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Dalla seconda guerra punica alla Marina Imperiale Romana – Francesco Mancini

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Nel libro “The Influence of Sea Power Upon History 1660-1783”, pubblicato nel 1890 da Alfred Thayer Mahan, l'autore ricerca una stima dell'effetto del potere navale sul corso della storia e sulla prosperità delle nazioni. Nella prefazione viene citato lo storico Arnold, autore della “Storia di Roma”, che accosta Scipione a Wellington. Entrambi impegnati a combattere in Spagna per lunghi anni, lontani dai principali teatri di guerra, sconfiggeranno tutti i generali nemici in sottordine prima di arrivare allo scontro finale vittorioso, contro Annibale il condottiero romano e contro Napoleone il duca inglese. Mahan fa notare che lo storico inglese non evidenzia che ad entrambi i generali vincitori apparteneva il dominio del mare. Se nella seconda guerra punica non ci furono battaglie navali importanti ciò indicava una supremazia di Roma sul suo tradizionale rivale marittimo. Infatti per quale motivo Annibale avrebbe dovuto intraprendere una logorante marcia attraverso la Gallia e le Alpi per entrare in Italia, perdendo trentamila soldati veterani sui sessantamila con cui era partito? Evidentemente la sua flotta sulle coste spagnole non era forte abbastanza per competere con quella romana e proteggere un così grande trasporto di truppe in Italia. Roma rispose a questa iniziativa con due distinte spedizioni navali che contavano insieme duecentoventi navi al comando dei due vecchi Scipioni e che portarono un esercito consolare in Spagna, sul fiume Ebro, e l'altro in Sicilia.

Con il primo, che occupava la regione dell'Ebro, i romani tagliavano le vie di comunicazione di Annibale dalla Spagna. Con il controllo della Sicilia venivano recisi i collegamenti marittimi con Cartagine. Annibale, che si era stabilito nell'Italia meridionale durante la sua campagna militare, si era alienato, col tempo, il favore delle popolazioni. Egli aveva necessità di rifornimenti e di rinforzi. Ma attraverso quali vie di comunicazione? Con Cartagine e la Spagna non era possibile visto che il potere marittimo romano controllava una porzione di mare a nord di una linea che andava da Tarragona a Marsala e da lì per la costa settentrionale della Sicilia attraverso lo stretto di Messina giú fino a Siracusa e quindi a Brindisi in Adriatico. Rimaneva la Macedonia ma Roma stabilí una base a Brindisi ed una squadra navale per controllare il basso Adriatico. La mancanza di una flotta da guerra da parte di Filippo V paralizzó tutti i suoi movimenti. Il potere marittimo romano tenne la Macedonia completamente fuori dalla guerra! Anche con la conquista di Taranto Annibale ebbe lo stesso problema in quanto la rocca dell'Acropoli resistette all'assedio rifornita via mare dalla flotta romana e lo scalo non potette essere usato dai cartaginesi per rifornire il suo generale.

Questo non escludeva scorrerie navali da parte cartaginese di supporto ad Annibale che comunque non permisero quelle comunicazioni continue e sicure che egli ricercó ma che non riuscí mai ad ottenere a causa del controllo che Roma esercitava sui mari interessati a quei traffici. La guerra durava da dieci anni quando Asdrubale entró in Italia da nord per cercare di ricongiungersi con suo fratello Annibale e sferrare, uniti i propri eserciti, il colpo decisivo alle legioni romane. Ma mentre Asdrubale attraversava la Gallia, Publio Scipione inviava dalla Spagna undici mila uomini via mare a sostegno dell'esercito romano dislocato a nord della penisola. Claudio Nerone, dopo aver intercettarono messaggeri di Asdrubale inviati al fratello, che indicavano il percorso che egli avrebbe seguito, distaccó 8000 dei suoi migliori soldati delle forze romane presenti al sud e le invió a nord, sfuggendo alla vigilanza di Annibale. Effettuato il ricongiungimento delle forze, i romani distrussero Asdrubale e le sue forze nella battaglia del Metauro con una schiacciante superioritá. Era la fine del sogno di Annibale di sconfiggere Roma. Cosa sono dunque il potere marittimo ed il dominio del mare ?

Mahan non dá alcuna definizione ma individua un insieme di elementi che contribuiscono, se ben usati dalla classe dirigente di uno stato, al loro raggiungimento; una flotta mercantile, una flotta militare e delle basi di appoggio, ovvero dei porti. La flotta mercantile, l'insieme delle navi che trasportano grandi quantitá di beni, nel modo ancor oggi piú veloce ed economico, genera ed amplifica la ricchezza del proprio paese. Affinché queste navi possano viaggiare su lunghi tragitti é necessario che abbiano degli scali intermedi in territori non ostili o amici. Una flotta militare ben organizzata sará necessaria pertanto a mantenere libere le vie di comunicazione per le proprie navi e negarle al naviglio del paese nemico. Una forza navale opportunamente dislocata puó creare deterrenza scoraggiando l'uso del mare da parte di altri paesi e rappresenta lo strumento per difendere una linea costiera o proiettare proprie forze militari sul campo abbreviando distanze e tempi. Nel momento in cui il commercio di Roma nel Mediterraneo occidentale cresce agli inizi del III secolo a.C. si arriva allo scontro per la supremazia sulla porzione di mare interessato da questi traffici. La I guerra punica porterá Roma a divenire una potenza marittima e sará l'intelligente uso del suo potere marittimo, nel corso della II guerra punica, a farle superare la dura prova contro Annibale. Nonostante tutti questi insegnamenti non venne creata una flotta permanente.

Nel libro “The Roman Imperial Navy”, pubblicato nel 1941, Chester G. Starr apre la sua interessante disamina evidenziando che la pace sul mare poggiava su un disarmo navale imposto da Roma agli inizi del II secolo a.C. e rotta in successione dall'invasione della Grecia da parte di Mitridate, dalla pirateria e dalle guerre civili. É la prima guerra Mitridatica (88-84 a.C.) l'evento che segna se non gli inizi della marina imperiale Romana certamente quelli del suo primo nucleo permanente. Nell' 84 a.C., con la conclusione della pace con Mitridate, Silla fece allestire una flotta di circa cento navi militari per la difesa dell'Asia Minore, a spese delle città marittime alleate. Esse saranno tuttavia insufficienti a combattere la pirateria, della Cilicia in particolare, che diverrà in pochi decenni una piaga che infesterà tutto il Mediterraneo. L'improvvisa apparizione di una grande flotta romana nel 67 a.C., al comando di Pompeo, che verrà a capo del problema, si spiega con l'integrazione di forze navali romane alle preesistenti alleate già operanti nel settore orientale del Mediterraneo. Nel 62 a.C. Pompeo ottenne, al costo di quattro milioni e trecentomila sesterzi, che una flotta permanente pattugliasse il Mar Tirreno e l'Adriatico. Nel mar Egeo, nello stesso anno, il governatore dell'Asia Flacco esigeva fondi per la manutenzione di una squadra di navi militari che pattugliavano, divise in due flottiglie, a nord e sud di Efeso. Guerre Mitridatiche e pirateria tornavano a mostrare l'importanza del potere marittimo, dimenticato sin dalle guerre Puniche e la necessità di avere forze navali stabili. Pompeo fece un uso abile del potere marittimo e quando lasciò Roma all'inizio della guerra civile contro Cesare contava ad Oriente su una flotta di trecento navi. Nel 48 a.C. la flotta pompeiana arrivò ad insediare, in Adriatico, i rinforzi che Cesare attendeva a Dyrrachium. Ma se Pompeo aveva fiducia nel potere marittimo Cesare aveva fiducia nel mare. Il mar Adriatico d'inverno limitò l'azione della flotta di Pompeo che fu vicina al successo con l'interdizione dello sbarco delle forze in supporto di Cesare.

Nel 43 a.C., dopo la morte di Cesare, il Senato affidò le flotti della Repubblica (un tempo le navi di Cesare e Pompeo) a Sesto Pompeo per rafforzarlo come contrappeso ad Ottaviano ed Antonio. Poiché la Sicilia e la Sardegna erano nelle sue mani, con queste navi divenne, nei due anni che seguirono, il signore del Mediterraneo Occidentale attaccando le coste della penisola ed arrivando ad affamare Roma tagliandole i vitali rifornimenti di grano provenienti dall'Egitto. Ottaviano, il futuro Augusto, a Roma fece grande tesoro di questa esperienza; vide la sregolatezza del popolo innanzi alle scorte di grano che si esauriscono, la devastazione portata da Sesto con gli attacchi dal mare e la difficoltà nel creare una flotta per eliminare queste minacce al suo controllo dell'Italia. Gli accordi di Miseno del 39 a.C. tra Antonio, Sesto ed Ottaviano permetteranno un periodo di pace a quest'ultimo per l'allestimento di una grande flotta nel 38 a.C. ed una seconda, di 400 navi, nel 37 a.C. dopo che la prima era andata distrutta per delle tempeste ed a causa di una sconfitta. L'amico e consigliere di Ottaviano, Marco Vipsiano Agrippa fece realizzare per l'occasione il Portus Iulius nel cratere del lago Averno per poter addestrare al sicuro rematori e marinai. Nella primavera del 36 a.C. cominciò la campagna contro Sesto Pompeo attaccato in Sicilia ad Ovest da forze di Lepido provenienti dall'Africa, a Nord da forze navali di Agrippa e ad Est da forze navali congiunte di Ottaviano ed Antonio provenienti dall'Adriatico per l'immissione di contingenti sull'isola. La sconfitta navale di Sesto Pompeo a Nauloco, il 3 settembre del 36 a.C. segnó la sua fine. La nuova arma, l'arpagone, montato sulle navi di Agrippa aveva fatto la differenza nello scontro. Lo stesso giorno del 31 a.C., con la battaglia navale di Azio, Ottaviano diventerà il signore unico. Ottaviano probabilmente aveva in mente il pensiero di una marina permanente se non distrusse le trecento navi di Antonio che a lui si arresero e che unì alle sue quattrocento unità. Con questa decisione inizia la storia della marina imperiale romana. Le prime vennero stanziate a Forum Iulii, un porto realizzato vicino alla foce del Rodano. Concepito per azioni navali contro Sesto e per l'invio di truppe e supporto logistico nelle Gallie risalendo il grande fiume. Prima del 22 a.C. queste forze verranno ridislocate e fuse con la flotta di Miseno. Nel 69 d.C. il porto di Forum Iulii scomparirà a causa di problemi legati all'insabbiamento dei suoi bassi fondali.

Compito della marina sarebbe stato non di combattere delle battaglie ma di renderle irrealizzabili con il controllo del mare. Lo studio dello storico Chester G. Starr si basa sulle ottocento iscrizioni su pietra fatte realizzare dai membri delle varie flotte presso le aree in cui le navi militari erano di base o temporaneamente stanziate e su pochissimi riferimenti della letteratura dei primi secoli dell'età imperiale. A questo, a mio modesto parere, va aggiunto una forma mentis dell'autore che sulla scia di quanto indicato da Mahan analizza gli eventi con la prospettiva di chi guarda dal mare e considera gli effetti dell' utilizzo del potere marittimo come un argomento intimamente collegato con la politica e la storia generale dell'impero. Senza questa “predisposizione” difficilmente si riuscirebbe a concepire uno studio in tal senso. Questa attenzione all'esercizio del potere marittimo mi sembra ancora più interessante se si considera l'anno in cui l'opera di Starr viene pubblicata, il 1941. Gli Stati Uniti non sono ancora la grande potenza navale che diventeranno nel corso degli anni seguenti dopo l'ingresso nella II guerra mondiale. Il dominio di tutti i mari del mondo, conquistato dagli americani a costo di immani sacrifici umani, particolarmente nel Pacifico, costituirà la condizione iniziale per arrivare alla vittoria su tutti i fronti terrestri. Grazie ad un imponente apparato industriale ma guardando il mare nei termini sopra richiamati.

Torniamo ora ad Ottaviano. Egli aveva appreso e toccato con mano che chi controllava il mare poteva affamare Roma e che un popolo affamato era difficilmente gestibile. Sconfitto Sesto Pompeo, Antonio e Cleopatra avevano ancora le mani sul granaio dell'impero e la flotta egizia doveva essere sconfitta e posta sotto il controllo di chi deteneva il potere nell'Urbe. Le basi della sua pax romana poggiavano sul controllo del Mediterraneo, sulla conseguente libera navigazione e sulla certa capacità di poter portare la forza militare delle legioni ovunque. In altre parole sull'esercizio del potere marittimo. Classis Misenensis e Classis Ravennatis nacquero con questo chiaro obiettivo strategico di Ottaviano negli anni successivi alla vittoria di Azio. È impossibile fissare con certezza la data della loro costituzione per indifferenza degli storici del tempo nel soggetto navale.

Classis Misenensis

La flotta posta nel nuovo porto militare di Miseno, in un sito al riparo da tutti i venti, poiché Portus Iulius si era insabbiato e comunque sarebbe stato poco adatto per le sue dimensioni, per secoli funzionò come quartier generale della flotta. Posta vicino a Roma e agli ordini dell'Imperatore i suoi principali scopi erano il dominio del Tirreno e la vigilanza sulla rotta finale delle navi granarie provenienti da Egitto, Africa e Sicilia. Da informazioni del 68-69 d.C. si ha contezza della presenza di circa diecimila marinai a Miseno, sufficienti per armare oltre 50 triremi. La flotta poteva contare anche su altri porti strategici sul litorale tirrenico per intervenire in sporadici episodi di pirateria in Sardegna e Corsica. Alcune triremi vennero dislocate ad Aleia, capoluogo dell' isola di Corsica, attestate da due iscrizione navali trovate sul posto. Questa serie di infrastrutture portuali fu potenziata dagli imperatori romani che succedettero ad Augusto. Claudio fece realizzare il Portus Ostiae, in uso fino al III secolo, come punto d'arrivo delle navi granarie e per favorire il trasbordo su navi fluviali, ma, non meno importante, come scalo di partenza dello stesso imperatore, dei senatori e degli equites nei loro viaggi verso le province dell'impero. Centumcellae, l'odierna Civitavecchia, venne realizzata da Traiano nel 107-108 d.C..

