti lasciti di un passato “solido” che l’attuale fase non può tollerare.

La Globalizzazione ha reso tutto fluido, instabile, aleatorio. All’insegna di un forsennato Divenire, i cicli della produzione economica e del mercato tendono tutti alla massimizzazione del desiderio di possesso, attraverso la minor durata di aspettative di questo, accompagnata ad una sua più rapida deteriorabilità. E’ la biodegradazione antropologica, attraverso l’espansione di un io compulsivo a cui fa da contraltare, una sempre minor fruibilità di qualunque situazione o “merce” presa in considerazione, così da aumentare all’infinito esponenziale i guadagni di spersonalizzate holding imprenditoriali, costi quel che costi a Lui, l’ “homo-consumans”. Un essere sempre più alienato e diffidente, che vive i rapporti sociali in stato di settoriale isolamento, in entità territoriali protette, chiuse, sbarrate, in vere e proprie comunità “ a tema”.

E proprio sulla Comunità e sulla Nazione che, il buon Baumann, dopo un’analisi lucida nella sua puntigliosa enumerazione fenomenologica, getta la maschera. Bestia nera di lui e dei suoi “compagni di merende” alla Eric Hobsbawn o alla Bordieu è proprio Lei, la Comunità e, alfine, la Nazione. L’ideologia Comunitarista, dice lui, sorge proprio perché oggi di fronte all’allegro divenir globale, la gente si sente insicura e cerca riparo in qualcosa che non sia solo ed unicamente il perseguire uno sfrenato consumismo, materiale e spirituale. Certo, ci dice lui, l’ideale Comunitario è debole di fronte a quello di Nazione che, storicamente, proprio a partire dalle elaborazioni di un Jean Bodin o di un Grozio, seguite a ruota dalle elaborazioni illuministe e giacobine, eliminò i corpi intermedi, quali Corporazioni, Gilde o autonomie municipali, residue del feudalesimo, nel nome di un primo esempio di omologante agglutinamento territoriale, prodromo di quanto si sarebbe più in là verificato a livello globale.

Nazione e Comunità. Comunità e Nazione. Due bestie nere, tendenti all’esclusione ed alla distinzione, per principio, attraverso l’identità coniugata con la sovranità. Cose queste che al nostro Baumann proprio non piacciono e perciò, non esita a precipitarsi a lanciare i suoi strali sia contro Max Weber che contro il Tonnies, a suo dire colpevoli di uno sbilanciamento a favore dell’autenticità e della centralità dell’umana figura e della comunità, piuttosto che a favore della tetra prospettiva di una impersonale melassa liquefatta in cui, a muovere i fili siano oscuri (mica tanto poi…sic!) manovratori di capitali e di menti, anziché comunità statuali animate da certezze, quali quelle rappresentate dalla collettiva consapevolezza e dalla totale partecipazione di quei cittadini-proprietari, che tutti si identificano in un comune “ghenos” materiale e spirituale, che funge da propellente e spinta per il futuro…Ma il nostro buon Baumann ( in questo, in buona compagnia di altri solerti autori…) ci ricorda con dovizioso entusiasmo che, all’incertezza e alla paura dei tempi, al tanto detestato principio di esclusione, proprio a tutti i Comunitarismi e Nazionalismi, va contrapposto, senza se e senza ma, il principio di “inclusione” di tutto e tutti sullo stesso lembo di territorio, al fine di realizzare il suo ideale di melassa umana senza identità, né diritti, né certezze, che non siano quelle del consumo e della vuota volatilità di un’esistenza alienante ed insensata.

Ma Baumann non è né il solo, né l’unico cantore di questa distorta sinfonia. L’errore viene da lontano, dall’equivoco ingenerato da tutte quelle scuole di pensiero sociologico e filosofico che, all’insegna di certo malinteso strutturalismo, hanno pensato bene di porre l’accento su una concezione innaturale e distorta dell’uomo. Partendo da una rivisitazione in un senso marcatamente individualista della teoria sociologica ed antropologica marxista, si arriva ad un individuo che, incentrato sulla sfera dei propri bisogni materiali e pulsionali, di questi diviene alfine vittima, altro non potendo fare che soggiacere agli incessanti stimoli e dagli altrettanto effimeri momenti di fruizione offertigli, a mò di droga, da una Modernità Liquida che, di lui, ha fatto il proprio schiavo.

Emmanuel Levinas, Pierre Bordieau, Anthony Giddens ed altri ancora, sono gli oscuri profeti di questa jattura globale, figlia della presunzione di chi con la pretesa di voler perseguire a tutti i costi il “progresso” dell’umanità intera, si è fatto elitario portatore di un modello di alienazione ed autodistruzione della medesima. Credevano di vincere ed invece stanno perdendo clamorosamente. La loro poltiglia liquida, la loro melassa ideologica, ha disvelato il proprio volto, una crisi ed un’ondata di malessere dopo l’altra. L’individualismo progressista e buonista è entrato in una fase di crisi ed agonia, oggi senza alcuna possibilità di uscita. E per questo che, oggi più che mai, i suoi coribanti urlano e strillano, invano. Ci stiamo per caso, preparando, ad un nuovo e bigotto Medioevo ipertecnologico o che.....?

Tutto questo, al contrario, non può che costituire un ulteriore stimolo, ad iniziare a considerare un’ ”altra” idea di Modernità, slanciata verso un Futuro le cui radici affondano in quell’Archè che, sempre viva tra noi, ci parla attraverso simboli, ideogrammi ma anche afflati e slanci poetici, sgorganti dalla “Psichè” di un Uomo, finalmente ritrovatosi nel suo ruolo di aspirante ed anelante alla iperurania perfezione del platonico mondo delle idee. In questo sempre più proteso a superare i propri angusti limiti….Conciliare l’Essere con il Divenire, la Trascendenza con l’Immanenza, un Futuro di luci, acciaio e fasci di particelle sub atomiche sparate a tutta velocità con l’Archè ed il sorriso di antichi Dei, svelato da ideogrammi senza tempo….ma anche, come direbbe Guillaume Faye, Evola con Marinetti o, come potremmo dire ora, l’Ermetismo di Kremmerz con la fisica quantistica di un Max Planck o di un Wolfgang Pauli. Questa è dunque, la vera sfida per il Presente ed il Futuro. Al di là di preconfezionati e fallimentari schemi ideologici o ammuffiti nostalgismi senza alcuna via d’uscita.

UMBERTO BIANCHI

Decima Flottiglia M.A.S.: propaganda per la riscossa (V parte) – Gianluca Padovan

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«Al di fuori di tutte le battaglie e di tutti i risultati di guerra, noi sappiamo che si vince quando si crea nella strada qualcosa che non è mai né dimenticato né morto»

Decima Flottiglia M.A.S. – Reparto Stampa, Vincere nel tempo

      Percorso storico.

Alla metà degli Anni Trenta la presenza della Marina Militare Inglese nel bacino mediterraneo si fa più consistente e la Guerra d’Etiopia (Seconda Guerra Italo-Etiopica o “Guerra d’Abissinia”), cominciata dall’Italia nel 1935, fa profilare una possibile rottura degli equilibri diplomatici e militari soprattutto con l’Inghilterra.

Almeno questo è quanto la storia ci riporta.

Scrive Luis de la Sierra: «L’inferiorità dell’Italia sul mare è nota a tutti, particolarmente agli italiani stessi. La sua flotta, in piena fase di espansione, anche se già difettosa fin dalla nascita per concetti errati, non ha portaerei, e di fronte alle quindici corazzate britanniche, tutte superiori alle 29.000 tonnellate di dislocamento, non ne annovera che due, piccole e superate. Quelle di 35.000 tonnellate, che sono in costruzione, non saranno ultimate che entro alcuni anni» (Luis de la Sierra, Gli assaltatori del mare, Ugo Mursia & C. Editore, Milano 1971, p. 33).

Talune carenze in campo bellico si trascinano anche nel secondo conflitto mondiale. Inoltre la Società delle Nazioni, a cui tanto l’Impero d’Abissinia quanto il Regno d’Italia fanno parte, decreta le sanzioni contro quest’ultima che rimangono in vigore fino all’anno successivo.

 

Si rispolvera così il progetto di mettere a punto delle particolari armi d’assalto navali nell’intento di controbilanciare la potenza inglese.

Gli ufficiali del Genio Navale Teseo Tesei ed Elios Toschi riprendono l’idea della “Mignatta”, modificandola per renderla consona ad un più efficace impiego, mentre L’Ammiraglio Aimone di Savoia-Aosta propone la costruzione del “motoscafo esplosivo” trasportabile nei pressi dell’obiettivo con l’idrovolante. Da questi due progetti «sarebbero nati i due principali tipi di mezzi d’assalto che la Marina Italiana avrebbe poi impiegato con successo nel corso della seconda guerra mondiale: l’“S.L.C.”, o Siluro a Lenta Corsa, detto “Maiale”, e l’“M.T.”, o “barchino esplosivo”, denominato convenzionalmente Motoscafo Turismo» (Bagnasco Erminio, Spertini Marco, I mezzi d’assalto della Xa Flottiglia MAS 1940-1945, Albertelli Editore, Parma 2001, p. 18).

    Motoscafi & siluri d’assalto.

Tra il 1935 e gli anni subito successivi si studia il modello M.A.T./M.A., il “Motoscafo Avio Trasportato/Motoscafo d’Assalto”, che doveva essere per l’appunto trasportato mediante l’idrovolante S.I.A.I. Savoia Marchetti 55. Nel 1938 lo Stato Maggiore della Difesa propone al Ministero la costruzione di nuovi barchini identificati con la sigla M.T. (Motoscafo Turismo). Successivamente si hanno il Motoscafo da Turismo Modificato (o Migliorato) M.T.M., il Motoscafo Turismo Ridotto (M.T.R.), trasportabile con un sommergibile, e l’M.T.M.-D. Sperimentale. Tutte le produzioni sono invariabilmente segnate da ritardi nella messa a punto dei modelli e nella costruzione dei componenti. Basti ricordare che i primi sei M.T. vengono consegnati solo nella primavera del 1939.

Oltre ai “barchini esplosivi” gli studi sono indirizzati a migliorare i motoscafi siluranti e si hanno il Motoscafo Turismo Silurante (M.T.S.), il Motoscafo Turismo Silurante Modificato (M.T.S.M.), il Motoscafo Turismo Silurante Modificato Allargato (M.T.S.M.A.).

Per quanto riguarda i mezzi subacquei d’assalto il più noto è il già citato Siluro a Lenta Corsa (S.L.C.), denominato “Maiale”, mediante il quale nel corso della guerra mondiale si ottengono notevoli risultati.

A proposito del “siluro pilotato” S.L.C. vedere utilmente: Junio Valerio Borghese, Decima Flottiglia MAS. Dalle origini all’armistizio, Albertelli Edizioni, Parma 2005, pp. 20-26.

Meno noto e costruito in pochi esemplari è invece il Siluro San Bartolomeo (S.S.B.). Nel campo dei minisommergibili si hanno il Sommergibile d’Assalto Tipo C.A., da 12 tonnellate circa, progettato e prodotto dalla Caproni-Taliedo, e il C.B., sommergibile tascabile da 30 tonnellate circa.

Tutti questi mezzi d’assalto avevano un’autonomia contenuta e quindi un raggio d’azione limitato, pertanto occorreva che fossero trasportati il più vicino possibile all’obiettivo mediante mezzi “avvicinatori” (o trasportatori) costituiti da unità da guerra di superficie e sommergibili, nonché da mercantili adattati a questo trasporto. Viene creato anche uno speciale M.T.L. (Motoscafo Trasporto Lento) quale avvicinatore per l’S.L.C., ovvero il “Maiale”.

    Un’arma potenzialmente vincente.

Per quanto riguarda lo sviluppo e l’organizzazione dei mezzi d’assalto della Regia Marina Italiana si ricorda che negli anni Trenta essi sono affidati al Comando del 1° Gruppo Sommergibili della Spezia. Nel 1938 il Reparto dei mezzi d’assalto è aggregato alla I Flottiglia M.A.S. e nel 1939 si costituisce il reparto Sezione Armi Speciali sempre nell’ambito della I Flottiglia M.A.S. di La Spezia. Il 15 marzo 1941 il reparto è staccato e denominato “Xa Flottiglia M.A.S.” su proposta del Capitano di Fregata Vittorio Moccagatta.

 

Scrive Donald Guerrey a proposito della Xa Flottiglia M.A.S.: «Questo era un sceltissimo reparto della Regia Marina italiana, forse paragonabile per certi aspetti al Royal Marines e allo Special Boat Section (SBS). MAS significa motoscafi antisommergibili, una descrizione ingannevole dei compiti della Decima» (Donald Guerrey, La guerra segreta nell’Italia liberata. Spie e sabotatori dell’Asse 1943-1945, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2004, p. 93).

Scrive Arnaldo Cappellini: «Il primo nome assunto dal reparto fu quello di “Forza H”, poi di “I Flottiglia Mas” poi di “Flottiglia Mas Speciale”. E si giunse così al 1939, comandante ancora il capitano di fregata Aloisi, il quale, proprio in quell’anno e quando era già scoppiata la guerra, inviò al Ministero della Marina la relazione che si potrebbe chiamare “del primo giorno”; si sosteneva infatti in essa l’opportunità di preparare, per l’ora in cui fosse stato deciso il nostro intervento, un buon numero di mezzi d’assalto, con piloti ben addestrati, per attaccare contemporaneamente, di sorpresa, tutte le basi inglesi nel Mediterraneo. Al Ministero della Marina, però, non si faceva molto credito né ai mezzi né agli uomini della “Flottiglia Speciale” e s’era diffusa l’opinione che quelli avessero trovato il modo di sottrarsi al rigore della loro carriera divagando brillantemente, e che non avrebbero mai ottenuto risultati positivi. Così la relazione del “primo giorno” non ebbe esito migliore di quello sino allora raggiunto dalle altre» (Arnaldo Cappellini, Torpedini umane contro la flotta inglese, Edizioni Europee, Milano 1947, p. 27).

    Il nome di copertura.

Il Comandante Borghese specifica che il nome Xa Flottiglia M.A.S. è sostanzialmente «di copertura», per non lasciare intendere che in esso si impieghino armi d’assalto speciali e non esclusivamente motoscafi siluranti.

Nello specifico, sempre Borghese, scrive che nel corso del conflitto «aveva l’incarico dello studio - preparazione - addestramento e impiego in guerra dei mezzi d’assalto – detti anche mezzi speciali – e mezzi insidiosi. Dipendenza: Ministero della Marina. Caratteristica fondamentale: con la segretezza più assoluta, portare l’offesa nei porti nemici, sfruttando caratteristiche di nuotatori, palombari e motonavi al limite della resistenza umana. Scopo: distruzione navi nemiche» (Junio Valerio Borghese, La Xa Flottiglia MAS, Effepi, Genova 2016, p. 13).

Sia la Xa Flottiglia M.A.S. sia le specialità degli operatori subacquei d’assalto dipendono da “Generalmas” (Ispettorato Generale dei M.A.S.).  

Sui mezzi d’assalto Junio Valerio Borghese dice che all’inizio del conflitto «Costituivano un piccolo reparto, poche decine di uomini e pochissimi mezzi non ancora a punto; alle molte manchevolezze del materiale e dell’organizzazione supplivano, fin dove era umanamente possibile, la tenacia, la fede, la costanza, la determinazione dei volontari: uomini per i quali non vi erano ostacoli insormontabili, non difficoltà insuperabili, non pericoli invincibili» (Junio Valerio Borghese, Decima Flottiglia MAS. Dalle origini all’armistizio, Storia Militare, Albertelli Edizioni speciali, Parma 2005, p. 32).

Purtroppo, come si avrà modo di argomentare nelle prossime “puntate”, la segretezza delle operazioni è stata spesso violata proprio da ufficiali superiori della Regia Marina Militare, che ovviamente non partecipavano fisicamente alle missioni di guerra.   Legione devota a Venere. Ora un breve inciso sulla denominazione.

Il nome «Decima» intende ricordare la Legio X Equestris, ovvero “Equestre” (in origine Veneria, ovvero “devota a Venere”), legione militare d’epoca tardo repubblicana scelta da Giulio Cesare come propria guardia personale.

Nel I secolo a. durante la campagna militare contro i Celti ecco che cosa accadde: «Ariovisto chiese che Cesare non si facesse seguire da truppe a piedi, perché temeva di cadere in un’imboscata; sarebbe intervenuto al colloquio soltanto alla condizione che entrambi si facessero accompagnare dalla sola cavalleria. Cesare, che non voleva perdere, per questi pretesti, la possibilità di un incontro e che d’altra parte non voleva affidarsi alla cavalleria dei Galli, decise di togliere i cavalli ai cavalieri Galli e farli montare dai legionari della Decima legione, nei quali aveva grande fiducia, per avere, per qualsiasi necessità, una scorta fedelissima. Mentre questo cambio avveniva, un soldato della Decima legione disse, non senza spirito, che Cesare faceva più di quanto promesso; aveva detto che avrebbe considerato i soldati della Decima legione come coorte pretoriana: ora li faceva diventare addirittura cavalieri» (Caio Giulio Cesare, La Guerra Gallica (De Bello Gallico), Fausto Brindesi -traduzione di-, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1974, p. 67, I, XLII).

    L’Italia in guerra.

Oggi, in questo XXI secolo, con un fraudolento e ridicolo ingresso dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale, con una consequenziale sconfitta per tradimento alle spalle e più di settant’anni di dominazione americana dell’Italia, è bene non già “riscrivere la storia”, ma scrivere finalmente la Storia della Seconda Guerra Mondiale.

Più nello specifico e senza uscire dall’argomento che si sta trattando, si può affermare che taluni “storici” e ufficiali di Marina a tutt’oggi scrivono la “storia della Regia Marina” e dei mezzi d’assalto omettendo i fondamentali dati di fatto che finalmente ne spiegherebbero gli insuccessi e le sconfitte.

In linea generale gli “storici” tendono a scaricare ogni colpa della guerra su Benito Mussolini, sul Gran Consiglio del Fascismo, sul Partito Nazionale Fascista e sul Ventennio fascista in generale.

La realtà dei fatti è ben differente. Per comprendere la Storia è necessario smettere di utilizzare come spauracchio e come “discarica abusiva d’ogni nequizia” il Fascismo. Occorre invece capire fino nei minimi dettagli a chi serviva il Fascismo e a chi il Fascismo obbediva. E quando parlo di Fascismo parlo dei suoi capi, non della massa popolare che seguiva.

Vediamo quindi qualche punto essenziale:
  1. Massoneria, banche e industrie crearono i prodromi del Fascismo con lo scopo di spingere l’Italia nella Prima Guerra Mondiale, per aprire il terzo fronte europeo; il finanziatore di spicco de Il Popolo d’Italia è difatti il banchiere ebreo Giuseppe Toeplitz (vedere utilmente Compagni di Gioco uscito su Ereticamente);
  2. a guerra ultimata il Fascismo in embrione servì (sempre a Massoneria, banche, industrie e Vaticano) come collettore dei militari scontenti per tenerli alla briglia ed utilizzarli contro l’insorgere della piaga comunista; il finanziatore di spicco del Fascio di Combattimento di Milano è l’ebreo Cesare Goldmann della Loggia ambrosiana Eterna Luce;
  3. il Fascismo servì tanto al Re quanto al Vaticano per consolidarsi;
  4. il Fascismo servì soprattutto e innanzitutto alla Massoneria americana per ottenere miliardarie commesse, quale la fornitura di petroli e la possibilità di proseguire la ricerca del minerale liquido in Italia.
    I “capi”. All’inizio della II Guerra Mondiale i personaggi di spicco sono i seguenti:

- Vittorio Emanuele III di Savoia (Re d’Italia, Imperatore d’Etiopia e Re d’Albania) è il Comandante supremo delle Forze Armate Italiane; ma è innanzitutto e soprattutto un Massone che deve obbedire alle direttive della Loggia italiana d’appartenenza e a quella inglese di riferimento (vedere utilmente i 3 articoli Percorsi Iniziatici Alternativi usciti su Ereticamente);

- Benito Mussolini (Capo del Governo, Ministro della Guerra, Ministro della Marina e dell’Aviazione) è il Comandante in capo delle Forze Armate Italiane. Mussolini si era già guadagnato il 33° grado della Massoneria di Piazza del Gesù a seguito della felice conclusione della “marcia su Roma” (vedere utilmente Compagni di Gioco uscito su Ereticamente).

- Pietro Badoglio è il Capo di Stato Maggiore Generale fino al dicembre 1940; per quanto controversa sia la faccenda è anch’egli massone.

- Domenico Cavagnari (Genova 1876 – Roma 1966), ammiraglio, è il Capo di Stato Maggiore della Regia Marina Militare. Che dire di lui? Negli anni Trenta ha reputato superfluo nonché inutile: a) la costruzione di tre portaerei; b) l’uso del radar; c) l’addestramento al combattimento notturno; d) i siluri; e) la collaborazione fattiva tra Regia Marina Militare e Regia Aeronautica. Un esemplificativo episodio per tutti: durante il suo comando le “reti parasiluri” avrebbero dovuto essere stese attorno alle navi da guerra situate nel porto di Taranto. In realtà le difese retali erano poste in bell’ordine nei magazzini del porto, perfettamente preservate dalla ruggire e dalla corrosione del salino. Questo dato di fatto, unito ai precedenti, portò, ad esempio, al successo conseguito nel novembre 1940 a Taranto dagli Inglesi. A questo punto la domanda sorge spontanea: Cavagnari da chi prendeva ordini? (1)

    Altri “capi”.

Mezzi d’Assalto sono inquadrati nella I Flottiglia M.A.S. (poi Xa) sotto il comando del Capitano di Fregata Mario Giorgini (preso prigioniero nel 1940 a seguito dell’affondamento del sommergibile Gondar e liberato nel 1946); essi dipendono dall’Ammiraglio Raffaele de Courten. (2)

Il Sottocapo di Stato Maggiore, Ammiraglio Edoardo Somigli, è invece al comando di Supermarina. Nel corso dei mesi successivi si avrà un “avvicendamento” continuo nei posti di comando.

La storia di Supermarina meriterebbe un intero volume che indaghi e spieghi nel dettaglio le pesanti responsabilità e il tradimento perpetrato nei confronti dell’Italia e dei suoi marinai.

    “Quattro righe” su Badoglio.

Sul secondo numero del “settimanale d’attualità” L’Orizzonte, organo dei Volontari della Xa Flottiglia M.A.S. osteggiato da taluni fascisti della Repubblica Sociale, in prima pagina e con proseguimento in tutta la pagina n. 6, appare la prima parte dell’articolo: «nuove rivelazioni sulla resa / IL TAPPETO VOLANTE / e il mistero del gen. Carton De Wiart». Un passo recita: «Ritengo senz’altro inutile dire come al tradimento del 25 luglio l’ultimo re d’Italia ed il Venerabile Fratello massone Pietro Badoglio si preparassero da un pezzo e ritengo anche superfluo citare tutta la documentazione fin qui apparsa, documentazione fin troppo ampia [e] doviziosa ed anche – ove se ne tolga lo schiacciante testo della “Storia di un anno” – fin troppo pedestre» (Giovanni F. Martelloni, Nuove rivelazioni sulla resa. Il tappeto volante e il mistero del gen. Carton De Wiart, in Decima Flottiglia M.A.S., L’Orizzonte, Anno I, N. 2, 5 febbraio, Milano 1945, pp. 1 e 6).

Più di recente ecco che cosa scrive Ivano Granata, ma riportando le parole di Mola: «C’è poi un aspetto interessante, relativo al tentativo delle due massonerie di influenzare comunque le scelte fasciste. Nello stesso anno in cui venne varata la legge sulle associazioni, “il giustinianeo Badoglio si impadronisce del potere militare. Piazza del Gesù ha puntato sul potere politico e uscirà sconfitta col fallimento di Farinacci, che si consuma nel medesimo arco di tempo. Il regime fascista si va configurando nei termini di una burocrazia tecnocratica e militare, il cui potere politico diviene necessariamente subalterno. E sono gli uomini di Palazzo Giustiniani che, avendo saputo attendere, si insediano nella stanza dei bottoni: Badoglio, Belluzzo e Beneduce”. È un rilievo che forse non ha avuto la dovuta attenzione e che meriterebbe un ulteriore approfondimento» (Ivano Granata, Fascismo e Massoneria: un rapporto ambiguo e complesso, in Massimo Rizzardini, Andrea Vento -a cura di-, All’Oriente d’Italia. Le fondamenta segrete del rapporto fra Stato e Massoneria, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2013, pp. 99-100).

      Note.  

1) Nella notte tra l’11 e il 12 novembre 1940 due stormi di aerosiluranti Swordfish MKI della R.A.F. (Royal Air Force) attaccano e sorprendono la flotta navale della Regia Marina Italiana nel porto di Taranto. Sono silurate le corazzate Caio Duilio, Cavour, Littorio; l’incrociatore Trento e i cacciatorpedinieri Libeccio e Pessagno sono colpiti con le bombe.

2) A proposito di Raffaele de Courten (Milano 1888 – Frascati 1978) si può ricordare che è presente nel “governo Badoglio” come Ministro della Marina. Nel 1944 rilascia l’autorizzazione affinché Carlo Calosi sia portato negli Stati Uniti per collaborare con la US Navy; il motivo è che si debbono cercare le contromisure al miglior siluro marittimo al momento in uso e inventato proprio da Calosi nel 1941 per la Regia Marina Italiana: il S.I.C. (Siluro Italiano Calosi).

Nel sito Internet del “Rotary Club L’Aquila” possiamo poi leggere: «Il carissimo prof. Giuseppe Bacci, Docente di matematica e fisica nel nostro Liceo Classico, segnalò ad un gruppo di amici che in Roma era sorto il “Rotary Club” facente parte di una Associazione, che era stata fondata fra quattro amici in Chicago (U.S.A.) nel 1905 dall’avv. Paul P. Harris; tale denominazione era stata suggerita dal fatto che le riunioni dei componenti del Club avvenivano a rotazione negli uffici di ciascun socio. Con l’espandersi dell’associazione fuori i confini degli U.S.A. e con l’ammissione del Canada, nel 1912 il nome fu cambiato in “Rotary International”. Lo scopo di tale associazione è quello di sviluppare l’ideale del “servire” inteso come motore e propulsore di ogni attività, attraverso lo sviluppo di relazioni amichevoli tra i soci, scelti fra persone residenti nel territorio del Club, esponenti di “classifiche” professionali ed impiegatizie diverse, associati senza alcuna prospettiva di interesse economico o di prestigio personale, ma con il solo proposito di informare la pratica dei propri affari e professioni ai principi della più alta rettitudine, onde promuovere e propagandare fra gli uomini e fra i popoli la comprensione e la buona volontà, e raggiungere la pace fra le nazioni. Lo Statuto del “Rotary International” prevede la sua organizzazione con un Consiglio centrale, con i Governatori Distrettuali e con Rotary Club locali. In Italia erano sorti fin al 1925 alcuni Club nelle città di maggiore importanza (Roma, Genova, Firenze, Venezia, Napoli e Palermo); ne erano seguiti altri nel 1927 a Brescia, nel 1928 a Messina, nel 1930 a Catania e nel 1933 a Bari. Per evidenti incompatibilità con i principi del passato Regime, tutti i suddetti Club italiani erano stati soppressi e poterono riaprire le loro sedi soltanto dopo la fine dell’ultimo conflitto mondiale. Quello di Roma iniziò nuovamente la sua attività nel 1948 sotto la presidenza dell’ammiraglio Raffaele de Courten, cui fece seguito negli anni 1949-1950 il nostro illustre corregionale, avv. Omero Ranelletti, che nel periodo 1955-1956 fu Governatore del 92° Distretto del Rotary Club lnternational»

(http://www.rotarylaquila.it/?page_id=11). Inutile negare che il Rotary è il “vivaio” in cui la Massoneria “pesca”.

Mediolanum/Milano etimologia del toponimo – Massimo Pittau

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Dell’etimologia od origine e significato del toponimo Milano si sono interessati parecchi autori. Più esattamente essi hanno cercato la esatta origine e l’esatto significato della sua antica forma latina Mediolanum. Per essa tutti si sono trovati in pieno accordo sul suo significato effettivo e lo hanno indicato in quello di “città mediana o centrale”, dato che questa è la sua reale posizione nella Valle Padana, all’incrocio di strade e di fiumi dell’intera zona circostante. Le discordanze fra gli autori hanno invece riguardato la struttura linguistica e fonetica di Mediolanum.

L’ultima spiegazione che sembra avere trovato l’accordo fra tutti è quella che G. B. Pellegrini (TopIt 110) ha sintetizzato nel seguente modo:

«Si tratta di un composto gallico con medio ‘mezzo’ (cfr. lat. medius, got. midjis e lanum, equivalente di planum (IEW 806), con la nota perdita di p- iniziale tipica del celtico».

Nonostante l’alta stima che io avevo per questo egregio collega e caro amico, io muovo le seguenti obiezioni alla sua spiegazione:

  1. I “toponimi composti o compositi”, costituiti cioè di due parti, la prima di una lingua (es. il lat. medius) e la seconda di un’altra (es. il celtico o gallico (p)lanum) certamente esistono, ma sono piuttosto rari.
  2. Anche in linguistica tra due o più ipotesi si ha il dovere o almeno l’interesse ad optare per quella più semplice e più ovvia. Ed una ipotesi più semplice e più ovvia di quella del Pellegrini io sono per l’appunto in grado di presentare qui di seguito.
  3. Siccome è quasi certo che gli Etruschi abbiano dilagato all’inizio del secolo VIII a. C. nella Valle Padana e nelle valli dell’arco alpino, fondandovi od occupando città come Modena, Mantova, Parma, Bergamo, Varallo Sesia, Chiavenna, Verona, Belluno, Vipiteno ecc., è assurdo ritenere che essi non abbiamo provato interesse anche all’importantissimo centro abitato di Milano molto prima dei Galli, che invece sono arrivati nella pianura padana due secoli dopo, cioè all’inizio del VI sec. a. C. (T. Livio, Ab Urbe condita libri, V, 34).

Premesso tutto ciò, mi preme ricordare il frequente fenomeno linguistico dello scambio dei toponimi con gli antroponimi, cioè dei nomi di luogo coi nomi di persona e viceversa: ad es. i cognomi italiani Ferrara, Modena e Verona derivano dalle rispettive città di cui i titolari erano originari; i toponimi Cécina, Cesena e Ravenna derivano dai cognomi degli originari proprietari di un predio o un cascinale o una officina o una fabbrica.

Ciò fatto presento il prenome e il gentilizio femm. etrusco LARΘI MEΘLNA, ΘANA MEΘLNE (ThLE²), il quale si può interpretare senz’altro come l’etnico femm. Mediolanensis «(Lartia) Mediolania» e «(Thana) Mediolania» oppure anche come «Medioleia», femm. del gentilizio lat. Medioleius (RNG). Ebbene, faccio osservare e sottolineo che fra il lat. Mediolanum e l’etr. MEΘLNA esiste una totale uguaglianza dei fonemi, che sono ben sei e pertanto è molto consistente nelle comparazioni etimologiche di più vocaboli (È ben conosciuta la corrispondenza etrusco-latina Θ/D; LLE norma 4).

E non soltanto, ma è pure degna di nota ancora la uguaglianza di cinque fonemi tra Mediolanum e l’appellativo lat. medulla «midolla», la quale va ovviamente spiegata come «sostanza mediana o centrale dell’osso».

Come si vede facilmente la consonante iniziale /p-/ del celtico planum non compare per nulla in questo mio discorso.

E la conclusione logica del discorso mi sembra che debba essere questa: Mediolanum non è affatto un toponimo composito, costituito cioè da una parte latina e da una parte celtica, ma è un toponimo unitario, anche se di formazione etrusca e latina, prima etrusca e dopo latina. E soprattutto nel toponimo non c’è proprio nulla di celtico o gallico.

Si deve fare un’ultima ma importante considerazione: a me sembra molto probabile che la “denominazione” della città di Milano sia da attribuire agli Etruschi invasori della Valle Padana; la “denominazione”, ma non la “fondazione” del centro abitato, la quale invece poteva essere stata effettuata da qualche altro popolo precedente (Camuni o Leponzi o Liguri ?). Il fatto che la denominazione degli Etruschi si sia imposta e affermata è una circostanza del tutto congruente col ruolo di grandi acculturatori che gli Etruschi hanno esercitato in tutta Italia, anche nella Valle Padana; basti dire che hanno esportato dappertutto la lingua etrusca o almeno la scrittura etrusca. Ed è del tutto certo che sempre e dappertutto la scrittura contribuisce enormemente alla stabilizzazione e alla conservazione dei toponimi. Vedi Belluno, Bergamo.

    BIBLIOGRAFICA CON SIGLE   IEW   Pokorny J., Indogermanisches Etymologisches Wörterbuch, I-II, Bern-München 1959-1969, Francke Verlag. LLE  Pittau M., Lessico della Lingua Etrusca – appellativi antroponimi toponimi, Roma, Società Editrice Romana, 2012. RNG   Solin H. et Salomies O., Repertorium nominum gentilium et cognominum Latinorum, Hildesheim-Zürich-New York 1988. ThLE  Thesaurus Linguae Etruscae, I Indice lessicale, Roma 1978; I Supplemento, 1984; Ordinamento inverso dei lemmi, 1985; II Supplemento, 1991; III Supplemento, 1998. Seconda edizione, Pisa-Roma 2009. TopIt  Pellegrini G. B., Toponomastica Italiana, Milano 1990, editore Hoepli.