Classis Ravennatis

La flotta ravennate venne sistemata tra il 25-23 a.C. in una laguna sull'Adriatico fortificata con moli e dotata di accasermamenti ed un faro. Era collegata con un canale navigabile al Pó ed a Ravenna. La Chiesa di San Apollinare in Classe richiama l'antica Classis Ravennatis ed oggi é presente un interessante museo archeologico laddove sorgeva questo porto militare romano. Questo porto é splendidamente rappresentato nei mosaici della Basilica di Sant'Apollinare Nuovo a Ravenna. Ancora funzionante nel VI secolo d.C.. La scelta di Augusto era significativamente strategica in quanto il porto era protetto dalle paludi, era posto nei pressi di una foresta da cui ricavare il legname per le costruzioni navali ed era ben raccordato con lo snodo viario delle vie Flaminia ed Emilia. La sua posizione consentiva di rinforzare la linea difensiva a protezione dell'Italia settentrionale che correva attraverso il fiume Pó fino a Piacenza. Il porto permetteva il controllo ravvicinato della costa dalmata e costituiva un eccellente base di supporto logistico per la guerra nell'entroterra orientale dell'Adriatico, l'Illirico. Gli scali per le navi ravennate erano Aquileia e Salona (oggi Spalato). Alcune navi della flotta erano dislocate a Brindisi per trasporto dignitari a Dyrrhachium. Le sfere di responsabilità delle due flotte non erano limitate ai due opposti mari della penisola italica poiché operarono congiuntamente sia in oriente che in occidente, con le navi ravennate in assistenza a quelle di Miseno. Sono state trovate infatti iscrizioni delle prime al Pireo e la tomba di un “classista” in Spagna. Interessante é scoprire che il piú grande distaccamento delle due flotte era a Roma, pur non essendoci nessuna nave militare. I marinai presenti nell'Urbe con l'ascesa di Claudio nel 41 d.C. erano presenti al Castra Pretoria. Con i Flavi verrano sistemati in apposito “Castra” fatto realizzare a sud-est del Colosseo, sull'Esquilino, e registrato nei cataloghi regionari del IV secolo d.C.. Il loro impiego andava dal funzionamento della complessa macchina burocratica imperiale, per quanto atteneva alla marina, ai servizi propri nei giochi navali, al supporto ai vigiles. Ma chi era a capo delle flotte, chi erano gli ufficiali in comando, da chi erano costituiti gli equipaggi e che genere di navi costituiva l'ossatura della flotta imperiale?

Posti di comando

La marina, come l'esercito, era affidata a dei prefetti della flotta che prendevano ordini direttamente dallo stesso imperatore e verso cui erano responsabili. Il precedente degli ammiragli a capo della flotta, iniziata con Marco Vipsiano Agrippa, membro della classe degli equestri, rimase ininterrotto. L'unico senatore ammiraglio compare nella storia dell'impero nel 214-217 d.C. , scelto da Caracalla per comandare una campagna navale nell'oriente. Presumibilmente i senatori, che rappresentavano l'antica aristocrazia terriera, non amarono mai il mare e di conseguenza la marina. Negli anni dal 41 al 69 d.C. si ha notizia di tre prefetti liberti. La lunga pace di cinquanta anni nel Mediterraneo portó infatti Claudio a rivedere tale incarico considerandolo come un ruolo semi-amministrativo piuttosto che militare. Dal punto di vista della loro remunerazione i prefetti delle flotte italiane si collocarono in poco tempo, all'interno della burocrazia imperiale, al livello dei ducenari, coloro il cui stipendio annuo era di duecentomila sesterzi. Tale posizione veniva raggiunta dai più abili tra gli equites dopo lunghi e vari anni di servizio nello stato imperiale. Dopo una lunga e variegata carriera Plinio il vecchio venne nominato praefectus classis Misenis da Vespasiano verso la fine degli anni 70 d.C.. Il loro mandato durava dai quattro ai cinque anni, come attestato dallo studio delle iscrizioni del II secolo d.C.. Agli ordini del praefectus classis erano posti i navarchi, assimilabili al grado di ammiraglio e che comandavano una squadra di sessanta navi. Erano qualificati e capaci marinai greci che ricevevano la cittadinanza romana mentre erano in servizio. Da loro dipendevano i trierarchi, i comandanti delle navi. Questi ultimi provenivano dalle popolazioni costiere. Si ha notizia di due navarchi provenienti dalla Dalmazia e di molti altri di lingua greca provenienti dalle coste orientali dell'impero. Il loro servizio durava ventisei anni.

Gli equipaggi.

Gli equipaggi militari romani erano una delle piú complesse organizzazioni delle forze romane in quanto espletavano funzioni militari e navali. Ogni equipaggio formava una centuria con i suoi classici. Faceva parte del loro addestramento l'uso delle armi. Alcuni membri erano preparati a saper compiere arrembaggi e combattere contro i pirati. Le attivitá navali erano legate alle tre condizioni indispensabili per il funzionamento della nave; direzione, moto e manutenzione. Ognuna con un proprio ufficiale responsabile a capo. Il gubernator supervisionava i movimenti dei due addetti ai timoni sterzanti e la navigazione in generale. Si evince dai loro elaborati monumenti ritrovati che erano ben pagati e che prendevano in prestito cognomi greci. Il celeusta o pausarius controllava il lavoro dei rematori dando loro il ritmo con un ritornello a cui forse questi ultimi rispondevano con un canto marinaresco. Sulle unitá maggiori, a capo del personale del trierarca, vi era un beneficiarius, l'equivalente di un tribuno equestre nella legione, ai cui ordini un secutor rilanciava gli ordini verso il basso ed organizzava il lavoro dello scriba, che redigeva rapporti per l'amministrazione centrale, e del librarius, che si occupava degli aspetti finanziari. Il solco tra centurioni e soldati, grande nella legione, appare meno profondo sulle navi dove gubernatores ed altri ufficiali erano parte dei centurioni. I marinai erano costituiti inizialmente da peregrini poiché i cittadini romani ed i latini in genere avevano una innata antipatia nei confronti del mare. Gli schiavi non erano arruolati nelle fila dell'esercito di Roma e di conseguenza non lo furono nella marina imperiale. Solo nel 37 a.C. Ottaviano dovette ricorrere a ventimila schiavi per armare le navi che stava allestendo contro la flotta di Sesto, ma li rese tutti liberi ancor prima di arruolarli. A quindici anni ci si poteva arruolare nella marina imperiale con la prospettiva di essere congedati dopo ventisei anni di servizio. Il personale reclutato per le due flotte italiane proveniva in massima parte dalle aree delle due basi principali: Miseno e Ravenna. Grazie alle sorgenti epigrafiche si é anche potuto stabilire che tra la fine del I e gli inizi del III secolo a Ravenna vi era una una grande presenza di marinai provenienti dai Balcani e che questa era minore a Miseno dove invece una larga parte proveniva dall'oriente ellenizzato.

Il naviglio.

La nave più diffusa nella marina imperiale di Roma era la trireme seguita dalla quadrirema, in numero minore la quinquereme. Erano navi costruite attingendo ai collaudati standards delle navi militari ellenistiche e della Repubblica ed adattate alle esigenze delle tattiche romane di abbordaggio. Un particolare tipo di imbarcazione impiegata in piccoli numeri era la veloce liburna, una bireme usata originariamente dai pirati dalmati della tribù dei Liburni. Non possiamo parlare di navi comode e dalla buona tenuta del mare visto la loro massima lunghezza di sessantasei metri e l'altezza dal mare delle loro murate di tre metri. In inverno il naviglio militare non era impiegato. A bordo gli spazi erano minimi. Su una quinquereme, nel regno di Caligola, trovavano posto quattrocento rematori. Sulla più diffusa trireme, su un equipaggio di duecento marinai, centocinquanta erano rematori. Il lavoro dei rematori era spossante nei lunghi viaggi e per aumentare la lenta andatura, vento permettendo, era issato un albero centrale a vela quadra in aggiunta alla piccola vela di prora. Nella flotta di Miseno era presente un' esareme probabilmente ammiraglia della flotta imperiale. Sulle prore erano disegnati gli occhi mistici che si rifacevano alle antiche navi mentre delle lettere richiamavano i nomi dell'unità; grandi fiumi, eroi e siti di battaglie greche, virtù. Sulla poppa trovava posto la tutela,la divinità patrona della nave, e talvolta la cabina del trierarca.

Gli squadroni provinciali del Mediterraneo.

Le necessità dell'impero richiedevano degli squadroni indipendenti in Egitto, Siria e Mauritania. Ben oltre l'immediata sfera d'influenza delle flotte italiane. Queste flottiglie erano poste sotto il comando del praefectus classis che rispondeva direttamente al locale governatore, il comandante in capo delle forze militari dislocate nel suo territorio. La trireme era l'unità più largamente impiegata insieme alla liburnia. Queste flottiglie non erano state concepite per essere impiegate in vere e proprie guerre navali. Il loro compito era piuttosto quello della deterrenza. La classis alexandrina, composta da equipaggi egiziani, viene nominata per la prima volta durante il regno di Nerone ma la sua nascita deve essere collocata con la riorganizzazione dell'Egitto compiuta da Augusto nel 30 a.C.. Suo compito principale era quello della sorveglianza della rotta iniziale del grano destinato a Roma per prevenire o impedire attacchi portati da un usurpatore. In caso di particolari crisi poteva essere impiegata per integrare le unità fluviali operanti nell'alto Nilo per il trasporto di distaccamenti militari egiziani e contro i banditi del deserto. Una grande emergenza fu la rivolta generale degli Ebrei dal 115 al 117 d.C.. Traiano inviò rinforzi militari e navali al comando di Q. Marcio Turbo per soffocare la ribellione in Egitto e Cirenaica. Tutte le forze navali e fluviali vennero posto sotto il comando di un singolo prefetto. Per quanto concerne la classis syriaca vi sono evidenze databili della sua esistenza sotto il regno di Adriano. I suoi compiti principali erano il controllo della costa della Siria e l'impiego sulle rotte con l'Occidente per garantire comunicazioni e trasporti di dignitari. Il suo naturale porto sarà stato Seleucia, il maggiore dell'area, la cui importanza risalta dalla cura con cui da Augusto a Valentiniano venne continuamente migliorato. Uno degli imperatori Giulio-Claudi rese l'Oronte navigabile da Seleucia alla non molto distante Antiochia. Dopo l'annessione della Mauritania, durante il regno di Caligola, nel 40 d.C., si hanno tracce di unitá delle flottiglie dell'Egitto e della Siria distaccate nel porto di Cesarea Mauritania per oltre un secolo. La presenza di tribù locali dedite alla pirateria richiedeva la presenza di questa forza navale romana. Durante gli anni settanta del II secolo d.C. le tribù dei Mori, battute alcuni decenni prima dall'intervento di truppe romane della Spagna, crearono disturbi ai traffici marittimi tali da richiedere l'intervento delle flotte italiane. Agli inizi del III secolo si rese necessario la creazione di una classis nova libyca di cui si perdono le tracce cinquanta anni dopo. Ancora una volta emerge chiara, a mio modesto parere, l'importanza del potere marittimo che Augusto seppe declinare in tutte le sfaccettature adattandole alle specifiche esigenze dei vari teatri operativi. Una piena coscienza del potere marittimo, probabilmente, che viene meno due secoli e mezzo dopo o la cui applicazione globale, come realizzata dal primo imperatore, viene lentamente ed inesorabilmente trascurata. Mi sento di poter affermare che Augusto divenne prima signore del mare e assicuratasi la pace nel Mediterraneo partì alla conquista di altri territori.

Potere navale sulle frontiere del nord.

Flotte romane vennero create sul Reno e sul Danubio per assicurarsi il controllo navale dei fiumi e proteggere i confini dell'impero ma allo stesso tempo per poter appoggiare e sostenere incursioni ed invasioni romane oltre le proprie rive. Con l'espansione verso est e verso ovest di questi fiumi durante i regni di Claudio e Nerone il Mar Nero ed il Canale della Manica finiranno sotto lo stretto controllo di Roma con la creazione delle rispettive flotte, classis pontica e classis britannica. La classis pontica venne creata nel 64 d.C. per avere un maggior controllo del Mar Nero e del Bosforo. Trebisonda, la sua base, giocava un ruolo strategico di importanza vitale per le mire che Roma aveva verso l'Armenia e garantì la pace in quel bacino di mare per i successivi centocinquanta anni insieme al controllo che dall'altro versante garantiva la classis moesica. La classis britannica, la cui base era il porto di Gesoriacum (oggi Boulogne-sur-Mer) nasceva dall'esperienza della flotta creata da Cesare e di cui scrive nei suoi Commentaries. Il porto militare venne realizzato da Caligola ma fu sotto il regno di Claudio che da qui partirono nel 43 d.C. le navi che portarono agli sbarchi sulle coste a sud-est del Kent ed alla trionfale campagna dei generali romani. Il compito di questa flotta sarà principalmente il trasporto di uomini e materiali dal continente europeo alla Britannia. Rutupiae (oggi Richborough) venne realizzata come stazione navale per ricevere il traffico sull'isola. Da qui strade romane portavano a Canterbury e procedevano per Londra. Il praefectus della classis britannica dipendeva dal legato dell'isola e gli equipaggi erano costituiti da marinai provenienti dalla Tracia, dalla Pannonia e dall'Africa. Dal 293 al 296 d.C. questa flotta divenne, unica volta nella storia dell'Impero Romano, la base del potere dell'usurpatore Alletto nella Britannia, finché con un'altra flotta realizzata da Costantino presso Gesoriacum, nello stesso periodo, il Cesare d'occidente Costanzo Cloro (padre di Costantino) riprese il controllo dell'isola sconfiggendo l'avversario. Il Danubio divenne sotto Augusto una nuova linea di frontiera dell'impero dopo le conquiste nei Balcani. Sulle sue rive romane vennero realizzate, come sistema difensivo avanzato, una serie di presidi militari messi velocemente in comunicazione tra di loro con l'ausilio di una serie di flottiglie lungo tutto il suo corso e quello dei suoi maggiori affluenti, la Sava e la Drava La classis moesica, posta a servizio nella parte bassa del Danubio, garantiva anche lo stretto controllo del litorale settentrionale del Mar Nero. La classis pannonica operava nella parte alta del grande fiume. Dopo il 69 d.C., l'anno dei quattro imperatori, entrambe le flottiglie ricevettero il titolo di flavia in commemorazione del loro servizio, quando il fiume venne privato delle legioni poste a sua difesa e agli ordini del generale Antonio Primo marciarono in Italia, in appoggio a Vespasiano. La loro importanza strategia divenne fondamentale durante le guerre daciche combattute da Traiano dal 101 al 106 d.C. quando le forze navali fluviali vennero utilizzate come ponti di barche per l'avanzata delle legioni nei territori nemici da conquistare. Dopo la conquista della Dacia gli imperatori successivi, Adriano e Antonio Pio, portarono il regno del Bosforo Cimmerio ad essere soggetto a Roma, chiaro segno di un indiscusso dominio romano di quel mare.

Noviodunum era la principale base della flottiglia della Moesia (oggi nei pressi di Isaccea, Romania). Taurunum, a cinque km a nord della congiunzione della Sava con il Danubio, era il porto militare della flottiglia della Pannonia (oggi Zemun, a nord di Belgrado in Serbia). La classis germanica, di cui si hanno piú informazioni storiche e geografiche, operò sul Reno ed i suoi porti militari sorpassarono di gran lunga il numero delle altre flottiglie minori. Augusto puntò alla conquista dei territori che andavano fino all'Elba e il suo generale Druso Maggiore creò a questo scopo la flotta germanica. Druso fece scavare un canale navigabile nel 12 a.C. per congiungere il Reno al Lacus Flevus (oggi Ijsselmeer in Olanda) e trasportarvi le sue forze militari per sottomettere le tribù della Frisia. Navigando verso est raggiunse le terre dei Cauci, confinanti con la Frisia, divenendo il primo generale romano a navigare nel Mare del Nord. Nel 4 d.C. Tiberio riprese la conquista della Germania e la classis germanica raggiunse l'estuario dell'Elba per rifornire le legioni. Le rivolte in Pannonia ed il disastro di Varo a Teutoburgo nel 9 d.C. fermarono questi piani di conquista. Nell'inverno del 15-16 d.C. Germanico, il figlio di Druso Maggiore e figlio adottivo di Tiberio, fece allestire una flotta sul Reno di mille navi per imbarcarvi otto legioni, truppe di ausiliari e scorte. Attraverso la fossa drusianae la sua forza d'invasione raggiunse il Mare del Nord raggiungendo le rive del fiume Amise (oggi Ems) nei pressi della foresta di Teutoburgo. Nonostante diverse battaglie vinte la campagna militare non riportò i territori delle varie tribú germaniche tra Reno ed Elba sotto il dominio di Roma. Nel viaggio di ritorno una tempesta colpì l'imponente flotta e la spedizione terminò in un disastro. Tiberio richiamò suo figlio e l'offensiva fu chiusa. La flotta germanica venne ridotta nelle sue dimensioni e riorganizzata in funzione difensiva sul Reno. Il suo quartier generale venne posto ad Ara Urbiorum che in seguito divenne Colonia Agrippina (oggi Colonia). A capo della classis germanica era posto un praefectus centenarius dipendente dall'autorità del governatore della provincia. Se alle origini i marinai provenivano dal Mediterraneo con l'assimilazione della civiltà romana da parte delle popolazioni locali verrano arruolati germanici tra gli equipaggi nel corso del III secolo d.C.. La presenza di questa flottiglia impedì la navigazione del Reno ai germanici e vi sono indicazioni di costruzioni di naviglio adibito a questi compiti fino al IV secolo.

Conclusioni

“The Silent Service” é l'appellativo usato nel Regno Unito per riferirsi alla Royal Navy ed alla conclusione di questa descrizione ritengo di poterne applicare la denominazione anche alla marina imperiale romana. Augusto impostò un' articolata forza navale permanente nel Mediterraneo che non combatté per due secoli nessuna seria battaglia e le cui flottiglie organizzate sul Danubio, sul Reno, sulla Manica e sul Mar Nero rappresentarono un raffinato ed efficace esercizio del potere marittimo che mai si era visto prima come espressione di un'unica autorità statale in una così vasta area. L'estensione dell'impero romano raggiunse i cinque milioni di chilometri quadrati che diventano sette milioni e mezzo considerando il solo Mediterraneo con un rapporto terra:mare di 2:1. É necessario, a mio modesto di vedere, dedicare una riflessione a questo aspetto. L' uso ed il controllo del mare (e dei grandi corsi d'acqua) é stato il più delle volte un servizio “silenzioso” ma funzionale all'espansione, ai traffici commerciali, alla difesa ed al funzionamento dell'Impero. Tanto “silenzioso” da non essere stato molto trattato dagli autori storici del tempo come lamenta Starr. L'ambiente navale militare doveva essere molto duro, considerando la tipologia delle imbarcazioni e la tipologia del servizio e non aveva i grandi numeri delle legioni e la visibilità delle stesse. Le navi si vedono quando sono in porto, quando prendono il largo solo il loro equipaggio e le autorità conoscono le missioni che compiono, talvolta i primi non conoscendone le finalità ultime. Probabilmente a Roma, la pace di cui si scriveva, aveva fatto dimenticare, a chi non strettamente legato alla vita del mare, l'importanza di continue risorse da investire in quell' organizzazione che aveva largamente contribuito a realizzarla. Quando alla fine del III secolo appariranno flotte ostili la marina imperiale verrà spazzata via perché diventata inadeguata alla sua missione e l'atteggiamento dell'Impero regredito alla politica della Repubblica di allestire delle flotte per fronteggiare le emergenze. Starr spiega che con Vespasiano la marina aveva raggiunto il suo apogeo e venne ricolmata di onori. I decenni seguenti di pace e la radicata indifferenza romana al mare distruggeranno lo spirito di prontezza navale nonostante la tradizione mantenne viva la marina. Si ha notizia di dieci squadroni provinciali esistenti nel 230 d.C. che scendono inspiegabilmente a tre nel 285 d.C. quando Diocleziano diviene imperatore a Nicomedia. Se la presenza di flotte militari prevenne o scoraggiò l'iniziativa nemica la sua piccola consistenza ottenne l'esatto opposto. Ne conseguì il negativo impatto sui traffici commerciali per il rinascere della pirateria. La lenta e progressiva perdita della sicurezza sul mare avrebbe finito per impattare sui commerci verso l'Italia e sul ridimensionamento della sua ricchezza. Nel 324 d.C. l'uso delle forze navali nella campagna di Costantino contro Licinio portò alla fine della marina imperiale come una forza effettiva. Mentre in seguito a Costantinopoli verrà mantenuta una forza navale per mantenere il controllo del Mediterraneo orientale attingendo alla tradizionale riserva di reclutamento dell'Egeo, l'occidente, cui mancava un bacino di arruolamento tradizionale, abbandonerà il mare consegnandolo ai Vandali nel V secolo.

Le flotte di Miseno e Ravenna lentamente scompariranno. È mia opinione che sul mare, più che sulla terra, la pax romana nacque e fu effettiva per oltre due secoli se si considera l'assenza della pirateria nel Mediterraneo, non documentata fino agli inizi del III secolo, il continuo approvvigionamento di grano che sfamava l'enorme popolazione di Roma e l'enorme vantaggio di linee commerciali e di comunicazione interne del Mare Nostrum che resero Roma prospera. A tutt'oggi é davvero poco concepibile questo aspetto perché non godiamo di una fascia costiera mediterranea completamente pacificata. Non rientra nel nostro comune ordine d'idee guardare a questo importante bacino come poteva fare un ricco commerciante di Roma, un funzionario imperiale, l'equipaggio di una nave militare o mercantile che dopo un lungo viaggio avrebbe trovato in un qualunque porto d'arrivo le stesse istituzoni, le stesse leggi vigenti a Roma ed avrebbe potuto usare la sua lingua non temendo di non essere capito. Basta guardare alla Siria, alla Libia, al Libano ed alle coste della Striscia di Gaza per rendersi conto di quanto territori apparentemente lontani non lo sono così tanto da non avere ripercussioni politiche ed economiche sia sull'Italia che sull'intera Europa. Per i romani le coste di tutto il Mediterraneo, da Augusto e per un lungo tempo, saranno approdi sicuri che permetteranno la libera circolazione di uomini, merci, cultura e tradizioni non solo grazie alla presenza sul territorio delle legioni.

  Francesco Mancini

Il senno ritrovato: il tavolo di Julius Evola, un atanor racchiuso in una scatola – Gaetano Barbella

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A tavola con l’atanor di Carlo Pulsoni

Ci sono degli oggetti che pur facendo parte della vita quotidiana sono anche entrati nel nostro immaginario. Prendiamo ad esempio il tavolo / la tavola. A chi non viene in mente la tavola dell’Ultima Cena, magari sotto forma di rappresentazione iconografica ‒ una tra tutte il dipinto parietale di Leonardo da Vinci conservato a Milano nell’ex refettorio di Santa Maria delle Grazie ‒, o in alternativa la “Tavola rotonda” di Re Artù, ubicata nel castello di Camelot, la cui forma circolare rispondeva all’esigenza di considerare ogni cavaliere che ne faceva parte ‒ re compreso ‒ uguale a tutti gli altri. Venendo a tavoli più “reali” ve n’è uno, forse meno noto, che si lega a uno degli intellettuali più controversi del Novecento: Juli

[caption id="attachment_26369" align="alignright" width="272"] Illustrazione 2: Il dipinto del piano del tavolo di Evola[/caption]

us Evola (1898-1974). Abbiamo chiesto a Carlo Fabrizio Carli, critico d’arte attivo sia sul terreno della creatività contemporanea sia su quello dell’arte e dell’architettura italiane della prima metà del Novecento, di parlarci di questo tavolo, che lui stesso custodisce a nome della Fondazione Evola1. Può innanzitutto descriverci il tavolo? Il tavolo, in legno dipinto, misura all’incirca 80×80 centimetri ed è alto 50. Fu ideato e realizzato da Julius Evola nel quinquennio 1921 ‒ 1925, nel pieno della sua attività dadaista, poco prima della brusca interruzione del suo impegno di artista d’avanguardia, che egli aveva esplicato tanto in campo pittorico, che poetico e teorico. Un impegno di tutto riguardo, se si pensa che oggi, grazie anche ai fitti rapporti internazionali (il carteggio con Tristan Tzara occupa da solo un piccolo volume), Evola è considerato il maggior esponente del Dada italiano. Come si colloca questo tavolo nell’opera artistica di Evola? Il tavolo, pezzo unico nella produzione evoliana, si presenta con forma “a tamburo”, a pianta quadrangolare e a spigoli stondati. Rastremate rispetto a questi, quattro gambe a setti ricurvi completano l’elementare struttura dell’oggetto. Questo nacque per arredare il cabaret Le Grotte dell’Augusteo; ma Evola doveva tenervi particolarmente, perché non volle mai separarsene, finché visse. È interamente verniciato ad olio, e il piano costituisce una vera e propria composizione pittorica, dedicata al tema ‒ sempre molto caro all’artista, immerso in marcati interessi esoterici ‒, della trasformazione alchemica. Nella composizione si riconosce infatti l’atanor, ovvero il fornello alchemico, in cui l’oro nasce dal processo di cottura e di sublimazione della materia. La composizione (illustr. 2), dai colori vivacissimi, si struttura in forme geometriche elementari che attestano l’interesse di Evola per la ricerca dadaista di Hans Arp, risolta in un purismo geometrico. È altresì chiaro come il filosofo-artista non si preoccupi affatto della riproducibilità seriale, tipica del design novecentesco, ma intenda il tavolo come opera d’arte in sé conclusa. Cosa rappresenta questo tavolo nella produzione artistica di Evola e quali sono i suoi rapporti con gli interessi esoterici di Evola? L’interesse di Evola per l’arte decorativa comprende anche ‒ e qui si esaurisce ‒ in un piccolo vaso in terracotta smaltata, alto circa 20 centimetri, ancora affidato alla tematica della trasformazione alchemica e databile agli stessi anni del tavolo. Per quanto riguarda gli interessi esoterici di Julius Evola, occorre tener presente che in lui, a differenza di quanto accadeva abitualmente, essi non si esaurirono al livello delle mere, e in fondo superficiali curiosità intellettuali, ma furono vissuti con forte partecipazione esistenziale, quali vie di realizzazione spirituale. A tutto ciò sottendeva una singolare prospettiva speculativa, che consisteva nell’innesto dell’Idealismo classico nella Magia: appunto l’Idealismo Magico. […]2

 

L’Ultima Cena di Julius Evola

[caption id="attachment_26370" align="alignleft" width="300"] Illustrazione 3: Dettaglio della valvola aortica disegnata da Leonardo[/caption]