Il Mistero dei Misteri: Il Re del Mondo – Ferdinand Ossendowski

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Capitolo XLVI Il Regno sotterraneo

«Fermo!» mormorò la mia vecchia guida mongola un giorno che attraversavamo la pianura presso Tzagan Luk. «Fermo!». Si lasciò scivolare giù dal cammello, che s’inginocchiò spontaneamente. Il Mongolo levò le sue mani innanzi al volto in atto di preghiera e cominciò a ripetere la frase sacra: «Om! Mani padme Hung!» [1]. Gli altri Mongoli fermarono immediatamente i loro cammelli e cominciarono a pregare. «Cos’è successo?» pensai, mentre guardavo la tenera erba verde attorno a me, il cielo senza nubi e i raggi del sole della sera dolci come in un sogno. I Mongoli pregarono per un po’ di tempo, si scambiarono qualche parola sottovoce, strinsero le cinghie dei bagagli ai cammelli e si ripartì. «Hai visto», chiese il Mongolo, «come i nostri cammelli muovevano le orecchie per la paura? Come la mandria di cavalli nella pianura si è fermata improvvisamente attenta e come le greggi di pecore e di armenti si sono acquattate al suolo? Hai notato come gli uccelli non volassero, le marmotte non corressero e i cani non latrassero? L’aria vibrava sommessamente e portava da lontano il suono di un canto che penetrava i cuori degli uomini, come quelli degli animali e degli uccelli. La terra e il cielo avevano cessato di respirare. Il vento non soffiava e il sole si era fermato. In un momento come quello, il lupo che si avvicina furtivo alla pecora si arresta dove si trova; il branco delle antilopi spaventate improvvisamente ferma la sua selvaggia corsa; al pastore che sta sgozzando un montone cade il coltello di mano; il feroce ermellino smette di far la posta all’ignara salga [2]. Tutte le creature viventi in preda alla paura sono spinte involontariamente a pregare e attendono il proprio fato. Ecco cos’è appena accaduto. Così accade ogni qual volta il Re del Mondo nel suo palazzo sotterraneo prega e scruta i destini di tutti i popoli della terra» [3]. Così mi parlò il vecchio Mongolo, un semplice e rozzo pastore e cacciatore. La Mongolia, con le sue nude e terribili montagne, le sue sconfinate pianure disseminate di ossa disperse degli antenati, ha dato i natali al Mistero. La sua gente, spaventata dalle passioni tempestose della Natura o cullata dalle sue paci che somigliano alla morte, avverte il suo mistero. I suoi Lama “Rossi” e “Gialli” preservano e rendono poetico il suo mistero. I Pontefici di Lhasa e di Urga [4] lo conoscono e lo posseggono. Conobbi il “Mistero dei Misteri” per la prima volta viaggiando per l’Asia centrale, e non saprei dargli altro nome. In un primo momento non gli concessi molta attenzione e non gli diedi l’importanza che successivamente realizzai meritasse, me ne resi conto soltanto dopo che ebbi analizzati e confrontati fra loro molti indizi sporadici, vaghi e non di rado contradditori. Gli anziani sulla riva del fiume Amyl mi raccontarono un’antica leggenda secondo la quale una certa tribù mongola nella propria fuga dalle pretese di Gengis Khan si era nascosta in un paese sotterraneo. In seguito un Soyot [5] che veniva dai pressi del lago di Nogan Kul mi mostrò la porta fumante che funge da ingresso al “Regno di Agharti”. Attraverso questa porta un cacciatore in passato era entrato nel Regno e, dopo il suo ritorno, cominciò a raccontare quello che vi aveva visto. I Lama gli tagliarono la lingua per impedirgli di raccontare il Mistero dei Misteri. Raggiunta la vecchiaia, tornò all’ingresso di questa grotta e scomparve nel regno sotterraneo, il cui ricordo aveva ornato e illuminato il suo cuore nomade. Ricevetti informazioni più realistiche riguardo a ciò dal Hutuktu [6] Jelyb Djamsrap a Narabanchi Kure. Egli mi raccontò la storia dell’arrivo semi-realistico del potente Re del Mondo dal regno sotterraneo, del suo aspetto, dei suoi miracoli e delle sue profezie; e solo allora cominciai a comprendere che in quella leggenda, ipnosi o visione di massa, qualunque cosa essa fosse, si cela non solo del mistero ma una realistica e potente forza capace d’influenzare il corso della vita politica dell’Asia. Da quel momento ho cominciato a svolgere alcune indagini. Il Gelong Lama [7] favorito del principe Chultun Beyli e il principe stesso mi diedero un resoconto del regno sotterraneo. «Ogni cosa nel mondo», disse il Gelong, «si trova costantemente in uno stato di cambiamento e di transizione: popoli, scienza, religioni, leggi e costumi. Quanti grandi imperi e splendide culture sono periti! Ciò che rimane invariato è soltanto il Male, lo strumento degli Spiriti Maligni. Più di 60 mila anni fa, un Santo scomparve con tutta una tribù di persone nel sottosuolo e non è mai riapparso nuovamente sulla superficie della terra. Molte persone, tuttavia, da allora hanno visitato questo regno, Sakkia Mouni, Undur Gheghen, Paspa, Khan Baber e altri. Nessuno sa dove si trovi questo luogo. Qualcuno dice in Afghanistan, altri in India. Tutte le persone laggiù sono protette contro il Male e i crimini non allignano entro i suoi confini. La scienza in quel luogo è stata sviluppata con tranquillità e nulla è minacciato dalla distruzione. Il popolo sotterraneo ha raggiunto le vette della conoscenza. Oggi è un grande regno, con milioni di persone con il re del Mondo come loro sovrano. Egli conosce tutte le forze del mondo e legge tutte le anime del genere umano e il grande libro del loro destino. Invisibilmente egli governa ottocento milioni di uomini sulla superficie della terra ed essi compiranno ogni suo ordine». Il Principe Chultun Beyli aggiunse: «Questo regno è Agharti. Si sviluppa attraverso una rete planetaria di gallerie sotterranee. Ho udito un Lama della Cina istruito in materia riferire a Bogdo Khan che tutte le caverne sotterranee dell’America sono abitate da antiche persone scomparse nel sottosuolo. Tracce di loro si trovano ancora sulla superficie della terra. Queste genti e regioni sotterranee sono governate da sovrani obbedienti al Re del Mondo. In tutto ciò non vi è nulla di stupefacente. Voi sapete che nei due più grandi oceani dell’Est e dell’Ovest vi erano in precedenza due continenti [8]. Scomparvero sotto le acque ma le loro genti si trasferirono nel regno sotterraneo. Nelle grotte del sottosuolo esiste una luce particolare che permette la crescita di cereali e verdure e una lunga vita senza malattia per le persone. Vi sono molti popoli diversi e molte differenti tribù. Un vecchio Brahman buddhista in Nepal stava eseguendo la volontà degli Dei nel far visita all’antico reame di Gengis Khan – il Siam [9]– dove incontrò un pescatore che gli ordinò di prendere posto nella sua barca e di far vela con lui sul mare. Il terzo giorno raggiunsero un’isola dove incontrarono un popolo con due lingue che poteva parlare separatamente in differenti idiomi. Essi gli mostrarono animali sconosciuti e peculiari, tartarughe con sedici zampe e un occhio, enormi serpenti con una carne molto gustosa e uccelli muniti di denti che catturavano pesce per i loro padroni nel mare. Questa gente gli disse che proveniva dal regno sotterraneo e gli descrisse certe parti del mondo nel sottosuolo». Lama Turgut viaggiando con me da Urga a Pechino mi fornì ulteriori dettagli. «La capitale di Agharti è circondata da città di sommi sacerdoti e scienziati. Ricorda Lhasa, dove il palazzo del Dalai Lama, il Potala, è la cima di una montagna ricoperta di monasteri e templi. Il trono del Re del Mondo è circondato da milioni di Dei incarnati: sono i sacri Pandita [10]. Il palazzo stesso è attorniato dai palazzi del Goro [11], che possiede tutte le forze visibili e invisibili della terra, dell’inferno e del cielo e che può compiere ogni cosa per la vita e la morte dell’uomo. Se la nostra folle umanità dovesse intraprendere una guerra contro di loro, essi sarebbero in grado di far esplodere tutta la superficie del nostro pianeta e di trasformarla in deserto. Essi possono prosciugare i mari, trasformare le terre in oceani e ridurre le montagne nella sabbia dei deserti. Per ordine loro alberi, erbe e cespugli possono essere fatti crescere; uomini vecchi e deboli possono divenire giovani e coraggiosi; e il morto può essere resuscitato. In strane macchine a noi sconosciute essi corrono attraverso le strette fenditure all’interno del nostro pianeta. Alcuni Brahmani indiani e Dalai Lama tibetani, durante le loro faticose scalate alle cime di montagne che nessun altro piede umano aveva mai calcato, trovarono lì iscrizioni incise sulle rocce, impronte nella neve e tracce di ruote. Il beato Sakkia Mouni rinvenne sulla cima di una montagna delle tavole di pietra con iscritte parole che comprese solo nella propria vecchiaia e in seguito penetrò nel Regno di Agharti, da cui riportò briciole del sacro insegnamento conservato nella sua memoria. Là in palazzi di cristallo meraviglioso vivono gli invisibili governanti di tutte le persone pie, il Re del Mondo o Brahytma, che può parlare con Dio come io parlo con voi, e i suoi due assistenti, Mahytma, che conosce le finalità degli eventi futuri, e Mahynga, che governa le cause di questi eventi». «I santi Pandita studiano il mondo e tutte le sue forze. A volte i più sapienti fra loro si riuniscono e mandano inviati in quel luogo dove gli occhi umani non sono mai penetrati. Questo è descritto dal Tashi Lama vissuto 850 anni fa. I più elevati Pandita pongono le loro mani sugli occhi e alla base del cervello dei più giovani e li costringono in un sonno profondo, lavano i loro corpi con un infuso di erbe e li rendono immuni al dolore e più duri delle pietre, li avvolgono in panni magici, li legano e poi pregano il Grande Dio. I giovani pietrificati giacciono con gli occhi e le orecchie aperte e vigili, vedono, sentono e ricordano ogni cosa. In seguito un Goro si avvicina e mantiene a lungo lo sguardo fisso su di loro. Molto lentamente i corpi stessi si sollevano da terra e scompaiono. Il Goro si siede e scruta con gli occhi immobili verso il luogo dove li ha inviati. Fili invisibili li uniscono alla sua volontà. Alcuni di essi girano tra le stelle, osservano le loro manifestazioni, i loro popoli sconosciuti, la loro vita e le loro leggi; ascoltano i loro discorsi, leggono i loro libri, capiscono le loro fortune e sventure, la loro santità e i peccati, la loro pietà e il male. Alcuni si mescolano con la fiamma e vedono la creatura di fuoco, rapida e feroce, eternamente in lotta, fondendo e martellando i metalli nelle profondità dei pianeti, bollendo l’acqua per i geyser e le sorgenti, fondendo le rocce ed eruttando lava fusa sulla superficie della terra attraverso le aperture nelle montagne. Altri corrono insieme alle sempre sfuggenti, infinitamente piccole, trasparenti creature dell’aria e penetrano nei misteri della loro esistenza e nelle finalità della loro vita. Altri scivolano nelle profondità dei mari e osservano il regno delle sagge creature dell’acqua, che trasportano e diffondono il giusto calore su tutta la terra, governando i venti, le onde e le tempeste … In Erdeni Dzu viveva un tempo un Pandita Hutuktu, che era venuto da Agharti. In punto di morte, raccontò del momento in cui viveva secondo la volontà del Goro su una stella rossa a Oriente, fluttuava nell’oceano ricoperto di ghiaccio e volava tra i fuochi tempestosi nelle profondità della terra». Questi sono i racconti che udii nelle yurte [12] dei principi mongoli e nei monasteri lamaiti. Queste storie erano tutte raccontate in un tono solenne che vietava ogni discussione e dubbio. Mistero …

 

Capitolo XLVII Il Re del Mondo al cospetto di Dio

Durante il mio soggiorno a Urga cercai di trovare una spiegazione a questa leggenda sul Re del Mondo. Naturalmente, il Buddha Vivente avrebbe potuto dirmi più di chiunque altro e così mi sforzai di conoscere la storia da lui. In una conversazione con lui menzionai il nome del Re del Mondo. Il vecchio Pontefice bruscamente voltò la testa verso di me fissandomi con i suoi immobili occhi ciechi. A malincuore dovetti tacermi. Il nostro silenzio fu lungo e dopo il Pontefice continuò la conversazione facendomi capire che non gradiva accogliere il suggerimento del mio riferimento. Sui volti dei presenti notai espressioni di stupore e paura provocate dalle mie parole, e questo valeva specialmente per il custode della biblioteca del Bogdo Khan. Si può facilmente capire come tutto questo mi avesse solo reso più ansioso di approfondire la ricerca. Mentre stavo lasciando lo studio del Bogdo Hutuktu, incontrai il bibliotecario che si era avviato avanti a me e gli chiesi se mi poteva mostrare la biblioteca del Buddha Vivente, utilizzando con lui un semplicissimo ma scaltro stratagemma. «Sapete, mio caro Lama», dissi «una volta ho cavalcato nella pianura nell’ora in cui il Re del Mondo parlava con Dio ed ho avvertito la solenne maestosità di quel momento». Con mio grande stupore, il vecchio Lama mi rispose senza turbarsi: «Non è giusto che i Buddhisti e la nostra Fede Gialla lo tengano nascosto. Il riconoscimento dell’esistenza dell’uomo più santo e più potente, del regno benedetto, del grande tempio della scienza sacra è una tale consolazione per i nostri cuori peccaminosi e le nostre esistenze corrotte che nasconderlo al genere umano è un vero peccato … Beh, ascoltate», proseguì, «per l’intero corso dell’anno il Re del Mondo guida il lavoro dei Pandita e dei Goro di Agharti. Solo a volte egli si reca alla cripta del tempio dove il corpo del suo predecessore giace imbalsamato in un sarcofago di pietra nera. Questa grotta è sempre buia, ma quando il Re del Mondo vi entra le pareti si rigano col fuoco e dal coperchio della bara appaiono lingue di fiamma. Il Goro più anziano gli sta di fronte col capo e il viso coperti e con le mani incrociate sul petto. Questo Goro non si leva mai il cappuccio, ché la sua testa è un cranio nudo con gli occhi vividi e una lingua che parla. Egli è in comunione con le anime di tutti coloro che ci hanno preceduto». «Il Re del Mondo prega per un lungo periodo di tempo e successivamente si avvicina al sarcofago e stende la mano. Le fiamme guizzano più ardenti; le strisce di fuoco sulle pareti svaniscono e riappaiono, e intrecciandosi formano misteriosi segni dell’alfabeto vatannan [13]. Dalla bara fasci diafani di luce appena percettibile cominciano a emanare: sono i pensieri del suo predecessore. Repentinamente il Re del Mondo si ritrova avvolto in un’aura di questa luce e lettere di fuoco scrivono e scrivono sui muri i desideri e gli ordini di Dio. In questo momento il Re del Mondo è in comunione con i pensieri di tutti gli uomini che influenzano la sorte e la vita di tutta l’umanità: con Re, Zar, Khan, capi guerrieri, Sommi Sacerdoti, scienziati e altri uomini forti. Si rende conto di tutti i loro pensieri e progetti. Se questi sono graditi a Dio, il Re del Mondo li asseconderà in modo invisibile, se sono sgraditi al cospetto di Dio, il Re li porterà verso il fallimento. Questo potere è conferito ad Agharti dalla misteriosa scienza dell’“Om”, con cui iniziamo tutte le nostre preghiere. “Om” è il nome di un antico Sant’uomo, il primo Goro, che visse 330 mila anni fa. Egli fu il primo uomo a conoscere Dio e che insegnò agli uomini a credere, sperare e lottare contro il Male. Allora Dio gli diede potere su tutte le forze che governano il mondo visibile». «Dopo la sua conversazione con il proprio predecessore, il Re del Mondo riunisce il “Gran Consiglio di Dio”, giudica le azioni e i pensieri dei grandi uomini, li asseconda o li distrugge. Mahytma e Mahynga trovano il posto per queste azioni e pensieri nella catena causale che governa il mondo. Successivamente il Re del Mondo accede al grande tempio e prega in solitudine. Il fuoco appare sull’altare, e gradualmente si diffonde a tutti gli altari vicini, e attraverso la fiamma che brucia appare gradualmente il volto di Dio. Il Re del Mondo con reverenza annuncia a Dio le decisioni e le determinazioni del “Consiglio di Dio” e riceve a sua volta agli ordini Divini dell’Onnipotente. Quando esce dal tempio, il Re del Mondo irradia la Luce Divina».

 

Capitolo XLVIII Realtà o fantasia religiosa?

«Ma qualcuno ha visto il Re del Mondo?» chiesi. «Oh, sì!» rispose il Lama. «Durante le feste solenni dell’antico Buddhismo in Siam e in India il Re del Mondo apparve cinque volte. Montava uno splendido carro trainato da elefanti bianchi e ornati di’oro, pietre preziose e tessuti pregiati; era vestito di un manto bianco e una tiara rossa con pendagli di diamanti che gli celavano il volto. Egli benedisse il popolo con una mela d’oro sormontata dalla figura di un Agnello. Il cieco riacquistava la vista, il muto parlava, il sordo udiva, lo storpio si muoveva liberamente e il morto risorgeva, laddove gli occhi del Re del Mondo si posavano. È apparso anche 540 anni fa, nel Erdeni Dzu, è stato in un antico monastero di Sakkai e a Narabanchi Kure. Uno dei nostri Buddha Viventi e uno dei Tashi Lama ricevette un suo messaggio, scritto con segni sconosciuti su tavolette d’oro. Nessuno poteva leggere questi caratteri. Il Tashi Lama entrò nel tempio, pose la tavoletta d’oro sulla sua testa e cominciò a pregare. Grazie a ciò i pensieri del Re del Mondo penetrarono la sua mente e, senza aver letto gli enigmatici segni, egli comprese e realizzò il messaggio del Re». «Quante persone sono state ad Agharti?» lo interrogai. «Moltissime», rispose il Lama, «ma tutte queste persone hanno mantenuto segreto ciò che videro laggiù. Quando gli Oleti [14] distrussero Lhasa, uno dei loro distaccamenti nelle montagne del Sud-Ovest penetrò fino alle propaggini di Agharti. Qui appresero alcune fra le scienze misteriose minori e le portarono sulla superficie della nostra terra. Ecco perché gli Oleti e i Calmucchi sono stregoni abili e profeti. Anche dai paesi orientali alcune tribù di gente nera penetrarono ad Agharti e lì vissero molti secoli. Successivamente essi furono scacciati dal regno e restituiti alla terra, portando con sé il mistero delle predizioni attraverso le carte, le erbe e le linee del palmo della mano. Sono i Gitani [15] … Da qualche parte nel Nord dell’Asia esiste una tribù che ora si sta estinguendo e che è venuta dalle grotte di Agharti, abile nel richiamare gli spiriti dei morti che fluttuano nell’aria». Il Lama rimase in silenzio e poi, come se stesse rispondendo ai miei pensieri, continuò: «Ad Agharti i dotti Pandita scrivono su tavole di pietra tutta la scienza del nostro pianeta e degli altri mondi. I sapienti Buddhisti cinesi lo sanno bene. La loro scienza è la più alta e pura. Ogni secolo un centinaio di saggi della Cina si riuniscono in un luogo segreto sulle rive del mare, dalle cui profondità emergono un centinaio di tartarughe immortali. Sui loro gusci i cinesi scrivono tutti gli sviluppi della scienza divina prodottisi durante il secolo». Mentre scrivo sto involontariamente rimembrando il racconto di un vecchio bonzo cinese nel Tempio del Cielo a Pechino. Mi disse che le tartarughe vivono più di 3000 anni senza cibo né aria e che questo è il motivo per cui tutte le colonne del Tempio del Cielo azzurro furono poste su tartarughe vive per preservare il legno dal degrado. «Più volte i Pontefici di Lhasa e Urga hanno inviato emissari al Re del Mondo», disse il Lama bibliotecario, «ma non lo trovarono. Solo un certo leader tibetano dopo una battaglia con gli Oleti trovò la grotta con l’iscrizione: “Questo è l’ingresso per Agharti”. Dalla grotta uscì un uomo di bell’aspetto, gli donò una tavoletta d’oro con i segni misteriosi e disse: “Il Re del Mondo apparirà di fronte a tutti i popoli quando il tempo sarà giunto per lui di condurre tutte le buone persone del mondo contro tutte le malvagie; ma non è ancora venuto questo tempo. Il più malvagio tra gli uomini non è ancora nato”. Il Chiang Chün barone Ungern inviò il giovane principe Pounzig in cerca del Re del Mondo, ma questi tornò con una lettera del Dalai Lama da Lhasa. Quando il barone lo mandò una seconda volta, egli non ritornò più indietro».

 

Capitolo XLIX La profezia del Re del Mondo nel 1890

L’Hutuktu di Narabanchi mi riferì quanto segue, quando lo visitai nel suo monastero agli inizi del 1921: «Quando il Re del Mondo apparve davanti ai Lama, favoriti di Dio, in questo monastero trent’anni fa fece una profezia per il seguente mezzo secolo. Essa era la seguente: “Sempre più la gente si dimenticherà la propria anima e si curerà del proprio corpo. Il più grande peccato e la corruzione regneranno sulla terra. Gli uomini diventeranno come belve feroci, assetati del sangue e della morte dei loro fratelli. La ‘Mezzaluna’ si offuscherà e i suoi seguaci sprofonderanno nella miseria e nella guerra incessante. I suoi conquistatori saranno colpiti dal Sole, ma non si eleveranno e due volte saranno visitati dalla sventura più grave, che culminerà nell’insulto dinnanzi agli occhi degli altri popoli. Le corone dei re, grandi e piccoli, cadranno … uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto … Ci sarà una battaglia terribile fra tutti i popoli. I mari diverranno rossi … la terra e il fondo dei mari saranno disseminati di ossa … regni saranno dispersi … interi popoli moriranno … fame, malattie, crimini sconosciuti alla stessa legge, mai visti prima nel mondo. I nemici di Dio e dello Spirito Divino nell’uomo verranno. Anche coloro i quali tenderanno la mano al prossimo periranno. I dimenticati e i perseguitati insorgeranno e cattureranno l’attenzione del mondo intero. Ci saranno nebbie e tempeste. Montagne spoglie saranno improvvisamente ricoperte da foreste. Si scateneranno terremoti … Milioni di uomini cambieranno le catene della schiavitù e dell’umiliazione con la fame, la malattia e la morte. Le antiche strade saranno coperte con folle erranti da un luogo all’altro. Le città più grandi e più belle periranno nel fuoco … una, due, tre … Il padre insorgerà contro il figlio, il fratello contro il fratello e la madre contro la figlia … Il vizio, il crimine e la distruzione del corpo e dell’anima seguiranno … Le famiglie saranno disperse … Scompariranno la verità e l’amore … Di diecimila uomini uno solo sopravvivrà; egli sarà nudo e folle, senza la forza e la conoscenza per costruirsi una casa e trovare il proprio cibo … Egli ululerà come il lupo rabbioso, divorerà i cadaveri, morderà la sua propria carne e sfiderà Dio a combattere … Tutta la terra sarà svuotata. Dio stesso le volterà le spalle e su di essa non vi sarà che la notte e la morte. Allora io manderò un popolo, ancora sconosciuto, che estirperà la gramigna della pazzia e del vizio con mano forte e condurrà coloro che ancora rimangono fedeli allo spirito dell’uomo nella lotta contro il Male. Essi ritroveranno una nuova vita sulla terra purificata dalla morte delle nazioni. Nel cinquantesimo anno appariranno solo tre grandi regni, che esisteranno felicemente per 71 anni. In seguito ci saranno diciotto anni di guerra e distruzione. Allora i popoli di Agharti saliranno dalle loro caverne sotterranee alla superficie della terra”». In seguito, mentre viaggiavo oltre attraverso la Mongolia orientale e verso Pechino, ho pensato spesso: «E se … ? Che cosa succederebbe se interi popoli di diversi colori, fedi e tribù dovessero iniziare la loro migrazione verso l’Occidente?». E adesso, mentre vergo queste ultime righe, i miei occhi involontariamente si rivolgono a questo sconfinato Cuore dell’Asia su cui i sentieri del mio peregrinare s’intrecciano. Fra tormente di neve e vortici di sabbia del Gobi la memoria mi riporta al cospetto del Hutuktu di Narabanchi che, con voce pacata mentre indicava l’orizzonte con la sua esile mano, mi dischiuse le porte dei suoi più intimi pensieri: «Presso Karakorum e sulle rive del Ubsa Nor vedo gli immensi accampamenti multicolori, le mandrie di cavalli e bovini e le yurte azzurre dei capi. Sopra di loro vedo le antiche bandiere di Gengis Khan, dei re del Tibet, del Siam, dell’Afghanistan e dei Principi indiani; i sacri emblemi di tutti i Pontefici lamaiti; gli stemmi dei Khan degli Oleti e i semplici stendardi delle tribù mongole del Nord. Non odo il rumore della folla animata. I cantori non intonano le lamentevoli canzoni della montagna, della pianura e del deserto. I giovani cavalieri non si dilettano con le corse sui loro rapidi destrieri … Vi sono innumerevoli schiere di vecchi, donne e bambini e più oltre, a Nord e a Ovest, fin dove l’occhio si può spingere, il cielo è rosso come una fiamma, c’è il rombo e il crepitio del fuoco e il suono feroce della battaglia. Chi sta conducendo questi guerrieri che là sotto il cielo arrossato spargono il loro proprio sangue e quello degli altri? Chi sta guidando queste turbe di vecchi inermi e di donne? Vedo ordine severo, comprensione religiosa profonda di scopi, pazienza e tenacia … una nuova grande migrazione di popoli, l’ultima marcia dei Mongoli …». Il Karma [16] potrebbe aver aperto una nuova pagina di Storia! E se il Re del Mondo fosse con loro? Ma questo grande Mistero dei Misteri serba il suo profondo silenzio.

Note:

1. «Salve! Grande Lama nel Fiore di Loto!». René Guénon ricordava che a Ossendowski era stato rimproverato dai suoi critici di scrivere Om invece di Aum, «ma, se Aum è la rappresentazione del monosillabo sacro scomposto nei suoi elementi costitutivi, è pur sempre Om la trascrizione corretta che corrisponde alla pronuncia reale in uso sia in India sia in Tibet e in Mongolia» (R. Guénon, Le Roi du Monde, Paris, Librairie Charles Bosse, 1927; trad. it. Il Re del Mondo, Milano, Adelphi Edizioni, 1977, p. 14, nota 5) [N.d.T.].↩ 2. Pernice grigia della prateria [N.d.T.].↩ 3. René Guénon faceva notare in proposito come l’accostamento di un simile evento con il timor panicus degli antichi, suggeritogli da Arturo Reghini, fosse da considerarsi un’ipotesi “estremamente verosimile” (R. Guénon, Il Re del Mondo, cit., p. 13, nota 4) [N.d.T.].↩ 4. Capitale della Mongolia [N.d.T.].↩ 5. Gruppo etnico originario della Siberia occidentale [N.d.T.].↩ 6. Il grado più elevato nella gerarchia monastica lamaista [N.d.T.].↩ 7. Sacerdote autorizzato a compiere i sacrifici [N.d.T.].↩ 8. Atlantide e Mu [N.d.T.].↩ 9. Nome che aveva, fino al 24 Giugno 1939, l’attuale Thailandia [N.d.T.].↩ 10. Monaci buddhisti di alto rango. Titolo conferito a coloro i quali sono stati istruiti nelle cinque scienze tradizionali: la scienza del linguaggio (śabdavidyā), la scienza della logica (hetuvidyā), la scienza della medicina (cikitsāvidyā), la scienza delle belle arti e mestieri (śilakarmasthānavidyā) e la scienza della spiritualità (adhyātmavidyā) [N.d.T.].↩ 11. Sommo sacerdote del Re del Mondo [N.d.T.].↩ 12. Tende mongole fatte di feltro [N.d.T.].↩ 13. La lingua sacra parlata nel Regno sotterraneo, da cui deriverebbe la primitiva lingua indo-europea [N.d.T.].↩ 14. Oleti o Oirati era il nome con cui era conosciuta originariamente la tribù mongola dei Calmucchi, prima che migrasse all’epoca di Gengis Khan per stabilirsi sui monti Urali e sulle rive del Volga in Russia. Il loro etnonimo, ojrad, sarebbe derivato dal mongolo Dôrvôn Ojrd, “I quattro alleati”, in quanto storicamente gli Oirati erano composti da quattro tribù maggiori. I Calmucchi sono gli unici abitanti dell’Europa la cui religione nazionale è il Buddhismo. Essi abbracciarono il Buddhismo Vajrayana nella prima parte del XVII secolo, e seguono tuttora gli insegnamenti del lignaggio Gelugpa (Via Virtuosa). Il Buddhismo Vajrayana divenne noto in ambienti anglosassoni nel XIX secolo con il termine dispregiativo di Lamaismo, dal termine tibetano lama, traduzione del sanscrito guru [N.d.T.].↩ 15. Zingari, Zingani, Zigani o Gitani sono termini generici per indicare un insieme di diverse etnie, originariamente ritenute nomadi, provenienti dalle regioni situate nel Nord-Ovest dell’India. René Guénon precisava che «quando si parla di Zingari, è indispensabile fare una distinzione, che troppo spesso si dimentica: in realtà, vi sono due tipi di Zingari, i quali sembrano del tutto estranei fra di loro e che si trattano perfino da nemici; essi non hanno gli stessi caratteri etnici, né parlano la stessa lingua, né esercitano gli stessi mestieri. Vi sono gli Zingari orientali, o Zingari, che sono soprattutto domatori di orsi e calderai; e vi sono gli Zingari meridionali, o Gitani, chiamati anche, in Linguadoca e in Provenza, “Carachi”, che sono quasi esclusivamente mercanti di cavalli» (R. Guénon, Le Compagnonnage et les Bohémiens, in Le Voile d’Isis, Ottobre 1928, in Études sur la Franc-Maçonnerie et le Compagnonnage, Paris, Éditions Traditionelles, 1964, 2 voll.. Guénon continuava ponendo in evidenza i numerosi tratti di comunanza fra i Gitani e i Pellerossa d’America e considerava come degna di nota l’ipotesi di una comune origine atlantidea [N.d.T.].↩ 16. Secondo l’accezione comunemente diffusa in Occidente, che qui sembra essere accolta dall’Autore, con tale termine si suole intendere una sorta di personificazione dell’idea di destino, assimilabile alla nozione greco-romana di Nemesi (Giustizia). È bene rammentare, d’altra parte, come in realtà «la parola karma ha un duplice significato: in generale è l’azione in tutte le sue forme, spesso opposta a jnâna, o la conoscenza, ciò che corrisponde nuovamente alla distinzione dei due ultimi darshana; in senso specifico e tecnico è l’azione rituale quale è prescritta nel Vêda» (R. Guénon, Introduction générale à l’étude des Doctrines Hindoues, Paris, Marcel Rivière, 1921, chap. XIII “Le Mîmânsâ”, trad. it. Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Milano, Adelphi Edizioni, 1989, cap. 13 “La Mîmânsâ”, p. 192) [N.d.T.].↩

* Estratto della Parte V del libro di Ferdinand Ossendowski, Beasts, Men and Gods, E.P. Dutton & Company, New York, 1922.

Ringraziamo la rivista di studi tradizionali Lettera e Spirito per la consueta collaborazione.

   

Adriano Segatori e il “signore interiore”: riflessioni al convegno “il Mistero del Graal” – Roberto Siconolfi

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Il 27 gennaio si è tenuto a Roma il convegno dal titolo “il Mistero del Graal”, organizzato dalla Fondazione Evola. Interessante, tra le altre,è stata la relazione del dottor Adriano Segatori, ricca di spunti di riflessione utili ad orientarsi nel mondo contemporaneo.Questi, da psichiatra e psicoterapeuta, individua nel simbolismo del Graal, le coordinate di direzione applicabili con una certa utilità alla propria vita. Segatori porta l’esempio dei suoi pazienti, per lo più dipendenti dalle droghe o affetti da disturbi di tipo psichico. Per lo psichiatra, è come nei pochissimi casi in cui il paziente si eleva dallo stato dipendente e patologico, attivando quella dominante che lo guiderà in tutta la sua vita: il “signore interiore”. E’ attraverso l’attivazione del “signore interiore”, che il tossicodipendente riesce a scalzare quell’insieme di supporti esterni – le droghe, l’alcool o i farmaci d’abuso – che sono di intralcio alla sua realizzazione personale. I soggetti citati delegano alla sostanza l’elaborazione della direzione da intraprendere nello spazio di una giornata o nell’arco di una vita intera.

Con la trasposizione del Graal a “bussola della propria vita”, questo ruolo viene affidato a dominanti di tipo “superiore”. Si realizza un’armonizzazione tra quelle che sono le propedeutiche qualità dell’Uomo, interiori, appunto, e polarità di altro tipo che hanno a che fare con le leggi stesse del cosmo.  Ci accorgiamo, stesso leggendo queste righe, che il passaggio non è da poco, e non a caso nella sua relazione il dottor Segatori afferma che questa cosa è realizzata in casi molto rari. Questi, aggiungiamo, differiscono da quelli che si salvano, ma che in un modo o nell’altro continuano a perseguire altri sistemi di dipendenza. Ad esempio, come nelle comunità di recupero dove si offre un lavoro agli ex tossicodipendenti i quali continuano la dipendenza a ciò che esterno a sé in altre forme – il terapeuta che diventa “datore di lavoro”. Casi “unici”, dunque, nei quali si realizza una sorta di passaggio di livello alchemico-spirituale, così come un metallo che arrivato ad un certo punto di riscaldamento può solo volgere verso un altro stato. Meccanismi votati al ottenimento di stati di coscienza superiori sul modello della palingenesi, che per Evola è rinascita nella stessa vita. Un passaggio attraverso la “porta stretta”, il “filo del rasoio”, il “ponte esiguo” come direbbe l’Eliade, per rappresentare la rottura dei livelli e l’apertura verso il mondo del soprasensibile.

Non è facile dare a sé stessi una forma e un ordine. Non è facile tener connesso questo proprio ordine a meccaniche di tipo cosmico, tuttavia è proprio in questo allineamento che si propone qualcosa che tenda a superare l’Uomo stesso. Anche dal punto di vista societario, Segatori apre una seria riflessione su determinati comportamenti del moderno contemporaneo. Essi sono l’espressione di una disarmonia che investe la sfera interiore, e si realizza anche in ambito politico-statale. E come non credergli! Del resto la scienza moderna, il positivismo, ha promosso la figura dell’individuo quasi fosse un’isola sganciata dal tutto. Ma sarà proprio la fisica quantistica a ricordare che ognuno concorre alla costituzione di un unico soggetto universale, e che tra la parte interna del singolo e la sua realtà esteriore, non c’è scissione. Ecco perché ciò che è disarmonico e disordinato interiormente produrrà disarmonia e disordine nella realtà. Traslando il campione dai soggetti tossicodipendenti o malati psichiatrici a quello del moderno occidentale e sempre più patologicamente compromesso, possiamo trovare lo stesso sistema di sganciamento dal “signore interiore” sopraccennato. I supporti esterni a disposizione sui quali egli si regge, invece, sono una moltitudine. Pensiamo a quanto è fornito dal sistema tecnologico come la digitalizzazione, che delega ai navigatori satellitari anche il fare percorsi sempre conosciuti.

Sembra che anche il semplice ricordarsi una strada sia troppo. L’elaborazione mentale richiede fatica, la fatica del concetto direbbe Hegel, anche leggere un libro che non piace richiede fatica, ma ciò non toglie che lo si legga fino alla fine. Anche cucinare richiede fatica, ma ciò non toglie che si cucini comunque per alimentarsi. Nella società del tutto e subito, quelli che fino a pochi decenni fa erano elementari concetti del vivere civile, e del mantenere l’integrità della sfera individuale e collettiva, sono stati messi fuori gioco dalle seduzioni del post-modernismo e della cultura americana.  Oppure pensiamo al regime di stupefacenti diffuso e talvolta divulgato, da certe parodistiche tendenze culturali, come fatto di libertà, aggregativo e creativo. Manco avessimo personaggi del calibro di Ernest Junger e Jim Morrison ad ogni angolo della strada.  In questi casi sempre più “normalizzanti” si deresponsabilizza l’Io affidandosi per brevi o lunghi frammenti di vita al corpo estraneo della sostanza psicoattiva, e con ridottissima consapevolezza di ciò. Un vero disastro insomma, per sé e per gli altri. Importante è sempre più la dipendenza dai “guru spirituali”, che oggi nell’epoca della New Age si afferma a gonfie vele a partire dai centri olistici fino ad arrivare ai canali internet. Dall’altro lato, poi, abbiamo le storture della medicina “ufficiale” che si rivolge sempre meno al paziente nella sua interezza e sempre più alla sua malattia. Qui si delega al potere del medico, e non del paziente, o del farmaco, e non dello spirito, una guarigione che nella migliore delle ipotesi sarà “solo” fisica e momentanea.

Ma ancora la dipendenza da ciò che non si è, si direbbe utilizzando la semplice riflessione psico-sociale, porta al sentirsi continuamente soggetti al giudizio altrui – del gruppo dei pari, della comitiva di amici, o del gruppo sub-culturale (Bande, Tribù, Clan, Gang, Crew, ecc). Non dimentichiamola comunità, la scuola o la famiglia che lungi dall’essere delle strutture nelle quali l’Uomo cresca, si senta radicato al contesto geografico ed alla madre terra, diventano dei ricettacoli di appiattimento, invidie, pressante senso di giudizioo peggio ancora di pregiudizio. Dulcis in fundo la schizofrenia del “mondo del lavoro”, collassata nel demenziale principio dell’economia al centro della vita. Basta scollegarsi un attimo dalla “Matrix” per osservare queste masse di fanatici della produttività, che nel caso in cui resterebbero inoccupati, non saprebbero più cosa fare della propria vita.  Tutti pieni di sé, legati ad un Ego per lo più fondato sul nulla, che crollerebbe nel giro di poco distogliendo quel supporto esterno che è appunto l’inquadramento nella società del lavoro. Quante volte abbiamo ascoltato asserzioni tipo “io lavoro”, “io ho fatto”, “io ho detto”. Segatori conclude dicendo che basterebbe togliere a queste frasi il verbo e lasciare il solo “io”, “io”, “io” e poi staccare le due vocali e pronunciare “I-O”, “I-O”, “I-O”: proprio come gli asini! Le soluzioni che volgono nella direzione completamente opposta ci sono, per chi le voglia vedere, per chi le voglia praticare e per chi sia all’altezza di giungervi. E il Graal fornisce le coordinate giuste per vederle, seguirle e avere fiducia in esse e nel superamento degli ostacoli che si disporranno nel cammino di vita. Rinsaldare la spada spezzata suggerisce il mistero del Graal, ovvero riconnettersi alla dimensione della trascendenza proprio come il Parsifal. Questi, a detta di Evola, vincendo in un’impresa pericolosa e mortale si eleva ad una dignità trascendente contrassegnata dalla formula del Merlin “Onore e gloria e potenza e gioia sempiterna al distruttore della morte!”

Roberto Siconolfi

Civitas Sapientiae – Pietas

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Carissimi lettori, vi annunciamo il nuovo numero della rivista Pietas: “Civitas Sapientiae”. Un numero dedicato agli aspetti arcani e misterici della Romanità, in cui sono stati raccolti gli atti dei convegni svolti a Roma e Milano nel 2016 dall'Associazione Pietas con la stretta collaborazione della nostra Redazione e di tante realtà amiche. Indice:
  • Editoriale a cura di Luca Valentini;
  • Giuseppe Barbera – De Misteriis Urbis;
  • Fabrizio Giorgio – A-Thalia. Il mito della terra primigenia;
  • Andrea Anselmo – Polemos e il nuovo inizio. La fondazione di Roma e il mondo indoeuropeo;
  • Giandomenico Casalino – Roma e la Sapienza magico giuridica;
  • Francesco Boco – Cesare e Augusto, l’origine inesauribile di Roma;
  • Paolo Galiano – Il ciclo dell’anno;
  • Stefano Mayorca – Divinum Secretum;
  • Luca Valentini – Essere il Nume, la dimensione magica Romana;
  • Umberto Bianchi – Il gruppo di Ur, una storia italiana tra Magia e Tradizione Romana.
  Per gli interessati è possibile prenotare una copia da ricevere a casa propria al costo di 15 €, scrivendo a info@tradizioneromana.org  

La metafisica della bellezza: Vittoria Guerrini detta Cristina Campo – Emanuele Casalena

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Io la chiamerò Vittoria.

Modì l’avrebbe eternata in un ritratto, il lungo collo sinuoso, il triangolo smussato del volto perimetro di un incarnato diafano eppure intenso di luce emanata dall’anima, quasi un dono di grazia per di chi ne osservi l’immagine tutt’ora. Esiste una bellezza mondana fatta di curve appetitose, ostentata chirurgia di perfezione animale, ce n’è un’altra che t’ avvolge col suo intenso chiarore ed esclami stupito come S. Giovanni: Dio è luce. E’ una bellezza rarissima, quanto una perla rosa oltre il distratto vedere dell’homo tech, questo era Cristina Campo. Aveva nello sguardo anche il segno lasciato dal suo cuore malato, nido insicuro racchiuso nel suo seno, non cosa di poco conto per una bimba lasciata fuori dai banchi della scuola, dai giochi, dalle amicizie, perché no dalle birichinate, da tutto quello che noi docenti chiamiamo socializzazione. Era nata il 29 Aprile del 1923 nella Bologna nera del Sindaco neo eletto Umberto Puppini fascista ma anche del neo Cardinale G. B. Nasalli Rocca di Corneliano già arcivescovo della città felsinea. Il Resto del Carlino cambiava proprietario con l’arrivo di Tomaso Monicelli e soprattutto mutava la sua linea editoriale, il Bologna FC, quel che il mondo fa tremar, arrivò terzo nella Prima Divisione della Lega Nord nulla a che fare con Bossi e Maroni, affare assai più serio il pallone. Fu figlia unica Vittoria Guerrini ( in arte Cristina Campo ) dei coniugi Guido Guerrini musicista, figlio di uno scaltro fattore, e di Emilia Putti, una gran bella coppia, salda in amore, cementata da valori forti conditi dalle brume dell’arte. Lei respirò dense arie di antiche fiabe familiari, musica come colonna sonora delle ore passate nelle stanze, con un papà compositore, racconti di storia patria al desco come alla sera prima di sciogliersi nel sonno. Trasmissione di incantesimi fatati a quella bambolina fragile, sofferente d’una malformazione al cuore, un apartheid forzoso nelle camere fiorentine, poi in quelle romane fino a varcare l’ultima porta a soli 54 anni sul colle scelto da Remo.

Famiglia immaginifica quella materna dei Putti con radici nell’arte, nella medicina come nell’ardimento militare, quasi una saga dei Buddenbrook da narrare a puntate. Due zii materni incisi nella Storia, Emilio e Marcello Putti, bersaglieri, combattono con valore nella battaglia di Mola di Gaeta del 1860, Emilio, divenuto ufficiale, morirà in mare a Massawa, Eritrea, nel 1885, in circostanze mai chiarite. Tullio Putti, partito volontario a soli 14 anni, perde la vita per le conseguenze di una ferita riportata nella battaglia di Mentana del 1867. E poi il nonno Marcello è un luminare della scienza medica primario dell’Ospedale Maggiore di Bologna, Vittorio, fratello di Emilia, dirige l’Istituto ortopedico Rizzoli, la nonna, una Panzacchi, è imparentata coi Respighi, il bisnonno Massimiliano era stato il migliore scultore neoclassico, poi purista, della Certosa di Bologna figlio di Giovanni anch’egli valente scultore. Aneddoti, ricordi vivi o in dissolvenza, erano il pane quotidiano dei racconti che popolavano l’animo e la fantasia di quella bimba costretta ad imparare a leggere e far di conto tra le mura domestiche con “ insegnanti geniali “, un mondo fiabesco narrato nel suo unico racconto autobiografico il Pomo d’oro. A ragione della professione paterna di Maestro al Conservatorio, la sua infanzia è pellegrina, da Bologna dov’è nata, la famiglia si sposterà dapprima a Parma nel ‘25 e poi a Firenze, lei cresce minuta ma ricca di interessi affrontati con energico entusiasmo, non mancano però le fragilità di un’esistenza segnata dalla malattia. La notte non scioglie le stringhe della paura per un’apnea improvvisa, sovente in famiglia si veglia con apprensione al capezzale del suo letto. Vittoria legge tantissimo, divora la grande biblioteca paterna, si costruisce da sé una cultura, per l’età, sterminata, applicandosi nella conoscenza delle lingue originali degli autori. Appena adolescente ha divorato tutto Dante, Omero, Leopardi, Sheakespeare, la Bibbia intera più quei russi che fanno tanto soffrire ma non fanno male. Eppure immersa in questa letteratura “pesante” la sua fantasia si aggrappa alle ali delle fiabe francesi, alle Mille e una notte, i tappeti la conducono in alto, oltre mura e giardini, in un mondo leggero della stessa materia dei sogni eppur ricco di metafore, simboli, insegnamenti morali. Nella città gigliata finalmente stringe amicizia con una quasi coetanea Anna Cavallotti, giovinetta proiettata a dar corpo ai propri desideri tanto in amore come nella futura professione, entrambe fantasticano di diventare affermate scrittrici. Le bombe alleate del ’43 su Firenze colgono Anna e la mamma a Campo di Marte, il rifugio è dentro un portone, esile foglia dietro cui coprirsi, muoiono entrambe, Anna aveva soli diciotto anni. Unica vera amica tanto desiderata ed improvvisamente persa, sarà un vuoto incolmabile.

La vita di Vittoria è la metamorfosi della crisalide che si trasforma in una farfalla, processo di perfezione nei mutamenti fino alla liberazione in volo. Già il suo chiodo fisso è in questa parola in apparenza algida, distante: perfezione. Vittoria credeva nella kosmokalokagathia come legge universale di simbiosi tra bello e bene, idea dei pitagorici ancor prima che di Platone. Il bello è ovunque nel corpo come nella parola, nel pensiero come nell’azione, seguendo l’euritmia armoniosa, regolare del battito del cuore espressione del creato. “ Non è la bellezza ciò da cui si dovrebbe necessariamente partire? E’ un giacinto azzurro che attira col suo profumo Persefone nei… regni della conoscenza e del destino “. E’una porzione scelta di un suo aforisma, spiega che il mistero della bellezza ci spinge nei cunicoli delle miniere alla ricerca della sapienza primigenia sua generatrice, processo ontologico per il quale vale spendersi in vita, altezza aristocratica di contro al grigio modello borghese. Con Vittoria si attuò quella rivoluzione conservatrice, di cui a destra tanto si ciancia, una scelta netta che la pose ai margini delle case editrici, assai attente al vento della letteratura appagante i gusti del dopoguerra, intrisa com’era di contaminazioni servili con la politica gramsciana del pensiero unico. Lei fu reazionaria per le sue tesi, quanto rivoluzionaria nel combattere quel ben remunerato asfittico pensiero. In più, per certi suoi aspetti, fu catalogata fascista figlia di un fascista, papà Guido aveva subito sette mesi di prigionia con gli inglesi per i suoi trascorsi di regime, lei stessa provocatoriamente lodava a gran voce a Mussolini nelle strade della Firenze partigiana. Poi c’era quell’amore con Elémire Zolla che l’aveva coinvolta nel vortice di tematiche “ inattuali “ pregne di ricerca spirituale, conducendola per mano nei meandri degli asceti e delle religioni in un tempo di aperto, voluttuoso quanto agnostico consumismo.

Il suo lavoro per anni era stato di “ operatrice culturale “ consistente in saggi e traduzioni di autori ignoti o quasi al grande pubblico. Nel ‘44 traduce Una tazza di tè più altri racconti della scrittrice neozelandese Katherine Mansfield, nel dopoguerra le Poesie del tedesco Eduard Mörike. Gli anni fiorentini furono ricchi di conoscenze “ ermetiche” col poeta Mario Luzi, Carlo Bo, il grande traduttore Leone Traverso, il caro Bui, al quale si legò con laccio dell’amore. Fu lui a suggerirle la lettura di Hugo von Hoffmansthal assurto a suo maestro di pensiero, fu il viennese a coniare, per primo, il temine Konservative Evolution ( Rivoluzione conservatrice ) nel 1927 durante una conferenza a monaco di Baviera. Vittoria partecipa e promuove un piccolo cenacolo esclusivo di poeti, critici letterari, traduttori, personalità emergenti nel panorama fiorentino cui si aggiungono musicisti conoscenti del padre. Nel 1953 si tuffa, col suo puntiglio, nel progetto di una raccolta poetica tutto al femminile Il libro delle ottanta poetesse per l’editore Casini, ma l’opera verrà cancellata dalla scaletta, ci restano solo alcune schede di preparazione del lavoro.

Il 1955 è l’anno del suo arrivo a Roma a seguito del trasferimento di papà Guido, nominato Direttore del Conservatorio di S. Cecilia e presidente del Collegio di Musica. Finalmente nel 1956, l’anno della storica nevicata sulla Città Eterna, vede la luce editoriale la sua prima raccolta di liriche Passo d’addio per le edizioni Scheiwiller, solo 11 poesie racchiuse in un libricino, il passo del titolo è quello della danza, la ballerina si accommiata dalla scena, nel caso di Vittoria da un amore impossibile, dicitur per il poeta Mario Luzi, ne riportiamo qui il testo:

Si ripiegano gli abiti estivi Si ripiegano i bianchi abiti estivi e tu discendi sulla meridiana, dolce Ottobre, e sui nidi. Trema l’ultimo canto nelle altane dove sole era l’ombra ed ombra il sole, tra gli affanni sopiti. E mentre indugia tiepida la rosa L’amara bacca già stilla il sapore dei sorridenti addii.

In verità la poetessa canta l’ineluttabile dissolversi delle cose che siano gli abiti da riporre negli armadi non diversamente dalla vita stessa, un aprirsi dell’aria al suo passaggio, seguito da un richiudersi, poi è il silenzio, “tutti viviamo di stelle spente”. La storia sentimentale con L. Traverso è in evaporazione, lui vive a Venezia, nell’Urbe incontra un nuovo amore, anche intellettuale, Elémire Zolla, uomo già sposato, un guru nella ricerca sulla Storia delle Religioni, il loro legame, inviso ai genitori, durerà quasi vent’anni. Lui la introduce nel mondo scintillante, felliniano, della dolce vita romana che pullula di personaggi i più disparati. Vittoria che è schiva di carattere, compresa nell’odissea solitaria del suo viaggio ma pur sempre attiva, curiosa, intelligente, conosce Curzio Malaparte, Ignazio Silone, Roberto Blazen, Corrado Alvaro, Guido Ceronetti e molti altri fino al sommo poeta dei Cantos Ezra Pound. Lavora alacremente fino a notte inoltrata come saggista e traduttrice; nel ’58 per l’editore Scheiwiller esce la raccolta poetica Il fiore è il nostro segno del medico poeta statunitense W.C.Williams inventore della metrica variabile a suo dire, assai più adeguata a cogliere, in versi, la vita quotidiana. Dello stesso autore curerà la traduzione anche per la raccolta Poesie nel ’61. Nel ’59 la A. Mondadori aveva pubblicata la sua traduzione del Diario di Virginia Wolff, un’antologia di appunti, saggi, riflessioni della grande scrittrice inglese morta suicida nel ’41 nelle acque del fiume Ouse con le tasche piene di sassi. Fu l’amato coniuge Leonard Wolff, nel ’53 a raccogliere e selezionare gli scritti del diario della consorte per darli poi alle stampe come fosse un testamento letterario.

Nel 1962 viene pubblicata la prima raccolta di saggi campiana dal titolo Fiaba e mistero, silloge di scritti sull’universo, da lei adorato, delle fiabe francesi facenti parte di quel gigantesco corpus che sono les Contes des Fées ( i Racconti di Fiabe ) a partire dalla Corte du Roi Soleil. L’anno che segue verga l’introduzione alla novella Storia della città di rame, estrapolata dalle Mille e una notte, famosa antologia di novelle orientali ( divenute nel tempo appunto 1.000 ) che l’aveva affascinata sin da bambina. Traduce poi Venezia salva di Simone Weil, frammenti poetici di amara riflessione su un fatto storico, la congiura spagnola del 1618 per impadronirsi della perla Venezia, metafora della tragedia umana tutte le volte che con la forza e l’inganno si cerca di uccidere la bellezza. Della stessa autrice fornisce la traduzione di due saggi pubblicati con il titolo di La Grecia e le intuizioni precristiane scritti da Simone tra il 1939 ed il 1942 su un tema d’indagine, molto caro a Vittoria, la ricerca delle tracce dell’amore di Dio nella religione come nella filosofia nell’antica Grecia. Nel ’71, a distanza di otto anni, esce una seconda raccolta di saggi Il flauto e il tappeto, riflessioni profonde sui significati nascosti nelle fiabe sia occidentali che orientali. Il mondo fantastico delle novelle può essere accumunato a quello dei miti e delle religioni, le fiabe sono dispensatrici di risposte ai nostri eterni interrogativi esistenziali, dal significato di nascere fino al morire, passando per lavoro, amore, dolore, desiderio innato della felicità. Vittoria scava nei racconti traendone insegnamenti pedagogici di ancestrale sapienza permeata da un profondo significato religioso, in fondo in Toscane le fiabe vengono chiamate novelle stesso significato di Vangelo.

Nel frattempo i genitori sono morti in sequenza nell’arco brevissimo di un anno 1964-’65. Il vuoto è enorme, si rinnovano i passi di addio, nel contempo cresce la riflessione sul significato della vita che spinge Vittoria ad una profonda adesione al cristianesimo, in assonanza col percorso ascetico di Simone Weil, stimolata, in questo, anche dalle ricerche del suo amante E. Zolla, sua era stata l’antologia I mistici pubblicata nel 1963. Vittoria nuota calma ma ben diritta verso la sua Itaca, si immerge in testi editi sempre da Rusconi in anni di piombo, scrive l’introduzione a Attesa di Dio dell’amata S. Weil, ai Racconti di un pellegrino russo e Detti e fatti dei Padri del deserto. La bellezza le si svela nel misticismo degli eremiti, nella volontà di togliere, levare, fino ad arrivare all’anima cristallina ripulita d’ ogni scoria. Frequenta l’Abbazia di S. Anselmo sull’Aventino ( piccola nota autobiografica, anch’io la frequentavo ai tempi del mio insegnamento a Testaccio, quando il Superiore era un mio collega tra i banchi ), ama il rintocco della campana che accompagna le sue ore invitandola a guardare verso il cielo. «Il suono delle campane che ordina il giorno, accompagna dolcemente la notte – questa esistenza infine, quasi di oblati in ritiro – è puro olio soave sull’anima e il corpo». Ma il Concilio Vaticano II, già nel ’65, aveva promulgato il Novus Ordo Missae definito da Vittoria “ l’apostasia liturgica del secolo ”. La perfezione millenaria dei riti era distrutta, via il latino come lingua aggregante e universale della chiesa, via la profondità celeste dei canti gregoriani, stravolta la somministrazione sacramentale, saltano sul presbiterio laici supponenti, complessini di schitarranti giovanotti, chiasso e balli, concessione evidente alla liturgia riformata dei protestanti, lei riflette mestamente: «A Sant’Anselmo è giunta la lebbra (microfoni da per tutto, parti della Messa in volgare, discussioni penose là dove era silenzio e sorriso) ed io non vi metto più piede se non per vedere il buon padre, che non può nulla se non soffrire in silenzio. […]. Nel 1969 aveva preso carta e penna per scrivere un testo al veleno contro la riforma liturgica conciliare e, al contempo, si schierò apertamente con le posizioni tradizionaliste di monsignor Lèfebvre che porteranno allo scisma con conseguente scomunica vaticana. Ricorda in proposito Alfredo Cattabiani:

Aveva fondato Una Voce, aveva attaccato il pontefice. Dal punto di vista religioso aveva una sensibilità molto tradizionale. Era un’estremista. È stata lei a curare un libro di Lefevbre […] e a spingerlo a posizioni di rottura. Direi quasi che fu Lefebvre ad essere un discepolo di Cristina.

Ma la frittata liturgica è fatta ed andrà sempre peggio per chi segue le cose di chiesa, Vittoria scende dall’Aventino fino al Pontificio Collegio Russicum di via Carlo Cattaneo, fondato nel 1929 da Pio XI per la preparazione dei seminaristi russi, adesso chiuso dai gesuiti di Bergoglio. Lì si mantiene inalterato il rito bizantino e lei ritrova quella bellezza della perfezione che tanto aveva inseguito nella vita, tutto gliela ricorda, dalla liturgia, ai canti, dai gesti meditati, ai paramenti fino alle sacre icone appena illuminate dal tremulo fiammeggiare delle candele, lì riscopre la metafisica della bellezza. Purtroppo la salute è malferma, Vittoria trascura di curarsi, è sola sulla barca o forse più semplicemente vede la luce del suo porto e freme di arrivare. La mattina del 10 gennaio 1977, per un ennesimo attacco cardiaco, l’artiglio sinistro si ferma, la farfalla lascia la crisalide per il volo, l’aria dietro di lei subito si richiude.

Come abbiamo visto Vittoria non scrisse mai racconti e romanzi, ma saggi, fiabe, traduzioni e poesie trovando nel dopoguerra un ambiente molto ostile perché era di destra, reazionaria per le sue posizioni nette non trattabili, lei tra l’altro profondamente antiborghese contro la diffusa cultura della mediocrità che uccide i cigni. Contribuì a questo isolamento politico anche il suo carattere schivo, umile, si lamentava persino d’aver scritto troppo e la sua dedizione fu agli ultimi, ai diseredati assai più che ai salotti pseudointellettuali. L’ostracismo avrà termine post mortem, negli anni ’80 quando la Adelphi pubblicherà i suoi scritti raccolti ne Gli imperdonabili edito nel 1987 e la raccolta delle sue poesie in la Tigre assenza. Chiudiamo con una sua lirica tratta dalla breve raccolta il Passo degli addii intitolata:

Moriremo lontani Moriremo lontani. Sarà molto se poserò la guancia nel tuo palmo a Capodanno; se nel mio la traccia contemplerai di un’altra migrazione. Dell’anima ben poco sappiamo. Berrà forse dai bacini delle concave notti senza passi, poserà sotto aeree piantagioni germinate dai sassi…

O signore e fratello! Ma di noi sopra una sola teca di cristallo popoli studiosi scriveranno forse, tra mille inverni: «nessun vincolo univa questi morti nella necropoli deserta».

[…] La meta cammina dunque al fianco del viaggiatore come l’Arcangelo Raffaele, custode di Tobiolo. […] In realtà egli l’ha in sè da sempre e viaggia verso il centro immobile della sua vita: lo speco vicino alla sorgente, la grotta – là dove infanzia e morte, allacciate, si confidano il loro reciproco segreto”.

Bibliografia - Cristina De Stefano, Belinda e il mostro. Vita segreta di Cristina Campo, Adelphi, Milano, 2002. - Cristina Campo, Gli imperdonabili, Adelphi, Milano, 1987. - Cristina Campo, Il flauto e il tappeto, Rusconi, Milano, 1971. - Cristina Campo,Il flauto e il tappeto, Rusconi, Milano, 1971 - Andrea Zanni, La perfezione di Cristina Campo, il Tascabile, Letterature. 2017 - Marina Zaffagnini, Campo Cristina detto Vittoria Guerrini, Storia e Memoria di Bologna - Arturo Donati, sito www.cristinacampo.it   Emanuele Casalena

L’Ars Trasmutatoria (1) – Paolo Galiano©

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Un’esposizione univoca dei principi dell’Alchimia non è impresa possibile, perché la singola operazione, il significato dei “metalli” di cui si parla e perfino la sequenza dei “colori” a cui si fa riferimento può variare da autore ad autore, in quanto ciascuno riporta nel proprio scritto quella che è la sua personale esperienza e quindi il modo in cui ha condotto il lavoro, e ciò spiega le contraddizioni apparenti che spesso si incontrano tra un trattato e l’altro, e a volte le incongruenze presenti nella stessa opera.

Si aggiunga anche un’altra considerazione che mette in evidenza la difficoltà che si ha nel cercare di spiegare il percorso alchemico: gli autori hanno celato nei modi più complessi ciò che andavano dicendo, mescolando un granello di verità con una congerie di affabulazioni che servivano a rendere invece più oscura la trattazione e dando al lettore imprudente false piste da seguire. Basti pensare a quante volte viene sottolineato che si sta parlando del nostro Mercurio e del nostro Sole, per non parlare di certe “ricette”(2) così stravaganti, che però furono seguite alla lettera dai “soffiatori di carbone” che tentavano di riprodurre con la tecnica manuale ciò che andava invece inteso sotto il suo significato anagogico, dando così origine alla Chimica, che nulla in realtà ha a che vedere con la vera Alchimia.

Per cui ogni descrizione della Via alchemica va considerata parziale ed incompleta, perché l’Alchimia, come tutte le forme di espressione dell’Ermetismo, non è ciò che un moderno ricercatore definirebbe una “scienza esatta”, ma ha origine nell’esperienza del singolo autore che ha messo per iscritto la sua propria sperimentazione e può essere conosciuta solo mediante un atto di intuizione, nel senso etimologico della parola, da parte di chi vi si applica.

Quindi l’esposizione che qui diamo delle fasi dell’Opera va intesa come una delle esposizioni possibili, atta a dare una traccia su cui il lettore volenteroso dovrà applicare il proprio ingegno per comprenderne i possibili significati.

L’Alchimia è Arte trasmutatoria per eccellenza, la quale, com’è noto, sotto i nomi dei metalli descrive le operazioni che devono trasformare le componenti dell’uomo in “materia spirituale” (ci si perdoni il gioco di parole), adoperando per questo i nomi dei metalli, il Piombo per la componente corporea, il Mercurio per quella animica o lunare, l’Oro per la spirituale, ed i rispettivi colori che ad essi fanno riferimento, il Nero, il Bianco e il Rosso; sotto un altro aspetto le tre parti che compongono l’uomo vengono dette Sale, Mercurio (o Argento vivo) e Solfo. L’esistenza di una correlazione tra i metalli e le tre componenti dell’uomo dà luogo alla spagiria fisica o “materiale” e al tempo stesso a quella che potremmo chiamare “alchimia filosofica” o “alchimia operativa”.

Il nostro corpo è la nostra terra, la nostra anima è la nostra acqua. Questo [cioè il Magistero] pertanto null’altro è se non estrarre l’acqua dalla terra e riportare la stessa sulla sua terra”: le parole di Frate Elia(3) riassumono così l’Opera alchemica.

L’alchimista, prima di intraprendere l’opera, deve prepararsi con procedimenti adeguati di concentrazione e di respirazione(4) allo scopo mettere in azione dentro di sé un principio cosciente che si mantenga tale e si vada accrescendo durante le fasi dell’Opera, da identificare con quel “Mercurio doppio” che è forza animica mercuriale controllata da una “centralità” che non è ancora Oro ma “Oro artificiale”, un “Mercurio doppio che, essendo animato da un certo Oro condotto ad un certo grado di purità (ecco la sua preparazione ‘artificiale’), si trova già a partecipare approssimativamente alla doppia natura che è mèta dell’Opera(5). È il Mercurius binus o geminus che troviamo in Basilio Valentino(6) o in alcune “ricette” alchemiche, quale quella attribuita a Frate Elia: “Recipe Mercurii bini libram 1(7).

Nell’alchimia operativa senza questo principio di centralità cosciente il rischio di fallire è alto, perché il distacco nella prima Operazione del lunare dal corporeo lascia l’individualità, ancora non completamente de-personalizzata, priva di quell’appoggio fisico che per tutta la vita ha costituito per ogni uomo il (falso) centro della sua esistenza. In questa operazione l’alchimista si trova a combattere con il Leone Rosso, la forza travolgente e cieca, “irresistibile e selvaggio istinto di autoconservazione dell’Io animale(8), che si oppone alla rottura dell’individualità (il Piombo), donde quei rischi di paralisi, follia e morte a cui alludono in vario modo i testi, generando la “grande angoscia” di cui parlano alcuni autori come Boehme(9), che descrive così questo stato di “angoscia” che accompagna la “nascita del Mercurio”: “Il Mercurio ha al principio della sua nascita tre proprietà, il tremore del terrore per l’austerità [cioè la solitudine generata dal distacco dallo stato in cui si è sempre vissuto], l’angoscia [che nasce] dalla violenta sensazione del desiderio intenso e l’espulsione nella molteplicità, cioè l’essenzialità della vita [nella sua radice principiale], poiché il desiderio [dell’autoconservazione] attrae a sé in modo intenso e l’attrazione genera il movimento cioè il tremore e ciò che si imprime è l’angoscia; ma se la libertà [dai legami del corporeo] è compresa dentro [di sé], questo viene rifiutato”.

Questa “reazione” che si genera sul piano spirituale è osservabile nella pratica dell’Alchimia “fisica” nell’atanòr dove vengono trattate le sostanze durante le operazioni alchemiche.

Dice Avicenna(10) che “il lapis noster [cioè il corpo fisico, la pietra da sgrezzare in quanto impietramento del principio spirituale nel mondo della corporeità] si divide in due parti principali, cioè una parte superiore capace di ascendere ed una parte inferiore che rimane fissa nel fondo [del vaso di distillazione]… La parte inferiore è la terra che si chiama nutrice e fermento, e la parte superiore è l’anima che vivifica tutta la pietra e la fa rivivere”.

Il corpo fisico, Piombo e Saturno, racchiude come in una prigione e fissa entro i limiti del finito i due principi che sono identificati con il Mercurio, la forza vitale che permea il corporeo e fa da tramite unificante tra esso e gli stati superiori, e il Solfo, il principio igneo e comburente che si trova anch’esso imprigionato nel fisico.

Per la sua posizione intermediatrice il Mercurio si presenta sotto un duplice aspetto e con una duplice funzione, e l’”acqua mercuriale” che da esso si estrae all’inizio dell’Opera con la solutio è anch’essa doppia, da un lato forza vitale allo stato di potenza libera e non indirizzata che come un’acqua impetuosa travolge tutte le barriere, dall’altro energia fluidica ardente che distrugge la condizione di individualità propria di ciò che è in sé finito, tensione verso il principio agente non-individuato che è Sole ed Oro.

L’acqua che si ottiene con la prima separazione è quindi Mercurio d’acqua e Mercurio di fuoco, la prima è un’acqua che scioglie e distrugge, la seconda secca ed impietra: sono due Acque, “acqua umida” e “acqua secca”, ma in ogni caso distruttive, ed è un’Acqua che “i Filosofi dicono di per sé può fare tutto, tutto scioglie, tutto congela, tutto distrugge(11), ha il potere di solvere e di coagulare e di annientare la corporeità per estrarne i principii animici lunari. È la doppia acqua di cui scrive Frate Elia nel sonetto Solvete i corpi, una vera summa dell’Opera alchemica: “Solvete i corpi in aqua a tutti dico / voi che cercate fare Sole e Luna, / delle due acque poi pigliate l’una, / qual più vi piace e fate quel ch’io dico(12).

La preparazione di questa doppia acqua di Mercurio è descritta dai testi alchemici con frasi quali “eliminare l’umidità superflua” e “irrigare la terra secca”.

Qui si scorge il simbolismo di due Acque, corrispondenti alle due regioni dell’essere e del divenire: è la forza di Vita quale appare sotto l’una condizione o l’altra(13): per fare questo il “corpo” deve morire, e ciò è adombrato nella morte fisica dell’individuo a cui si riferiscono tutte le Vie iniziatiche, è il mezzo necessario per liberare lo spirito dal corporeo dell’individualità e dare la possibilità di giungere alla ricomposizione suprema come Oro.

L’operazione per mezzo di queste due Acque è quanto viene definito come Via Umida e Via Secca: nel primo caso ci si affranca dalla servitù del corporeo liberando il principio di vita che è il Mercurio stesso, nel secondo il Fuoco presente nel Mercurio è dominato da una volontà già esercitata e diretta verso il distacco dalla materialità(14). A questo corrispondono le due possibilità che gli alchimisti definiscono come “bruciare con l’Acqua” e “lavare con il Fuoco”.

Nella Via Umida l’azione si intraprende con un distacco della componente animica dal corporeo ottenuto con il supporto della temperanza e della progressione ascetica ma con il rischio di perdere la centralità della coscienza del Sé come identità nel momento in cui si abbandona l’appoggio nel fisico al quale ogni individuo è abituato. Nella Via Secca invece si agisce purificando e potenziando le facoltà presenti nel complesso corporeo e animico per giungere al distacco del principio spirituale “incarcerato” nel mondo materiale; in questa Via la difficoltà da affrontare è nell’individualità che può essere abnormemente accresciuta e dare luogo a deviazioni che nulla hanno a che vedere con la vera Via alchemica.

Ottenuto con l’una o l’altra tecnica quello che potremmo chiamare il “primo Lapide” o “Lapide inferiore”(15), occorre perfezionarlo attraverso il processo della triturazione (cioè la frammentazione e l’espulsione di ogni residuo psichico e animico) e successivi passaggi nella “Terra”, come descrive Avicenna(16): “In seguito questo Lapide così lodato occorre tritarlo sul marmo insieme con l’elemento estratto nella prima operazione dallo stesso Lapide. E questo elemento è detto aqua lapidis. E lo si deve fare più volte, finché il Lapide discenda una seconda volta in terra in virtù del suo assottigliamento e così riceva la forza superiore per sublimazione e quella inferiore con la sua discesa, cosicché il corporeo sublimando divenga spirituale e quando sia spirituale divenga di nuovo corporeo discendendo”.

Il principio animico estratto dal corporeo viene riunito a questo e il composto formato dall’anima volatile fissata e dal corporeo fisso reso volatile vanno sottoposti ad un’opera di eliminazione delle parti ancora individualistiche “tritandoli” sul “marmo”(17), immagine del primo principio cosciente solare (esso è infatti definito nei testi alchemici coruscans, cioè splendente) che è stato realizzato con la preparazione ascetica e tecnica all’inizio dell’Opera.

Il triplice “passaggio” dal basso in alto e dall’alto in basso è necessario per trasformare la “terra”, che deve essere resa “pura e netta” come l’acqua, e l’acqua, che deve divenire a sua volta corporea come la terra, come insegna Frate Elia nel sonetto già citato: “Dell’acqua fate terra pura e netta / e della terra acqua e l’acqua terra farete”.