L’ing. Carlo Fabrizio Carli, nel descrivere il tavolo di Evola, ha detto fra l’altro che «fu ideato nel pieno della sua attività dadaista, poco prima della brusca interruzione del suo impegno di artista d’avanguardia, che egli aveva esplicato tanto in campo pittorico, che poetico e teorico». E allora, se fosse buona l’idea di Carlo Pulzoni nell’immaginare che questo tavolo costituisca una sorta di “Ultima Cena”, come quella di Gesù con i suoi apostoli? Cioè a lasciar capire che le immagini dadaiste fatte da lui, che caratterizzano il tavolo in studio, costituiscano un certo “tutto” di una “cena” imbandita. E così concepire l’analogo rituale di Gesù nell’esortare i suoi apostoli a mangiare il pane e il vino, il suo “corpo” e il suo “sangue”, in nome suo da perpetuare nel tempo? Seguendo il simbolo, se si capovolge il tavolo di Evola, non sembra un immaginario calice e, nel contempo, anche un piatto? Se così fosse, verrebbe da immaginare che, essendo il tavolo in questione di dimensioni ridotte in altezza (50 cm), i commensali non possono essere che dei fanciulli seduti su delle sedie adatte per loro: dunque una conseguente esortazione velata fatta dallo stesso Gesù, così espressa nel vangelo Matteo 18,1-5. In quell'ora i discepoli si accostarono a Gesù e gli chiesero: «Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli?». E Gesù, chiamato a sé un piccolo fanciullo, lo pose in mezzo a loro e disse: «In verità vi dico: se non vi convertite e non diventate come piccoli fanciulli, voi non entrerete affatto nel regno dei cieli. Chi dunque si umilierà come questo piccolo fanciullo, sarà il più grande nel regno dei cieli. E chiunque riceve un piccolo fanciullo come questo in nome mio, riceve me.  E allora, così stante le cose del lascito del tavolo a certi apostoli di Julius Evola, cosa si deve pensare di essi? Si deve credere che siano come “bambini”, e le complicanze filosofiche di tutti gli altri lasciti successivi di Evola, sono scritti che essi non comprendono, seppur legati ad una certa “Tradizione” da lui raccomandata, in seguito però (ma da “morto” all’alchimia e dadaismo)? D’altronde anche gli scribi e farisei del tempo di Gesù, seguendo appunto la Tradizione biblica, rinnegarono Gesù. E per quei “bambini” sono adatti, oltre al dipinto del tavolino, tutti gli altri dipinti dadaisti fatti dal maestro Evola nei suoi anni migliori e non le opere successive in cui il dadaismo non ebbe più presa in lui, come si sa. A questo punto chi potrà mai “scartocciare” lo scatolo in cui è racchiuso il tavolo che si vede nell’illustr. 1, se non loro, per goderne del contenuto e trarne giovamento? Ma gli attuali discepoli di Evola possono ritenersi come questi apostoli-bambini della semplicità cui è destinato il tavolo, una sorta di Graal? Intanto il magico tavolo racchiuso nello scatolo aspetta chi lo “scartocci”. E poi, ai bambini piace il disegno riportato su questa scatola, quasi magica per loro. In fondo solo “dada”, il nome dato al genere di arte cui si lega questo disegno, non è forse la prima parola che essi imparano a pronunciare la prima volta? “Dada”, nelle intenzioni degli esponenti dadaisti, non ha alcun significato. Tzara, l’artista che fondò il dadaismo, narra di aver trovato la parola a caso in un vocabolario francese. Volendolo tradurre letteralmente, in russo significa due volte sì; in tedesco due volte qui; in italiano e francese costituisce una delle prime parole che i bambini pronunciano, e con la quale essi indicano tutto: dal giocattolo alle persone.

Alchimia e Dadaismo binomio inscindibile nell’arte di Julius Evola (Brani tratti dalla Tesi in Storia dell’arte contemporanea “JULIUS EVOLA E IL DADAISMO” di Claudia Tagliaferri. Università di Roma La Sapienza. 2010-2011).

[caption id="attachment_26381" align="alignright" width="297"] Illustrazione 4: Il quadrato, le tre opere alchemiche e i raggi della stella esagonale.[/caption]

[L’alchimia di Evola] L’incontro con le discipline esoteriche, in particolare con l’alchimia, fu un approccio importante per concretizzare l’esigenza fondamentale di Evola di creare nell’individuo una nuova dimensione e una nuova profondità di vita. L’arte è sempre stata alchemica: un processo chimico (manipolazione dei colori), fisico (l’azione e il processo di dipingere), mentale e immaginativo in cui i simboli e i messaggi cifrati cercano di decodificare i paesaggi interiori dipinti. L’arte pura auspicata da Evola veniva considerata preludio alla magia, così come il processo alchemico esigeva un percorso di realizzazione spirituale: esso sottoponeva la materia alla trasformazione (obiettivo dell’alchimia era ricavare la pietra filosofale che consentiva la trasmutazione dei metalli in oro e la realizzazione di un cammino spirituale). L’alchimia aveva uno stretto legame con la dimensione estetica in modo tale che l’alchimista potesse divenire artista e viceversa. L’arte, spezzando la catena dello spazio e del tempo, mirava alla ricreazione della genesi e al ricongiungimento con il Principio primo. Essa era incentrata sulla “metafisica” cioè un ordine di conoscenze sovrasensibili le quali presupponevano la trasmutazione iniziatica della coscienza umana. L’oro alchemico rappresentava l’essere immortale e invulnerabile, ovvero il Dio che era dentro ognuno di noi, che diventava conquista dell’essere. L’alchimia si proponeva appunto di risvegliare questo Dio dormiente in noi. Il fine dell’opera era la realizzazione dell’oro, ovvero un ricongiungimento con il principio assoluto ed Evola voleva vivere fino in fondo la realtà e l’interiorità usando la mente e lo spirito. Ne sono testimonianza i suoi scritti e i suoi quadri che includevano la presenza di un occhio invisibile. Questi spazi, popolati di visioni interiori e superiori, sono fissati con distacco anticipando il mondo lucido e disincantato con cui guarderà, con gli occhi della riflessione, la realtà del proprio tempo.

[Il Dadaismo di Evola]

[caption id="attachment_26382" align="alignleft" width="300"] Illustrazione 5: Castello di Dampierre (Francia). La stella di mare.[/caption]

Proprio nel Dadaismo Evola ha compreso la libertà mistica, la ricerca del nuovo. Arte, pensiero, morale, esperienza quotidiana, scienza ed altro si fondono in una lingua-alchimia che esprime le proprietà indeterminate dell’atto artistico. Nel Dadaismo l’arte può avere, per la prima volta nella sua storia, una risposta e concezione spirituale, un’esposizione di pensiero interiore attraverso ritmi illogici e arbitrari di linee, colori, suoni che diventano dunque segni della libertà interiore, segni della purezza artistica e segno di liberazione dell’Io dalle delimitazioni esistenziali e materiali. Tipico prodotto Dada è il ready-made , un prodotto ordinario tolto dall'oggetto originario e messo in mostra come opera d'arte 1 . In italiano significa approssimativamente “già fatti, già pronti” e diventano, nell’ambito dell’estetica dadaista, uno dei meccanismi di maggior dissacrazione dei concetti tradizionali di arte. Quindi un'opera d'arte può essere qualsiasi cosa. L'opera dell'artista non consiste più nella sua abilità manuale, ma nelle idee che riesce a proporre. Infatti, il valore dei «ready-made» è solo nell'idea. Togliendo qualsiasi valore alla manualità dell'artista, questo, non è più colui che sa fare delle cose con le proprie mani, ma è colui che sa proporre nuovi significati alle cose. I dadaisti seguivano l’ambizione di promuovere una rivoluzione culturale sotto il segno dell’anarchia e della poesia, allo scopo di abolire lo scarto tra arte e vita reale. Quando Tzara e Breton suggerivano le prime indicazioni per scrivere un poema Dada, non sapevano di parafrasare il consiglio di Lewis Carrol che aveva dato nel 1860: “Scrivete prima una frase, /tagliatela a pezzetti, /miscelateli e tirateli a sorte, /rigorosamente come viene viene : /non importa quale ordine: tanto non fa la differenza.” Gli strumenti privilegiati di questa nuova attività creatrice erano: il caso e l’improvvisazione. Il caso, inteso come gioco dialettico tra ordine e disordine, regolava ogni attività creatrice. Si pensi al collage di Arp che, insoddisfatto del suo disegno, lo strappò gettando via i brandelli di carta. Vedendoli sparsi sul pavimento, fu sorpreso e compiaciuto dell’insolita bellezza che la sua opera aveva acquistato; oppure al “Grande vetro” di Duchamp, opera nata in seguito alla rottura involontaria di un vetro durante un trasloco. Quello che prima non era riuscito loro nonostante gli sforzi, lo aveva operato il caso. Riguardo ad esso, nel movimento Dada, non dobbiamo attenderci delle definizioni concettuali, bensì delle concrete dimostrazioni, degli esercizi. Si assisteva, perciò, ad una visione estremamente positiva di esso, un’accettazione delle sue manifestazioni che venivano identificate come le manifestazioni vere della realtà e della vita. Oltre al caso, un’altra componente fondamentale era l’improvvisazione. Nelle serate dadaiste, infatti, ogni situazione era improvvisata con evidenti effetti esplosivi: lo stato d’animo dell’attore, con i suoi desideri e le sue pulsioni, dovevano determinare le sue azioni e quelle del gruppo. Molte volte questi spettacoli entravano in conflitto con le reazioni del pubblico creando scandalo che però era voluto: lo spettacolo doveva la sua efficacia all’interazione tra attori e pubblico. Stabilire un contatto con gli spettatori, provocare i loro interventi, era una necessità primaria nonostante questo contatto potesse risultare ostile. L’essenziale era assicurarsi la partecipazione attiva del pubblico.

In sintesi le caratteristiche principali del Dadaismo sono: • la negazione dell'arte in quanto espressione dei valori e delle convenzioni borghesi, che frenano la libertà espressiva. • l'atteggiamento irrazionale e dissacratorio, in quanto strumento adatto a perseguire il fine di distruggere l'arte. • la poetica della casualità, il “caso” come migliore garanzia per produrre opere d'arte originali e vicine alla vita. • la fusione tra le varie arti, con un riferimento particolare alla poesia, alla pittura e alla musica.

Il decostruzionismo derridiano nell’architettura

[caption id="attachment_26371" align="alignright" width="262"] Illustrazione 6: dipinto del solfo alchemico di Evola[/caption]

Che centra l’architettura con la scatola del tavolo di Evola, ora? Direi che non centra tanto, ma per certi versi è “dada” a indirizzarci da questa parte, dopo la “dissacrazione” dell’arte dadaista, appunto, operata da Evola nel concepire il dipinto del tavolino e tanti altri. Come a intendere che solo l’architetto subentra per una possibile ricostruzione e non il filosofo. Naturalmente, considerato che il decostruzionismo derridiano3 sembra legarsi al dadaismo, questo ci indirizza a certi architetti moderni simpatizzanti per questa filosofia, con i loro “frammenti” architettonici, con i quali essi ritengono di aver cercato di far “resuscitare” la forza ed il vigore che l'uomo d'oggi ha veramente bisogno per ribaltare vecchi e obsoleti concetti metafisici. Così è stato, secondo la critica, per il noto architetto romano Fuksas, autore di Nuvola del progetto “Nuovo Centro Congressi Eur”, non senza la suggestiva “astronave”. Frammenti sono un altro suo bel progetto in tema religioso, il cubo, la chiesa di S. Paolo a Foligno, un enorme monolite in cemento, costituito da due parallelepipedi inseriti uno nell'altro e collegati da elementi a forma di tronco di piramide.  In relazione poi al Museo Tuscolano di Frascati, l'architetto Fuksas dice “Forse nel piccolo universo dell'architettura si possono trovare in concetti come il passaggio al limite, l'evento, la casualità di molti accadimenti e la difficoltà di comprenderne i meccanismi.” «La città sfugge a ogni regola (...). Ho rinunciato all'ordine ottocentesco, ho rinunciato alla storia (celebre invenzione illuminista), ma ho capito, attraverso il frammento, che tutto ciò che non può essere controllato ha una carica di energia che ci può anche rendere felici (...). »3.

[caption id="attachment_26372" align="alignleft" width="300"] Illustrazione 7: Da un papiro della XVIII dinastia dei faraoni dell’antico Egitto rinvenuto nella tomba dello scriba Ani e conservato nel British Museum di Londra. E' il giudizio finale dello scriba Ani. La prova è superata e Ani viene condotto alla presenza di Osiride, seduto in un tabernacolo a forma di sepoltura.[/caption]

In un intervento sui rapporti tra pensiero decostruzionista e progettazione, Fuksas così si eprime:" Non sono sicuro che Derrida abbia «armato» la mano degli architetti. Sicuramente non è il filosofo francese l'inventore della pessima espressione «archistar», che il titolo del pur felice articolo di Pierluigi Panza (Corriere della Sera del 15 novembre evoca)". Il merito dell'articolo è quello di rimettere in discussione, in termini positivi, i rapporti fra filosofia e architettura. A parte la passione vibrante di Bernard Tschumi per Derrida sin dall'epoca del concorso per il Parc de la Villette da lui vinto, e di François Barré, sofisticato intellettuale allora presidente dell'Etablissement Public del Parc de la Villette, non ci sono molte spiegazioni al successo delle teorie di Jacques Derrida nel mondo dell'architettura. A questo proposito vorrei ricordare qui di seguito una mia breve nota apparsa su L'Espresso del 28 ottobre 2004. Alcuni anni fa, Derrida disse che non riusciva a comprendere perché fosse così amato e citato dagli architetti in tutto il mondo. Alla fine di una conferenza mi confidò che aveva più inviti da gruppi di architetti che da facoltà di filosofia. L'autore di Il sogno di Benjamin, Politica dell'amicizia, L'ospitalità, Quale domani, e studioso e critico di Heidegger, amico di Foucault, di Lacan e degli strutturalisti, scomparso nel 2004, ha avuto una fortuna incredibile per chi professa la fede nel costruire! La parola chiave decostruzionismo, utilizzata da Derrida come base per una riflessione critica su gran parte della filosofia, è stata per gli architetti una parola magica. Alcuni anni fa Philip Johnson organizzò a New York una mostra con questo titolo. Chiamò un gruppo di creatori differenti tra loro, ma resi simili e omogenei dal «cappello» con cui coprì Gehry, Coop Himmelblau, Zaha Hadid e altri: tentava di riprodurre l'effetto che aveva avuto decenni prima il libro International style, in cui aveva dato limiti e contenuti a una lunga serie disomogenea di autori. Non so bene in che modo un architetto possa aver trasferito le «aporie» di Derrida nel vile mestiere dell'acciaio, del vetro, del mattone o simili. In ogni caso la parola «decostruttivismo» ha generato un movimento che probabilmente per Derrida era quanto mai semplicistico. Forse le tracce della sua influenza nel piccolo universo dell'architettura si possono trovare in concetti come il passaggio al limite, l'evento, la casualità di molti accadimenti e la difficoltà di comprenderne i meccanismi. Come diceva: «La decostruzione passa per essere iperconcettuale e certamente lo è, dal momento che fa un grande consumo di concetti, concetti che genera almeno tanto quanto eredita. Essa tenta di pensare oltre i confini stessi del concetto»4. Un successivo passo avanti per la “decostruzione” del tavolo, il “frammento” di Evola: la ricerca della simmetria