“Terra” priva di ogni scoria fisica e animica che possa in qualche modo interferire con il successivo passaggio all’Opera al Bianco, facendo deviare dal corretto iter l’alchimista; questo secondo alcuni autori, tra cui Evola, è uno dei significati della “coda del pavone” a cui a volte fanno riferimento i testi, cioè la comparsa di “colori” attraenti ma falsi, di tonalità dal citrino al rosso, simulanti una diretta transizione dall’Opera al Nero all’Opera al Rosso saltando il passaggio al Bianco, segno del persistere di elementi dell’originaria individualità dell’operatore che interferiscono con la prosecuzione dell’Opera(18).

Una volta compiuto il primo processo di trasmutazione e di purificazione del Sale (corpo) e del Mercurio (anima), ora non più sotto il segno del Mercurio lunare  ma del Mercurio ignificato recante al posto del simbolo della Luna quello dell’Ariete , segno di fuoco per eccellenza, si potrà procedere al passaggio seguente dell’Opera al Bianco.

Ma questo processo di transizione tra l’Opera al Nero e l’Opera al Bianco non costituisce un passaggio immediato: ancora l’alchimista deve compiere un lungo lavoro. Dice Avicenna(19) attribuendo ad Ermete queste parole: “La forza di essa [cioè dell’Acqua] sarà perfetta se sarà tutta trasformata in terra, cioè se l’acqua si converte in terra”.

Questo passaggio è così descritto(20): “Infondi l’acqua sulla sua terra… sappi che la terra deve essere nutrita dalla sua acqua prima modicamente e poi in quantità maggiore, come si usa nella nutrizione dei bambini piccoli… perché la terra non dà frutti senza un’abbondante irrigazione… finché la terra e l’acqua non siano uno e così anche il corpo. Non si arresti la tua mano nella triturazione e nell’assazione(21) finché la tua terra non sia secca e bianca, perché l’albedo nasce da questa frequente e secca triturazione e assazione… E a questo va posto attenzione, che non vi sia troppa secchezza o umidità superflua che corrompano l’opera. Dopo la calcinazione irriga la terra moderatamente, perché se molto (irrigherai) avrai un mare tempestoso e se poco brucerà diventando cenere… Nell’opera ci sono tutti i segni di qualunque cottura [decoctio]: tre sono i colori principali, nero, bianco e giallo, quando diventa nera è perfetta ma non ancora portata a termine… Finché la terra non sarà bianca, tritala con la sua acqua e calcinala più volte, perché l’azoth(22) e il fuoco imbibiscano la terra ed eliminino fin nel profondo la sua oscurità. E quanto maggiore sarà l’abluzione tanto più la terra sarà bianca”.

La “terra” quando è “nera” è perfetta ma “non ancora portata a termine”, deve diventare “bianca” perché la prima parte del lavoro sia compiuta. Per fare questo è richiesta un’esatta proporzione nel rapporto tra Acqua e Fuoco, tra la forza animica del Mercurio e lo spirito ardente del Solfo, per evitare di provocare un “mare tempestoso” per eccesso di mercurialità o un’inutile cenere per eccesso di fiamma sulfurea, e facendo attenzione, come afferma sempre Avicenna, che “prima del bianco compare il colore verde, ma prima del bianco compare anche la coda del pavone”, mentre il colore citrino “compare tra la vera rubedo e la vera albedo”.

Ciò che rimane dopo la calcinazione della materia non deve però essere gettato via ma conservato con cura perché “non devi disprezzare la cenere, perché Dio le restituisce la liquefacibilità e alla fine il Re sarà incoronato per volontà divina con la corona rossa… Infatti il composto non si ha senza matrimonio e putrefazione, e il matrimonio è unire il sottile allo spesso, e putrefare, tritare, assare e irrigare finché non siano insieme mescolati e fin quando divengano una sola cosa”. E ancora(23): “Non si deve mescolare quanto rimane sul fondo [del contenitore], ma ponilo da parte, poiché ciò che resta devi sublimarlo per ottenere un Mercurio incorrotto, fin quando tutto salga in alto”.

Si giunge così all’operazione della “moltiplicazione”, con cui si dà al Lapide la capacità di rendere partecipi delle sue proprietà gli altri “minerali”: per fare questo(24) è necessario cuocere il sublimato ottenuto nel forno di riverberazione con calore sempre più crescente, prima ignis lentus, poi modicus e poi fortissimus (le gradazioni del fuoco indicano la necessità di procedere con prudenza per non “bruciare” il composto, cioè distruggere quanto si è operato finora25), finché la materia non ascenda più essendo divenuta fissa, in quanto il Solfo e il Mercurio si sono uniti in modo perfetto. “Lo spirito e l’anima non si uniscono se non mediante il calore – scrive Avicenna - solo così il volatile diventa fisso e dall’albedo si passa alla citrinitas e infine alla rubedo”.

Questo è “il magisterium magnum per avere un eccellentissimo Elixir al bianco e al rosso(26), e il lavoro giunge al compimento con “la proiezione, il complemento all’opera, gioia desiderata ed aspettata” e si ottiene “l’Elixir, il lapide vero e completo dei Filosofi, che converte il mercurio ed ogni metallo imperfetto in Sole e Luna, di cui non potrai averne di migliore”: l’unione di Solfo e Mercurio, del Re e della Regina, genera l’Androgine o la Res Bina secondo le diverse denominazioni attribuite dai Filosofi. Il “matrimonio” tra Mercurio (il servus) e il Sale (la nigra uxor) e la nascita dell’Oro (il filius flavus) viene così descritto da Frate Elia in una delle redazioni del suo Vademecum(27) seguendo l’allegoria dell’alchimista bizantino Archelao: Servus rubicundus nigram duxit uxorem, positis in fovea et ductis in infernum flavum filium protulerunt. Satis patet quod servus rubicundus sit lapis suprascriptus, nigra uxor plumbum, fovea aliqua vas, infernus ignis, flavus filius sol descendens a predictis.

L’Opera giunge così al suo compimento: l’alchimista ha purificato le componenti fisiche e animiche del suo essere, fissando le mobili attività delle facoltà psichiche (pensiero, sentimenti, passioni, ricordi) e rendendo volatile la parte corporea col richiamare in esistenza la sua vera origine non-materiale, ha liberato il proprio centro spirituale dalla limitazione dell’individuazione facendolo capace di riconoscere il suo essere principio trascendente e realizzandlo in Oro perfetto; la successiva unione dei Tre, spirito anima e corpo fisico, nell’Uno lo conduce alla rinascita in questa vita nella forma del “Corpo di gloria” o “Corpo di resurrezione”, lo stato descritto dalla sapienza antica come “divenire un Dio”.

Nell’àmbito della Gnosi cristiana scriveva Clemente Alessandrino(28) che lo gnostico che ha percorso “i gradi della mistica ascesa attraverso una luce sua propria” giunge “nel luogo supremo del riposo alla vera dimora del Signore. Ivi egli sarà, per così dire, luce ferma e stabile in eterno, assolutamente immutabile” e condividerà il trono con “gli altri Dèi, quelli che appartengono al Primo Ordine sotto il Salvatore”, i sette Angeli Primi-Nati.

All’altro estremo del nostro emisfero nel taoismo cinese è la pratica dello shi kiai, la “soluzione del cadavere”: “Il taoista morendo non lascia dietro di sé un cadavere ma al posto di questo fa trovare una spada o una verga-scettro, e risorge in un corpo immortale, trasformazione essenziale di quello caduco(29).

Nello Zhang Zhung Nyengyud del Bön tibetano si parla di tre “corpi arcobaleno” che il praticante sperimenta in vita: nel primo si trasforma “nell’essenza dei cinque elementi, le cinque luci pure, e questa persona non manifesterà i segni della morte”, nel secondo “il corpo del praticante si dissolve nella luce dell’arcobaleno dell’essenza dei cinque elementi al momento della morte senza lasciar dietro alcun residuo fisico”, nel terzo “ il corpo del praticante si contrae rimpicciolendosi al momento della morte, così che alla fine non restano che i capelli e le unghie(30).

Prima ancora, l’Egitto dei Faraoni celava le stesse conoscenze nella forma del viaggio notturno del Sole per risorgere al mattino seguente in tutta la sua potenza: le prove superate dal Dio, i personaggi che lo accompagnano e la loro progressiva trasformazione in divinità, i “suoni” che queste emettono durante la metamorfosi, infine la gloriosa uscita della barca solare dalla bocca del Serpente altro non sono che la descrizione di un iter di palingenesi dell’iniziato(31), palingenesi che ancora nella seconda metà del XVIII secolo il principe Raimondo De Sangro perseguiva con i suoi “esperimenti” alchemici nel cuore della Napoli borbonica.

NOTE 1 Il presente articolo costituisce la revisione corretta ed ampliata del I Capitolo de Lo Speculum alchimiae di Frate Elia, Roma 2016. 2 Alcune “ricette” che troviamo negli scritti più antichi, a volte definite dagli studiosi moderni come “ricette mediche” ma che mediche non sono, possono essere comprese solo attraverso la traduzione dei componenti di cui in esse si parla nei rispettivi principi che compongono il complesso umano nella sua triplicità. 3 FRATE ELIA Speculum alchimiae, ms C.2.567 della Biblioteca Nazionale di Firenze c. 22v. Si veda la trascrizione e traduzione integrale in GALIANO La sacra arte dell’Alchimia, Roma 2018. 4 Questi esercizi preparatori non sono mai esplicitamente riportati nei trattati alchemici, almeno per l’epoca del Medioevo occidentale a cui facciamo qui riferimento, probabilmente perché essi facevano allora parte di una conoscenza comune a tutte le arti e i mestieri, alle associazione esoteriche quali le confraternite religiose come a quelle più ristrette quali le corporazioni dei muratori, degli scalpellini, ecc. 5 EVOLA La Tradizione ermetica, ed. Laterza, Bari 1948 p. 128. 6 BASILIO VALENTINO De prima materia lapidis philosophici (in Musaeum hermeticum reformatum et amplificatum, 1678, Yale Library Z92 20 pp. 424-425): Adam in balneo residebat / In quo Venus sui similem reperiebat, / Quod praeparaverat senex Draco / Cum vires suas amitteret, / Nil est, inquit Philosophus, / Quam geminus Mercurius. 7 La “ricetta” è contenuta nella Ad album recepta magistri Alphonsi et Georgii del ms Sloane 3661 di Londra. 8 EVOLA La Tradizione cit. p. 123, ma si abbia presente che “Leone Rosso” è altresì il nome di un’operazione alchemica volta a realizzare il “sangue di Leone”, esposta nell’edizione dello Splendor solis pubblicata da Regan et al. a Londra nel 1920 pp. 90 ss. sulla base dei trattati a stampa dello Splendor solis a partire dall’edizione tedesca del 1598. 9 BOEHME De signatura rerum III, 14. 10 AVICENNA De alchimia cap. IV De extractione Aquae ex Terra (in MANGET Biblioteca chemica curiosa, ed. 1702 p. 629). Ad Avicenna (Abu Ali al Husain ibn Abdallah Ibn Sina), eminente medico e studioso del X sec. nato e vissuto in Persia ma di lingua araba a causa dell’invasione musulmana, sono stati attribuiti testi alchemici tra cui il De alchimia, o più esattamente Liber Aboali Abincinae de anima in arte alchimiae (Abincina è corruzione del nome di Avicenna). 11 AVICENNA ibidem. 12 Il sonetto lo riportiamo nella redazione del ms Riccardiano 946 c. 10a della Biblioteca Nazionale di Firenze, XV secolo. 13 EVOLA La Tradizione ermetica cit. p. 116. 14 Facciamo riferimento a quanto scrive EVOLA in La Tradizione ermetica cit. pp. 126 ss. 15 FRATE ELIA parla di una “Pietra superiore” nella Quarta operazione dello Speculum che conduce alla preparazione dell’Oro dei Filosofi. 16 AVICENNA ibidem (si confronti con la Tabula smaragdina: Ascendit a terra in coelum, iterumque descendit in terram, et recipit vim superiorum et inferiorum). 17 Il “marmo” è secondo PERNETY Dictionnaire mytho-hermétique, Genova 1979, s. v. la materia che “tritura, divide ed attenua l’oro dei Filosofi”, chiamato anche Saturnia vegetabile, la quale è “della razza di Saturno”, “uno dei principali ingredienti del magistero dei Filosofi”, detta vegetabile “perché durante le operazioni vegeta e racchiude il frutto dell’oro che produrrà a suo tempo”. 18 EVOLA La Tradizione ermetica cit. p. 141. L’ Autore peraltro considera (p. 151) la possibilità di una “via che si potrebbe chiamare ultrasecca, inquantochè essa condurrebbe direttamente all’ultima fase, al ‘rosso’, saltando ogni fase intermedia” in rapporto con l’uso di tecniche sessuali da parte di soggetti altamente qualificati. Il concetto di una via alternativa si ritrova nell’egiziano Libro di ciò che è nell’Amduat, ove nell’Ora Undicesima, quasi al completamento dell’operazione di rivivificazione di Râ, si parla della “sconosciuta e sacra via di Sais” (città sacra alla Dèa guerriera Neith) che è “presso la seconda porta delle tenebre”, il che potrebbe forse indicare che a questo punto della realizzazione si apre una duplice possibilità, ma non esplicitata con maggior precisione (rimandiamo a GALIANO La via iniziatica dei Faraoni, Roma 2016, p. 108).. 19 AVICENNA De alchimia cap. VI De modo sublimationis Terrae. Modo volo tibi narrare quod est Sublimatio (MANGET cit. p. 632). 20 AVICENNA De alchimia cap. V De Fundatione seu etiam Fusione Aquae super terram suam (MANGET pp. 629-630). 21 PERNETY Dictionnaire cit. s. v. definisce assazione “l’azione del digerire, cuocere, sublimare, volatilizzare, fissare la materia dell’Opera”. Secondo Arnaldo da Villanova assazione e contrizione (riduzione in polvere per azione del fuoco) sono da considerare sinonimi: per contritionem et assationem, quae idem sunt (in MANGET p. 694). 22 Azoth è il nome dato dagli alchimisti al Mercurio purificato, il “Mercurio dei Filosofi”, 23 AVICENNA De alchimia cap. VI De modo sublimationis Terrae (MANGET p. 631). 24 AVICENNA ibidem. 25 Il regime del fuoco alchemico è fondamentale nelle operazioni alchemiche, tanto che FRATE ELIA scrive nello Speculum alchimiae: “Tutta la perfezione consiste nel regime del fuoco, e lì si trova tutto l’arcano” (ms C.2.567 della Biblioteca Nazionale di Firenze c. 4r, scritto nel 1491). Alcuni trattati sono dedicati espressamente all’insegnamento di come realizzare i quattro gradi di fuoco in relazione alle due principali operazioni (si veda ad esempio il testo di Frate Elia Il Magistero della Pietra Filosofica, di prossima pubblicazione). 26 AVICENNA De alchimia cap. VIII De modo projiciendi medicina et tingendi quodlibet Metallum in Solem et Lunam (MANGET p. 632). 27 FRATE ELIA Vademecum, ms Pal. Lat. 1267 della Biblioteca Apostolica Vaticana c. 17va del XIV secolo. 28 CLEMENTE ALESSANDRINO Stromata VII 10, 56, 6 e 10, 57, 1-5; per maggiore conoscenza dell’argomento si veda GALIANO Gnosi cristiana e gnosticismo eretico, ed. Simmetria, Roma 2016. 29 EVOLA La metafisica del sesso, Roma 1958, p. 316. I lettori delle opere di Meyrink avranno riconosciuto il tema del suo romanzo Il Domenicano Bianco. 30 LOPÖN TENZIN NAMDAK RIMPOCHE Masters of the Zhang Zhung Nyengyud: Pith Instructions from the Experiential Transmission of Bönpo Dzogchen, Heritage Publishers, New Delhi 2010. 31 Rimandiamo per un’analisi del Libro di ciò che è nell’Amduat a GALIANO La Via iniziatica dei Faraoni cit.

  Paolo Galiano

Decima Flottiglia M.A.S.: propaganda per la riscossa (VI parte) – Gianluca Padovan

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«Mai come oggi è vero che è necessario vincere, ma è più necessario combattere»

Reparto Stampa Xa Flottiglia M.A.S., Noi, della «Decima», 1944

    S.L.C. all’attacco.

Con l’entrata in guerra del Regno d’Italia (10 giugno 1940) ci si rende conto che il mezzo “avvicinatore” idoneo per gli attacchi più arditi, ovvero condotti con l’S.L.C. (Siluro a Lenta Corsa) denominato Maiale, rimane comunque il sommergibile. Alcuni battelli opportunamente alleggeriti verranno quindi dotati di contenitori cilindrici, stagni, resistenti alla pressione e fissati in coperta: in essi verranno ricoverati i Maiali da portare in prossimità dell’obiettivo.

Nel 1942 la Xa Flottiglia M.A.S. utilizza i sommergibili anche per il trasporto dei nuotatori d’assalto Gamma e l’anno seguente pure per i barchini ridotti M.T.R.; dopo l’8 settembre 1943 non ha più la possibilità d’impiegare i sommergibili avvicinatori.

  Dei sommergibili avvicinatori si possono ricordare quelli persi in missione di guerra: - Iride, affondato il 21 agosto 1940; - Gondar, affondato il 30 settembre 1940; - Scirè, affondato il 10 agosto 1942;

- Leonardo da Vinci, sommergibile oceanico adattato al trasporto di un minisommergibile, è affondato il 25 maggio 1943.

  Di altri, ecco le vicende:

- Aradam, nel settembre del 1943 stava per essere trasformato in “avvicinatore”, ma è autoaffondato e poi recuperato dai Tedeschi;

- Ambra, è modificato per il trasporto dei mezzi d’assalto nei primi mesi del 1942, è autoaffondato dopo l’8 settembre e successivamente recuperato dai Tedeschi;

- Murena e Sparide, varati nella prima metà del 1943, sono autoaffondati dopo l’8 settembre e poi anch’essi recuperati.

- Grongo, varato il 6 maggio 1943, è sabotato l’8 settembre e poi recuperato dai Tedeschi.  

Si può inoltre sottolineare che Grongo, Murena e Sparide vengono infine distrutti nel bombardamento del porto di Genova nel settembre 1944.

Per quanto riguarda il solo Iride, si ricorda che venne inviato per avvicinare gli S.L.C. al porto di Alessandria d’Egitto nell’ambito dell’“Operazione G.A.1”: «L’operazione era stata ordinata da Cavagnari e da De Courten quando il smg. “Iride” non aveva ancora i cilindri installati a bordo e quando l’organizzazione interna al gruppo dei Siluri a Lenta Corsa era ancora in fase sperimentale. Fu certamente un tentativo prematuro, per quanto riguardava l’organizzazione alla base e fu altrettanto certamente un tentativo intempestivo, in quanto gli obiettivi erano praticamente ignoti o indeterminati, come si può agevolmente constatare dal punto 6) dell’“Ordine particolare per la missione G.A.” inviato da Supermarina al com.te Giorgini in data 10 agosto. Inoltre, la scelta del Golfo di Bomba come base di partenza era stata veramente infelice, essendo quel Golfo esposto ai frequenti sorvoli compiuti dall’aviazione britannica. Come primo tentativo era stato un vero disastro: il smg. “Iride” perduto, la motonave “Monte Gargano” affondata, gran parte degli ufficiali e dell’equipaggio scomparsa» (Sergio Nesi, Junio Valerio Borghese un Principe un Comandante un Italiano, Editrice Lo Scarabeo, Bologna 2004, pp. 118-119).

Sempre nel corso della guerra la Xa Flottiglia M.A.S. crea un particolare avvicinatore, l’Autocolonna: insieme di autoveicoli terrestri in dotazione alla Regia Marina e al Regio Esercito pensati e adattati non solamente al trasporto dei mezzi di assalto, ma anche per costituire una vera e propria base logistica e operativa mobile.

Tornando ai mezzi d’assalto navali, durante la guerra «I compiti assegnati dallo Stato Maggiore alla 1a Flottiglia M.A.S. erano, in sintesi: “Affondare-danneggiare naviglio nemico da guerra e mercantile allo scopo di: - far evoluire in senso favorevole la relatività delle forze navali; - concorrere al contrasto al traffico nemico» (Erminio Bagnasco, Marco Spertini, I mezzi d’assalto della Xa Flottiglia MAS 1940-1945, Ermanno Albertelli Editore, terza ristampa, Parma 1997, p. 20).

    Una faccia della medaglia.

I mezzi d’assalto pronti a combattere a inizio del conflitto sono pochi e nei primi mesi si registrano soprattutto insuccessi, con l’aggravante di mettere l’avversario in allarme. È utile la seguente specifica: «la cattura di un “barchino” inesploso mise gli Inglesi, già sull’avviso per quanto concerneva i mezzi subacquei fin dai tempi dell’affondamento del Gondar [settembre 1940. N.d.A.], a parte dei segreti dei mezzi d’assalto italiani. Da quel momento fu possibile solo realizzare qualche sorpresa tattica – e questo avvenne in più di una occasione e con buoni risultati – ma la sorpresa strategica quale era stata ipotizzata dagli ideatori dei mezzi ormai era sfumata. In pratica la Marina italiana aveva perso una grande e abbastanza facile occasione. Tutti i successi in seguito ottenuti sarebbero stati conseguiti con molto più sforzo e a prezzo di maggiori perdite» (Erminio Bagnasco, Marco Spertini, I mezzi d’assalto della Xa Flottiglia MAS 1940-1945, Ermanno Albertelli Editore, terza ristampa, Parma 1997, p. 19).

Se le macchine seguono un loro “problematico” iter progettuale-costruttivo e applicativo, di più rapida messa in opera sono i Nuotatori d’Assalto. Si tratta di sommozzatori e “Uomini Gamma”, ovvero Guastatori muniti di ordigni esplosivi: Mignatta o Cimice (carica esplosiva applicabile alle carene delle navi), Bauletto esplosivo (carica esplosiva derivata dal modello precedente).

Utilmente si ricorda, con le parole di Spertini e Bagnasco, che «Questa specialità di operatori subacquei della Xa Flottiglia Mas trae le sue origini dagli esperimenti condotti presso il 1° Gruppo Sommergibili di La Spezia del 1935 per la fuoriuscita di battelli della classe “H” di palombari muniti di autorespiratori e dagli allenamenti di marciatori sul fondo che trasportavano sulle spalle una carica (allora chiamata bomba) da applicare alla carena di unità nemiche alla fonda» (Erminio Bagnasco, Marco Spertini, I mezzi d’assalto della Xa Flottiglia MAS 1940-1945, Ermanno Albertelli Editore, terza ristampa, Parma 1997, p. 166).

La prima operazione condotta da dodici “Gamma” avviene nel 1942 e nella rada di Gibilterra quattro piroscafi sono danneggiati in modo grave. I Guastatori combatteranno per tutta la durata della guerra e dopo la resa del 1943 tanto con gli angloamericani quanto con la Repubblica Sociale Italiana.

Non si dimentichi che fino all’incirca alla metà del 1942 assieme agli “Uomini Gamma”, nella Scuola Sommozzatori di Livorno, erano addestrati anche gli “N”, ovvero i Nuotatori dell’omonimo Battaglione. Da costoro e dall’accorpamento con i “P”, ovvero i Paracadutisti, prenderà vita il reparto speciale del Battaglione “San Marco”: «Come la Xa Flottiglia Mas, sino all’armistizio i reparti “N.P.” dipendevano da “Generalmas”. Successivamente i reparti “N.P.” ricostituiti al Sud continuarono a dipendere dal Reggimento “San Marco”; al Nord invece gli “N.P.” entrarono a far parte della “Xa Mas”» (Ibidem, p. 171).

Quanto esposto in modo riassuntivo è sostanzialmente quello che la Marina Militare Italiana (sia Regia sia Repubblicana, come si vedrà in seguito) mette “in campo” nell’ambito dei mezzi d’assalto nel corso della Seconda Guerra Mondiale, dal 10 giugno 1940 al 25 aprile 1945. Si hanno quindi: mezzi di superficie, mezzi subacquei, ordigni trasportati da nuotatori e sommozzatori, mezzi avvicinatori.

    La flotta subacquea della Regia Marina Italiana.

Per quanto concerne la consistenza della forza subacquea costituita dai sommergibili si può ricordare che all’inizio della guerra la Regia Marina Italiana possedeva una flotta subacquea di tutto rispetto, composta da ben 115 battelli e inferiore solo a quella sovietica per numero. Difatti la flotta della Marina Militare dell’URSS aveva in campo 160 battelli, ma diversi dei quali di piccole dimensioni.

In pratica, almeno “sulla carta”, il 10 giugno 1940 risultano in servizio n. 38 sommergibili oceanici e n. 77 costieri, per quanto n. 2 siano solo “quasi pronti” e si tratta dei sommergibili oceanici Bianchi e Torelli. A questi vanno aggiunti n. 2 sommergibili oceanici, il Baracca e il Malaspina in fase di allestimento e n. 12 sommergibili in costruzione (n. 6 costieri e n. 6 tascabili).

Nel corso del conflitto vengono costruiti nuovi sommergibili, altri sono acquisiti, come ad esempio n. 2 battelli ex jugoslavi, altri sono perduti, altri ancora radiati.

Alla data del 2 agosto 1943 la situazione dei battelli italiani è differente, come si può vedere nel documento intestato supermarina e pubblicato nel recente lavoro di Francesco Mattesini: «Segreto – Riservato personale // pro memoria n. 35» (Francesco Mattesini, La Marina e l’8 settembre. II Tomo: Documenti, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma 2002, p. 12).

Al punto “I° composizione, dislocazione ed efficienza della flotta”, sottopunto “1. C”, si legge: «Sommergibili // Su 115 esistenti al principio della guerra e 39 entrati in servizio in seguito, ne abbiamo perduti 84 e radiati 10 e ne restano 60. Di essi, sono in Mediterraneo 54, dei quali soltanto 23 atti ad operare. In Atlantico, su 32 sommergibili inviati ne abbiamo perduti 16 e ritirati 10, ne restano 6 adibiti al trasporto di merci preziose da e per l’Estremo Oriente. Sono in corso di armamento 9 sommergibili dati dalla Marina germanica per sostituire quelli impiegati nel servizio di trasporto» (Ibidem, p. 13).

Nel medesimo documento, al sottopunto “1. D”, si legge a proposito dei M.A.S.: «Possediamo 70 unità che però, suddivise necessariamente tra Sardegna, Sicilia, Jonio, Adriatico, Egeo e soggette come sono a forte logoramento, costituiscono in ciascuna zona complessi molto ridotti e capaci solo di azioni di disturbo» (Ivi).

Al sottopunto “5. Flottiglie M.A.S.”, si legge: «Le Flottiglie MAS trovano in questa stagione l’epoca propizia per il loro impiego. Infatti anche il nemico se ne serve largamente. Ma per costituire un contrasto veramente efficace alle operazioni avversarie dovrebbero, a causa dell’enorme sviluppo costiero della regione italiana, essere numerosissime. Noi abbiamo fatto tutto lo sforzo costruttivo di cui eravamo capaci, ma la misura del possibile è data dalla costruzione dei motori, nella quale queste piccole unità hanno dovuto dividere le risorse del Paese con altre piccole unità altrettanto essenziali (motozattere e dragamine). In sintesi le Flottiglie M.A.S. continueranno ad agire finché il tempo lo consentirà, ma la loro azione non può avere gran peso» (Ibidem, pp. 16-17).

Sorvolando sul “fare tutto il possibile”, un interessante lavoro viene da Piero Baroni con il libro La fabbrica della sconfitta dove si parla d’industria bellica, di occasioni mancate e della “palude scientifica” italiana: «Uno dei mali d’origine dell’industria strategica italiana era la matrice straniera. Questa si era virtualmente perpetuata con l’immissione di capitali ritenuti indispensabili nell’acquisizione delle materie prime a prezzi allora definiti “sopportabili” (periodo fine XIX secolo – inizi XX). Anche se si corre il rischio di una ripetizione, si intende qui sottolineare lo stato di sudditanza, un tempo definita soggezione, dell’industria italiana (e in genere dei militari di carriera) nei confronti di tutto ciò che avesse un sigillo britannico o una provenienza d’oltre Manica» (Piero Baroni, La fabbrica della sconfitta, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 1997, pp. 57-58). (1)

In ultimo, a proposito dello «spirito degli equipaggi delle navi e dei reparti a terra», si annota al “IX, 5”: «Lo spirito dei M.A.S. e dei mezzi d’assalto è naturalmente quello che si può aspettare da personale particolarmente scelto» (Francesco Mattesini, La Marina e l’8 settembre. II Tomo: Documenti, op. cit., p. 29).

Alla data del 7 settembre 1943 i sommergibili in servizio sono (o dovrebbero essere) n. 77, in ripristino e in costruzione n. 49. A seguito della resa n. 12 battelli sono autoaffondati e alcuni, successivamente, recuperati; numerosi sommergibili sono presi in carico dalla Marina Tedesca unitamente a quelli ancora nei cantieri; n. 23 sommergibili “passano di bandiera” andando a combattere con gli angloamericani.

    L’altra faccia della medaglia.

Necessita ora un breve inciso: con il nome Supermarina è convenzionalmente indicato il Comando Superiore della Regia Marina Militare Italiana, entrato ufficialmente in servizio il 1° giugno 1940. Ha il compito di dirigere a livello strategico ogni operazione bellica navale sia nel mare Mediterraneo sia al di fuori di esso. Analogamente si creano Superesercito e Superaereo.

Supermarina rimane operativa a Roma fino al 12 settembre 1943, quindi paradossalmente fin dopo la firma (3 settembre) e la proclamazione (8 settembre) del così detto “armistizio”, così denominato nella corrente storiografia italiana, ma che è da chiamarsi correttamente: “resa incondizionata” (come si vedrà nei prossimi contributi).

Successivamente Supermarina riprende le proprie funzioni a Brindisi, dove si trasferiscono il Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, capo del Governo, e il Ministro e Capo di Stato Maggiore della Regia Marina Ammiraglio Raffaele de Courten. In ottemperanza alla resa si stipula l’accordo affinché la flotta italiana continui a combattere, ma assieme agli angloamericani.

In un documento di Supermarina datato 8 settembre 1943 e indicato come «promemoria» si legge che tre anni di guerra hanno provato la Marina Italiana e seguono le proposte, più che le indicazioni, per la consegna delle navi sia da guerra sia mercantili.

Alla fine del testo principale, tra parentesi, ecco che cosa è stato scritto: «Non è inopportuno rilevare che la Flotta italiana costituirebbe un apporto di enorme importanza per la guerra nel Pacifico: basti osservare che gli Anglo-americani possiedono in tutto solo sei corazzate simili per grandezza, potenza e velocità alle nostre tre “Roma” e che queste navi in tanto valgono in quanto sono armate da chi le conosce a fondo, trattandosi di organismi estremamente complessi. È probabilmente per questo che nell’ultimo periodo esse sono state ostentatamente risparmiate. Ed è quindi su questo c che bisogna ‘far leva. È certo che, se fossero costrette a condizioni umilianti, le navi, nonostante ogni ordine in contrario, si autoaffonderebbero» (Ibidem, p. 258-259).

Per quanto riguarda le «tre “Roma”», si tratta delle navi da battaglia della Classe Littorio, della 9a Divisione Navale: Littorio (ribattezzata Italia il 30 luglio 1943), Vittorio Veneto e Roma. Le prime due non sono impiegate in azione di guerra da parte degli angloamericani: pare si temesse una “pericolosa ribellione” da parte degli equipaggi. La Roma è invece affondata da un attacco di aeroplani tedeschi il 9 settembre 1943. L’ultima nave della Classe Littorio, la Impero, non è ultimata.

A parte un errore di battitura e una omessa ‘virgoletta’, il testo, come si suole dire, parla da solo: Supermarina ha “ostentatamente risparmiato” almeno le tre migliori navi da guerra italiane. Il fatto dovrebbe indurre chiunque a più attente riflessioni sulla guerra italiana, soprattutto da parte degli storici dell’odierna Marina.

Il personale navale ha quindi l’obbligo di cessare le ostilità e considerare i combattenti Tedeschi come avversari, ma gli ordini non sono diramati a tutti e quelli trasmessi sono spesso poco chiari, aleatori. In ogni caso i mezzi navali hanno l’ordine di consegnarsi agli angloamericani; in alternativa possono autoaffondarsi. Non tutti eseguono l’ordine, alcuni si rifiutano di consegnare le proprie navi, in altri casi i marinai insorgono; in ogni caso molte navi saranno attaccate dai Tedeschi.

Nei mesi seguenti in Italia si avranno due Marine: la Regia Marina al fianco degli ex avversari, e la Marina Repubblicana, a seguito della costituzione della Repubblica Sociale Italiana, al fianco degli iniziali alleati Tedeschi.

Dopo la resa, in seno alla Regia Marina, l’attività dei mezzi d’assalto prosegue nel reparto denominato “Mariassalto” e il nucleo dei Nuotatori Paracadutisti, ricostituito agli inizi del 1944, è aggregato alla Va Armata statunitense. (2)

 
Conoscere la Storia.
Conoscere la Storia passata è utile perché consente di comprendere la Storia presente e prevedere il corso della Storia futura.
Difatti, perché negarlo, la Storia tende a ripetersi.
Ma se già nelle scuole primarie e medie e fino all’università compresa la Storia è distorta, artefatta a beneficio (o meglio a uso e consumo) di chi effettivamente detiene il potere, si negano al Popolo le possibilità succitate. Pertanto si è governati, o meglio si è incanalati, verso lidi in cui è più facile tenerci soggiogati prima e cancellati come etnìa poi.
Ricordare le gesta della Xa Flottiglia M.A.S. serve a portare la mente a quegli anni. Serve a capire in quale contesto storico, politico ed economico quelle gesta si siano delineate e compiute. Serve a capire che qualcheduno non si arrese nemmeno all’evidenza dei fatti e si batté per lasciare un segno, un punto di riferimento indelebile perché comunque e in ogni caso la guerra sarebbe continuata.
 
 
 
Note
 
1) Un punto per tutti riguarda il “radar”: «Nel 1938 la Direzione Armi Navali del ministero della Marina avviò contatti con l’industria milanese SARAR (Società anonima fabbricazione apparecchi radiofonici) per la realizzazione di un apparato localizzatore (radar), prototipo cui far seguire, dopo i necessari collaudi, la produzione in serie. Nessun limite di spesa! La SAFAR tramite i suoi tecnici dapprima oppose pesanti e pretestuose obiezioni nel merito del progetto, in seguito trascinò le trattative per mesi e agli inizi del 1939 declinò l’offerta a causa della scarsità del personale tecnico idoneo, già impegnato, disse, in altre produzioni militarie civili. In realtà la SAFAR aveva ostacolato il progetto della Marina intendendo imporre un suo progetto di radiolocalizzatore. Un “gioco” industriale costato molto più dei dodici mesi sprecati nello scambio di corrispondenza protocollata e segreta e in conferenze tecniche dominate da dialoghi tra sordi» (Piero Baroni, La fabbrica della sconfitta, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 1997, p. 59).
Inoltre: «La SAFAR e la Allocchio & Bacchini litigarono sino al novembre 1942 per spartirsi le ricchissime commesse ministeriali, bloccando in tal modo la produzione del radar, compromettendo ulteriormente l’attività concettualmente già asfittica della regia marina. Nel settembre 1942 si rese disponibile un rivelatore a raggi catodici per la direzione del tiro navale (non certamente brillante per gran parte delle artiglierie delle navi italiane a causa di difetti tecnici nella produzione di proiettili e di cariche da lancio), ma l’idea dell’apparato risaliva al 1938!» (Ibidem, p. 62).
 
2) Nel libro Uomini rana troviamo la prefazione di Arnaldo Cappellini, il quale sottolinea alcuni passaggi poco corretti e sostanzialmente tendenziosi degli autori inglesi scrivendo: «L’Autore dimostra di non aver ben analizzata la genesi etica dei mezzi d’assalto; così come, di fronte agli inimmaginabili risultati raggiunti dagli italiani, considera i mezzi e la tecnica inglesi, derivati esclusivamente dalla X Mas, perfezionamenti e superamenti di valore tale da stabilire un oscuramento di quegli inizi che egli considera rudimentali» (Arnaldo Cappellini, Prefazione, in T. J. Waldron, J. Gleeson, Uomini rana, Baldini & Castoldi Editori, Milano s.d., p. 6).
Per quanto concerne il “contributo” dato allo sviluppo delle unità d’assalto straniere si riporta utilmente quanto segue: «La squadra inglese di antisabotatori subacquei aveva già raggiunto gli otto elementi, ma con la caduta dell’Italia gli attacchi cessarono, e Crabb fu inviato in Italia a radunare gli appartenenti alla X Flottiglia che aveva fornito il personale per i siluri e i nuotatori. Doveva anche appoggiare le squadre portuali – squadre “P” – nello sgombero di mine dai porti di recente cattura ed attivare un servizio di sommozzatori simile a quello che aveva funzionato a Gibilterra. Non ebbe da cercar molto per trovare gli ex-appartenenti a quella formazione italiana: essi seppero del suo arrivo e gli si presentarono. Egli fece la conoscenza della maggior parte di coloro che avevano attaccato Gibilterra, ed ebbero davvero molte cose da raccontarsi. Tutti risero quando un italiano narrò che, dopo un attacco notturno, e travestito da venditore di arance, egli era rimasto a guardare Crabb andar sotto una nave e rimuovere una bomba “a patella” che lui stesso aveva collocata poche ore prima. Si presentò anche una signora, offrendosi come segretaria. Spiegò che suo marito era stato ucciso a Gibilterra e che desiderava mantenersi in contatto con gli uomini della tempra del suo consorte. Era la signora Visentini, e gli fece da segretaria siano alla cessazione delle ostilità in Europa (…). Crabb organizzò quegli ex-nemici in squadre di spazzatori di mine umani i quali, strisciando sul fondo dei porti, cercavano mine inesplose (…). A Venezia, assunse il comando generale della sezione siluri a due, e prese sotto la propria autorità gli uomini più importanti, tra i quali il comandante Belloni, un signore anziano e bonaccione che aveva inventato la tecnica del gruppo “Gamma”, e nel quale doveva essere riposta fiducia per aver dato vita a questo nuovo tipo di azione bellica; Eugenio Wolk, capo del gruppo nuotatori, e il dottor Moscatelli, chirurgo di Marina, che era andato a prendere il comando della cisterna Olterra nel porto di Algesiras. Per quattordici mesi Crabb lavorò con Belloni su nuovi tipi di apparecchi di respirazione e altre diavolerie subacquee, ricuperando durante quel periodo da nascondigli profondi sette dei più moderni siluri umani e rimettendoli in perfette condizioni. Gli Italiani erano ansiosi di formare una flottiglia per operare contro i giapponesi, ma il crollo del Giappone rese inutile la cosa» (T. J. Waldron, J. Gleeson, Uomini rana, Baldini & Castoldi Editori, Milano s.d., pp. 50-51).

Missione dell’India – Alexandre Saint-Yves d’Alveydre

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Nota della redazione

René Guénon nel primo capitolo della sua opera Il Re del Mondo (Adelphi Edizioni, Milano, 1977) fa riferimento a due libri rispettivamente di Alexandre Saint-Yves d’Alveydre (Mission de l’Inde en Europe. Mission de l’Europe en Asie, Librairie Dorbon Ainé, Paris, 1910) e di Ferdinand Ossendowski (Beasts, Men and Gods, E.P. Dutton & Company, New York, 1922) nei quali si parla del misterioso regno sotterraneo di Agarttha. Per motivi fondamentalmente di carattere storico e documentale riteniamo possa essere interessante la pubblicazione di due estratti di queste opere. I testi, che trattano il tema con la mentalità propria dell’epoca (a cavallo tra la fine del secolo XIX e l’inizio del XX), insieme a elementi obiettivi di indubbio interesse non mancano di ingenuità in alcune descrizioni, riflesso delle correnti di pensiero occultiste molto presenti nelle pubblicazioni dell’epoca.

Alexandre Saint-Yves d’Alveydre

Capitolo I

Dov’è l’Agarttha?

Dov’è l’Agarttha? In quale luogo preciso si trova? Per quale strada, attraverso quali popoli occorre procedere per penetrarvi? A questa domanda, che non mancheranno di porsi i diplomatici e i militari, non conviene che io risponda più di quanto sto per fare, fintantoché non sia realizzata, o perlomeno tracciata, l’intesa sinarchica [1]. Ma, giacché so che nelle loro reciprohe competizioni per l’Asia tutta, certe potenze rasentano, senza accorgersene, questo territorio sacro, come del resto so che, nel momento di un possibile conflitto, le loro truppe dovrebbero necessariamente o passarvi, o costeggiarlo, è per un senso di umanità nei confronti di questi popoli europei come per la stessa Agarttha, che non mi faccio scrupolo di proseguire nella divulgazione che ho cominciato. Sulla superficie e nelle viscere della terra la reale estensione dell’Agarttha sfida la morsa e la costrizione della profanazione e della violenza. Senza parlare dell’America, i cui sconosciuti sottosuoli le appartennero in una lontanissima antichità, soltanto in Asia, pressappoco mezzo miliardo di uomini sono più o meno al corrente della sua esistenza e della sua grandezza. Ma non si troverà tra questi un traditore che indichi la posizione esatta in cui si trovano il suo Consiglio di Dio e il suo Consiglio degli Dei, la sua testa pontificale e il suo cuore giuridico. Se ciò nondimeno avvenisse, e se essa fosse invasa malgrado i suoi numerosi e terribili difensori, ogni esercito di conquista, foss’anche di un milione di uomini, vedrebbe rinnovarsi la risposta tonitruante del tempio di Delfi alle innumerevoli orde dei satrapi [2] persiani. Chiamando in loro soccorso le Potenze cosmiche della Terra e del Cielo, anche sconfitti, i Templari e i Confederati dell’Agarttha potrebbero alla bisogna far esplodere una parte del Pianeta, e frantumare con un cataclisma sia i profanatori armati sia le loro patrie d’origine. È per queste cause scientifiche che la parte centrale di questa santa terra non è mai stata profanata malgrado il flusso e il riflusso, lo scontro e il reciproco annientamento degli imperi militari, da Babilonia al regno turanico dell’Alta Tartaria, da Susa a Pella, da Alessandria a Roma. Prima della spedizione di Ram e del predominio della Razza bianca in Asia, la Metropoli manavica aveva per centro Ayodhya [3], la Città solare. Le biblioteche dei Cicli anteriori alla nostra era Gettando uno sguardo sul vero confine tra l’Europa e l’Asia, il nostro Antenato celtico vi fissò, nei siti più splendidi della Terra, il Sacro Collegio alla testa del quale l’iniziazione l’aveva fatto pervenire.

Le biblioteche precedenti rimasero inalterate, grazie alla sua stessa scienza, malgrado tutte le forme intellettuali e sociali che realizzò la sua luminosa iniziativa. L’Agarttha dopo Ram, i suoi successivi spostamenti; i ventidue templi Più di tremila anni dopo Ram, e a partire dallo scisma di Irshu, il centro universitario della Sinarchia, dell’Agnello e dell’Ariete subì un primo spostamento, che è meglio non precisare oltre. Infine, circa quattordici secoli dopo Irshu, poco dopo Sakya Muni [4], un altro cambiamento di sede fu deciso. Basti ai miei lettori sapere che, in certe regioni dell’Himalaya, tra i ventidue templi rappresentanti i ventidue Arcani di Ermete e le ventidue lettere di certi alfabeti sacri, l’Agarttha forma lo Zero mistico, l’introvabile. Lo Zero, vale a dire Tutto o Niente, tutto mediante l’Unità armonica, niente senza di essa, tutto mediante la Sinarchia, niente mediante l’Anarchia. Il territorio sacro dell’Agarttha forma ancora una sinarchia completa Il territorio sacro dell’Agarttha è indipendente, sinarchicamente organizzato e composto da una popolazione che ammonta a circa venti milioni di anime. La costituzione della Famiglia, con eguaglianza dei sessi nel focolare domestico, l’organizzazione del comune, del cantone e delle circoscrizioni che vanno dalla Provincia al Governo centrale, conservano ancora in tutta la loro purezza l’impronta del genio celtico di Ram innestato sulla divina saggezza delle istituzioni di Manu [5]. Non entrerò qui nei dettagli che si trovano in sovrabbondanza esposti altrove. In tutte le Società umane è la statistica dei crimini, la miseria e la prostituzione che danno la prova dei loro vizi organici. Non si conosce ad Agarttha alcuno dei nostri orrendi sistemi giudiziari o penitenziari: nessuna prigione. La pena di morte non vi è applicata. La polizia è costituita dai padri di famiglia. I delitti sono deferiti agli iniziati, ai pandit di servizio. Il loro arbitrato di pace, sempre spontaneamente invocato dalle parti stesse, evita nella quasi totalità dei casi un appello alle diverse corti di giustizia, giacche la riparazione volontaria segue immediatamente al danno.

Ho bisogno di dire che tutte le vergogne e tutte le piaghe sociali delle civiltà non sinarchiche, miseria delle masse, prostituzione, alcolismo, individualismo feroce in alto, spirito sovversivo in basso, incurie di ogni genere, sono sconosciute in questa antica Sinarchia? I rajah indipendenti, preposti alle differenti circoscrizioni del suolo sacro, sono iniziati di alto grado. Questi re presiedono la Corte suprema di Giustizia, e il loro arbitrato istituito al di sopra delle repubbliche cantonali conserva ancora il carattere di magistero che ho così lungamente analizzato nella Missione degli Ebrei [6]. Confederazione degli anfizioni [7] aghartthiani; pericolo di attaccarli Intorno al territorio sacro e alla sua popolazione già tanto considerevole, si estende una confederazione sinarchica di popoli, il cui totale ammonta a più di quaranta milioni di anime. Con questo scudo avrebbero a che fare come prima cosa i conquistatori europei, che invano chiederebbero alla forza ciò che solo un’alleanza leale potrebbe dare loro. E se pure riuscissero a infrangere questo bastione vivente, si troverebbero faccia a faccia, come ho già detto, con alcune tragiche sorprese ben più colossali di quelle del tempio di Delfi, e con soldati che risorgono senza posa, legati tra loro come quelli delle Termopili, certi come quelli di ritrovarsi dopo la morte per combattere nuovamente i profanatori, nel seno stesso dell’Invisibile.

Le caste sono ignote ad Agarttha. Modalità d’ammissione: l’antico Nazareato Le caste, quali gli Europei giustamente criticano, sono ignote ad Agarttha. Il figlio dell’ultimo dei paria indù può essere ammesso alla sacra Università e, secondo i suoi meriti, uscirne o rimanervi in tutti i gradi della gerarchia. La presentazione si esegue nella seguente maniera: Al momento della nascita, la madre consacra il suo bambino: è il Nazareato di tutti i Templi del Ciclo dell’Agnello. In differenti epoche successive, la Provvidenza è direttamente interrogata nei Templi, e allorché l’età d’ammissione è giunta, il ragazzo o la ragazza, avendo per padrino il rajah iniziato della provincia, fanno il loro ingresso nella sacra Università, assolutamente spesati di tutto. Il resto non dipende che dal loro merito. Organizzazione centrale dell’Agarttha; gerarchia agartthiana Ecco ora l’organizzazione centrale dell’Agarttha, procedendo dal basso all’alto o dalla circonferenza al centro. Milioni di Dwija [8] [9] due volte nati, di Yogi [10] , uniti in Dio, formano il grande cerchio o piuttosto l’emiciclo nel quale ci accingiamo a penetrare. Essi abitano intere città: sono i sobborghi interni dell’Agarttha, simmetricamente suddivisi e ripartiti in costruzioni il più delle volte sotterranee. Al di sopra di questi e dirigendoci verso il centro, troviamo cinquemila pandit, pandavan [11] , sapienti, tra i quali alcuni svolgono il servizio dell’insegnamento propriamente detto, gli altri quello locale come soldati della polizia interna o della polizia delle cento porte. Il loro numero di cinquemila corrisponde a quello delle radici ermetiche della lingua vedica. Ogni radice è essa stessa uno ierogramma magico, legato a una Potenza celeste, con la sanzione di una Potenza infernale. L’Agarttha intera è un’immagine fedele del Verbo eterno attraverso tutta la Creazione. Dopo i pandit vengono, ripartite in emicicli sempre meno numerosi, le circoscrizioni solari dei trecentosessantacinque Bagwanda, , cardinali. Il cerchio più elevato e più ravvicinato al centro misterioso si compone di dodici membri. Questi ultimi rappresentano l’Iniziazione suprema, e corrispondono, tra altre cose, alla Zona zodiacale. Nella celebrazione dei loro Misteri magici, essi portano i geroglifici dei segni dello Zodiaco, come pure certe lettere ieratiche, che si ritrovano in tutti gli ornamenti dei templi e degli oggetti sacri. Ognuno di questi bagwanda o guru supremi, gûrû, maestri, porta sette nomi, ierogrammi o mantram, di sette Poteri celesti, terrestri e infernali. Non rivelerò qui che uno degli oggetti di tale efficacia. Le biblioteche, che racchiudono il vero corpus di tutte le arti e di tutte le scienze antiche da cinquecentocinquantasei secoli, sono inaccessibili a ogni sguardo profano e a ogni attentato. Non le si può trovare che nelle viscere della terra. Per ciò che riguarda il Ciclo di Ram, esse occupano certi sottosuoli dell’antico Impero dell’Ariete e delle sue colonie. Le biblioteche della Paradesa; esse occupano migliaia di chilometri; loro descrizione Le biblioteche dei Cicli anteriori si ritrovano fin sotto i mari che hanno inghiottito l’antico continente australe, fin nelle costruzioni sotterranee dell’antica America pre-diluviana. Ciò che mi appresto a dire qui e più avanti assomiglierà a un racconto delle Mille e una Notte, e tuttavia nulla é più reale. I veri archivi universitari della Paradesa occupano migliaia di chilometri. Da innumerevoli secoli, ogni anno, soli, alcuni alti iniziati in posssso soltanto del segreto di certe regioni, conoscono lo scopo materiale di certi lavori, e sono obbligati a passare tre anni a incidere sulle tavole di pietra, in caratteri sconosciuti, tutti i fatti riguardanti le quattro gerarchie delle scienze che formano il corpus totale della Conoscenza. Ognuno di questi sapienti compie la sua opera nella solitudine, lontano da ogni luce visibile, sotto le città, sotto i deserti, sotto le pianure o sotto le montagne.

Che il lettore si figuri una scacchiera colossale che si estende sottoterra attraverso quasi tutte le regioni del Globo. In ciascuna casella si trovano i fasti degli anni terrestri dell’Umanità, in certe caselle, le enciclopedie secolari e quelle millenarie, in altre infine, quelle degli Yuga minori e maggiori. Il giorno in cui l’Europa avrà sostituito con la Sinarchia trinitaria l’anarchia del suo Governo generale, tutte queste meraviglie e molte altre ancora saranno spontaneamente accessibili ai rappresentanti della sua prima Camera anfizionica: quella dell’Insegnamento. Pericolo di ogni curiosità e di ogni violenza Ma, nel frattempo, guai ai curiosi, agli imprudenti che si mettessero a frugare la terra! Essi non vi troverebbero nient’altro che una cocente delusione e una morte inevitabile. Il solo Sovrano Pontefice dell’Agarttha con i suoi principali assessori, di cui parlerò, riunisce per intero nella sua conoscenza totale, nella sua suprema iniziazione, il sacro catalogo di questa biblioteca planetaria. Egli solamente possiede nella sua interezza la chiave ciclica indispensabile, non solo per aprire ciascuna delle scaffalature, ma anche per sapere esattamente che cosa vi si trovi, per passare dall’una all’altra, e soprattutto per uscirne. A che servirebbe al profanatore essere riuscito a forzare una delle caselle sotterranee di questo cervello, di questa memoria integrale dell’Umanità. Con il suo peso spaventoso, la porta di pietra senza serrature, che chiude ciascuna delle caselle, ripiomberebbe su di lui per non aprirsi mai più. Invano, prima di conoscere il suo terribile destino, si troverebbe davanti agli occhi le pagine minerali, che compongono questo libro cosmico, non ne potrebbe compitare una sola parola, né decifrare il minimo arcano, prima di accorgersi di essere disceso per sempre in una tomba dalla quale le sue grida non possono essere udite da alcun essere visibile. Ogni cardinale o bagwanda, tra le Potenze che gli danno i suoi sette nomi ieratici, possiede il segreto delle sette regioni celesti, terrestri e infernali, e ha il potere di entrare e uscire attraverso sette circoscrizioni di questo spaventoso memoriale delle Spirito umano. Necessità per i nostri sacerdoti e i nostri sapienti di un’Alleanza sinarchica con l’Agharttha Ah! Se l’Anarchia non sovrintendesse ai rapporti dei popoli sulla terra, quale colossale rinascita si compirebbe in tutti i nostri Culti e in tutte le nostre Università!

È cosa certa che i nostri sacerdoti e i nostri ammirevoli sapienti, rientrati nell’Alleanza Universale dei tempi antichi, compirebbero il loro pellegrinaggio in Africa, in Asia, in ogni luogo ove giace il sepolcro di una civiltà scomparsa. Non solo la terra consegnerebbe loro tutti i suoi segreti, ma essi ne avrebbero la piena comprensione, la chiave dorica, e ritornerebbero nelle differenti Facoltà dei nostri insegnamenti per versare non cenere morta, ma fiotti di luce vivente. Ma allora, non si profanerebbe più il passato, non si rapirebbero più dai loro sepolcri i frammenti mutili e, perciò, inspiegabili, per ingombrarne i nostri musei. L’Antichità verrebbe devotamente riedificata sul posto, in Egitto, in Etiopia, in Caldea, in Siria, in Armenia, in Persia, in Tracia, nel Caucaso e fin sugli altopiani dell’Alta Tartaria dove Swedenborg vide proprio attraverso il suolo i libri perduti delle guerre di Jehovah e delle generazioni di Adamo. Quel che sarà l’archeologia sacra dopo quest’alleanza Proprio a tutte queste tappe sacre della razza umana sarebbero ricondotti a frotte, Pontefici e inni in testa, i laureati dei nostri studi superiori! Ah! Se invece di essere tra noi la serva dell’Anarchia governativa, la schiava della Forza, lo strumento dell’ignoranza, dell’iniquità e della rovina pubbliche di tutte le nostre patrie europee, la Scienza risalisse di nuovo, la tiara in testa, il pastorale in mano, sulle sue antiche vette luminose! Se, sovrintendendo di nuovo alla vita sociale dei popoli, essa realizzasse alfine tutto quel che i profeti di tutti i Culti le hanno predetto, quale divino accordo riunirebbe tra loro tutte le membra sanguinanti dell’Umanità! Questa non sarebbe più un Cristo in croce su tutto il Pianeta, ma un Cristo glorioso riflettente tutti i sacri raggi della Divinità, tutte le arti, tutte le scienze, tutti gli splendori e tutti i benefici di questo Spirito divino che rischiarerà il passato e, attraverso le nostre gestazioni dolorose, tende di nuovo a illuminare l’avvenire. L’economia pubblica, liberata dal peso spaventoso degli armamenti e delle imposte, toccherebbe con la sua bacchetta d’oro tutto quel che fu. Rinascita futura di tutte le civiltà morte E si vedrebbe rinascere l’antico Egitto con i suoi Misteri purificati, la Grecia nello splendore trasfigurato dei suoi tempi orfici, la nuova Giudea, più bella ancora di quella di Davide e di Salomone, la Caldea prima di Nemrod.

Allora, tutto sarebbe rinnovato dal vertice alla base dell’organizzazione umana, tutto sarebbe illuminato e conosciuto, dall’alto dei Cieli fino alla fornace centrale della Terra. Non esistono mali intellettuali, morali o fisici, ai quali il ravvicinamento delle facoltà insegnanti e la riunione positiva dell’Uomo con la Divinità non porterebbero rimedio sicuro. La Morte stessa verrà vinta Le sante vie della Generazione sarebbero ritrovate, quelle della Via santificate, quelle del Trapasso illuminate da ineffabili consolazioni, da adorabili certezze; e l’Umanità intera realizzerebbe la parola del Profeta abbagliato dai Misteri dell’altra Vita: Oh Morte, dov’è il tuo aculeo? Noi marciamo verso questi tempi sinarchici attraverso le ultime agonie sanguinanti dell’Anarchia del Governo generale inaugurato a Babilonia. Ecco il motivo per cui scrivo questo libro, e trascino il lettore più oltre ancora fin nel sacro centro dell’antica Paradesa. Continuazione della descrizione della gerarchia agartthiana Dopo i cerchi aperti o chiusi alternativamente dei trecentosessantacinque Bagwanda, vengono quelli dei ventidue o piuttosto dei ventun Arsci neri e bianchi. La loro differenza con i più alti iniziati dei cerchi precedenti è puramente ufficiale e cerimoniale. I Bagwanda possono risiedere o meno nell’Agarttha a loro gradimento; gli Arsci vi dimorano per sempre, come parte integrante dei suoi vertici gerarchici. Le loro funzioni sono estremamente ampie, sotto i nomi cabalistici di Chrinarshi, , di Swadharshi, , di Dwijarshi, , di Yogarshi, , di Maharshi, , di Rajarshi, , di Dharmarshi, , e infine di Praharshi, . Questi nomi indicano a sufficienza tutti i loro attributi, tanto spirituali quanto amministrativi, nell’Università sacra e ovunque si eserciti la sua influenza. Per quel che concerne le scienze e le arti, essi formano con i dodici Bagwanda zodiacali il vertice della Maestria universitaria e della Grande Alleanza in Dio con tutte le Potenze cosmiche. Al di sopra di essi non vi è che il triangolo formato dal Sovrano Pontefice, il Brâhatmah, sostegno delle anime nello Spirito di Dio, e dai suoi due assessori, il Mahatma, rappresentante l’Anima universale, e il Mâhânga, simbolo di tutta l’organizzazione materiale del Cosmo. Nella cripta sotterranea in cui giace il corpo dell’ultimo Pontefice che attende per tutta la vita del suo successore l’incenerimento sacro, si trova l’Arsci che forma lo zero degli Arcani rappresentati dai suoi ventuno colleghi. Il suo nome Mârshi significa il Principe della Morte, e sta a indicare che egli non appartiene al mondo dei viventi. Tutti questi differenti cerchi di gradi corrispondono ad altrettante parti alla circonferenza o al centro della Città santa, invisibili a coloro che camminano sulla terra.

Migliaia e milioni di studiosi non sono mai penetrati oltre i primi cerchi suburbani; pochi riescono a superare i gradini della formidabile scala di Giacobbe [12] che, attraverso le prove e gli esami iniziatici, conducono fino alla cupola centrale. La cupola centrale; la sua architettura magica. La sua ottica e la sua acustica magiche Quest’ultima, opera d’architettura magica come tutta l’Agarttha, è rischiarata dall’alto da registri catottrici che lasciano filtrare la luce solo attraverso tutta la gamma enarmonica dei colori, di cui lo spettro solare dei nostri trattati di fisica non costituisce che la diatonica. Là la gerarchia centrale dei Cardinali e degli Arsci, disposti in emiciclo davanti al Sovrano Pontefice, appare iridata come una visione d’oltre-Terra, confondendo le forme e le apparenze corporee dei due Mondi, e sommergendo sotto degli irraggiamenti celesti qualsiasi distinzione visibile di razza in una stessa cromatica di luce e di suono, ove le nozioni conosciute della prospettiva e dell’acustica vengono superate in modo singolare. Strano fenomeno acustico. E alle grandi ore di preghiera, durante la celebrazione dei Misteri cosmici, benché i gerogrammi sacri non siano mormorati che a bassa voce nell’immensa cupola sotterranea, si verifica sulla superficie della Terra e nei Cieli uno strano fenomeno acustico. I viaggiatori e i carovanieri che vagano lontano nei raggi del giorno o nei chiarori notturni si arrestano, uomini e bestie, ansiosi, in ascolto. Sembra loro come se la Terra stessa aprisse delle labbra per cantare. Un’immensa armonia senza causa visibile fluttua difatti nello Spazio. Essa svolge le sue spirali crescenti, scuote dolcemente l’Atmosfera con le sue onde, e sale fino a inabissarsi nei Cieli, come per cercarvi l’Ineffabile. Da lontano nella notte non si vede altro che il tremolio della Luna e delle Stelle che vegliano sul sonno delle montagne e delle valli, oppure nel giorno altro che il fulgore del Sole sui siti più incantevoli della Terra. Arabi o Parsi, Buddhisti o Brahmanici, Ebrei Karaiti o Subba, Afghani, Tartari o Cinesi, tutti i viaggiatori si raccolgono con rispetto, ascoltano in silenzio, e mormorano le proprie orazioni nella grande Anima universale. Conferma della Legge sinarchica. Tale è dalle sue basi fino alla sua sommità la forma gerarchica della Paradesa, vera piramide di luce che racchiude il legame di un segreto impenetrabile. Nel suo punto culminante, il lettore avrà già letto i simboli della Sinarchia nel triangolo sacro che formano il Brâhatmah e i suoi due assessori, il Mahatma e il Mâhânga. L’Autorità che dimora nello spirito divino, il Potere nella Ragione giuridica dell’Anima universale, l’Economia nell’Organizzazione fisica del Cosmo: tale è la conferma che la Legge trinitaria della Storia [si] trova alla testa stessa dell’organismo ramide e manavico.

L’adeptato

L’istruzione che riceve l’adepto, appena ammesso dalla Volontà divina che illumina la Saggezza umana, è ancora oggi la stessa dei tempi di Ram e Menes. Giacché, una volta conosciuta la Verità sintetica, il progresso degli individui consiste nell’innalzarsi fino a essa, per conservarla e procrearla incessantemente negli spiriti e nelle anime. Foss’anche stato Mosè od Orfeo, Solone o Pitagora, Fo-Hi o Zoroastro, Chrishna o Daniele, incessantemente impetrando e studiando assiduamente, egli dovette cominciare dall’ultimo gradino, per salire fino al primo. Newton o Lavoisier, Humboldt o Arago, avrebbero dovuto allontanarsi, oppure ricominciare dall’ABC, sì, dall’ABC.

Il Verbo sacro

Difatti è nel Verbo sacro che risiede ogni Scienza, dalla più infima dell’Ordine fisico sino alla più sublime dell’Ordine divino. Ogni cosa parla e rende manifesto, ogni cosa porta il proprio nome scritto chiaramente nella sua forma, simbolo della sua natura, dall’insetto fino al Sole, dal fuoco sotterraneo che divora ogni materia, sino al Fuoco celeste che riassorbe in sé ogni essenza. Quanto qui affermo dev’essere preso tanto alla lettera quanto in spirito. Conferma del Vangelo di San Giovanni Vi è una Lingua universale sulla quale il lettore troverà delle considerazioni abbastanza precise nella Missione degli Ebrei, e questa lingua altro non è se non il Verbo dei cicli primitivi di cui parla san Giovanni: [13]. Nel Principio era il Verbo (la Potenza della Manifestazione creatrice) e il Verbo era in Lui gli Dèi, e Lui gli Dèi era il Verbo. Oh! Come siamo lontani da questa lingua sapiente, tanto semplice nei suoi principi, così certa in tutte le sue infinite applicazioni! Aprite uno qualunque dei nostri trattati di fisica o di chimica, guardate i nomi orrendamente barbari, i segni privi di senso intrinseco che compongono la loro nomenclatura ed esprimono le loro equivalenze e le loro leggi. Nelle lingue antiche, gli stessi oggetti erano descritti secondo la loro natura mediante i simboli verbali assoluti che evocavano il carattere reale degli esseri, delle cose, della loro formazione e della loro scomposizione. Così, ricondotta alle sue radici nel Verbo vivente, la matesi [14] e la morfologia della Parola dorica erano un atto divino che sottometteva, come dice Mosè, ogni cosa nella Natura all’Intelligenza e alla Scienza umane. Lingua universale, il Vattano Nelle loro celle sotterranee, l’innumerevole Popolo dei Dwijas è intento allo studio di tutte le lingue sacre, e corona i lavori della filologia più sbalorditiva con le meravigliose scoperte della Lingua universale di cui ho appena parlato. Questa lingua è il Vattano.

 

Note:

* Estratto del cap. I del libro di Alexandre Saint-Yves d’Alveydre, Mission de l’Inde en Europe. Mission de l’Europe en Asie, Librairie Dorbon Ainé, Paris, 1910. Pubblicato originariamente nel 1886 per i tipi di Calmann-Lévy e immediatamente distrutto dal suo autore non appena stampato, fu solo un anno dopo la sua morte, nel 1910, che un suo amico, Gérard Encausse (più conosciuto come “Papus”), trovò casualmente un esemplare del libro fra le carte di Saint-Yves e decise di ripubblicarlo. 1. Ricordiamo che la sinarchia è un ipotetico sistema di governo gerarchico, nel quale si è ammessi, si permane o si viene esclusi esclusivamente in base ai propri “meriti”. La parola sinarchia (dal greco συν, assieme, e ἀρχή, comando) significa “governare assieme” [N.d.T.].↩ 2. Satrapo era il nome dato ai governatori delle province degli antichi imperi medi e persiani, inclusi alcuni regni ellenistici. Il termine deriva dall’antico persiano xšaθrapāvā (da xšaθra, reame o provincia, e pāvā, protettore; in greco la parola fu resa da σατράπης) [N.d.T.].↩ 3. India, distretto di Faizabad, nell’Uttar Pradesh [N.d.T.].↩ 4. Uno dei titoli del Buddha, letteralmente “Eremita della tribù di Sākya” [N.d.T.].↩ 5. “Manu … designa propriamente un principio che si potrebbe definire, secondo il significato della radice verbale man, come “intelligenza cosmica” o “pensiero riflesso dell’ordine universale”. Questo principio è d’altra parte visto come il prototipo dell’uomo, il quale è chiamato mânava in quanto è considerato essenzialmente un “essere pensante”, caratterizzato dal possesso del manas, elemento mentale o razionale; … Insomma, la legge di Manu, per un ciclo o una collettività qualsivoglia, non è altro che l’osservanza dei rapporti gerarchici naturali che esistono tra gli esseri sottoposti alle condizioni specifiche di quel ciclo o collettività, con l’insieme delle prescrizioni che normalmente ne risultano” (R. Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Adelphi Edizioni, Milano, 1989, parte terza, cap. V, La Legge di Manu) [N.d.T.].↩ 6. Alexandre Saint-Yves d’Alveydre, Mission des Juifs, Calmann-Lévy, Parigi, 1884 [N.d.T.].↩ 7. Nell’antica Grecia il termine stava a indicare una confederazione di popolazioni limitrofe aventi in comune il culto di una divinità, oltre a interessi politici [N.d.T.].↩ 8. Termine che indica un membro maschio iniziato appartenente alle prime tre caste (Brahmani, Kshatriya e Vaishya) [N.d.T.].↩ 9. Riprendiamo i vocaboli scritti in sanscrito direttamente dal testo originale [N.d.T.].↩ 10. “la parola «Yoga» è quella che noi abbiamo tradotto il più letteralmente possibile con “Unione”; quello che essa indica in modo proprio è perciò lo scopo supremo della realizzazione metafisica” (R. Guénon, La metafisica orientale, Luni Editrice, Milano, 1998) [N.d.T.].↩ 11. Il termine indica i cinque figli di Pandu e di una mortale (Yudhishthira, Bhima, Arjuna, Nakula, Sahadeva), eroi protagonisti del Mahabharata, testo che racconta il loro combattimento contro i cugini Kaurava. La traduzione proposta da Saint-Yves, sapienti, lascia piuttosto a desiderare [N.d.T.].↩ 12. È detto nel Genesi che quando Giacobbe lasciò la terra di Canaan per cercarsi una sposa, giunse in un luogo dove trascorse la notte. Là si addormentò dopo aver posato il capo su una pietra. Durante il sonno vide una scala tra la terra al cielo e gli angeli che salivano e scendevano. Fu così che ebbe la rivelazione di quella gerarchia cosmica che i kabbalisti chiamano Albero della Vita [N.d.T.].↩ 13. Riportiamo la citazione ebraica, scritta al contrario, copiata dal testo originale di Saint-Yves [N.d.T.].↩ 14. Termine derivato dal greco che si riferisce all’apprendimento in genere e a quello della matematica in particolare [N.d.T.].↩

Alexandre Saint-Yves d’Alveydre   Ringraziamo la rivista di studi tradizionali Lettera e Spirito per la consueta collaborazione

Il KYBALION – Uno studio della filosofia ermetica dell’antico Egitto e della Grecia

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Il Kybalion – uscito anonimo negli Stati Uniti nel 1908 – è il testo d’occultismo più letto del XX secolo.

Definito come un completamento della Tavola Smeraldina, la più importante opera ermetica mai scritta,  Le sue pagine aprono un’affascinante prospettiva sui meccanismi della realtà oggettiva e generano in chi le medita con mente aperta nuovi livelli di consapevolezza e comprensione.

Per permettere al lettore di inoltrarsi con profitto nello studio, ognuno dei sette grandi principi ermetici – Mentalismo, Corrispondenza, Vibrazione, Polarità, Ritmo, Causalità, Genere – è analizzato e messo in relazione con le verità incarnate dagli altri. Sarà così possibile comprendere quali significati avessero per gli Antichi l’astrologia, l’alchimia e la psicologia mistica e in cosa consistesse la trasmutazione mentale, orientarsi nei testi occulti e, infine, riconciliare le diverse teorie e dottrine che hanno attraversato la storia dell’umanità.