Gli studi di Leonardo da Vinci sulla radice aortica

Il costante interesse di Leonardo per la valvola aortica (Illustr. 3) viene dimostrato dalla frequente ricorrenza di disegni di una struttura tricuspide, indicando il fatto che era particolarmente attratto dalla sua simmetria. Inoltre egli affermò: “No mj legga chi non e matematicho nelli mja principj” (“Non lasciare nessuno che non sia un matematico leggere i miei principi”). E’ ben conosciuto che la simmetria, già ben definita da Vitruvio come “la proporzione fra il tutto e le sue differenti componenti”, viene rappresentata da armonia, equilibrio e proporzione (Leonardo) così come è documentato che, nella scuola di Pitagora, il cerchio nel piano e la sfera nello spazio erano considerati le figure perfette per la loro simmetria e rotazione. In effetti, nei disegni di Leonardo, la valvola aortica tricuspide (ma anche quella quadricuspide) inserita in un cerchio appariva un perfetto esempio di simmetria e rotazione. […]. Infine, descrisse accuratamente la verifica sperimentale con un modello di valvola aortica “fa questa prova dj vetro e moujcj dentro acqua e panico”. Se da un lato tutte le teorie di Leonardo erano suffragate da un’argomentazione sperimentale, dall’altro l’osservazione della forma rappresentava il pilastro su cui fondare la teoria della funzione. Infatti, nel Codex Atlanticus, scrisse “nessuno effetto in natura e sanza ragione; intendi la ragione e non ti bisogna esperienza” cioè “niente in natura è senza motivo; capisci il motivo e non avrai bisogno di esperienza”. Pertanto il concetto di “Unità funzionale e morfologica” della valvola aortica viene introdotto da Leonardo con una semplice domanda: “perché il buso della arteria aorto e triangolare” (“perché l’orificio dell’arteria aortica è triangolare?”)5.

La via geometrica per la ricerca delle simmetrie nel tavolino di Evola

Il quadrato, le tre opere alchemiche e i raggi della stella esagonale [caption id="attachment_26373" align="alignleft" width="300"] Illustrazione 8: Struttura di una memoria a nuclei magnetici (a sinistra) e schema di un piano di memoria (a destra). Per il calcolatore ipotetico cui è riferita la discussione, si è assunta una memoria semplificata, a 10 piani (tanti quanti sono i bit per parola) e 64 bit per piano. Il secondo schema mette in evidenza, per ogni piano, la posizione dei nuclei, i fili di attivazione e il cosiddetto filo di senso o di lettura. (Tratto dalla «Enciclopedia della Scienza e della Tecnica», vol. II – Ediz. Mondadori).[/caption]

Il piano del tavolo (illustr. 4) ha gli spigoli arrotondati che non consentono di pervenire alla traccia delle tre opere alchemiche, peraltro rintracciabili attraverso i loro rispettivi colori, il nero del Nigredo, il bianco dell’Albedo e il rosso del Rubedo. Ce li mostrano le traccie serpentiformi lungo una diagonale (il drago ermetico). Si traccia perciò il quadrato che unisce i centri degli spigoli del tavolino con i punti A, B, C e D. Vi fa seguito la ricerca grafica delle linee del Nigredo, del Rubedo e dell’Albedo e per essi tracciamo gli assi cartesiani orizzontali 1-2, 3-4, 5-6, e verticali 1’-2’, 3’-4’ e 5’-6’. Ora ci si accorge che il tratto verticale 5-7 è uguale a quello precedente 4-5, cosa che completa la ricerca delle simmetrie. Tracciamo perciò gli assi cartesiani relativi, 7-8 in orizzontale e 7’-8’ in verticale, in più tracciamo la quarta diagonale tratteggiata. Abbiamo ottenuto così altre simmetrie, come il rettangolo LMNP diviso in 9 parti uguali fra loro; poi il rettangolo EBFD che è speciale perché con le rispettive diagonali e la linea orizzontale mediana relativa, dà luogo alla configurazione dei sei raggi della stella esagonale. Si tratta della stella ricercata dagli ermetismi che costituisce la “firma” astrale della loro corretta opera alchemica. Fulcanelli, nelle “Dimore Filosofali”, parla dell’alternarsi di un fiore e di una stella durante l’Operazione di Sublimazione Alchemica: “Quando il mercurio giunge a bagnare lo zolfo non dissolto questo scompare ed appare la Stella, manifestazione esteriore del Sole interno. Lo zolfo (il fiore) ricompare poi alla decantazione, all’allontanamento della materia astrale. In sette riprese successive le nubi nascondono allo sguardo ora la stella ora il fiore a seconda delle fasi dell’operazione cosicché l’artista non può mai scorgere simultaneamente i due elementi del composto.”

L’esagramma, la stella di mare di Fulcanelli

[caption id="attachment_26374" align="alignright" width="288"] Illustrazione 9: Rappresentazione didattica di magneti elementari in un asta di ferro raffigurati come aghi di bussola. A destra è il caso di un asta amagnetica; a sinistra l’asta è magnetica come il corpo di Osiride[/caption]

A pag.72 del II vol. delle Dimore Filosofali di Fulcanelli viene presentato la foto di un cassettone del castello di Dampierre della Francia (illustr. 5) che così viene descritta.  < Una grande stella a sei raggi risplende sui flutti d’un mare ondoso. Al di sopra di essa, una banderuola reca inciso questo motto latino la cui prima parola è invece in lingua spagnola:  .LVZ. IN. TENEBRIS. LVCET.  Cioè: La luce brilla nelle tenebre.  Ci si meraviglierà ‒ dice Fulcanelli ‒ senza dubbio del fatto che noi prendiamo per dei flutti ciò che altri pensano trattarsi di nubi. Ma, studiando la maniera con cui lo scultore rappresenta in altre occasioni l’acqua e le nubi, ci si convincerà presto che non c’è, da parte nostra, né errore, né equivoco, né malafede. Con questa stella marina, tuttavia, l’autore dell’immagine non pretende di raffigurare l’asteria comune, volgarmente detta stella di mare. Questa infatti possiede solo cinque bracci raggianti, mentre la nostra è provvista di sei bracci distinti.  In questa rappresentazione dobbiamo, dunque, vedere l’indicazione d’un’acqua stellata, che non è altro se non il nostro mercurio preparato, la nostra Vergine madre ed il suo simbolo Stella maris, mercurio ottenuto sotto forma d’acqua metallica bianca le brillante che i filosofi chiamano anche astro (dal greco άστήρ, brillante, sfolgorante). Cosi le manipolazioni dell’arte rendono manifesto ed esteriore ciò che prima era diffuso nella massa tenebrosa, grossolana e vile del soggetto primitivo. Dal caos oscuro esse fanno scaturire la luce dopo averla riunita, e questa luce brilla ormai nelle tenebre, come una stella nel cielo notturno. Tutti i chimici hanno conosciuto questo soggetto, sebbene soltanto assai pochi sappiano estrarne la quintessenza radiante, tanto fortemente nascosta nella terrena opacità del corpo. Per questa ragione Filalete6 raccomanda agli studenti di non disprezzare la firma astrale, rivelatrice del mercurio preparato. «Abbi cura, egli raccomanda loro, di orientare la tua strada con la stella del nord, che la nostra calamita farà apparire per te. Allora il saggio si rallegrerà, mentre il pazzo la riterrà senza importanza. Non imparerà cosa sia la saggezza e guarderà, senza comprenderne il valore, questo polo centrale fatto di linee incrociantesi, segno meraviglioso dell’Onnipotente.» >.

[caption id="attachment_26375" align="alignleft" width="300"] Illustrazione 10: Il tavolo di Evola visto in modo inclinato, al punto di far configurare il quadrato LMND al posto di quello originario a mo’ di rettangolo. Di qui esso si delinea per configurare il noto quadrato di Saturno descritto da Agrippa nel suo libro.[/caption]

Andiamo avanti perché ci aspettano altre “firme”, ma per ottenerle occorre consultare un dipinto particolare di Evola, giusto quello che reca un chiaro segno alchemico, la “firma” di uno dei principi della Grande Arte, lo Solfo. E lo troviamo nel dipinto dell’illustr. 5 che segue. Il papiro di Ani ispirato dal dipinto del solfo alchemico di Evola Rilevo dalla Fondazione Evola la seguente descrizione del dipinto del solfo alchemico di Evola: Olio su tela, cm. 87x77 Firmato in alto a sinistra “Evola” Collezione privata, Roma. Nello stretto legame sussistente nel periodo dadaista tra la produzione pittorica e quella poetica di Evola, lo stesso titolo del dipinto venne utilizzato per due liriche, nondimeno completamente diverse fra loro e non soltanto perché la prima è scritta in francese e la seconda in italiano, inserite in Arte astratta (La fibre s'enflamme et les pyramides, p. 19) e in Raâga Blanda (La fibra s'infiamma e le piramidi, p. 43). L'opera si collega alle ricerche sulla lettura pittorica del processo alchemico, come indica il simbolo dello zolfo che vi è riportato. Del dipinto esiste una replica di proprietà della Fondazione Evola. f.t. (Francesco Tedeschi)7. A parte il chiaro segno del solfo alchemico, il dipinto sembra confermare appunto il rimando alla citata lirica (La fibre s'enflamme et les pyramides, p. 19) a chi conosce l’argomento legato alle piramidi egizi. In particolare al papiro di Ani della XVIII dinastia dei faraoni dell’antico Egitto, rinvenuto nella tomba dello scriba Ani e conservato nel British Museum di Londra (illustr. 6). Il riquadro centrale si incentra sul mito del grano legato allo «spirito del grano» del culto di Osiride ed in seguito al mito di Demetra e Cerere greco-latine, ma nell’iconografia di questo papiro di Ani, però, non trovano buona corrispondenza. Se osserviamo bene l’illustr. 6 non è il mazzo di grano che si vede poggiato su un calice ai piedi del tabernacolo di Osiride, bensì − e chiaramente − un plico di fogli di carta (ovviamente di papiri). Ma va bene lo stesso la metafora del grano legata allo «spirito di Osiride», che ci viene trasmessa con un’immagine. Ecco che il passo è breve per intravedere, nel plico sotto il carro del sole, la parte iconografica sovrastante, una certa struttura di memoria come quella dei calcolatori (illustr. 7). Di qui la concezione di un campo di forze, del tutto simile a quello di un magnete permanente, che tiene sospeso il carro solare della vita. E qui entrano in campo le Parche per dare il via alle Ore del flusso della vita con un periodico oscillare del carro sovrastante: Ore, di un calice dolce e/o amaro, quello nelle mani di Ani genuflesso. È così meravigliosa l’iconografia espressa dallo scriba Ani, nel dipingere questi dettagli sulla struttura magnetica (illustr. 8) da vederli aderire alla rappresentazione del corpo di Osiride. Per il resto sulla macchina del tempo lascio parlare le illustrazioni e relative didascalie. Ma non senza porre in evidenza ciò che ci preme sapere in relazione al dipinto di Evola, cosa che si è già notata con il diversi “tubi” di colori diversi. Ani li rappresenta nello scaffale in alto, sormontati da fiori. Sono vasi alchemici che si legano alle tre fasi del Nigredo, dell’Albedo, mentre il Rubedo di colore rosso lo vediamo nei quattro coperchi.

[caption id="attachment_26376" align="alignright" width="300"] Illustrazione 11: Il tavolo di Evola visto in assonometria isometrica. I tre principi, lo Solfo, il Mercurio e il Sale.[/caption]

Tutta questa descrizione, offerta dal papiro di ani, come ho fatto vedere, ben giustifica l’accostamento con le due citate liriche suddette di Evola. E vedremo quanto siano preziose per dar seguito alle simmetrie ancora da rilevare sul dipinto del tavolo di Evola.  La prima “firma” astrale del dipinto del solfo alchemico di Evola. La “firma” fondamentale rilevabile sul dipinto del solfo alchemico è il breve serpentello verde messo di traverso sui cilindri verticali, che da solo ci riporta, appunto, al dipinto del tavolo in questione. Qui, come già rilevato, sono le tre opere alchemiche, del Nigredo, Rubedo e Albedo che assumono l’analoga configurazione. La “firma” successiva, la prima, che vale come segno di rimando al dipinto del tavolo ancora di definire, è di certo il tavolo stesso visto in modo inclinato e lo stesso appena accennato in basso e ingrandito. Poi la seconda “firma”, ma ce ne occuperemo nel prossimo capitolo, si riferisce ai vasi alchemici raccolti in uno ben ingrandito in basso e sono tre, come si vede.  Occupiamoci ora della prima “firma” che, volendola porre in pratica, ci suggerisce appunto di “inclinare” il piano del tavolo dell’illustr. 4 in modo da trovare la condizione di un quadrato, al posto del rettangolo LMNP diviso in nove parti uguali fra loro. Si tratta si rintracciare una perduta “memoria” che tanto ci ricorda l’opera di Ludovico Ariosto, L’Orlando Furioso con la ricerca del suo senno perduto, col viaggio di Astolfo sulla Luna. Cosa significa questa operazione geometrica se non quella di rintracciare, presumibilmente qualcosa di prezioso di Julius Evola, il suo SENNO messo a soqquadro nel corso della sua vita, e “ripristinarlo” così come quella del corpo dio Osiride del papiro di Ani?