In copertina: Ermete Trismegisto raffigurato sul pavimento del duomo di Siena Traduzione dall’inglese di Franca Genta Bonelli Titolo originale dell’opera: The Kybalion © 2018 Edizioni L’Età dell’Acquario Edizioni Lindau s.r.l. corso Re Umberto 37 ‑ 10128 Torino Prima edizione: marzo 2018   Indice
9 Introduzione
15 La filosofia ermetica
21 I sette principi ermetici
33 Trasmutazione mentale
39 Il Tutto
47 L’universo mentale
55 Il Divino Paradosso
67 «Il Tutto» in Tutto
77 Piani di Corrispondenza
91 Vibrazione
99 Polarità
107 Ritmo
115 Causalità
123 Genere
129 Genere mentale
141 Assiomi ermetici

La lettera di Julius Evola all’astrologo Tommaso Palamidessi – Prima Parte. A cura di Gaetano Barbella

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Un mistero racchiuso in una donna,

“suo fedele corpo di guardia”

     

C’è sempre un momento nella storia degli uomini in cui la difesa della propria tradizione culturale vuol significare che tutto ciò che è accaduto non è stato vano, che il tormento, la gioia, l’odio, l’amore folle e smisurato per affermare la realtà di una passione, continua a vivere e ad avere un senso. Ma quando, guardando indietro, si pensa di appartenere ad una tradizione non più recuperabile, ci si persuade che il destino non dà nessuna spiegazione e nemmeno l’ombra di una motivazione su ciò che è stato, allora la ricostruzione di un’identità perduta e dimenticata diventa impossibile e rimane soltanto l’angoscia dello sradicamento, la desolazione e la solitudine vissute come incubo quotidiano”. (Stefano Zecchi pref.al Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler: introduzione “Stiamo tutti cercando qualcosa di reale” – Il Poliscriba EreticaMente 20 marzo 2018)

Ma fu veramente così per Julius Evola nell'inviare una lettera all'astrologo Tommaso Palamidessi quel lontano 20 gennaio 1972? O fu un estremo messaggio di un naufrago racchiuso in una bottiglia e deposta in un certo mare verso l'ignoto, verso una terra di un futuro a lui favorevole?

  1. Giacobbe lotta con l'angelo a Peniel

Il racconto biblico della lotta di Giacobbe con l’angelo a Peniel, può meravigliare il lettore, preso per gli argomenti pertinenti la prestigiosa figura del filosofo Julius Evola, nonché rinomato artista e poeta dadaista, venuto meno a Roma nel 1974. Tuttavia è proprio partendo da questo, episodio biblico della religione cristiano-ebraica, che si può far luce, per esempio, sul mistero dell’infortunio occorso ad Evola a causa di un bombardamento nell’ultima guerra mondiale, durante il soggiorno a Vienna. Da quel giorno in poi, la conseguente lesione permanente del midollo spinale gli procurò una paralisi permanente, che lo obbligò a muoversi su una carrozzella per il resto della sua vita. Ma è proprio l’accostamento con la figura di Giacobbe, non più tale, ma «Israele», che si illumina a giorno quella di Evola, preso per un altro destino, che lo portò a “guidare”, anche lui, presumibilmente, una schiera di uomini presi per la rinascita interiore del proprio IO cosmico che lui idealizzava. Qual’è il suo destino, partendo da questo presupposto, non si può sapere… o forse sì indagando su una misteriosa giovane donna, che Evola definisce emblematicamente “appartenente al suo fedele corpo di guardia”, in una lettera inviata all’astrologo Tommaso Palamidessi, il 20 gennaio 1972.

Poco più di due anni dopo, a Roma dove abitava, l’11 giugno del 1974, egli lasciava questo mondo, chissà per insediarsi arditamente nel supposto regal ruolo a lui destinato. Ma ecco i fatti biblici su Giacobbe [Genesi 32,24-34 - Nuova Diodati]:

< Così Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntar dell'alba. Quando quest'uomo vide che non lo poteva vincere, gli toccò la cavità dell'anca; e la cavità dell'anca di Giacobbe fu slogata, mentre quello lottava con lui. E quegli disse: «Lasciami andare, perché sta spuntando l'alba». Ma Giacobbe disse: «Non ti lascerò andare, se non mi avrai prima benedetto!». L'altro gli disse: «Qual è il tuo nome?». Egli rispose: «Giacobbe». Allora quegli disse: «Il tuo nome non sarà più Giacobbe, ma Israele, poiché tu hai lottato con DIO e con gli uomini, ed hai vinto». Giacobbe gli disse: «Ti prego, dimmi il tuo nome». Ma quello rispose: «Perché chiedi il mio nome?». E qui lo benedisse. Allora Giacobbe chiamò quel luogo Peniel, perché disse: «Ho visto Dio faccia a faccia, e la mia vita è stata risparmiata». Come egli ebbe passato Peniel, il sole si levava; e Giacobbe zoppicava all'anca. Per questo, fino al giorno d'oggi, i figli d'Israele non mangiano il tendine della coscia che passa per la cavità dell'anca, perché quell'uomo aveva toccato la cavità dell'anca di Giacobbe, al punto del tendine della coscia. >

  1. Julius Evola un uomo che ha combattuto con un Nume

Per capire il significativo legame che mi è venuto di ravvisare tra Julius Evola e Giacobbe biblico, occorre cominciare a leggere uno scritto pubblicato dal sito web RIGENERAZIONE EVOLA del 21 gennaio 1918, incentrato su Francesco Waldner1, uno dei più importanti astrologi italiani del Novecento, che qui  descrive accuratamente il carattere di Evola in chiave esoterica.

Premetto che nel succitato articolo, pubblicato dal sito evoliano, sono evidenziate in grassetto molte frasi che io riporto solo in parte, e altre ne ho evidenziate, ritenendole significative ai fini del tema in trattazione.

Tra Waldner ed Evola ci fu un rapporto di rispetto e di sincera, reciproca stima, sia prima che dopo il noto l’accennato incidente di Evola a Vienna. Nello scritto suddetto Waldner inizia col riportare le impressioni, sull’amico filosofo, di una sua amica, Marianna Leibl, nota psicologa, che ha parlato in diverse occasioni di Julius Evola e dell’affascinante amicizia che la lega a lui.

« Ciò che maggiormente ha sempre colpito Marianna Leibl ‒ riferisce Waldner ‒ è la profonda cultura spirituale di Evola, la sua critica tagliente portata al limite estremo, tanto da indurlo a vivisezionare ogni cosa che vien messa a fuoco dalla sua mente fredda e lucidissima. […] Marianna Leibl ha sempre ammirato in Evola l’autonomia realizzata come conquista, unita ad un orgoglio luciferico e ad una forte carica vitale, ma ciò che più l’ha colpita è la sua natura inafferrabile e il suo totale distacco dalle cose.

Dai miei colloqui con Marianna Leibl ‒ continua Waldner ‒ ho avuto l’impressione che Evola abbia rappresentato per lei una meta da raggiungere, soprattutto perché egli non era un maestro che insegnava al livello teorico, era un uomo che illuminava con pochissime massime essenziali.

In realtà, la forte personalità di Evola e le sue adamantine concezioni hanno influenzato numerosi spiriti, quando non hanno addirittura trasformato completamente la concezione del mondo dei singoli individui, cambiando cosi, in qualche modo, anche la loro esistenza.

Un giorno, anni fa, Marianna Leibl mi invitò a casa sua con lui. Anch’io fui affascinato dal suo potente senso della realtà, dalla sua enorme capacità di sintesi, dal suo modo di vedere le cose e di sdrammatizzarle con sottile umorismo.

Uscimmo, io e lui, a notte alta e c’incamminammo a piedi verso il Centro: era tempo di guerra e c’era l’oscuramento, ma la luna piena illuminava la città. Parlammo a lungo di Gustav Meyrink e del suo orientamento spirituale. Proprio in quel periodo, Evola stava curando la traduzione di alcune sue opere: Il domenicano bianco, L’Angelo della finestra d’Occidente, La Notte di Valpurga. Io debbo molto a Meyrink che, nel periodo della mia giovinezza, diede un indirizzo al cammino della mia vita: mi fece così molto piacere ricordarlo attraverso lo scambio di opinioni che ebbi con Evola. Giunti al Pantheon, ci salutammo: le nostre strade, pur avendo una meta comune, proseguivano in direzioni opposte.

Quella conversazione, però, continuava ad articolarsi nella mia mente e, ad un tratto, mi parve di scoprire l’individualità di Evola. Egli era un intellettuale poderoso; la sua forte personalità era impegnata in una linea di ricerca magica sperimentale. Vicino a lui, provavo una sensazione irrazionale, una specie di terrore, sentivo in lui il mago operante, e un uomo che aveva davanti a sé una strada dura da percorrere, piena ancora di esperienze molto dolorose. Gustav Meyrink invece aveva, secondo me, una potenza interiore armoniosa, morbida, una chiaroveggenza spontanea, la sua linea di ascesi mistica era come guidata da un impulso naturale. Io non sono un intellettuale, mi affido più all’intuito che al pensiero, e quella notte mi addormentai tardissimo sotto l’impressione di qualcosa che aveva colpito nel profondo la mia radice.

Nei primissimi anni dopo la guerra, in un viaggio da Vienna a Salisburgo, ebbi un colloquio casuale con un compagno di scompartimento. Se ben ricordo, era un medico; il discorso, non so come, cadde su questioni metafisiche, ed egli mi disse che s’incontrava spesso a Vienna con uno studioso molto evoluto che guidava un gruppo e aveva un vasto seguito di ammiratori: «È un italiano», aggiunse. Gli domandai chi fosse, ed egli mi rispose che era Julius Evola. Rimasi molto sorpreso. Mi raccontò che Evola era rimasto invalido per via di un bombardamento: mi parlò della sua infermità che, però, non aveva in alcun modo offuscato la sua piena lucidità mentale; mi disse che il suo magnetismo esercitava un grande potere sulle persone che facevano parte del gruppo; che era un uomo volitivo, di grande forza intellettuale, che conservava intatto il suo amore e il suo interesse per la vita. Poi il mio compagno di viaggio concluse dicendo che Evola, pur essendo un invalido, non lo era, perché partecipava in tutti i sensi alla vita, più di lui stesso. La notizia dell’infermità di Evola mi colpì; però mi fece piacere sapere che essa non l’aveva distrutto, che lui era rimasto un mago, ed un vero mago non può essere vinto.

Passarono diversi anni, e lo incontrai di nuovo a Roma. Parlammo del suo oroscopo; mi disse che alla sua morte voleva essere cremato e le sue ceneri sparse sui ghiacciai. Evola ama la montagna con tutte le sue forze, e io posso capirlo perché provengo dalla montagna. Mi domandò se potevo predirgli oroscopicamente l’epoca e il giorno della sua morte: mi sarebbe stato concretamente riconoscente per questo. A me non fa paura la morte, ma preferisco che, per chiunque, essa giunga in punta di piedi, inattesa2.

Quando studio un oroscopo, mi si presenta ogni volta alla mente un’immagine diversa, a seconda della personalità che vi sta dietro. L’oroscopo di Evola suscita in me l’immagine di un albero: esso, infatti, ha sulla cima (nel mezzo del cielo) una forte corona di pianeti e in basso, alla radice, due pianeti molto potenti, Saturno e Urano in una larga congiunzione. Urano è il pianeta delle forti scosse, dei terremoti e, naturalmente, l’ha colpito rendendolo invalido; Saturno, il padrone della materia, in quarta casa, dà una radice molto profonda e forte e non ha permesso che venisse distrutto; ha voluto, anzi, che egli assolvesse i suoi compiti, perché doveva ancora dare molto di sé. Marte è in ottava casa, in buon aspetto con Saturno; questa casa rappresenta il campo magnetico della piccola morte, perciò il suo organismo è stato parzialmente distrutto, ma la sua forza vitale è rimasta intatta e continua a sostenerlo.

Qualche volta, in sogno, ho veduto questo albero in una atmosfera tempestosa e ogni volta ho potuto constatare che un’altra crisi si stava abbattendo su Evola. I due luminari, Sole e Luna, si trovano sul punto culminante del suo oroscopo, affiancati da Mercurio, da Nettuno e da Venere; essi gli danno le forze creative, artistiche e passionali indistruttibili di cui abbonda, ed una fervida immaginazione. Al momento della sua nascita si alzava all’orizzonte il segno del Leone, però, a mio avviso, il suo vero, invisibile padrone è Saturno: il Guardiano della Soglia. »3.

E siamo giunti al punto in cui si capisce, per bocca dell’astrologo Waldner ‒ esaurendo le sue note su Evola ‒, con chi dovette combattere l’Uomo Julius e restare in piedi fino alla morte, il Guardiano della Soglia, appunto. Chissà, ricordando l’ultimo momento della sua vita, allorché, come viene testimoniato, chiese di essere accompagnato alla finestra di casa sua e aiutato a porsi in piedi, egli poté dirigere il suo ultimo sguardo al  Gianicolo, lì sull’orizzonte dei palazzi di fronte4. Per Julius Evola dovette sembrare simile ad un apparire di uno scenario astrale, un certo “Ottavo Colle”, non compreso fra i sette famosi Colli romani. E fu come di un suo guardare ad un mondo che lo aspettava per accoglierlo, e mi viene in mente il Guardiano che gli apriva la fatidica Soglia. E non per modo di dire, perché come si sa il Gianicolo è legato al dio Giano strettamente connesso al dio Saturno5.

Il passo è breve per la comprensione del tema proposto con questo scritto che allude ad una misteriosa donna, che, come già detto in precedenza, Julius Evola stesso definisce “appartenente al suo fedele corpo di guardia”. E per ritenerla tale, Evola doveva intravedere in lei una potere che valica il comune senso attribuito a chi è di “guardia” e intuire che si doveva trattare di un occulto “guardiano astrale”. E conseguentemente è come intravedervi il misterioso “Guardiano della Soglia” che altri non è, se non il Nume Saturno. E procedendo per questa strada ecco che si delinea la visione della dea Saturnia Tellus, considerato che si lega magnificamente all’antica Urbe Roma dal suo “nascere” in poi, e il cerchio si chiude con il “gran maestro Julius Evola“, un poderoso IO destinato perciò a “troneggiarvi” occultamente. Forse si avrà modo di entrare nei particolari per sostenere questa ipotesi, non del tutta balzana.

***

E siamo ‒ secondo la mia visione ‒ alla comprensione del Nume con cui, lottò l’Uomo Julius Evola, cosa che gli costò l’invalidità alla colonna vertebrale durante il bombardamento a Vienna (la Peniel biblica di Giacobbe). Ma l’Uomo in Evola «volle» restare in piedi fino a poco prima della sua dipartita da questo mondo ed era l’11 giugno del 1974.

Julius Evola non è stato solo un filosofo rigoroso, uno studioso delle civiltà tra i maggiori del nostro tempo, un orientalista di fama internazionale, il maggiore esponente del dadaismo in Italia; non è stato cioè un “intellettuale” freddo e distaccato, impegnato solo a rincorrere le costruzioni della propria mente, ma un uomo che ha vissuto il proprio pensiero e le proprie scelte, che ha tradotto ciò che pensava e sentiva in modo di essere ed in realtà esistenziale con una coerenza rigorosissima che nulla ha mai potuto intaccare...»5.

Ma ora, prima di entrare nel merito del tema ancora da sviluppare sul conto della misteriosa donna, che Evola definisce “appartenente al suo fedele corpo di guardia”, e cosa rappresenta per Evola sotto il profilo esoterico, mi preme sviluppare meglio la figura del filosofo, del quale l’astrologo Waldner ebbe a dire “che lui era rimasto un mago, ed un vero mago non può essere vinto”, nonostante il grave infortunio di Vienna. E sarà proprio la traccia del mio accostamento all’episodio biblico di Giacobbe citato all’inizio, a permettermi di riallacciarmi ad un episodio “analogo” legato al suo tentativo di suicidio dell’epoca che venne dopo quella dell’esperienza artistica del futurismo.

  1. La legge del caso di Hans Jean Arp e l’alchimia di Evola

Nei processi dell’alchimia, l’iter “metafisico” è inimmaginabilmente diverso da quello “storico”, e lo si può capire esaminando ciò che scrive un occulto cronista del Gruppo di UR, Ekatlos, in LA «GRANDE ORMA»: LA SCENA E LE QUINTE del libro, INTRODUZIONE alla MAGIA:

< Più tardi. 1919. Fu «caso» che, da parte delle stesse forze, attraverso le stesse persone,  venisse comunicato a chi doveva assumere il Governo - allora direttore del giornale milanese - l’annuncio: «Voi sarete Console d’Italia. Fu «caso» parimenti, che a lui fosse trasmessa la formula rituale di augurio quella stessa, portata dalla chiave pontificale: «Quod bonum /austumque sit». Più tardi. Dopo la Marcia su Roma. Fatto insignificante, occasione ancor più insignificante: fra le persone che rendono omaggio al Capo del Governo, una, vestita di rosso, si avanza, e gli consegna un Fascio. Le stesse forze vollero questo: e vollero il numero esatto delle verghe e il modo del loro taglio e l’intreccio rituale del nastro rosso; e ancor vollero di nuovo il «caso» che l’ascia per quel Fascio fosse un'arcaica ascia etrusca, a cui vie parimenti misteriose ci condussero. >

Non si nota il ritornello di Hans Jean Arp6 del dadaismo, di cui si innamorò Julius Evola?

« La legge del caso, che racchiude in sé tutte le leggi e resta a noi incomprensibile come la causa prima onde origina la vita, può essere conosciuta soltanto in un completo abbandono all’inconscio. Io affermo che chi segue questa legge creerà la vita vera e propria ».

Tanti « casi », per giunta “insignificanti” che però, messi uno dopo l’altro sono quelli che fanno la storia degli umani, ma da tener lontani dall’occulto, due “verità” allo specchio!

Ma cos’è che caratterizza l’iter di un processo alchemico? E chi lo può dire?

Lo può dire, ovviamente, chi ritiene di esservi coinvolto… a suo modo, e questo è il suo segreto e nessuno può mai capirlo… ma è un campo minato irto di ostacoli disposti dalla superbia e dalla stupidità per chi si azzarda a trasgredire un “segreto” giuramento.

E perciò l’unico modo in cui sembra rivelarsi il suo carattere è nei tentativi di riportare per iscritto le cose che egli strappa al cosiddetto Guardiano della Soglia tutte le volte che è capace “vincerlo”, giusto al “sorgere dell’alba”. Però a che prezzo! “azzoppature” una dietro l’altra, giusto per concepire la famosa “scala di Giacobbe7. Ricordiamoci dei fatti biblici su Giacobbe che lotta con un angelo a Peniel descritti all’inizio in relazione a: Genesi 32,24-34 (Nuova Diodati)

Quasi mi “solletica”, far capo a fatti del cristianesimo, poiché spesso viene posta la questione « L'ultimo Evola fu benevolo col cristianesimo? »8. Considerato che il « primo Evola » vi era notoriamente avverso. E si capisce che il mio intento è di provocazione, ma fino a un certo punto perché, strada facendo, sembrerà di giungere ad una soglia che quasi fa sbiadire l’avversità di Evola al cristianesimo...

Ma procediamo sui “frammenti” vinti al “nemico” dall’ermetista Evola al sorgere delle tante “Albe” (mi sovviene Alba Longa che permise a Remo di far nascere la sua Roma… per restare ancorati al nostro Evola preso per la Tradizione Romana). Di qui un gran lavoro per un “copia e incolla” per la composizione di un puzzle, di uno “scrivano” con la mente arroventata a mo’ di vero e proprio atanor, continuamente messa a soqquadro.

Gran brutta bestia la memoria fino a impazzire e ne fanno le spese le preziose “formule alchemiche” per risolvere gli arcani. Ma l’ermetista è bravo a ricomporle… però come si fa a lavorare la “pietra” in un’officina sgangherata piena di scarti, mentre capita di inciamparvi e così ecco un’altra “casuale” “azzoppatura”, mentre il “conto in banca” si “arroventa”  a dismisura!

Potremmo intravedere il nostro “azzoppato”, nel Matto del mazzo di carte dei Tarocchi.  Un aggancio non a caso perché il nostro solerte Julius Evola sentiva il bisogno di “consultarle”, naturalmente è un mio modo simbolico definirle così. Il « primo Evola » si sa che fu preso dalle esperienze psichedeliche derivanti dall’uso della droga per valicare la famosa Soglia9. Ma non si sentì pago di ciò che poté “esigere” dal Guardiano per il gran successo personale ‒ mettiamo ‒ con l’apoteosi nell’anno 1938, pieno di attività che lo videro fortemente impegnato, per esempio, con le sue conferenze tenute a Berlino, La dottrina della lotta santa (13.6.1938), Il Graal come mistero nordico (20.6.1938), Le armi della guerra segreta (27.6.1938). Senza contare la sua notevole “attività propagandistica” esercitata in Austria, in Romania (agevolato da René Guenon), in Ungheria e in Cecoslovacchia.

Riagganciandomi all’Evola “1938” in auge, molti anni dopo, preso dalla necessità di conoscere il suo destino, si consultò con un noto astrologo, Francesco Waldner, cosa già detta in precedenza. Sappiamo che ottenne da lui l’oroscopo natale, oltre l’etichetta di “servitore” di un invisibile padrone, Saturno: il Guardiano della Soglia, ma, sul mistero legato alla sua data di morte,  che a lui premeva sapere, ci fu buio assoluto.

Nel frattempo l’attività di Evola, fu rivolta al corso degli eventi storici ma i giorni volano per giungere ad un altro appuntamento con un secondo astrologo, Tommaso Palamidessi... però fermiamoci qui per ora e facciamo il punto sull’uomo, “storico” da un lato ed “ermetista” dall’altro.

  NOTE

1     Francesco Waldner è nato il 18 giugno del 1913 a Marlengo (Bolzano). Sin da bambino dimostrò di possedere facoltà paranormali: le sue prime importanti visioni di chiaroveggenza risalgono infatti a quando aveva appena sette anni, tanto che a quattordici era già divenuto famoso lavorando in questo campo per tutta Europa. Durante una di tali esibizioni in pubblico Waldner conobbe lo scrittore austriaco Gustav Meyrink (1868-1932), famoso autore di romanzi fantastico-esoterici, ed esperto di problemi occulti, il quale lo guidò per un breve periodo, fino alla morte, e lo indirizzò decisamente verso lo studio e l’applicazione dell’astrologia. Morì a Roma il 23 giugno 1995

2    Non è dato sapere se Waldner effettivamente accolse la richiesta di Evola. Data l’amicizia   tra i due e la disponibilità dell’astrologo altoatesino, nulla lascerebbe escluderlo, anche se l’accenno di Waldner circa il fatto che sia opportuno che il trapasso giunga inatteso, potrebbe essere letto in chiave contraria. Se si pensa, tuttavia, a come Evola sembrò andare incontro, prepararsi e quasi “cercare” la sua dipartita terrena nei suoi ultimi giorni di vita, si potrebbe ipotizzare che in qualche modo egli sapesse, o intuisse che il suo momento solenne era vicino. Forse per una percezione, per un sentore irresistibile, fenomeno che poteva essere tutt’altro che sorprendente in una personalità straordinaria come la sua. O forse anche perché qualcuno, presumibilmente Waldner stesso, poteva avergli accennato qualcosa al riguardo, forse non all’epoca della richiesta di Evola ma successivamente. Si tratta comunque di pure e semplici ipotesi, non suffragate da alcun dato concreto...

3    Fonte: rigenerazione evola 4    Quarant’anni fa la morte di Evola

5    Gli studenti della media traducono spesso parte di questa storia dal latino in base a questo brano: Giano e Saturno. Per primo ottenne questa regione, che ora chiamano Italia, il re Giano, che, assieme a Camese, possedeva equamente questa terra al punto che la regione era chiamata Camesene, la città Gianicolo. In seguito governò il regno il solo Giano, che credono abbia avuto una doppia faccia che senza dubbio significavano la saggezza e la solerzia del re, che conosceva le cose passate e prevedeva le future. Avendo dunque questo Giano accolto in ospitalità Saturno, e avendo da lui imparato la pratica dell'agricoltura e avendo quello (Saturno) reso migliore il vitto delle genti, lo ricambiò con l'alleanza del regno. Poi, essendo Saturno andato via all'improvviso, Giano chiamò tutta la terra Saturnia. Anche questo testimonia la loro concordia, ovvero il fatto che i posteri dedicarono loro due mesi contigui, affinché Dicembre fosse in possesso della sacra memoria del dio Saturno, Gennaio il nome dell'altro. (Ianus et Saturnus. Regionem istam, quam nunc vocant Italiam, primus Ianus rex obtinuit, qui ita cum Camese aeque hanc terram possidebat ut regio Cameseme oppitum Ianiculum vocitaretur...)

5    Fonte: riciclaggio della memoria 6    Prof. Francesco Morante 7    Giacobbe fece un sogno (Genesi 28:10-22): una scala da terra si protendeva sino in cielo, con angeli che salivano e scendevano. Nel sogno Dio gli parlava, promettendogli la terra sulla quale stava dormendo ed un'immensa discendenza e tutte le famiglie della terra saranno benedette in lui e nella sua discendenza. 8   Fonte: termometropolitico

9   A un tavolo delle Grotte dell'Augusteo, pochi stanzoni semibui di quello che oggi sarebbe un night, sedeva, 23enne assorto, Julius Evola: così solitario e preso dal suo misterioso cogitare che non sembrava accorgersi, in quelle notti romane degli anni Venti, del circolare di camerieri e ragazze che tra i tavoli andavano cercando clienti. Amico di Giovanni Balla e, senza essere futurista, di Tommaso Marinetti, dopo aver preso parte alla prima guerra mondiale Evola era tornato a Roma per tuffarsi nell'esperienza dadaista, spinto, come racconterà nel Cammino del cinabro (la sua autobiografia spirituale) «dall'insofferenza per la vita normale e dal senso dell'inconsistenza degli scopi che impegnano normalmente le attività umane». Taciturno, e accuratissimo nella persona – come gli amici lo ricordano nelle sere dell'Augusteo? il barone era preda di una grave crisi esistenziale, dove il limite dell'io si scontrava con la fame di assoluto e «l'uso di certe sostanze» lo portava «verso forme di coscienza in parte staccata dai sensi fisici». Fu l'incontro con la Gnosi tradizionale e in particolare con una frase del Buddha a distoglierlo dal suicidio.

Fonte: ildubbio.news

I luoghi ed i riti della misteriosofia italica tra Roma e Napoli

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Giovedì 12 Aprile 2018 presso il Dipartimento di Scienze Storiche della Facoltà di Filosofia e Lettere dell’Università de Cantabria – Santander (Spagna), in occasione del seminario di storia ed archeologia della religione “I luoghi ed i riti della misteriosofia italica tra Roma e Napoli”, Daniele Laganà e Luca Valentini, con il coordinamento della prof.ssa Silvia Acerbi, esporranno due relazioni concernenti la dimensione simbolica e misterica rintracciabili nelle fonti dell’archeologia e nella filosofia del mondo antico, nell’ambito dei riti riservati alle divinità del Mithra romano e del mondo egizio in Italia. Di Laganà e Valentini presentiamo gli abstract delle relazioni.

 

Tracce della sapienza egizia all'ombra del Vesuvio, tra fonti archeologiche e conoscenza ermetica a cura di Daniele Laganà

[caption id="attachment_26865" align="aligncenter" width="300"] Tempio di Iside a Pompei[/caption]

Il tempio di Iside a Pompei e le megalografie della cosiddetta “Villa dei Misteri” sono il punto di partenza di un viaggio tra i simboli e l'esperienza dei culti isiaci e osiridei. Le architetture sacre, la statuaria, le pitture parietali, gli oggetti religiosi sono i punti di riferimento di un cammino che si svolge, da un lato, nella dimensione eterna dell’Anima, alle radici del senso del Sacro; dall’altro, nello spazio e nel tempo, sulle tracce dell’antica Sapienza egizia che, come un fiume carsico, è giunta fino a noi influenzando le concezioni spirituali dei più diversi popoli. A Parigi, Aquisgrana, ma soprattutto nella Napoli alessandrina, con i suoi ipogei e il culto dei morti, il mito di Iside e Osiride è stato trasmesso attraverso le opere di Filosofi e “Artisti” quali Giordano Bruno e il principe Raimondo de Sangro. Come ci suggerisce Aristotele, alle cerimonie misteriche non si andava per apprendere una qualche conoscenza, ma piuttosto per trarne una intensa esperienza dell’Anima, a cui faceva seguito un profondo cambiamento interiore. Non è forse questo lo scopo della Ricerca alchimica che ha affascinato tanti uomini illustri e che ancora attrae? Secondo un’antica massima magico - ermetica, per conoscere realmente qualcosa, bisogna divenire quella cosa stessa. L’uomo antico, così come quello di oggi, con l’interesse verso la Sapienza ermetica, si avvicinava alle cerimonie misteriche con l’intento di sollevare il velo che nasconde l’enigma della morte. Tutta l’antica Sapienza egizia, attraverso le sue complesse descrizioni dell’aldilà, era affascinata dall’Idea di fornire all’Uomo uno strumento per risolvere, ancora in vita, l’enigma degli enigmi. Bisogna tenere bene a mente questo anelito interiore quando si scava nel passato dell’umanità: solo in questo modo saremo capaci intendere veramente il linguaggio attraverso cui questo passato ci parla.

 

I luoghi del mitraismo romano e l’escatologia misterica a cura di Luca Valentini

[caption id="attachment_26866" align="aligncenter" width="300"] Mitreo a Santa Maria Capua Vetere[/caption]

Nel corso della millenaria storia di Roma molte forme misteriche si sono affacciate, relazionate ed anche scontrate con la religiosità autoctona e con la sensibilità sacrale dell’ecumene greco – romano così come concepito da un Adriano o da un Giuliano. Attraverso la descrizione di tre siti archeologici – i mitrei di San Clemente, di Felicissimo di Ostia antica e di S. Maria Capua Vetere – espliciteremo come il nume della Luce, sin dai primordi della cultura vedica ed indoeuropea, sia stato connesso alla più profonda anima spirituale romana. Nell’architettura, nella simbologia astrologica ed ermetica, nella filosofia neoplatonica (in particolare tramite l’insegnamento di Porfirio) che necessariamente ritroveremo nella disamina misterica di Mithra, analizzaremo come errata sia stata la decifrazione di voler accostare il mitraismo romano al cristianesimo, ponendoli a volte in contrasto, a volte in contiguità, avendo tale escatologia una valenza a – religiosa. Gli iniziati al dio che nasceva dalla pietra non praticavano alcun culto devozionale, ma, altresì, perseguivano una palingenesi interiore che aveva il fine di risvegliare il nume solare dentro di sé, identificandosi con esso. Lo iato che naturalmente si presentava tra credente e divinità, nella religiosità cultuale, popolare e pagana quanto nell’emergente cristianesimo, si risolveva con pratiche magico – teurgiche, secondo le quali l’uomo, il mondo e l’ente erano una medesima ed unica realtà, che solo la dimensione fenomenologica rifrangeva differenziandoli. L’ àgnostos theòs, infatti, era il dio indicibile, sconosciuto, occultato, nato dalla stessa pietra filosofale degli alchimisti, come lo pseudo – Democrito, Zosimo e Olimpiodoro, che nella propria ritualità inverava l’acronimo VITRIOL (“Visita Interiora Terrae, Rectificando, Invenies Occultum Lapidem”), quale fondamento di quella sapienza apollinea che in Mithra, in Platone, a Delfi e a Roma ritrovava tracce convergenti. Non casuale, infatti, sarà un ultimo riferimento ad un quarto sito archeologico, la famosa tomba di Virgilio, sita nella zona di Mergellina a Napoli, sotto la quale è stato rinvenuto un mitreo. Gli antri sotterranei, la comprensione filosofale del platonismo, la dimensione esoterica della sacralità romana nelle sue componenti orfico – pitagoriche, così come espressa nel canto VI dell’Eneide di Virgilio, ci permetteranno di comprendere la profondità noetica della misteriosofia italica, che nel Mithra romano, quale novello Marte, riattualizzava l’arcaica (ed arcana) sfera numinosa dell’Urbe.

   

Luigi Schingo da San Zevíre e la sua arte – Emanuele Casalena

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San Zevíre ( San Severo ), città fondata da Diomede, diede l’alba e il tramonto a Luigi Schingo, nome che dice poco allo smart sapere scolastico. Cominciamo dalla fine di quest’ uomo, il 2 marzo 1976, con una citazione presa dalla monografia sull’artista del medico-sindaco Raffaele Iacovino:

“ Ricordo il giorno del rito funebre nella Chiesa di S. Giovanni Battista. C’erano solo i famigliari, un gruppetto di amici e qualche ammiratore. Dietro di lui c’era il vuoto. San Severo era assente. Un’assenza pesante e ingiusta “.

Iacovino era stato sindaco “ a tempo ” di San Severo a capo d’ una giunta socialisti-comunisti, doveva ben conoscere la temperatura del termometro della damnatio memoriae  cui l’illustre, schivo concittadino era stato sottoposto trovando sponda solo nella Chiesa per il suo lavoro. Comunque varcò l’ultima soglia a due giorni dal compimento degli ottantacinque anni essendo nato il 4 marzo del 1891, a voi il conto. Furono esequie in linea con quelli di Degas e Sironi, perché? Facciamo un passo indietro. Il 23 marzo del 1950 a San Severo scoccò la scintilla della rivolta proletaria  quella che “ illumina l’aria “,  contadini e braccianti alzarono le barricate armati di schioppi, pistole, mazze, zappe e forconi al grido: “ Pane e lavoro! “, avanti a oltranza con lo sciopero nazionale del 22, proclamato dalla CGIL del cerignolano Giuseppe Di Vittorio e dalla Camera del lavoro, solidarietà di classe per l’eccidio di Lentella. Il bilancio degli scontri con la Celere del famigerato Ministro degli Interni Mario Scelba fu di un morto e una quarantina di feriti. Intervenne l’Esercito per sedare la rivolta, seguirono 184 arresti fra donne e uomini con l’accusa di “ insurrezione armata contro i poteri dello Stato “, per loro si aprirono le carceri di Lucera città dal mitico castello, patria del nostro legionario. San Severo la rossa di certo non sentiva di rendere omaggio al suo maggiora artista del Novecento Segretario Provinciale del Sindacato Nazionale fascista professionisti ed artisti di Foggia.