Si capisce che è il traguardo dell’Opera Regia con l’ottenimento della Pietra Filosofale. Detto fatto ed ecco, con l’illustr. 9, la nuova configurazione che ci lascia meravigliati nell’intravedere in essa, ipso facto, il noto quadrato magico di Saturno descritto da Agrippa nel suo libro La Filosofia Occulta o la Magia, vol. II, ediz. Mediterranee. Non senza la conferma astrale della stella a sei raggi con la configurazione delle diagonali del quadrato 9,10,7,8 e della mediana GH orizzontale. Si capisce, a questo punto, che il quadrato di Saturno si riferisce alla memoria evoliana della tradizione romana legata alla pre-romana «sapienza italica» «Saturnia Tellus». Traggo dal libro di Lino Sacchi, 99 storie sorprendenti di Liberi Muratori, 2014. Edizioni Lindau, questo stralcio in cui si parla di Evola con un movimento, di cui faceva parte, che vi si richiama: < Nei primi trent’anni del ‘900, fiorì in Italia un movimento di pensiero tra l’anti-borghese, il magico, lo spiritualista («esoterico», se dovessi definirlo con una parola sola), che ebbe rapporti di «vicinanza» più o meno inquieta col fascismo delle origini, e poi ancora col regime. […] Ricorrenti in questo movimento erano i richiami a una supposta, pre-romana «sapienza italica» della «Saturnia Tellus» e/o al paganesimo romano e all’Impero, richiami che nel mito d’origine del fascismo si inserivano benissimo. Vale soprattutto per Reghini col suo Pitagorismo e per Julius evola con l’«imperialismo pagano». Ma tra gli «affini» ci stavano anche Giuliano Kremmerz, alcuni steineriani, alcuni teosofi, Roberto Assagioli, il poeta Arturo Onofri e soprattutto il «Gruppo di Ur» fondato dallo stesso Evola, con forte connotazione magica, ciò che bastava a farlo guardare con sospetto dal regime (e d’altra parte, il sospetto che si proponessero di influire sul fascismo per via magica non è del tutto infondato). Parentele più remote, poi, ne sono state indicate una profluvie: futurismo, dannunzianesi, le rune, dadaismo, NewAge, «La Voce» (il periodico di Papini e Prezzolini)… >. Un dettaglio che confermerebbe il quadrato di Saturno di Agrippa mi è parso di intravederlo nel numero 3, collocato esattamente nell’area dell’opera al rosso, il Rubedo, mentre gli altri numeri non hanno questa caratteristica. E sono tre gli ellissi di color nero, ma vedremo in seguito cosa essi indicano con certezza.  La seconda “firma” del dipinto del solfo alchemico Abbiamo visto come il quadrato del dipinto in studio è stato inclinato per dar luogo al rettangolo dell’illustr. 9, un’indicazione tratta dal dipinto del solfo alchemico dell’illustr. 5. Ho già accennato alla seconda indicazione analoga del rombo posto in basso di questo dipinto ma ingrandito, cosa che ora ci porta a esaminare un altro modo di inclinare, non solo il dipinto dell’illustr. 2, ma tutto il tavolino come se fosse visto secondo la geometria dell’assonometria isometrica. Ma si tratta dell’immagine iniziale relativa, come se il tavolo fosse posto in una scatola, tale da far vedere in trasparenza qualcosa al suo interno. Di qui la comprensione della relazione dei tre ellissi neri del dipinto sul tavolino, con i misteriosi “tubi” del dipinto del solfo alchemico dell’illustr. 5. Ecco una nuova prospettiva della visione alchemica per identificare la natura di questi “tubi” che sembrano quelli di un organo di chiesa e che identificano i tre principi alchemici, il Solfo, il Mercurio e il Sale.

I tre principi alchemici

Lo Zolfo era ritenuto l’elemento primordiale che insieme al Mercurio poteva essere trasformato in qualsiasi altro metallo, anche l’oro.Il Solfo simbolico è annesso al principio maschile del Sole, del fuoco, dell’attività, della coscienza. Il Solfo è associato quindi alla parte mentale, il pensiero, lo spirito, la fiamma che discende sul capo degli apostoli, o più comunemente la fiamma dell’intelletto che accende l’intelligenza. Il Solfo è anche un principio acre e purificante; mantiene nei ranghi il principio mercuriale (la parte femminile emozionale ed emotiva) e veicola l’intelletto individuale verso la mente collettiva, universale, divina, che governa tutto secondo leggi eterne.  Un Solfo forte determina salute, perché affranca da abitudini e vizi che portano lontani dalla Via Naturale, quella che dà adito a sprechi e accumuli inutili. Un Solfo debole lascerà via libera all’emotivo di spadroneggiare, col rischio di eccessi di ingordigia, timori inutili e depressione. Mercurio, l’anima, la vitalità. Attraverso i loro esperimenti gli alchimisti scoprirono che il mercurio poteva combinarsi con lo zolfo, a cui Paracelso aggiunse anche il sale. In base al tipo e alle proporzioni di questi tre componenti-principi, si pensava che in natura si verificasse una maggiore o minore solidificazione dell’etere, da cui si originavano così i 4 elementi-radice classici: fuoco, acqua, terra, aria. Scopo degli alchimisti era disciogliere questi elementi tramite distillazione riportandoli ai loro ingredienti originari, per poi ricombinarli in una forma più pura e nobile (il quinto elemento o quintessenza).Mercurio come divinità antropomorfizzata, è lo psicopompo, colui che mette in comunicazione la terra col cielo, gli inferi sotto la montagna con il paradiso sulla cima (l’olimpo) e come principio alchemico è ciò che scioglie, diluisce e ricondensa, da elemento volgare si rettifica e diviene elemento imperituro, che dà vita eterna. Sale. Il corpo. Il sale è comunemente conosciuto come conservante, dà sapore ai cibi e un tempo era considerato moneta di scambio. In alchimia esso simboleggia la durevolezza e la consistenza della materia, il corpo delle cose. Era ritenuto da Paracelso il terzo ingrediente, dopo solfo e mercurio, da aggiungere nelle operazioni di trasmutazione alchemica, che consistevano nella scomposizione degli elementi nei loro componenti originari per poi ricombinarli in una forma più eterea e nobile: solve et coagula. Il terzo principio alchemico in realtà non è principio ultimo né parte volgare o infima delle cose, ma di concerto con Solfo e Mercurio assolve al compito di dare sostanza e mutevolezza alla vita8.

Ancora una simmetria, la stella del tavolo visto in assonometria isometrica

  [caption id="attachment_26377" align="aligncenter" width="300"] Illustrazione 12: Il tavolo di Evola visto in assonometria isometrica. La stella nel quadrato in armonia con i suoi[/caption]   Note:

1 Nota di Carlo Fabrizio Carli: La Fondazione Evola sta preparando un volume destinato a raccogliere tutte le testimonianze (poesie, testi teorici, lettere, dipinti) dell’attività di Evola quale artista d’Avanguardia. Chi volesse segnalare documenti ritenuti inediti, è pregato di prendere contatto con me (sarò il curatore del volume) al seguente indirizzo di posta elettronica: carlofabrizio.carli@virgilio.it 2 Fonte: http://test.insulaeuropea.eu/letture/a-tavola-con-latanor-di-carlo-pulsoni/ 3 Il decostruttivismo è un movimento architettonico spesso contrapposto al movimento postmoderno. I suoi metodi, in reazione al razionalismo architettonico, vogliono de-costruire ciò che è costruito. Il teorico del decostruttivismo è il filosofo francese Jacques Derrida e la nascita del fenomeno è avvenuta con una mostra organizzata a New York nel 1988 da Philip Johnson, nella quale per la prima volta appare il nome di questa nuova tendenza architettonica, che fu definita “Deconstructivist Architecture”. Alla mostra di New York furono esposti progetti di Frank O. Gehry, Daniel Libeskind, Rem Koolhaas, Peter Eisenman, Zaha Hadid, Bernard Tschumi e del gruppo Coop Himmelb(l)au. In questa esposizione veniva estrapolata un'architettura "senza geometria" (la geometria euclidea), piani ed assi, con la mancanza di quelle strutture e particolari architettonici, che sono sempre stati visti come parte integrante di quest'arte. Una non architettura, quindi, che si avvolgeva e svolgeva su se stessa con l'evidenza e la plasticità dei suoi volumi. Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Decostruttivismo 3 Fonte: http://www.floornature.it/progetto.php?id=4024&sez=30 4 Fonte: http://nonsprecareiltuotempo.blogspot.it/2011/10/opinioni-decostruzione-e-architettura.html 5 Nel folio 115 verso del “Corpus of the anatomical Studies” della collezione di Sua Maestà la Regina presso il Castello di Windsor, Leonardo Da Vinci riporta numerosi disegni della valvola aortica così come la sua valutazione delle diverse strutture. Questo “folio” rappresenta uno dei più ricchi esempi della precisa e accurata metodologia di Leonardo anche se,talvolta, di difficile interpretazione. Fonte: http://maori.unicz.it/?p=539 6 Filalete, Introitus apertus, Op. cit., cap. IV, 3. 7 http://www.fondazionejuliusevola.it/Quadri/Lalibras%27infiamma.htm 8 Fonte: http://www.disegnailcentro.it/antropologia/i-3-principi-alchemici/

  Gaetano Barbella

Massimo Ursino e i pilastri della società – Roberto Pecchioli

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Secondo le maestrine dalla penna rossa sempre pronte ad impartire lezioni, nonché il vasto pubblico dei civili, democratici, riflessivi e progressisti le sentenza non si criticano. Se ne può solo prendere atto in religioso silenzio, come gli arcani responsi della Bocca della Verità.

E invece no. Noi osiamo affermare che la sentenza del Gip di Palermo che ha mandato liberi, con divieto di dimora e obbligo di firma, due dei presunti autori del bestiale agguato al dirigente di Forza Nuova Massimo Ursino è sbagliata. Errata e per di più diseducativa. I pilastri della società, tutti i Tartufi d’Italia - la maggioranza di un popolo in catalessi, i sinceri democratici con emiplegia mentale (lato sinistro) la penseranno diversamente. Su di loro, pilastri di sabbia di una società decomposta, pronunciò parole definitive Henrik Ibsen in una memorabile piéce teatrale. Lo stesso titolo ha un polemico quadro espressionista di George Grosz.

Non apparteniamo a FN né siamo elettori del movimento di Roberto Fiore, ma il troppo, come si dice, stroppia. Sappiamo che quando la politica entra dalla porta la giustizia esce dalla finestra; ci è nota anche la vecchia battuta di Giolitti secondo cui la legge per gli amici si interpreta e per i nemici si applica. Ma non è questo il punto, maestri cantori della legalità con obbligo di svolta a sinistra. Non è neppure il caso di prendersela con il giudice. Il Gip palermitano ha ritenuto che i “ragazzi” (la qualifica di ragazzi, per i centri sociali, è a vita) non avessero intenzioni omicide. Calzavano scarpe da tennis, perbacco, in più si sono filmati! Dunque sono “soltanto” lesioni gravissime, reato per il quale non è obbligatorio il carcere. E’ il libero convincimento di un pilastro del sistema, perfettamente dentro la vigente legalità.

Con altrettanta libertà di giudizio ci sentiamo, umili cittadini di serie C, di dissentire. Innanzitutto, non osiamo immaginare che cosa sarebbe accaduto se Ursino fosse l’aggressore e i “ragazzi” gli aggrediti. Un’ondata di sdegno avrebbe pervaso lo Stivale; quanti pilastri della società a dito alzato, sopracciglia corrugate a trasmettere indignazione contro il giudice, losco fascista di complemento. Il massacro sarebbe stato totale, da Mattarella sino ai vuotacestini del palazzo municipale palermitano. Giustificato, peraltro, dall’oggettiva gravità dei fatti. Ma Ursino, pieno di tatuaggi sospetti, è politicamente dalla parte del torto; un giovane incaprettato, per sottolinearne la riduzione allo stato animale, la sproporzione numerica, la botte, la beffa infame del filmato. Nulla di tanto grave: Ursino è il perfetto rappresentante dei cattivi, no dei pessimi, anzi delle non-persone.

Per questo, non è neppure ipotizzabile l’apologia di reato per i gentiluomini (elettori di Leoluca Orlando Cascio?) che hanno sfilato esibendo nastri del tipo di quelli utilizzati per legare Ursino, in esaltazione del gesto dei loro compagni. E’ invece apologia del fascismo levare il braccio in un saluto: questo esigono i pilastri della società. Il lato più devastante della vicenda è il messaggio che viene lanciato dalla più alta delle tribune, il palazzo di giustizia. Legare, imbavagliare, massacrare di botte un essere umano costa due giorni di carcere, poi si vedrà.

Ripetiamo, il giudice ha solo esercitato la discrezionalità che la legge gli riconosce, derubricando il reato e poi applicando la misura che ritiene più appropriata tra quelle previste. Sta tutto scritto, nero su bianco, nel codice di procedura. Destra e sinistra, pilastri del sistema politico, così hanno voluto.

Per questo omicidi stradali in stato di ubriachezza o drogati attendono sereni gli eventi a casa propria, rapinatori, ladri e spacciatori non vengono neppure più denunciati, migliaia di persone, stranieri e connazionali, preferiscono la malavita al lavoro. Fanno bene, si guadagna molto e si rischia pochissimo. Anche gli omicidi riescono in genere a cavarsela espiando pene assai inferiori a quelle irrogate dal tribunale. Numerosi condannati in via definitiva girano per le città continuando a delinquere in quanto è lentissima l’esecuzione delle sentenze.

In compenso, se fischiettate Faccetta Nera rischiate grosso, insigni docenti di libertà e democrazia ripetono che nell’anno di grazia 2018 il fascismo non è un’idea, magari pessima e anacronistica, ma un crimine. In questo baccanale di inversione di principi e realtà, nessuno pensa ai problemi quotidiani di “questo paese”, come lo chiamano loro. O forse i problemi sono scomparsi: merito di sindaci come Orlando che hanno reso le città autentici paradisi. Per questo imputano ad alcuni italiani diabolici il delitto di esistere. Massimo Ursino è uno di quelli. Pensi ai fatti suoi e non gli succederà più nulla.

Il presidente del Consiglio Gentiloni nel corso di una manifestazione - l’Italia è l’unico Stato in cui il governo sfila in piazza anziché lavorare per i concittadini - ha ammonito a non prestare fede a chi semina odio. Ben detto: per un attimo ci siamo illusi che alludesse alla sua parte politica e, naturalmente, ai pilastri della società.

ROBERTO PECCHIOLI

Il concetto di Volontà nel pensiero filosofico di Emanuele Franz – Ivan Buttazzoni.

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Tratto dal libro: Introduzione al pensiero di Emanuele Franz; Audax Editrice 2018

Il misterioso dipinto di Caspar David Friedrich intitolato Winter Landscape 1 (1811), ci presenta un freddo paesaggio di montagna, innevato e ghiacciato, con abeti che svettano verso il cielo, e, all'orizzonte, immersa nella nebbia e seminascosta una cattedrale immaginaria. Ecco qui evocato tutto il valore mistico della montagna come meta di contemplazione ascetica, poetica e metafisica. Una montagna ultraterrena e oltreumana in cui si riverbera un senso di profonda pace. Il silenzio è ovunque. Il mistero si condensa nella cattedrale avvolta nella nebbia, simbolo della sacralità della Natura. Emanuele Franz è il filosofo della montagna, intesa come meta ascetica e mistica. Alla montagna egli dedica due libri: Il monte Nous, racconto fantasy-alchemico e La montagna degli Dei, suo memoriale da alpinista.

Il Monte Nous è un racconto allegorico che narra la ricerca della Verità (Nous in greco) da parte dei protagonisti che tra percorsi innevati e gole profonde, incontrano creature fantastiche che li guidano al raggiungimento della vetta. Esso è anche un'allegoria della montagna come disciplina con sé stessi, silenzio, purificazione interiore, solitudine e prova della volontà, al fine di sviluppare una via etica che consenta alla Volontà di sprigionarsi in modo impersonale e a-soggettivo. La montagna quindi ha un ruolo fondamentale come terreno pratico di applicazione della filosofia della Volontà di Emanuele Franz, essa è un'esperienza iniziatica che impone all'uomo una disciplina che lo eleva verso i segreti della Natura. Il concetto di Forza di Volontà appare in Emanuele Franz totalmente diverso dalla Volontà di Potenza di Nietzsche. In Nietzsche la Volontà di Potenza è una pulsione di accrescimento che vuole continuamente e che desidera e si impone con la forza. Mentre in Franz la Volontà espressa ai suoi massimi livelli corrisponde ad un darsi incondizionato al prossimo, è una Volontà altruistica, scevra da ogni interesse o guadagno personale. Nel pensiero di Franz chi esercita la Volontà estrema diviene un Sole per gli altri uomini e, se la luce del Sole va a beneficio degli altri che ne vengono illuminati, è altrettanto vero che il Sole è un oggetto astronomico che non può essere auto-illuminato da se stesso, la luce in questo caso diventa un dono gratuito per gli altri uomini. La montagna come luogo di esercizio della Volontà dicevamo, come luogo iniziatico alle pratiche del silenzio e della rinuncia che forgiano l'animo umano insegnandogli a sognare un bene più grande del proprio tornaconto personale, è questa la montagna per Emanuele Franz e tale appare nei suoi libri. Così possiamo leggere come un suo personale omaggio lo studio biografico che il filosofo dedica a Reinhold Messner, il più grande scalatore di tutti i tempi, l'uomo che per primo scalò l’Everest, la montagna più alta del mondo. Studio contenuto ne La Biografia della Forza, un testo dedicato alla Forza di Volontà, che vede avvicendarsi dodici brevi studi biografici su uomini che, nel bene o nel male, hanno cambiato la Storia, ovvero oltre al citato Messner, Heinrich Schliemann, Aldous Huxley, il Mahatma Gandhi, Napoleone Bonaparte, Hernàn Cortés, Martin Lutero, Grigorij Rasputin, Guglielmo Marconi, Louis Pasteur, Thomas Alva Edison e Ludwig van Beethoven.

Dodici uomini per dodici biografie che vanno a fondersi per tracciare la biografia di un unico personaggio: la Forza, ovvero la Volontà espressa al suo livello più estremo. Ne La Biografia della Forza, la Forza è considerata un principio metafisico che muove il cosmo quanto l’uomo, essa è esterna all'uomo e si riflette nell'uomo a diversi gradi di intensità, e ha la potenzialità di possedere l'uomo fino a spingerlo a compiere opere straordinarie. Tutto ciò a patto che l'uomo, attraverso una rigida disciplina, si sia reso in grado di riceverla e rifletterla nell'intensità adeguata a produrre grandi cambiamenti nel mondo. Questi dodici uomini di cui Franz narra le vite, hanno sottoposto la loro Volontà a condizioni difficili, a tribolazioni così significative che, come il testo “La Biografia della Forza” mette in evidenza, tale Volontà portata ai massimi livelli si è disancorata sia dal soggetto volente che dall’oggetto voluto. Una Volontà esercitata a livelli ordinari è impotente, essa necessita di prove esterne per essere sviluppata e ampliata.

Questi dodici uomini si sono trovati in situazioni ai limiti delle possibilità umane, e la loro Volontà è stata sottoposta a resistenze così terribili che, come questi uomini ammettono, la loro Forza è derivata da livelli sovrumani. Napoleone si diceva chiamato dal destino, Rasputin seguiva visioni mistiche, e anche gli altri hanno ubbidito a un richiamo sovraterreno di modo che appare evidente che questa Volontà così forte che li ha contraddistinti non è umana. Essa si riflette nell'uomo ma proviene da una dimensione Altra. Se ne evince che la Volontà una volta disancorata anche dallo stesso oggetto o obiettivo si rafforza incredibilmente.  Risulta importante per Franz il darsi un obiettivo impossibile, considerato folle, di modo che esso rafforzi la Volontà fino ai casi estremi di Cortés, Gandhi, Beethoven ecc., in cui essa consente di percepire il mondo come plastico, malleabile, come plasmato da un pensiero più grande dell'uomo, quello che Franz chiama Pensiero Esteso. Questi uomini non agiscono per loro stessi, e in questo modo, disancorando la Volontà dall’ego, la loro Forza è ingigantita a livelli immensi, perché l’ego, la piccola individualità non è altro che una zavorra per la Volontà. Perciò risulta necessario sganciare la Volontà dal soggetto volente. Gandhi non voleva certo liberare l'India per il suo tornaconto personale, così come Cortés agiva per Dio e per la Spagna e Beethoven per l’ideale filantropico di portare la gioia a tutto il mondo.

Franz ci rivela che quando siamo in grado di sbarazzarci persino dell'ego ecco che arriviamo a quella condizione di plasticità del mondo. Scopriamo cioè che il mondo non è una serie di leggi fisiche inalienabili ed eterne, ma esso soggiace a degli schemi cognitivi non umani che il grande iniziato alla Forza di Volontà è capace di percepire. Chi esercita la Volontà a questi livelli percepisce che c'è una dimensione dell'esistenza sì cognitiva e di pensiero, ma in cui non è l'uomo a pensare, e anzi di più, e qui sta la grandissima innovazione del Pensiero Esteso, egli percepisce che non c'è un pensatore supremo. Il Pensiero Esteso non implica un pensatore. Coltivare la Volontà si traduce dunque in un duro percorso iniziatico che porte a forme di consapevolezza vaste ed elevate sulla natura dell'Essere, questo il messaggio di Franz. La Volontà franziana va infatti intesa in senso quasi religioso, non nel senso comune, ma come religere al sacro. In effetti sul lungo cammino di purificazione e potenziamento delineato dal filosofo questi grandi uomini, Gandhi, Cortés, Marconi ecc., sono solo il primo gradino di una scala, una scala ascensiva di una volontà infinita che, una volta superato il soggetto e il suo stesso oggetto, è praticamente capace anche di creare mondi. Il tutto si rivela quasi una pratica mentale perché, portata alla sua massima potenza, questa dottrina della Forza ci dice che un uomo stando seduto immobile al buio in una stanza potrebbe cambiare il mondo, perché la straordinaria potenza di questa Volontà a rigor di termini non richiede nemmeno l'azione per poter essere esercitata.  Diceva Lao Tze: “Io sto seduto immobile in cima ad una montagna e dirigo una rivoluzione”.

Ciò implica che esista quindi un'azione a distanza di questa volontà espansa ai massimi livelli. In fondo Gandhi ha ottenuto risultati stando seduto a digiuno. Tutto ciò è possibile per Franz se la Volontà viene sviluppata tramite adeguate prove. Ritorna qui la questione della disciplina interiore e della montagna, e infatti, come vedremo nei capitoli successivi, nell’Utopia politica di Franz è previsto che l’uomo candidato alla collettività debba essere una sorta di alpinista, perché chi è capace di stare due mesi in silenzio, chi ha conosciuto il ghiaccio, la neve, la solitudine, poi sviluppa dentro di sé quel nucleo inscindibile che diventa disinteressata dedizione al prossimo. La Volontà di Franz si distanzia anche dalla hybris greca, la superbia, la tracotanza, ma ha un aspetto di incomparabile altruismo. Attraverso l’esercizio della Volontà, ci spiega Franz, è possibile superare persino la classica dicotomia Io-mondo. Infatti un individuo che giunge attraverso le prove della disciplina a percepire il mondo come plastico è in grado di fondere l’io con il mondo e di agire su di esso. Come vogliono i mistici io e mondo devono essere uniti perché si manifesti un cambiamento. Per Franz la Volontà è una dimensione metafisica e la dicotomia io-mondo, soggetto-mondo non è altro che uno di quei grossi centri di potenza del Pensiero Esteso la cui eliminazione richiede un'energia spaventosa, in quanto è un abituale e atavico meccanismo mentale.

Conquistare il Messico con 508 uomini contro 25 milioni di Aztechi, come fece Cortés è impossibile. Ma qui interviene l’azione irrazionale che è magica e si manifesta nell'atto di Cortés di bruciare le sue stesse navi per non avere nessuna possibilità di tornare indietro. Tale atto è per Franz un atto magico, irrazionale che ha portato a conseguenze inimmaginabili. Questi uomini grazie alla loro disciplina sono stati in grado, secondo il filosofo, di manifestare il Dio interiore, di incarnare potenze ultraterrene che hanno loro concesso di piegare la storia. Guglielmo Marconi aveva il proposito folle di lanciare delle onde elettromagnetiche oltre l'oceano, un progetto considerato folle dalla comunità scientifica di allora, ma, come scrive Franz a pagina 72 de La biografia della forza: “sapeva che ci sarebbe riuscito, e questo fu un atto irrazionale, mosso dalla pulsione onirica che muove i grandi rivoluzionari”. Egli come dice Franz era fermamente convinto che gli eventi fossero guidati da una forza soprannaturale e ciò gli diede la Forza immane di portare a termine il suo progetto.

Ma, nel caso di Marconi, il filosofo si spinge addirittura oltre ed afferma che è il pensiero a creare la realtà e che, prima degli esperimenti di Marconi, la ionosfera, quello strato dell’atmosfera che permette la trasmissione di impulsi elettromagnetici a distanza, semplicemente non esisteva, Marconi l’ha creata con il suo pensiero. Leggiamo infatti a pagina 76 de “La Biografia della Forza”: “Il Genio, inteso come lo volevano i Greci, ovvero sia lo Spirito mediatore fra il Divino e l'umano, è riuscito, in virtù della Volontà Possente e sognatrice a immettere nel mondo quelle Leggi di cui prima era privo. Il Genio non scopre, il Genio crea”. Il mondo è per il filosofo frutto della Volontà, e coloro i quali sono in grado di esprimere questa Volontà a livelli eccelsi hanno veri e propri poteri creativi sul mondo. Infatti a pagina 77 de La Biografia della Forza Franz scrive: “Se solo l'uomo comprendesse che la Volontà del Genio è solo la punta di un iceberg e riconoscesse che la Forza verso l’Ideale purpureo e immateriale è in grado di generare mondi, allora a tutti apparirebbe l'universo così per come esso è: un Sogno, un sogno vuoto che ha l’ombra del suo sognatore ad ogni crocicchio, allora la sua Verità stillerebbe sulle labbra ad ogni assetato di Bellezza”.

Abbiamo quindi delineato un rapporto tra Forza di Volontà e irrazionalità. I grandi gesti non possono che nascere dall'irrazionale come luogo della possessione divina e extraumana.  Come dice Emanuele Franz a pagina 121 de La Biografia della Forza: La Forza è la capacità che le potenze irrazionali e passionali travalichino i dettati della ragione e ne valichino gli ostacoli. Di irrazionalità infatti si tratta, nei casi più modesti, come fu per Marconi, e di vera e propria follia, nei casi più eclatanti, come fu per Cortés. Ad ogni modo la Forza è sempre e comunque abisso della ragione, apoteosi dell'irrazionale, distruzione di schemi mentali preesistenti, prassi e consuetudini consolidate che vengono, nel guizzo estatico del sogno visionario, rase al suolo conferendo l'apertura al miracolo, il marmoreo coagularsi dell’Impossibile”. Non è un caso che Franz parli in egual modo di personaggi positivi come Gandhi e Marconi allo stesso modo che di personaggi negativi come Cortés o Rasputin. Il filosofo specifica infatti che la Forza non ha morale, essa esiste semplicemente per coloro che sono in grado di raggiungerla e rifletterla. Così non esiste il “lato oscuro” della Forza, poiché essa è unitaria e solo l’interpretazione umana la definisce chiara o scura.