[caption id="attachment_26816" align="alignright" width="300"] Foto di un campo militare, L. Schingo è il primo a destra[/caption]

Nato nell’antica Daunia estesa tra l’Alto Tavoliere ed il Gargano, chiamata poi Capitanata nel XIII sec., Luigi Schingo, terzo di numerosa prole ( sette figli ) fin da bambino aveva avvertito la vocazione all’arte. Dopo la maturità liceale, dalla sua Puglia si fece studente fuori sede presso la Reale Accademia di Belle Arti di Napoli a quel tempo già profondamente trasformata, nella didattica, da F. Palizzi e D. Morelli. La pittura dal vero “en plein air” della scuola di Barbizon, dei Macchiaioli, degli Impressionisti era sbarcata nella città partenopea, una rivoluzione per il rarefatto insegnamento accademico che prediligeva tematiche storico-mitologiche.

Ottenuto il Diploma all’Accademia partenopea Luigi sfodera la sua “prima” da pittore nel 1913 all’Esposizione Internazionale di Pittura, Scultura, Architettura e Bianco e Nero di Firenze incassando i primi lusinghieri apprezzamenti dalla critica. Ma nel ’15 c’è la chiamata alle armi, l’Italia entra in guerra, la sua naia durerà 4 anni, per lo più stanziali nella Città Eterna, dove ha modo di studiare de visu l’arte nel suo lungo rosario storico, senza soluzione di continuità. Congedato torna nella sua S. Zevíre ricevendo l’incarico di docente di disegno nella scuola di avviamento professionale ( abolita con la scellerata riforma del ’62 ), professione che continuerà a svolgere a Molfetta nel ’21 nello stesso ordine di scuola.

      

[caption id="attachment_26815" align="alignleft" width="191"] L. Schingo, Monumento ai caduti, Volturara Appula,1930[/caption] [caption id="attachment_26814" align="alignright" width="243"] Monumento ai Caduti di Veroli, 1921[/caption]

Gli anni ’20 rappresentano il fuoco della sua carriera artistica, come si suol dire ce la mette tutta per sfondare sul palco difficile dell’affermazione nel campo delle arti, al plurale sì perché Luigi è anche scultore ed a modo suo architetto. Nel quadro dei fermenti di quegli anni tra Metafisica, seconda generazione dei futuristi, Novecento di M. Sarfatti, l’opera di Schingo si colloca nel solco del naturalismo imparato dalla vecchia Scuola di Posillipo i cui temi erano succhiati dal vero, dai ritratti al paesaggio, la quotidianità filtrata da una lettura lirica della realtà. Cosa vuol dire questo? Non bisogna confondere il verismo, una corrente letteraria, con realismo magico a sua volta assai distante dall’Impressionismo del “ cogli l’attimo fuggente” veloce trasposizione tecnica dell’ esperienza visiva. Per dirla in parole povere nel realismo magico l’artista osserva la natura con processo introspettivo, Cézanne ne coglieva la genesi nella Geometria,  Schingo nel muto messaggio poetico recitato al cuore dell’uomo che sappia coglierne la pura bellezza delle strofe, lasciandosi scaldare la mente. Un processo di continuo affinamento della propria capacità di leggere la metrica della Natura nel suo infinito poema o meglio Cantico cortese d’ amore e di dolore. Luigi trascrisse il suo “ ascolto visivo ” ( non è un assurdo ), in disegni, colori, gessi e marmi ma anche nell’ architettura della sua casa studio a S. Severo. Quegli anni ’20 e seguenti furono, per lui, carichi di affermazioni a livello nazionale, fuori dal cerchio magico del ritorno all’ordine, l’artista propose se stesso, la sua ricerca en plein air dell’ut pictura poesis di Quinto Orazio Flacco.

Nel 1927 esegue la statua di Papa Pio XI per il Seminario di Molfetta città nella quale si era trasferito, ricevendo le congratulazioni entusiaste del pontefice stesso per il risultato dell’opera.

La sua prima personale è  Bari datata 1928, ha 37 anni, l’anno seguente la seconda al Circolo artistico di Roma a Palazzo Doria Pamphili, in entrambe les vernissages ottiene riconoscimenti di critica e pubblico più meritate commesse.

[caption id="attachment_26812" align="alignleft" width="172"] Frontespizio Catalogo I Mostra SNF Belle Arti[/caption] [caption id="attachment_26811" align="alignright" width="172"] L. Schingo, ritratto di mia madre, pietra Apricena,1933[/caption]

Nel 1930 viene inaugurato il monumento ai caduti, da lui realizzato per Volturara Appula, piccolo centro del foggiano a confine con la Campania. Già nel ’21 aveva scolpito il monumento ai caduti di Veroli, gioiellino della ciociaria laziale, molto più articolato nell’iconografia utilizzando il marmo di Coreno, una ninfea borda lo stagno, un bambino sorseggia dal palmo della mano, la Vittoria si china con un elmo nella destra, dietro svettano due guglie simbolo dei monti sacrario naturale dei caduti. Spiccano i quattro elementi primari: terra, acqua, fuoco, aria.

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E’ del ’30  il suo lanciatore di palla vibrata per il nascente Foro Mussolini, la Commissione però scarta il suo bozzetto con profondo rammarico di Luigi. Dopo la partecipazione alla I Quadriennale di Roma, Schingo riceve incarichi pubblici di prestigio, è nominato dal Ministero dell’Educazione regio ispettore onorario ai Monumenti e nel ’33 diventa Segretario provinciale del Sindacato fascista di Foggia dei Professionisti e degli Artisti, con tale titolo, nello stesso anno ad aprile, partecipa alla Prima Mostra del Sindacato Fascista di Belle Arti tenutasi a Firenze nel palazzo del Parterre di  S. Gallo, esponendo due opere: il Ritratto di madre in pietra Apricena, che gelosamente conserverà nel proprio studio e il dipinto a olio La trebbiatura nel Tavoliere.

[caption id="attachment_26809" align="alignright" width="220"] Luigi Schingo, il pino gigante-Gargano, olio su tela, 1933[/caption]   [caption id="attachment_26810" align="alignleft" width="235"] Luigi Schingo, Bruciatura di stoppie, olio su tela, 1933[/caption]

L’anno seguente è a Roma al Palazzetto Patrizi in via Margutta, luogo dei simposi poetici del “ Gruppo dei Romanisti “ che annovera, oltre ad Augusto Jandolo, antiquario poeta, proprietario dell’immobile, Cesare Pascarella, Ettore Petrolini, Giuseppe Ceccarelli e Trilussa. Qui Luigi espone sculture e dipinti richiamando l’interesse del Principe di Piemonte Umberto II di Savoia che gli acquistò due opere: Il pino gigante-Gargano e Bruciatura di stoppie, un riconoscimento “nobile “ alla sua arte.

           

Nel 1935 dipinge alcune tele decorative, tra le quali  Il Progresso, per il ridotto dei palchi del Teatro Littorio ( poi G. Verdi ) inaugurato nel 1936 dopo anni di controversie, ne cura anche le decorazioni a stucco. Nel dipinto qui riportato si leggono chiari riferimenti alle costruzioni prospettiche dei maestri del passato dal Parmigianino a G. B. Tiepolo fino ad Andrea Pozzo. Protagonistala luce divina che al contempo irradia e assorbe le metaforiche figure delle arti.

[caption id="attachment_26808" align="alignleft" width="200"] Luigi Schingo, Il progresso, Teatro Verdi, S. Severo[/caption]

Nel ’37 organizza e partecipa alla I mostra del sindacato fascista foggiano BB.AA ( Beni Culturali e Ambientali ) al Palazzo del Podestà, Luigi ne è il motore nelle vesti di Segretario Provinciale del Sindacato. Nominato nel ’39 Direttore di una scuola di avviamento professionale, Schingo si trasferisce a Roma città dove risiederà per tutto il periodo bellico fino al 1947 quando farà ritorno a S. Severo. Nell’Urbe continua il suo lavoro febbrile di artista partecipando alla X mostra del Sindacato Nazionale fascista degli Artisti, svoltasi nella prestigiosa sede neoclassica della Galleria d’Arte moderna di Valle Giulia, con lui nomi eccellenti quali Basaldella, Capogrossi, Mafai, Purificato, Scialoja, Severini e tanti altri. La sua terra, nel dopoguerra, diventa anche il suo cenobio. S. Severo canta l’Internazionale, cavalca l’idea di “rovesciare il mondo” con la lotta di classe, si guarda con ammirazione alla rivoluzione cinese, il P.C.I. fa il pieno di consensi nel mondo operaio come nel bracciantato femminile. Per un artista compromesso col fascismo non c’è spazio culturale, Schingo continua in solitudine il proprio cammino esponendo a collettive, intercalate a personali, da Milano a Roma, a Napoli e Foggia, sono gli anni ’50. Per trovare commesse l’artista trova sponda nella chiesa cattolica e, suo malgrado,  nella D.C. ma alla balena bianca non interessa il campo delle arti, della cultura, passate armi e bagagli nella rete a maglie strette del gramscismo in salsa togliattiana. Emerge in modo ancor più “ sfacciato “, visti i mala tempora, lo spessore mistico di Luigi Stingo, da sempre uomo semplice,  cattolico praticante, sua la messa alle 7.00 del mattino nella chiesa di S. Giovanni Battista, poi il ritorno nella sua casa studio di via Fortore da lui stesso progettata, un isolato al limitare del centro abitato del paese, due studi, uno per la scultura, uno per la pittura, alcune stanze arredate con divani e biblioteche, una cappella personale più un capiente locale per l’imballaggio e il carico-scarico dei suoi lavori, infine un bellissimo spaccato di giardino ben recintato da un alto muro. L’esile, bassino Luigi, per qualche verso somigliante al grande architetto F. L. Wright ma con in più una polvere di melanconia, lavorava con metodo e rigore fino a mezzodì, poi la pausa pranzo nella sua abitazione di via Gramsci condivisa con  due sorelle rimaste zitelle, anche lui scapolo ( stesso nucleo familiare di Giorgio Morandi ). Nel pomeriggio ritorno a studio fino alle 20-21 della sera, orario nel quale gli amici potevano fargli visita per trascorrere la serata in serena conversazione magari attorno ad una buona bottiglia di rosso di S. Severo. Una vita kantiana, la sua, per la regolarità con cui veniva operosamente scandito il tempo, un’esistenza monastica dove si fondevano fede e ricerca artistica, quell’ unicum faceva di Luigi un monaco benedettino con sgorbia o pennello, umile sapienza in ogni gesto, spesso all’aperto come Van Gogh per immergersi nella sua amata terra. Tra le sculture realizzate in quegli anni citiamo il busto bronzeo del ‘53 dedicato al prof. Matteo Carpano, ufficiale veterinario, insigne microbiologo e parassitologo, deceduto nel 1952, l’opera è posta nella villa comunale di Manfredonia. Nel 1958 esegue per la Cattedrale di S. Maria Assunta il Monumento in memoria del Vescovo pugliese Oronzo Durante che aveva guidato la Diocesi per 19 anni ( un record ) spegnendosi nel ’41. L’Eminenza aveva lasciato una forte impronta di se, aumentando il numero delle parrocchie, trovando una buona convivenza con il

[caption id="attachment_26807" align="alignleft" width="207"] Portale del MAT a S. Severo[/caption]

fascismo ma soprattutto fu il vescovo della solenne Incoronazione, l’otto maggio del ‘37, della Madonna del Soccorso, evento rimasto indelebile nella memoria dei fedeli.   Del 1959 è il monumento dedicato al Vescovo Agostino Castrillo, nella chiesa foggiana di Gesù e Maria. Nel 1963 realizza a S. Severo il battistero nella  sua chiesa di S. Giovanni Battista. A Sondrio, Napoli, Bari partecipa a mostre di pittura collettive, è del 1966 una sua personale a Matera, cui ne seguirà, l’anno seguente una nella Capitale alla galleria “La Paolina “, altra personale a Napoli  nel mitico ’68 alla “ Galleria Mediterranea”. Scorrono altre mostre da Sondrio a Roma fino alla Fiera internazionale dell’Agricoltura a Foggia  del ‘71 dove viene invitato ad esporre alcuni suoi dipinti nel Palazzetto dell’arte, ammirati dal Presiden

[caption id="attachment_26806" align="alignright" width="300"] Luigi Schingo, Rodi garganico dalla riviera di levante, olio su tela[/caption]

te della Camera dei deputati on Sandro Pertini. Nel 1973 finalmente l’amministrazione comunale di S. Severo sembra voler rendere merito al proprio illustre concittadino organizzando una mostra antologica dei suoi oltre sessanta anni di lavoro, nel Teatro, ribattezzato Giuseppe Verdi, vengono esposte 150 sue opere. Nel 2006 il Comune di S. Severo inaugura la pinacoteca “ Luigi Schingo “ all’interno del Museo dell’Alto Tavoliere, sono presenti circa quaranta pezzi dell’artista, dai paesaggi ai ritratti, alle scene di vita quotidiana, rimasticando un aforisma di Striscia “ non andate là come turisti ma come ospiti “.

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“ Tutta la poesia del creato espressa con vigore e armonia” o più semplicemente il colore della poesia.

Emanuele Casalena

Bibliografia

  • Elena Antonacci, Luigi Schingo (1891-1976). Il colore e lo splendore, Claudio Grenzi Editore.
  • Franco Sessa. Biografia di Luigi Schingo,pittore, scultore, architetto, su Arte, 30 ottobre 2014.
  • Raffaele Iacovino, Luigi Schingo. Artista tradizionalista, moderno. S. Severo, Gerni Editori, 1997
  • Valentina Giuliani, la Collezione Luigi Schingo del MAT da “raccolta” a “pinacoteca”.

Carmelo Bene anti-politico – Umberto Petrongari

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Ho tentato di estrapolare la prospettiva di Carmelo Bene soprattutto visionando i Quattro momenti su tutto il nulla, una trasmissione in cui parla brevemente della morte, il seminario tenutosi al Teatro Argentina il 20 gennaio del 1984, avendo visto Hommelette for Hamlet (1987). Ho inoltre letto la conversazione tra Bene e Giancarlo Dotto, autobiografia anche intellettuale di Bene (il libro in questione è Vita di Carmelo Bene, edito da Bompiani). Andando subito al sodo per quel che riguarda la sua filosofia negativa potremmo definire pressappoco Bene come uno schopenhaueriano che non crede nella possibilità salvifica della Noluntas, che esclude categoricamente o quasi, come vedremo, tale possibilità. Del pensatore di Danzica avrebbe inoltre fornito una particolare, una sua personale e interessantissima interpretazione. Prima di farvi luce esporrò umilmente e sinteticamente (anche per agevolare la comprensione di detta interpretazione) il mio modo di vedere le cose, in certo qual modo radicalmente contrapposto a quello del grandissimo attore-poeta-filosofo salentino. Sono il sostenitore, perlomeno teoricamente, di un nichilismo non tragico. Tutto ciò che vediamo è rappresentazione nel senso che le cose non esistono. La vita è dunque sogno: già siamo in un aldilà di quieta morte poiché nulla esiste, per cui ognuno di noi è felice, che lo riconosca o meno, o meglio, che lo ammetta a se stesso o meno.  Abbiamo deciso gratuitamente, liberamente, di essere venuti al mondo. Ovvero il cosmo esiste contingentemente. L’apparente dolore che caratterizza inesausto ogni vita l’abbiamo voluto liberamente affermare. Se la vita non ci piace nessuno ci obbliga a vivere. Se dunque si continua a vivere, se dunque si decide di non morire, è perché evidentemente ci piace vivere. Vivere non è doloroso poiché un dolore liberamente affermato da un Io dotato, in quanto tale, di intenzionalità, non può essere tale: sarà il suo contrario, ovvero il piacere.

Se non esiste nulla, nessun valore, non esistono certamente neanche le categorie, tutte riconducibili al principio di causa-effetto (sono richieste da esso per potersi avere). Il mondo è sogno al pari dei nostri sogni notturni. Se non è bizzarro come questi ultimi è perché – ritengo – la probabilità che la causalità possa venire smentita sia così remota da non poter effettualmente mai verificarsi. Per cui, ad esempio, dovendo scegliere tra due opzioni, di cui l’una è più sconveniente dell’altra, si opterà sempre per la più favorevole. E così, se abbiamo fame mangiamo piuttosto che astenerci liberamente dal nutrirci. Per Carmelo Bene è invece la necessità a farla da padrona, perlomeno per quel che riguarda ogni essere senziente, vivo. Essa si lega all’auto-ingannarsi: ingannarsi è ad esempio affermare che una cosa è gialla quando è invece evidentemente di un altro colore. E così la vita non ha assolutamente valore, eppure si è deciso di fuoriuscire sconvenientemente dal prenatale per venire al mondo. E si persiste a vivere poiché, per tutta la vita, continuiamo a illuderci, a dire a noi stessi che è meglio vivere che essere morti. Insomma, il nostro esser venuti al mondo è assolutamente irrazionale, stupido, incoerente o senza senso. È un controsenso.  Ci illudiamo poi che alcune scelte siano più convenienti di altre. E così, tornando all’esempio fatto in precedenza, crediamo che mangiare se si ha fame sia più conveniente che non farlo.

Ora, così come io, credendo, in fondo, nel libero arbitrio, ritengo che tutto al mondo sia allo stesso modo felice, Bene crede al contrario che tutto ciò che è al mondo sia allo stesso modo infelice. Ovvero, sto sostenendo l’ipotesi – mi rendo conto che può sembrare azzardata – che non esistano scelte esistenziali più o meno dolorose e dunque più o meno sconvenienti, ma che il dolore che sperimentiamo in vita sia, per Bene, assoluto e, dunque, sempre identico: la tenue vibrazione che procura una lieve carezza non è in realtà meno dolorosa della ferita inferta a qualcuno da una pugnalata. Veniamo dunque al tema dell’inesistenza della dialettica in Bene, ovvero al falso problema dello scontro tra oppressi e oppressori caratterizzante da sempre la storia, veniamo a ciò che concerne il rapporto servo-padrone. Se un lupo per rabbia azzanna ripetutamente un agnello fino a farlo decedere, nessuno nello scontro ha avuto la meglio, perlomeno finché si è restati in vita. L’antipatia che il mite agnello suscita nel violento e aggressivo lupo è la negazione assoluta del lupo stesso. Il dolore che il lupo procura all’agnello è l’assoluta negazione di quest’ultimo. Non c’è dialettica ma una ferma condizione infernale di morte, di assoluta negatività, che concerne l’uno e l’altro animale: l’essere masochiano e l’essere sadiano sono due facce della stessa medaglia, due identici modi di soffrire. Se, inoltre, l’agnello raggiunge l’altro mondo, quello dell’essere, del senso e della felicità, il bramare incessante del lupo non ha termine: una nuova esigenza subentra subito dopo aver soddisfatto la sua voglia di crudeltà. Per esprimere tale idea con Carmelo Bene possiamo ricorrere al suo Pinocchio, che è un morticino già appena nasce (ciò afferma pressappoco Bene a proposito di Pinocchio): nascere, venire alla luce, è aver ricevuto una sferzata mortale che niente di noi ha lasciato in vita.

Viviamo dunque, al di là di ogni rappresentazione, al di là di ogni differenza, in un fermo e immutabile presente-assente infernale dove nulla potrà mai cambiare, anche – addirittura – se esteriormente qualcosa potesse effettivamente cambiare: se, ad esempio, in futuro si realizzerà il socialismo mondiale che risolverà il problema della fame nel mondo, nulla di fatto sarà mutato. Questo credo sia l’antistoricismo di Bene. Potrebbe non consistere dunque – necessariamente – nella classica visione pessimistica e immutabilistica della storia per cui – ad esempio e in primo luogo – al mondo ci saranno sempre oppressi e oppressori. Vedremo dunque come storia, politica, stato, rappresentazione, esprimano per l’attore italiano – se intesi in senso lato – nozioni identiche. Ma per comprendere ciò vediamo di chiarire più a fondo come sia costituita la realtà. Prendiamo l’apparente molteplice delle cose che riempiono l’esperienza. Priviamole di ogni categoria (ammesso che esistano), liberandoci in primo luogo della categoria dell’unità, per cui non avremo più oggetti. Faremo esperienza di un molteplice di sensazioni esterne e di immagini non-sensibili, ovvero di quelle immagini, non del tutto propriamente, ritenute interiori. Ora, tutto ciò che esiste emette quantomeno una più o meno dolorosa, fastidiosa, vibrazione (si pensi in particolare alla vista). Una sensazione, quanto più si intensifica, tanto più acquisirà concretezza. E, superata una certa soglia di intensità, quel certo tipo di sensazione tramuterà in un altro tipo di sensazione. Ad esempio da visiva diverrà tattile. Possiamo inoltre immaginare che una nostra immagine interiore, intensificata al punto giusto, possa tramutare in qualcosa di sensibile, di esteriore.

Al mondo esistono solo delle quantità intensive. La quantità estensiva è infatti riconducibile a queste ultime. Ovvero la visione di una montagna si imprime più intensamente sulla nostra coscienza rispetto alla visione di un sassolino. La vita senziente di ognuno soggiace ad un’identica necessità, se non propriamente ad una causalità. Si tende cioè a superare ciò che ci procura dolore – e il dolore è oggettivo per tutti – in vista di un suo lenimento. Inoltre, per quel che riguarda l’uomo, disponendo di un sistema nervoso somigliante a quello di ogni altro uomo, sarà, in linea di principio, intelligente come ogni altro. O perlomeno potrebbe divenirlo, se dunque – magari – lo desiderasse davvero. Tutto ciò che di teoretico sto affermando fino ad ora vuole mostrare l’identità di tutto con tutto. Non esistono differenze. E, se esistono (c’è ad esempio chi è più alto e c’è chi è più basso), di esse in fondo non ci curiamo. Tra me e un tavolino non c’è differenza alcuna. Le cose variano certamente per intensità. Si disse, tuttavia, come il dolore sia unico e assoluto, solo apparentemente differente.  Credo che tali mie riflessioni teoretico-filosofiche, Bene le avrebbe più o meno condivise. Infatti una cosa è certa: per Bene la rappresentazione, la finzione, che è ad un tempo insensata, stupida, irrazionale e illusoria volontà, brama, è un puro significante, un puro segno, non rinviante a nulla. Il mondo come volontà e rappresentazione non significa cioè nulla. Non è, è il vuoto, la mancanza assoluta, proprio in quanto desiderio inappagato e inappagabile (perlomeno finché si è vivi). Se il mondo è costituito da significanti, la morte, per noi inconcepibile, è al contrario il luogo del senso (morire infatti sarebbe sensato), è significato, è l’essere in quanto pieno, felicemente e pienamente soddisfatto, assolutamente felice. Potremmo paragonare le cose che esperiamo al vuoto contenuto all’interno di un bicchiere (ammettiamo che non esista l’aria).

Ma la necessità, finché si è vivi, è per Bene qualcosa di incrollabile: bramare e illudersi (condizione, quest’ultima, del bramare e del vivere) non possono mai venir meno. Tutt’al’più, come vedremo, si può parzialmente persistere in un cieco bramare.  La morte allora, oltreché inconcepibile nel modo più assoluto, non può mai costituire un problema di chi vive. Qualcosa allora come il suicidio stoico, compiuto per raggiungere la felicità, sarebbe impossibile: tra la vita e la morte non si può che scegliere, preferire, la vita. Si preferisce la morte solo quando il dolore del vivere raggiunge una soglia tale da farcela preferire al restare in vita. Ma veniamo al teatro di Bene. Le sue performance non sono altro, a mio parere, che mere lezioni, fini a sé stesse, di metafisica, o, ad essere più precisi, di filosofia negativa.  Possiamo allora definire Bene un anarchico-tragico. Non tanto un anarchico-pessimista. Anarchico-pessimista è Céline, anarchico-pessimista è Artaud: perlomeno nel suo Eliogabalo non vuole neanche minimamente essere edificante (in un modo o nell’altro). Esprimendo in esso una visione filosofica altamente coincidente con quella di Michel Foucault, si limita a mostrare come ogni metafisica sia errata (ogni legge – dunque universale – è illusoria) e come, dunque, la volontà di potenza domini il tutto. La sua visione della storia è allora antistoricistica e pessimistica. La differenza con Foucault sta nel fatto che per il filosofo francese esisterebbe una via di fuga perlomeno parzialmente salvifica di tipo politico. Per Artaud, viceversa, non ci sono sbocchi di alcun tipo al suo pessimismo. Ricorro alle Hommelette for Hamlet per estrapolare i temi essenziali del pensiero e del teatro di Bene. Ovviamente il grande salentino non comunica nulla. Come lui stesso afferma, dis-dice, ovvero non esprime nulla. Lo fa ironizzando comicamente, ma amarissimamente, su tutto, su ogni valore. La sua comicità, la sua ironia distruttiva di tutto, è al contempo tragica.

I temi dunque – più che i contenuti – più essenziali che Bene affronta nel suddetto spettacolo sono i seguenti. Innanzitutto quello dell’assenza caratteriale di Amleto. Quando deve essere risolutivamente cattivo fa il buono: non si vendica di suo padre, non uccidendo l’usurpatore regicida Claudio. Quando deve fare il buono fa il cattivo: uccide per sbaglio il povero Polonio, ossia un’innocente, quasi non provando nessun senso di colpa per ciò che ha commesso.  Amleto manca poi di carattere per via del fatto che non realizza mai nessun progetto futuro di cambiamento, vagheggiandoli meramente nella sua testa. Anche in ciò si mostra irresoluto. L’Amleto di Laforgue-Bene ricorda, per assenza di tempra, ad esempio, il protagonista delle Memorie dal sottosuolo, che in parte, fra l’altro, Dostoevskij giustifica. Ma nel letterato russo detto protagonista potrebbe salvarsi tramite l’amore di una prostituta (cosa che, fra l’altro, deciderà di non fare). In Bene invece non ci sono vie di fuga alla tragicità dell’esistenza. Un certo dialogo dell’Amleto di Bene richiama, quanto a contenuto, il dialogo (recitato da Bene) tra Manfred e Astarte, la defunta sorella e amante di Manfred. In tale monologo emerge la tematica della noia, dello spleen: Manfred invoca in fondo di venire amato, vorrebbe in fondo essere insostituibile per poter venire costantemente ricambiato da amore. Ma la noia che proviamo di noi stessi è il nostro non valere nulla per noi stessi e dunque neanche per gli altri. Ma anche noi stessi, del resto, non amiamo nessuno: tutto ci dà noia.

Amleto progetta ad esempio di andare a Parigi per far colpo buffonescamente su chi là incontrerà. Ma il nostro renderci individuali, dei tipi singolari, diversi, non è che un vano e insincero tentativo di crederci davvero diversi dalla massa. Ci illudiamo, in tal modo, di avere più valore rispetto alla massa omologata. Infine, vi è da segnalare il dialogo tra Amleto e Ofelia-Kate. Quest’ultima esprime, con il suo parlare, l’assenza al mondo di valori quali il dovere, il disinteresse, l’amore. L’esercizio della carità, oltreché insincero, è vano. Non può riempire neanche minimamente la nostra vita. Cosa insegna allo spettatore la lezione negativa di Bene a teatro? A smetterla, per quanto ciò ci sia possibile, di rappresentare, di recitare di fronte a noi stessi e agli altri. Non che ciò risolva qualcosa della nostra esistenza: è la semplice conseguenza logica e intelligente di chi ha forse davvero compreso il teatro di Bene. Un tale spettatore potrà sentirsi alleggerito, sollevato. Non per questo, in fondo, avrà risolto alcunché del suo dramma esistenziale. Un’altra possibile reazione alla visione del suo teatro sta nell’avvertire un commosso e dunque quasi piacevole disagio, per cui magari lo spettatore piangerà, essendo rimasto profondamente toccato dalla tragicità poetica, lirica, di quanto ha visto: essa coincide con la tragicità, con la vanità, con l’inconsistenza della sua stessa vita. Bene, nel modo più assoluto, non vuole confortare e consolare nessuno, ma spiattellargli in faccia l’angosciosa verità sulla vita, che si mostrerà senza più alcun velo. E come reagirà, infine, l’uomo potente, chi è socialmente ‘qualcuno’, di fronte al ‘diverso’ Bene? Ne rimarrà turbato, frustrato e svilito, per quella che è la sua condotta esistenziale, per quello che è il suo sistema di credenze, di valori. Non che Bene, in quanto anti-politico, in quanto estraneo ad ogni interesse, abbia voluto provocargli tale turbamento! Lo turba suo malgrado. Non ‘ce l’ha’ con i potenti. Non ‘ce l’ha’ con nessuno. Quindi, riassumendo, il teatro di Bene non è, nel modo più assoluto, edificante. Non trasmette valori poiché non crede in nulla. La vita non ha cioè per Bene – lo ribadiamo – nessun significato. Intendendo la politica (o lo ‘stato’ che dir si voglia) in senso lato, essa viene a coincidere con la rappresentazione stessa: il consumismo, il tempo libero ludicamente trascorso, il progresso, l’identità sociale ecc. ne faranno allora parte. Ma tutto della politica – di ogni politica, di destra o di sinistra – è falso problema.

Ma chi è, dunque, il ‘diverso’ per Bene? Non è chi spicca in qualcosa, ad esempio chi è in possesso di una certa maestria dando prove pagliaccesche di virtuosismo. È pur vero che chi è molto bravo nel fare qualcosa può compiere dei gesti non alienati di una perfezione e di una singolarità tali da eccedere l’ambito artistico all’interno del quale opera, all’interno del quale è confinato. E così, un calciatore può compiere un gesto atletico come non se ne sono visti in un’intera partita (monotona rispetto a detto gesto), dunque molto particolare, nonché estremamente difficoltoso quanto alla sua esecuzione. Un gesto quasi istantaneo di grandissima e abilissima destrezza (per ciò, dunque, anche singolare), che riesce dunque nel suo intento, può essere talmente bello da farci fuoriuscire per un attimo dalla vita. In quell’attimo non vi è più volontà e rappresentazione, ma freddo significato, felicissima pienezza. Il ‘diverso’ è colui che, per quanto può, fuoriesce dal mondo come volontà e rappresentazione, divenendo – dunque in parte – se non altro cieca volontà, ovvero pura musicalità. Si può divenire tali accettando finalmente, con forza e serena noncuranza, la propria assenza di carattere. Essa, cioè, non dovrà più costituire un problema per noi.  Il carattere, dice Bene, è la prerogativa del falso, dello stupido. Ovvero è la prerogativa di chi crede in qualcosa, sia di buono che di cattivo. Il santo, l’eroe, il criminale incallito, mostrano tutti e tre di avere carattere, positivo o negativo che sia. Ma se il mondo della vita è soggetto alla necessità, possono tali tre figure essere realmente, qualitativamente, diverse fra loro? In presenza di oggettive condizioni il codardo diviene eroico (e viceversa). Insomma, siamo tutti uguali: le differenze tra gli uomini sono, per così dire, meramente ‘quantitative’.  Il diverso, più in generale, rifiuta di buon’animo di recitare un qualsiasi tipo di ruolo sociale. Non fa progetti per il futuro. In Al di là del principio di piacere, opera assai apprezzata da Bene, Freud afferma che la felicità, conseguente ad una certa futura realizzazione esistenziale, si tende a differirla.

Ma si fa ciò per credere in un aldilà futuro di felicità che ci alleggerisce nel presente, che ci dà sollievo attualmente? In altre parole, si pensa tra sé e sé qualcosa del tipo: ‘Oggi và male, ma domani, quando farò questo e quest’altro, sarò finalmente felice’?. Non credo. Piuttosto, la lezione dell’anzidetta opera consisterebbe in ciò: è inutile realizzare progetti poiché, in fondo, si sa che essi non ci arrecheranno felicità. Lo ripeto ancora una volta: la vita è irrisolvibile.  Chi ha la forza d’animo e la lucidità di esser nulla esprimerà, infine, più grandezza rispetto a quella relativa ad ogni ruolo sociale (ciò è vero perlomeno in linea di principio, ossia in linea teorica). Ci si scava, a mio parere, la propria angusta nicchietta felice, per poter essere più in alto di qualcuno. Colui che se la passa socialmente meglio del suo vicino può concedersi magari arroganza nei confronti di quest’ultimo. Si mira, a mio parere, a far sempre più denaro, non per ben soddisfare la pancia e ogni tipo di impulso conformistico. Non sono cioè d’accordo con Marx.  Credo invece che più si ha denaro, più si può essere arroganti, arbitrari, cattivi, corruttori, inviolabili, al di sopra della legge. Nella vita si aspira insomma ad incrementare il proprio sadico potere. Ma c’è sempre qualcuno sopra di noi, che se la passa meglio di noi, che limita tale nostro potere, frustrandoci.  Ebbene, chi non recita più, chi non rappresenta più, può trasmettere (mi rendo conto che il discorso è molto teorico) il senso musicale di essere qualcosa di più grande di ogni, più o meno angusto, ruolo sociale. Contrariamente a ciò che ritengono i più, il nulla ha maggior valore dell’essere, che è infatti sempre e solo determinato, delimitato, confinato: si è sempre ‘qualcosa’ o, se si preferisce, ‘qualcuno’.

Umberto Petrongari

Giuliano Kremmerz, tra Scienza e Magia – Umberto Bianchi

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Mi sono avvicinato con profana curiosità alla figura di Giuliano Kremmerz, personaggio vissuto a cavallo tra il XIX ed il XX secolo, di cui tanto si parla in ambito esoterico ma, di cui anche poco si riesce a recepire all’esterno, se non un guazzabuglio di contraddittorie nozioni. Giornalista, giramondo, mago, iniziato, o solamente un abile affabulatore, tra i tanti in giro? Per certo, quella di Kremmerz è una figura prismatica, dalla non facile collocazione. Nato in quel di Napoli, a Portici, da una famiglia piccolo borghese, dimostra sin dalla più tenera età, un’intelligenza sveglia e perspicace ed una capacità di apprendere fuori dal comune. Lasciato alle cure del vicino di casa Pasquale De Servis (Izar), il giovane Kremmerz mostra una spiccata propensione al sapere esoterico, a quelle che, allora, si dicevano “scienze occulte”. Studia, si laurea in Lettere a Napoli, ma entra anche in massoneria, di cui è parte anche quell’obbedienza egizia che, proprio nella bella città partenopea, aveva trovato un terreno tanto fertile. Dalla figura del Principe Raimondo di Sangro, a quelle di Cagliostro e Giustiniano Lebano, la massoneria di Rito Egizio fa di Napoli uno, se non il più importante, tra i propri punti di riferimento. Il giovane Ciro Formisano cresce in questo clima, si inizia ad un ordine massonico martinista, assumendo lo ieronimo di Giuliano Kremmerz (dall’egizio “leone solare”), diviene giornalista e collabora con “Il Mattino”, ma anche con varie testate a carattere esoterico, entrando in contatto con nomi del calibro di Stanislas De Guaita, Eliphas Levi e Papus.

Giornalista, iniziato, scrittore ma, come tanti nomi della letteratura e dell’arte della sua epoca, Kremmerz è anche un viaggiatore; non come quelli mordi e fuggi di adesso, però. Un po’ come Louis Stevenson o Gaugin, Kremmerz non parte per un mese ma, a quanto si narra, si imbarca su una nave per Montevideo e gira per quattro anni tra Argentina e Brasile, dove sarebbe entrato in contatto con le culture sciamaniche delle locali tribù amerinde. Tornato in patria, si stabilisce con la famiglia in quel di Napoli, da dove inizia il proprio originale percorso, con la fondazione delle scuole miriamiche, attraverso la pratica e l’insegnamento di quella medicina ermetica “pro salus populi”, di cui si farà tenace propugnatore sino alla fine della sua vita. Kremmerz propugna le sue tesi sapienziali, con un linguaggio in grado di alternare la leggerezza e lo humour, tutti partenopei, con la vertigine di concetti metafisici ed iniziatici senza mai appesantire il lettore, anzi. Esperto comunicatore, nei suoi scritti, sa dosare in modo sapiente, idee, suggestioni e stimoli, catturando l’attenzione di chi, anche, butti solo lo sguardo sui suoi testi. Kremmerz fa dell’esoterismo un sapere divulgativo, aperto agli stimoli ed alle suggestioni di una incipiente modernità che, a cavallo l’800 ed il ‘900, vive quel momento di grande espansione, dato dal passaggio a quella fase propriamente definita fordista e taylorista, non senza però intersecarsi con i destini di quel pensiero magico ed irrazionale che, contrariamente a quel che si potrebbe pensare, sembra alimentarsi delle suggestioni e delle incertezze della nuova fase della civiltà occidentale. Kremmerz comincia con l’accantonare il termine “magia” in favore del più spendibile “Scienza Integrale”.

Egli rielabora e riorganizza i concetti espressi dalle precedenti forme di sapere iniziatico, ermetismo, gnosi e cabala, in un linguaggio “aperto al pubblico”, in questo seguendo quella tendenza dalla modernità inaugurata, volta all’universalizzazione della conoscenza, anche di quella esoterica. L’intero costrutto sapienziale kremmerziano andrà, pertanto, seguendo alcune fondamentali coordinate di pensiero. L’esistenza di un’Ars Regia, da lui identificata come alchimia o superchimica in grado di fare di una bestia un semidio o, più prosaicamente, di un uomo un “iddio”. Un’Ars che, attraverso i suoi più illustri rappresentanti, da Bacone a Raimondo Lullo, da Paracelso a Tritemio, non senza passare per Giordano Bruno e Campanella, ci indica la Via Maestra per arrivare al perfezionamento interiore, sino a raggiungere la sfera divina. Nel Cosmo come nell’uomo, non vi può essere Molteplicità senza Unità. La classica bipartizione anima-corpo, frutto della concezione ellenistica e cristiana, è illusoria, quanto quella buddhista dei sette stati della nostra individualità. Tutto, l’intero creato, rimanda ad una Unità Originaria, le cui componenti altro non sono che parti integranti di quest’ultima ed esaminando le quali nella loro singolarità, si va a perdere l’unità del Tutto. Pertanto il lavoro conoscitivo che il Kremmerz indica, dev’essere svolto sull’uomo considerato quale inscindibile unità corpo-anima-spirito.

Se, in omaggio ad una concezione olistica della realtà, il macrocosmo è strettamente interrelato con il microcosmo dell’umana interiorità, altrettanto vero è che la mente, in quanto complesso e causa dell’effetto pensante è moto, movimento nello spazio. Uno spazio che non ha dimensioni ed in cui la mente umana può muoversi passando dalle sintesi dell’umano pensiero a quelle del pensiero universale, divino o assoluto che dir si voglia. In questo modo qui Kremmerz sembra voler ripercorrere la strada indicata da Hegel attraverso la sua Fenomenologia dello Spirito che vede nella coincidenza tra i due piani di Pensiero, Assoluto ed Individuale, la via alla sintesi perfetta. Lo stesso meccanismo di matematica simbolica, attraverso il quale Kremmerz identifica l’intero processo generativo universale, dato dalla somma del principio maschile solare (1) con il principio femminile lunare (2)= creazione, sembra riprendere le coordinate hegeliane di Tesi+Antitesi=Sintesi, stavolta, però, reinterpretate in chiave “magica”.

La stessa prassi operativa “magica” è dal Kremmerz, classificata secondo due modalità. La prima, “osiridea”, che attiene alla sfera individuale di colui che agisce, nel conferire al “mago” la capacità di elevarsi sino alle sfere del divino, gli lascia mano libera a qualsiasi azione sulla realtà circostante. La seconda, più elementare, a sua volta definita “isiaca”, è quella modalità secondo la quale si addiviene alla trasformazione delle realtà circostante solo attraverso le forze che si incontrano lungo la strada e non attraverso la sola azione dell’ “io magico” del primo caso. Fondamentale in Kremmerz è, poi, l’idea della presenza di Eoni o Spiriti, nel ruolo di vere e proprie entità animiche, o demoni, intermediarie tra il mondo terreno e la sfera del sovrannaturale. Entità queste, che sta agli adepti evocare, al fine di poter operare quel tanto agognato lavoro di magica trasmutazione sulla realtà circostante. Centrale è, in questa forma di ritualità teurgica, il ruolo della “catena” degli adepti e del maestro, primus inter pares, nel ruolo primario di “antenna trasmittente”, di contatto primario tra il cerchio magico e le Entità evocate. Non senza dimenticare una concezione “continuistica” dell’esistenza che non si esaurisce con la morte, vista quale momento di passaggio da uno stato di essere ad un altro e di cui, la reincarnazione costituisce il momento-principe. Il corpo sottile, il perispirito, con la morte fisica, prendono la via delle dimensioni superne e, a seconda della forza individuale, o divengono spiriti superiori, semidei, o tornano ad incarnarsi, seguendo il flusso universale delle anime.

Ma, l’ultimo e più importante punto dell’intero costrutto kremmerziano, sta proprio nell’invito al non prestar ascolto ad alcuno che non sia il proprio “Sé”, bensì, per dirla in termini kremmerziani, il proprio impersonale “maestro sconosciuto”, quel “daimon” ispiratore, volto a far procedere il miste attraverso un lavoro di assidua sperimentazione sul proprio “Io”. Un lavoro continuo, dal quale solo, può uscire un individuo alchimicamente rinnovato e potenziato. E questo sembra esser lo scopo dichiarato della Scuola Ermetica Integrale. Kremmerz cerca di fare della “Magia” o Scienza Integrale, una scienza affine ed in continuo confronto con gli altri saperi, che si accalcavano sullo scenario della nascente modernità. Va però detto che, il suo atteggiamento di fondamentale scetticismo e di, neanche troppo, velata critica al dogmatismo delle grandi religioni ed ai loro postulati, tipico di una originaria matrice massonica, contrasta vivamente con l’asserzione della non provata esistenza di Eoni, o della reincarnazione, tanto per fare alcuni esempi. Nell’esprimere critiche alle fedi tradizionali, il grande esoterista partenopeo, sembra egli stesso farsi latore di una nuova fede…Kremmerz parla per un pubblico più o meno a digiuno di certe materie ma, a ben vedere, come abbiamo già detto all’inizio, il suo sapere costituisce una personalissima rielaborazione in chiave moderna ed aggiornata, dell’intero complesso sapienziale gnostico-ermetico (e cabalistico…), con una forte influenza di elementi tratti dall’hegelismo.

Tutto ciò non toglie la valenza innovatrice del pensiero kremmerziano. Difatti, nonostante egli risenta dell’influenza dei fondamentali del pensiero esoterico occidentale, in ossequio alle istanze dell’epoca, si fa portatore di un lavoro volto alla progressiva rivalutazione di un pensiero “autenticamente” occidentale, Latino, Pitagorico e Pagano, via via sempre più lontano da suggestioni esotiche ed orientalizzanti, avvicinandosi all’opera di un Arturo Reghini o di un Amedeo Armentano (Ara). In secondo luogo, a più di ottant’anni dalla sua morte, l’opera di Kremmerz comincia ad assumere un significato molto più attuale, proprio in seguito ad un progresso scientifico che, con teorie come quella della complessità e con la fisica quantistica, da Max Planck e Wolfgang Pauli in poi ed anche con le stesse forme di sapere epistemologici, ci stanno insegnando a modulare la ratio scientifica secondo paradossi fisico-matematici, arrivando addirittura alla epistemologica dimostrazione della non necessaria dimostrazione di un qualsivoglia assunto teorico. Il tutto, non senza dimenticare il fondamentale lavoro svolto dalla psicanalitica junghiana, volta a rivalutare la stretta connessione tra le pulsioni latenti nell’umano inconscio e le loro più evidenti manifestazioni, o proiezioni che dir si voglia, esterne. Ma, come ben si sa, quando si gioca con la sfera esoterica, ovverosia quella di una realtà nascosta rivelata per simboli, si sa dove si comincia, ma si può anche non sapere dove si va a finire…l’Ars Regia, la possibilità di operare un trasmutazione “magica” su di sé e sulla realtà, offre delle troppo spesso irresistibili tentazioni ad un ego umano, debole e vanitoso. Agire magicamente in direzione di un illimitato e smisurato potenziamento del Sé, può far degenerare l’Ars Regia, verso una abissale Nigredo, verso una irrimediabile caduta dall’altezza degli intenti originari.

E certi “scivoloni” sembrano caratterizzare più o meno i percorsi di tutti i grandi pensatori, esoterici e non. La veemenza predicatoria di Giordano Bruno si spense sulle fiamme di un infame rogo. Nietzsche pagò con la follia i propri salaci aforismi. E gli esempi potrebbero continuare all’infinito…Nulla di così tragico accadde al maestro partenopeo, ma, qualcuno ha insinuato di certe pratiche di magia cosiddetta “avatarica”, volte cioè a sostituire con la propria anima (o con quella di un’Entità…) un’anima occupante un qualsivoglia “soma”, della cui pratica il Kremmerz sarebbe stato accusato, nei riguardi della figura di un nipote. Vero? Falso? Nel propendere decisamente per la seconda risposta, visto che l’umana invidia accompagnate alla maldicenza fanno meglio e più di tante magie, permane il fatto che, successivamente alla morte del grande esoterista partenopeo, sorsero una miriade di scuole, gruppi e gruppetti rifacentisi al pensiero kremmerziano. E, sicuramente, tra questi qualcuno ha “sgarrato”, finendo per inserirsi in un ambito ed in un circuito propriamente “controiniziatici”, deviando e deformando irrimediabilmente gli originari contenuti della scuola miriamica, così come concepita dal Kremmerz.

Quella di Formisano/Kremmerz è, dunque, stata una vicenda dai mille contorni, sfumature ed influenze. Trattandosi di una forma di pensiero “magico”, esoterico “par excellence”, non è possibile ad oggi, quantificarne l’influenza, viste le connessioni e gli intrecci con altre consimili forme di pensiero, passate e presenti. Resta il fatto che, di fronte alla dimensione di squallida monotonia ed omologazione di stampo materialista offerta dalla nostra marcia contemporaneità, il pensiero di Kremmerz è in grado, a suo modo, di offrirci una via di fuga in quell’ “altrove”, in quel regno dell’annullamento degli opposti e dei contrari, in cui è possibile “tutto ciò che è e che non è”, in barba a tutti i principi di non contraddizione e di cui l’Uomo, da sempre, sente innato bisogno, per trarre linfa vitale ed ispirazione senza fine.

UMBERTO BIANCHI   Materiale fotografico ripreso dal sito www.ritikremmerz.it

Decima Flottiglia M.A.S.: propaganda per la riscossa (VII parte) – Gianluca Padovan

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«Sappiamo che si vince quando si è saputo dare, al cammino inarrestabile della civiltà, un’impronta non pallida né secondaria»

Decima Flottiglia M.A.S. – Reparto Stampa, Vincere nel tempo
    Un principe in Marina.

Il principe Junio Valero Borghese (Roma 1906 – Cadice 1974) è discendente della Famiglia Borghese, d’antica casata.

Nel 1922 entra nella Regia Accademia Navale, divenendo Allievo della I Classe, matricola n° 975. Nel 1927 è aspirante guardiamarina e successivamente diviene Sottotenente di Vascello. Nel 1931 sposa la contessa Daria Wassilevna Olsoufieff e poco dopo è destinato alla Scuola del Corpo Reale Equipaggi Marittimi (C.R.E.M.) a Pola.

L’anno successivo, dietro sua espressa richiesta, Borghese è imbarcato su di un sommergibile; ricoprirà il grado di Ufficiale in 2a sul Tricheco, battello della Classe Squalo. Il 23 gennaio 1933 s’imbarca sul rimorchiatore d’alto mare Titano, dove potrà conseguire il brevetto di palombaro. Dopo un breve periodo sulla Nave Scuola a vela Cristoforo Colombo ed essere stato promosso a Tenente di Vascello, torna sul Titano nel 1934 «per proseguire il primo tirocinio per palombari di grande profondità dal 14 marzo al 2 maggio 1934, quando, dopo avere raggiunta la profondità record di 150 metri con scafandro rigido e avere ottenuto anche quel brevetto, divenuto ormai esperto sui problemi subacquei, sulle immersioni, sui fenomeni fisici e di lavoro nelle profondità marine, fu nominato Comandante in 2a di quel rimorchiatore d’alto mare, divenendo a sua volta istruttore degli allievi palombari e sbarcando solo il 29 ottobre 1935» (Sergio Nesi, Junio Valerio Borghese un Principe un Comandante un Italiano, Editrice Lo Scarabeo, Bologna 2004, p. 84).

    Vicende belliche.

Con la guerra Italo-Abissina Borghese è nel porto di Massaua nel novembre del 1935, ancora a bordo del Tricheco. Due anni dopo s’imbarca sul sommergibile Giuseppe Finzi e il 15 giugno 1937 assume il comando di un altro sommergibile, l’Iride.

Nel corso della Guerra Civile Spagnola il battello è ridenominato Gonzales Lopez e successivamente L.3, effettuando alcune missioni e siluramenti. Verso il termine dello stesso anno Borghese assume il comando di un altro sommergibile, il Galileo Ferraris, per poi rientrare sull’Iride.

Dopo ulteriori imbarchi su altri battelli, all’ingresso del Regno d’Italia in guerra Borghese si trova al comando del Vettor Pisani, un sommergibile di media crociera. L’11 settembre 1940 Borghese, già nominato Capitano di Corvetta, assume ufficialmente il comando del sommergibile Sciré, con cui compirà numerose missioni, le quali rimarranno nella storia della marineria mondiale. Si tratta di un battello della Serie “Adua”, Classe “600”, modificato per essere destinato ad “avvicinatore” con l’installazione in coperta di tre contenitori cilindrici stagni dove alloggiare altrettanti S.L.C.

Le missioni di guerra effettuate dagli incursori italiani sono numerose e su di esse vi è una discreta letteratura, unitamente alle onorificenze e alle medaglie al valore ottenute tanto da Borghese quanto dagli altri appartenenti alla Marina. Un vero capolavoro d’intelligenza, perizia e coraggio è anche la costituzione di una base d’attacco nella baia di Algesiras e in prossimità del porto militare inglese di Gibilterra: Villa Carmela, come base logistica, e la nave mercantile Olterra, come base operativa, da cui sono partite le missioni contro le navi avversarie.

Il tutto si può riassumere con la trascrizione di una parte dell’articolo composto da un inglese, il Tenente di Vascello Frank Goldsworthy, pubblicato sul Sunday Express il 25 dicembre 1949; egli «unitamente al com.te Lionel Crabb e al t.v. Peter Mc Donald, faceva parte del servizio segreto navale britannico ed era stato destinato a Gibilterra.

Lo ‘Scirè’, al comando del principe Borghese, portava tre equipaggi di mezzi d’assalto per un attacco alle navi da battaglia inglesi a Gibilterra. Cominciava così una guerra di tre anni, combattuta in silenzio sotto la superficie della baia di Gibilterra. Al prezzo di 3 morti e 3 prigionieri, le unità dei mezzi d’assalto italiani vi affondarono o danneggiarono 14 bastimenti alleati, per un totale di 73.000 tonn. La costante minaccia del silenzioso attacco notturno richiese decine di migliaia di ore di vigilanza da parte del personale della Marina e dell’Esercito. La storia intima di questa guerra nella guerra è una lunga cronaca di insidie e di stratagemmi. Non una delle 7 operazioni condotte dagli italiani intaccò la neutralità spagnola; e ognuna richiese da parte degli attaccanti tanta audacia e resistenza fisica da suscitare il rispetto di qualsiasi marina del mondo”» (Ibidem, p. 122).

Il resto è Storia.  

Il giorno 8 marzo 1942 Borghese lascia il comando dello Scirè e nel frattempo «la X Flottiglia M.A.S. era passata alle dipendenze dell’Ispettorato Generale dei M.A.S., costituito per disciplinare e coordinare le attività di tutte le flottiglie di M.A.S., di M.S. (motosiluranti) e di M.V. (motovedette). Ispettore Generale era l’ammiraglio Aimone di Savoia Aosta, che fin dal loro nascere aveva seguito l’evoluzione dei nuovi mezzi con simpatia e con una personale attenzione» (Ibidem, p. 163).

Il 1° maggio 1943 l’oramai Capitano di Fregata Junio Valerio Borghese assume il comando della Xa Flottiglia M.A.S., unitamente al Reparto di superficie, sostituendo il pari grado Ernesto Sforza. Dopo la battaglia di El-Alamein la situazione in Africa Settentrionale è compromessa e le truppe italo-tedesche sono in quasi costante ripiegamento, fino alla resa del 13 maggio 1943. Il 10 luglio gli angloamericani sbarcano in Sicilia e s’impone la difesa del suolo italiano.

Scrive Sergio Nesi: «Il Com.te Borghese ha narrato sinteticamente quella fase convulsa della guerra, con i barchini siluranti impegnati allo spasimo in agguati davanti a Siracusa, Augusta, Catania, Taormina, con l’attacco di Lenzi e Barabino a due incrociatori inglesi che bombardavano il viadotto di Sant’Agostino lungo la strada che porta a Messina, con le azioni combinate assieme agli N.P. del comandante Nino Buttazzoni per operare sbarchi di guastatori alle spalle delle linee nemiche, come gli sbarchi compiuti dal c.c. Aldo Lenzi, dal t.v. Ongarillo Ungarelli e dal s.t.v. Gustavo Fracassini a Capo Santa Croce» (Ibidem, p. 199).

    Le considerazioni di un inglese.

La situazione politica italiana del periodo è condensata in forma interessante, ma indubbiamente asettica, dal Maggiore Generale dell’Esercito Britannico William Godfrey Fothergill Jackson (1917 – 1999), il quale è stato Governatore di Gibilterra dal 1978 al 1982:

«C’erano in Italia tre fazioni principali che, come Mussolini, stavano cercando un modo per far uscire il loro paese dalla guerra: i fascisti dissidenti capeggiati da Ciano e Grandi; i partiti clandestini e antifascisti; e un gruppo di alti ufficiali del Comando Supremo che, conoscendo la vera situazione militare, desideravano risparmiare al loro paese ulteriori e inutili sacrifici. La storia degli intrighi, dei complotti e dei controcomplotti di questi tre gruppi non fa parte della storia della Battaglia d’Italia. Basterà qui dire che i gruppi più influenti desideravano tutti raggiungere il loro scopo instaurando un governo costituzionale posto sotto la monarchia e che tutti erano dell’opinione che un coup d’état contro Mussolini avrebbe comportato ben pochi vantaggi se non si fosse riusciti a rompere l’alleanza coi tedeschi senza incorrere nella loro vendetta. Un modo per ottenere ciò era di mettersi alla mercè degli alleati, ma essi erano ancora troppo lontani per poterli proteggere dai tedeschi e avevano malauguratamente dimostrato scarsa comprensione per la situazione dell’Italia, annunciando, dopo la conferenza di Casablanca, la formula della “resa incondizionata”» (William G. F. Jackson, La Battaglia d’Italia, Edizioni Accademia, Milano 1978, p. 25).

William Godfrey Fothergill Jackson, assai curiosamente, si guarda bene dal fare qualsivoglia accenno al Re d’Italia e a Casa Savoia, ovvero a chi comandava e da cui erano “partiti” interessanti ordini per il raggiungimento della resa.

Ad ogni buon conto, mediante “complotti” e “controcomplotti”, almeno dal 1942 c’era chi, in seno alle Regie FF. AA. Italiane, si stava adoperando per giungere a una intesa con gli angloamericani. Permane il forte dubbio che in Italia qualche cosa non “funzionasse” fin dall’entrata in guerra, ovvero dal 1940, per non dire già da ben prima.

Si tornerà in altre “puntate” sull’argomento e riportando alcuni stralci del prezioso lavoro condotto da Elena Aga Rossi: L’inganno reciproco. L’armistizio tra l’Italia e gli angloamericani del settembre 1943 (Pubblicazioni degli Archivi di Stato – Fonti XVI, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali – Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, Roma 1993).

    La “cabrata”. Vediamo ora i fatti essenziali.

A Roma, nel tardo pomeriggio del 24 luglio 1943, si riunisce al completo il Gran Consiglio del Fascismo. (1)

Sono presenti, oltre a Benito Mussolini in qualità di Presidente, i 28 componenti del Gran Consiglio del Fascismo: Giacomo Acerbo, Umberto Albini, Dino Alfieri, Giovanni Balella, Giuseppe Bastianini, Carlo Biggini, Annio Bignardi, Giuseppe Bottai, Guido Buffarini-Guidi, Tullio Cianetti, Galeazzo Ciano, Emilio De Bono, Alfredo De Marsico, Alberto De Stefani, Cesare Maria De Vecchi, Roberto Farinacci, Luigi Federzoni, Ettore Frattari, Enzo Galbiati, Luciano Gottardi, Dino Grandi, Giovanni Marinelli, Carluccio Pareschi, Gaetano Polverelli, Edmondo Rossoni, Carlo Scorza, Giacomo Suardo, Antonino Tringali-Casanova.

I lavori del Gran Consiglio sono terminati nell’ora seconda del mattino seguente con l’approvazione dell’Ordine del Giorno presentato da Dino Grandi.

Contro l’O.d.G. di Grandi votano: Biggini, Buffarini-Guidi, Frattari, Galbiati, Scorza, Polverelli, Tringali-Casanova. Astenuto: Suardo. Vota a favore del proprio O.d.G. Farinacci.

In sostanza si vota la sfiducia a Benito Mussolini con la richiesta a Re Vittorio Emanuele III di assumere l’effettivo comando delle Forze Armate Italiane. Casa Savoia aveva già preso, lo si rammenta, ampi accordi con Inglesi e Americani.

La mattina del 25 il Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio è nominato Capo del Governo dal Re e nel tardo pomeriggio Benito Mussolini si reca anch’egli in udienza dal sovrano, al termine della quale è “fatto arrestare” dai Carabinieri e tradotto nella Caserma della Legione Allievi Carabinieri. Il giorno 27 Badoglio decreta lo scioglimento del Partito Nazionale Fascista. (2)

Dopo alcuni trasferimenti avvenuti nei giorni e nelle settimane successivi Mussolini è fatto giungere nell’albergo di Campo Imperatore, al monte Aquila, nel massiccio del Gran Sasso d’Italia, dove rimane dal 2 al 12 settembre. Con l’Operazione Quercia le truppe aviotrasportate tedesche giungono a Campo Imperatore e prelevano Mussolini portandolo a Vienna. Il giorno 13 è a Monaco di Baviera, incontrandovi il Cancelliere di Germania Adolf Hitler. (3)

    Note  

1) Gran Consiglio del Fascismo: «Articolo 1. Il Gran Consiglio del Fascismo è l’organo supremo, che coordina e integra tutte le attività del Regime sorto dalla Rivoluzione dell’ottobre 1922. Esso ha funzioni deliberative nei casi stabiliti dalla legge, e dà, inoltre, parere su ogni altra questione politica, economica e sociale di interesse nazionale, sulla quale sia interrogato dal Capo del Governo» (Legge 9 dicembre 1928, n. 2693, Gazzetta Ufficiale, 11 dicembre 1928, n. 287).

Possiamo leggere sul sito web del Grande Oriente d’Italia Democratico: «Di fatto, con le gesta del 24-25 luglio 1943, il Gran Consiglio del Fascismo (che sin nel nome era stato concepito dai massoni di destra convertiti al Fascismo in omaggio alle consuete simbologie muratorie) ritirava la delega che - con il consenso della grande industria e dei vertici militari di fede monarchica - circa vent’anni prima aveva conferito al formalmente mangia-massoni Benito Mussolini, per instaurare una dittatura che risolvesse i gravi problemi politici italiani. La stessa grande industria privata (il massone Vittorio Valletta alla Fiat ed altri a capo di altre imprese), la dirigenza di quella pubblica cresciuta alla corte del massone Alberto Beneduce (già Presidente dell’IRI) e quasi tutte le più alte cariche militari erano rappresentate da antichi frequentatori di logge (spesso della parte più retriva e conservatrice) che, dopo aver tradito per due decenni i propri giuramenti libero-muratori ed aver assistito indifferenti alla persecuzione di fratelli sinceramente liberali e democratici (condannati al confino, all’esilio o assassinati), adesso si riprendevano in mano il potere, dopo aver constatato il fallimento dell’homo novus di Predappio. Del resto, a partire da Dino Grandi, che fece votare il suo ordine del giorno di sostanziale sfiducia a Mussolini, la maggioranza dei componenti di quel consesso, fondato il 15 dicembre 1922, era sempre stata saldamente nelle mani di detentori di grembiulini e guanti bianchi. E Grandi (nato nel 1895), che morirà serenamente di vecchiaia a 93 anni nel 1988, pur essendo implicato fino al collo nel fascismo squadrista ed eversivo prima e nel governo in nome del regime dittatoriale poi (come Ambasciatore a Londra, Ministro degli Esteri e Ministro Guardasigilli), diverrà nel Secondo Dopoguerra - proprio in virtù della sua mai riposta appartenenza alla massoneria destrorsa - un autorevole intermediario di delicate operazioni industriali e politiche da una parte all’altra dell’Atlantico, in un rapporto di stretta collaborazione con gli ambasciatori statunitensi in Italia, prima fra tutti l’ambasciatrice Clare Boothe Luce (già membra repubblicana molto conservatrice della Camera dei Rappresentanti USA dal 1943 al 1947), che risiedette a Roma nei cruciali anni dal 1953 al 1956» .

Poi che ognuno, serenamente, conduca le proprie indagini.  

2) Le conseguenze dello scioglimento del P.N.F. prima e della resa incondizionata poi compromettono fortemente la già poco efficiente difesa antiaerea, dato di fatto generalmente e curiosamente sottovalutato. Nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (M.V.S.N.) vi erano le Milizie Speciali, tra cui l’Artiglieria Contraerea, la quale era destinata all’organizzazione della difesa contraerea territoriale (Di.Ca.T, D.I.C.A.T., “Miliazia Dicat, o anche M.C.A.). In ogni caso l’organizzazione presentava già forti carenze e ad esempio: «La DICAT, difatti, dipendeva da un ente prettamente amministrativo quale il Ministero della Guerra, che non era uso al comando e controllo di truppe. Solo a guerra inoltrata si rimediò alla situazione, transitando la difesa territoriale sotto lo SMRE. Inoltre, erano troppi gli organismi preposti alla difesa controaerei, che facevano a loro volta capo all’Esercito, alla Milizia ed alla Marina, senza contare la PAA che – sino al marzo 1940 – aveva dipeso dal Ministero dell’Interno» (Filippo Cappellano, L’artiglieria controaerei italiana sino al 1943, in Storia Militare, N. 18, Marzo-Aprile, Parma 2015, p. 26).

In buona sostanza i Militi della “controaerei” ci misero anche tutta la loro buona volontà, ma la situazione politica e militare certamente ne limitò fortemente le potenzialità nonché l’entusiasmo. A questo s’aggiunga il fatto che l’artiglieria antiaerei aveva pochi validi pezzi e in ritardo giunsero adeguati sistemi di puntamento.

 

3) I fatti della Seconda Guerra Mondiale hanno prodotto svariate “leggende”, o meglio taluni fatti sono stati “travisati” o riportati in modo non conforme alla realtà dell’accaduto. Uno di questi è che a “liberare” Mussolini sia stato l’ufficiale delle SS Otto Skorzeny (Vienna 1908 – Madrid 1975). In realtà l’Operazione Quercia (Fall Eiche) è stata condotta dall’ufficiale della Wehrmacht Harald Mors (Alessandria d’Egitto 1910 – Bergam am See 2001), come riportato anche nel libro di Marco Patricelli dove nell’introduzione scrive: «Hitler ordina, il generale Student coordina, il maggiore Mors elabora ed esegue, il capitano Skorzeny diventa eroe» (Marco Patricelli, Liberate il Duce. Gran Sasso 1943: la vera storia dell’Operazione Quercia, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2001, p. 3).

Non si può sottacere come si sia ipotizzato che Mussolini fosse tenuto “in serbo” in albergo e il tutto non fosse altro che uno degli atti conclusivi della concertata resa incondizionata; secondo fonti tutt’altro che confermate se la resa fosse andata a buon fine Mussolini avrebbe potuto riprendere il suo posto al Governo accanto al Re e con il beneplacito degli U.S.A. a guerra conclusa. Sia come sia si può esaurire la questione con le parole di Vincenzo Di Michele: «La sorte dell’Italia fu racchiusa tutta, nell’ambivalenza di una condizione stretta tra le esigenze dell’occupazione e le necessità politico-propagandistiche della sopravvivenza di una alleanza, il cui riconoscimento effettivo si scontrava con condizioni di fatto che oggettivamente tendevano a negalo. Al di là dell’interesse personale di Hitler nei confronti della persona di Mussolini più che del ruolo, la Germania era senza ombra di dubbio interessata a tenere l’Italia, proprio per arrestare l’avanzata anglo-americana sulle posizioni più lontane possibili dal confine meridionale del Reich» (Vincenzo Di Michele, Mussolini finto prigioniero al Gran Sasso, Editore Curiosando, Firenze 2011, p. 205).

Ancora nel 2016 si scrive e non solo sul Corriere della Sera: «“Abbiamo stretto un patto con il diavolo”. Questo il pensiero degli agenti del Mossad che nei primi mesi del 1962 riuscirono a “persuadere” Otto Skorzeny – l’ex ufficiale delle SS che liberò Mussolini dal Gran Sasso – a diventare non solo un preziosissimo informatore per il servizio di intelligence del neonato Stato ebraico ma, addirittura, un killer capace di eliminare gli scienziati tedeschi che allora si erano messi al servizio del Paese considerato il nemico numero uno di Israele: l’Egitto» (dall’articolo di Paolo Salom, Corriere della Sera, 28 marzo 2016; consultabile sul Web.

Di contro, documenta Luigi Romersa: «Un giorno, nella primavera del 1956, mentre mi trovavo al Cairo in occasione dell’attacco simultaneo a Suez delle forze israeliane e di quelle aviotrasportate franco-britanniche, venni a sapere da un misterioso personaggio che viveva rifugiato in Egitto, ospite personale di Nasser, e cioè il Gran Muftì di Gerusalemme, Mohammed Hussein, che Otto Skorzeny si trovava in città (…). Che cosa ci faceva Skorzeny in Egitto? Su invito di Nasser addestrava i commando del Rais che, al Cairo, venivano pomposamente chiamati “Caimani del Nilo”» (Luigi Romersa, I segreti della Seconda guerra mondiale, Ugo Mursia Editore, Milano 2006, p. 318).

Va ricordato che i Caimani del Piave erano uno speciale reparto italiano di nuotatori-assaltatori volontari costituito dopo la rotta di Caporetto: e qui si parla di gente italiana e di ben altra “stoffa”.

Considerazioni su “Pan è morto e noi l’abbiamo ucciso. Civitas Dei e Civitas Diaboli” di Riccardo Tennenini – Flavia Corso

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Recentemente, ho avuto occasione di leggere il saggio di Riccardo Tennenini “Pan è morto e noi l’abbiamo ucciso”, edizioni Ritter, rimanendone piacevolmente colpita. Il libro analizza in modo efficace il lungo e tortuoso percorso dell’uomo occidentale, a partire dalle prime grandi civiltà fino all’apice della civilizzazione contemporanea. Viviamo oggi un’epoca oscura che, come evidenzia con chiarezza l’autore, ha perso qualsiasi tipo di legame con la Tradizione originaria, con quella sacralità che un tempo era misura di tutte le cose, arma contro il degrado spirituale, morale e politico dell’essere umano. Nel Kaliyuga trionfano ignoranza e superstizione; l’immortalità da salvezza si tramuta in dannazione, nella volontà di prolungare all’infinito la propria esistenza terrena dimenticando tutto ciò che è trascendente. Dall’abbandono dell’idea dell’Uno come essere supremo ed immutabile dal quale viene emanato il molteplice, la storia è stata più volte testimone dei tentativi umani di recuperare le chiavi dei Misteri perduti. La tensione verso il Sacro è innata nell’essere umano, il venir meno dell’elemento spirituale conduce inesorabilmente ad un impoverimento sociale e culturale.

L’autore è riuscito a cogliere intelligentemente i tasselli che hanno contribuito ad allontanare l’uomo dal nous e dalla ricerca iniziatica della Verità: dalla nascita del Cristianesimo, che porta in sé la commistione di sacro e profano, passando per l’Umanesimo e l’Illuminismo – movimenti culturali che mettono al centro dell’universo l’uomo in quanto essere razionale e cosmopolita, fino all’evoluzionismo di stampo darwiniano. Anche Marx, Einstein e Freud, tre grandi impostori della storia, non hanno fatto altro che porre ulteriori fondamenta per la costruzione in serie dell’uomo nuovo che, nella ricerca spasmodica di una libertà che ha solamente una valenza negativa, non fa che alienare se stesso e le sue capacità nella società dei consumi, in cui vigono imperativi nuovi: “compra e fatti comprare, produci e sii prodotto, ibridati e non cercare altra verità fuorché quella che ti viene offerta al miglior prezzo”. Fenomeni attuali come l’ideologia gender, il multiculturalismo, la robotizzazione e l’avvento della nuova religione New Age vengono presi in esame con estrema coscienza critica ed individuandone i capisaldi filosofici ed esoterici.

Il libro di Tennenini è, in conclusione, una giusta e feroce critica della disumanizzazione contemporanea, inevitabile conseguenza della graduale desacralizzazione di ogni ambito del reale che, lungi dall’aver liberato i popoli, li ha resi apatici e ancor più schiavi. Col suo stile lineare e conciso, l’autore riesce a tenere alta l’attenzione del lettore dall’inizio fino alla fine del libro, e dalle sue righe si percepisce l’amore profondo che nutre per la verità e la bellezza.

Flavia Corso
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