L’influenza di una volontà sovrumana si manifesta come un vero e proprio fenomeno di “possessione”, un incontro con una realtà Altra praticato e usuale nella Grecia antica ma con cui abbiamo perso il contatto, leggiamo infatti a pagina 123 de La Biografia della Forza: “Gli antichi Greci non avevano vergogna di ammettere che le loro azioni erano mosse dagli Dei, i grecisti chiaramente lo dicono: gli antichi sentivano nel petto, nel Thumos (l'animo) delle vere e proprie voci che gli dicevano cosa fare, che essi attribuivano agli Dei e contro queste voci nulla si poteva fare, oltre che obbedirle. Si trattava, detto più semplicemente, di conferire “ad altri” la capacità delle proprie scelte, a qualcosa di “esterno””. Vediamo dunque anche in questo caso come la dimensione del fuori sia centrale nel pensiero di Emanuele Franz. Il sovrumano viene da una dimensione altra, esso è il richiamo dell’Essere stesso che ci spinge ad azioni nobili e disinteressate. Il filosofo ci spinge dunque ad intraprendere quel cammino di solitudine, silenzio e deprivazione sensoriale, tipico delle pratiche di un alpinista, al fine di sviluppare una Volontà degna di questo nome che sia in grado di apportare cambiamenti significativi e duraturi sul mondo esterno.

Ivan Buttazzoni nasce a Udine nel 1977. È filosofo, scrittore e pittore. Si laurea in filosofia contemporanea all’Università di Trieste con il Prof. Pier Aldo Rovatti. Studia Storia dell’Arte presso l’Università di Udine. Nel campo della pittura si è distinto in numerose pubblicazioni nazionali e internazionali, vincendo diversi concorsi e ricevendo svariati attestati di merito e apprezzamenti fra cui quelli di Vittorio Sgarbi, José Van Roy Dalì (figlio del noto Salvator Dalì) e Paolo Levi. I suoi campi di interesse sono l’Arte e la Spiritualità. Si occupa delle interconnessioni fra Storia dell’Arte, pensiero filosofico, occultismo, antropologia, alchimia, esoterismo e Storia della Magia. Vive e lavora a Udine.

Huysmans – Luca Negri

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Narrazione delle stravaganze causate dal complesso del peccato”; così Aleister Crowley definisce Là-Bas di Joris-Karl Huysmans, infilando il romanzo fra le letture del corso per i membri del suo ordine, Astrum Argenteum. Nel Magick di Crowley si trova un altro riferimento all’opera e all’autore francese: nel capitolo Dell’Eucarestia, in nota, si lascia intendere che Huysmans morì di cancro alla lingua perché temeva i segreti del sacramento e “cercò di tradire quel poco che ne sapeva”. Probabile che del tradimento vi sia traccia in Là-Bas, ora in nuova traduzione di Annamaria Galli Zugaro per le edizioni Lindau col titolo L’abisso.

Huysmans tradì non nel raccontare l’ambiente neognostico e satanista della Parigi fine ‘800, con un buon senso del ridicolo e una scrittura impeccabile; probabilmente Crowley fa riferimento ad un rito di magia sessuale che forse qualche lettore riuscirà a cogliere. Rimane la questione delle “stravaganze del complesso del peccato” che rende ancora più interessante la lettura. A partire appunto dallo sfondo ben orchestrato della vicenda, l’inverno parigino che è anche esistenziale, dato che Huysmans (e il suo doppio letterario, Durtal protagonista del romanzo) vede crollare i dogmi neanche così antichi del positivismo ed abbandona il realismo letterario capendo che la realtà ha più strati e si esplora in più dimensioni. È scettico Durtal, pessimista sulle sorti dell’umanità, che vede in decadenza inesorabile, avendo perso ogni residuo dell’ultima civiltà tradizionale e organica, il Medioevo. Il personaggio forse più rappresentativo è il campanaro, esemplare di razza in estinzione, col ruolo Mercuriale di richiamare al sacro il popolo ogni ora. Ma le campane suonate da mano umana stanno lasciando il posto ai nastri registrati, alle macchine, e sempre meno gente va in chiesa. Il Cattolicesimo è nobile perché in decadenza, fuori luogo e del tutto antimoderno nel secolo affaristico e borghese. Di questo sentire che nasce col Simbolismo il romanzo, che è del 1891,è pregno ed è una percezione chetroverà più avantiespressione organica in particolare nell’opera di Guènon. Questo sentire nemmeno era estraneo a Josephin Pèladan, Stanislas de Guaita e ancora meno a un cattolico oltranzista come Lèon Bloy. Huysmans non conobbe ovviamente Guénon ma con gli altri nomi della lista ebbe a che fare, li frequentò, li studiò, li considerò infine nemici e nemico fu da loro considerato. Facendo un passo oltre rispetto al suo Durtal, lo scrittore infatti si convertì al Cattolicesimo ma passando per la via estremamente eretica dell’abate satanista Boullan, seguace del gioachimita Eugène Vintras, fondatore della Chiesa del Carmelo e, a sentir lui, reincarnazione del profeta Elia. C’è tutta una storiaccia di attacchi magici fra De Guaita e Buollan, con ricadute su Huysmans, o almeno così il suo guru spretato e depravato gli fece credere. Di tutto ciò non c’è ancora traccia nel romanzo, ma i prodromi e i protagonisti ci son tutti, anche se con altri nomi. E c’è ovviamente la femmina fatale, colei che accompagna Durtal alla prima messa nera, che scende con lui le scale degli inferni parigini. Gran personaggio quello della signora Chantelouve, timida moglie borghese di uno scrittore di opere religiose, che si svela piano piano e si mostra infine come la prostituta che è, come la Elena dei Simoniani, la Anne-Marie di Bloy e la perfetta Donna Scarlatta di Crowley. Assai riuscito anche il personaggio dell’amico medico, che ben incarna la crisi del positivismo nel suo comprendere che il corpo non è solo quello che si disseziona e riempie di medicine.

Durtal finisce nei gironi della Parigi occulta per trovare ispirazione, sta scrivendo un libro su Gilles de Rais, vuole sapere se ancora ai suoi giorni si pratica la magia nera, si uccidono vergini e si beve il loro sangue. Il De Rais gli appare come una figura duplice: c’è il monaco guerriero che combatte devoto sotto le insegne di Giovanna d’Arco, ma c’è poi lo stregone perverso che decima la popolazione infantile dei paesi intorno al suo castello. Un mostro che muore impiccato e bruciato ma pentito ed assolto dalla stessa Chiesa, un mostro che ben rappresenta certe manifestazioni, ormai superate nella coscienza comune postmoderna, del complesso del peccato. La parola peccato, ricordiamo, etimologicamente rimanda all’errore, al fallire, al superare i limiti. Le “stravaganze” a cui si riferisce Crowley sono appunto il voler per forza l’abiezione, il capovolgimento empio di ciò che è stato sacro, l’errore ovvero l’errare per l’errare, il gusto di smarrirsi e del fallimento ripetuto, la selva oscura e l’accidia compiaciuta. Con poi il piacere meschino del chieder perdono, del risollevarsi, del sentirsi pulito fino al prossimo peccato.

Allora forse è azzeccato il titolo L’abisso invece di “Laggiù” come noi avremmo intitolato, perché l’Abisso è Daath nell’Albero della Vita cabalistico, è la palude in cui si arena e affonda la Conoscenza che non diventa la Comprensione di Binah, Trinità oltre il mondo materiale. Abitante dell’Abisso è Choronzon, vecchia conoscenza di Edward Kelley, prima ancora che di Crowley. Choronzon sarebbe forse l’unico vero diavolo o satana concepibile, al di là di pruriti delle signore Chanteluove, delle orge dei Buollan di ieri ed oggi e dei ragazzini che si danno al satanismo per far dispetto al prof di religione. Il demonio vero è infatti demone della dispersione, impedisce la visione dell’Unità perché abbaglia con i suoi frantumi, con le seduzioni di verità mai piene. Forse Huysmans non è morto di cancro alla lingua per aver forse tradito misteri, ma ha scritto un bel romanzo sul potere della dispersione e sulla antica certezza che si ottiene ciò che si vuole e chi vuole peccare peccherà e chi vuole verniciare le sue perversioni di tinte sacre o sconsacranti non è poi tanto originale.

Luca Negri

Le vittime dei vincitori. I conti della storia – Umberto Bianchi

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In Italia è oramai divenuta prassi ordinaria, di fronte a tutte quelle tensioni e fibrillazioni politiche che rischiano di mettere in pericolo l’establishment, tirare fuori da un impolverato cilindro, lo spelacchiato coniglio di un vittimismo antifascista “ad usum delphini”. I coribanti del “politically correct” con il loro agitarsi e strillare, sembrano, però, essersi lasciati lungo la strada un qualcosa di macroscopico. Nel lungo fluire delle umane vicende, se qualcuno non se ne sia ancora accorto, a far la Storia non è mai, o quasi, un solo e monotematico attore, ma, più e più parti, contornate da una serie di elementi e contesti, di cui bisognerebbe ben tener conto, prima di vomitare banalità, falsità e distorsioni che, statene pur certi, oltre a non aiutare ad avere un quadro chiaro ed esauriente del tutto, finiscono, invece, con il fare il giuoco dell’establishment dei vari poteri costituiti, a cui tutto interessa, meno che vari  popoli abbiano una chiara coscienza storica, in grado di fornir loro una guida per il presente ed il futuro.

E così è con le vicende dell’ultimo conflitto mondiale. S. Anna di Stazzema ha sicuramente rappresentato un tremendo ed esecrabile episodio, al pari delle terribili vicissitudini di Auschwitz. Nessuno però, sembra volersi interessare alle “altre” vittime. A quelle, tanto per parlar chiaro, dei democraticissimi vincitori anglo americani e compagnia bella. Ora, a voler proprio essere fiscali, se è vero quel che i vari storici vanno affermando sul numero di sei e più milioni di morti, causati dal Nazismo, tra deportati di religione israelita ed altri gruppi, oltre alle vittime civili causate dalle azioni belliche, rappresaglia e compagnia varia, è altrettanto vero, però, che, tanto per fare un piccolo esempio, Stalin di morti “civili” ne provocò approssimativamente una quarantina di milioni, deportando e sterminando amorevolmente i “kulaki” (ovverosia quei piccoli proprietari agrari che mal vedevano l’opera di collettivizzazione forzosa da quest’ultimo intrapresa a loro danno, senza se e senza ma…sic!), oltre a Cosacchi, Ucraini, Ceceni, Lituani, Estoni, Lettoni, Polacchi, Mongoli, senza poi contare la simpaticissima pratica delle periodiche “purghe” a cui il buon “Baffone” sottoponeva i propri sottoposti, oltre agli stessi militari dell’Armata Rossa, che in pieno conflitto, oltre a dover sopportare il tremendo urto delle truppe dell’Asse, tra purghe e purghette,  finì con il ritrovarsi, varie volte, sull’orlo di una catastrofica sconfitta, proprio a causa del perseverare di questa pratica.

Ma non è ancora finita. Il conteggio delle vittime del buon “Baffo”, andrebbe anche esteso a quelle popolazioni civili dell’Est Europa che, avevano avuto la mala sorte di trovarsi nello schieramento dell’Asse e che, per questo, al termine del conflitto, pagarono la propria collaborazione con un prezzo di sangue spaventoso, di cui, ad oggi ancora, è difficile calcolare l’esatta, tragica, entità. Paesi come Romania, Ungheria, Cecoslovacchia e Finlandia, tanto per fare un esempio, furono tra quelli che pagarono un conto molto salato, per tale collaborazione.

Questi sono solo alcuni, limitati, esempi, a cui andrebbero aggiunte le popolazioni di lingua tedesca dei Sudeti, del corridoio di Danzica o del Volga e della stessa Germania, fatte oggetto di spaventose decimazioni, durante e dopo la guerra. E già, a fare i conti, con quanto da Stalin combinato,  si andrebbe a superare con un buon distacco numerico, le vittime civili del nazismo. Ma, per una legge di “par condicio” e per evitare la solita, melensa giaculatoria sulla cattiveria dei Totalitarismi a fronte delle angeliche virtù delle liberal democrazie, non si può abbandonare il tragico scenario dell’ultimo conflitto mondiale, senza parlare dei nostri cari campioni di democrazia anglo americani. Dresda, al pari di Hiroshimka e Nagasaki, ci ricordano l’inferno di fuoco che, con tanta umanitaria sollecitudine, gli “Alleati” non esitarono a scaricare, dal cielo e dal mare sulle città di mezza Europa. L’Italia, con gli spaventosi bombardamenti di Napoli e di Bari, ma anche di Milano, Roma, Ferrara e tante altre città, assaggiò sulla propria pelle, quale genere di “democratico” trattamento fosse, dagli “alleati”, riservato alle popolazioni civili dei paesi belligeranti. Senza fare tante distinzioni tra nazioni nemiche o “alleate”, come nel caso della Normandia, tante città europee furono ridotte a cumuli di macerie dal fuoco “alleato”, facendo perdere la vita, a migliaia e migliaia di civili innocenti. Il tutto, senza voler conteggiare tutte quelle nazioni dell’Europa Occidentale che, sul finir della guerra, furono scosse da rappresaglie e vendette che costarono altre migliaia di vite innocenti, unicamente responsabili di essersi schierate, nel corso del conflitto, dalla parte dei perdenti. Anglo americani e francesi non furono da meno dei Tedeschi, quanto alla pratica dei campi di concentramento, in cui finirono militari e civili appartenenti alle nazionalità dei paesi nemici; sparsi “urbi et orbi”, dalle aride regioni del Texas e dell’Arizona, al Kenia e sino all’India ed oltre, seminarono vittime a iosa. Tra queste, probabilmente la maggior parte dei due milioni di Tedeschi che, si stima, a fine conflitto furono amorevolmente trucidati dalle truppe alleate.

Un capitolo a parte merita, invece, la ex Jugoslavia ove, a pagare un prezzo veramente pesante, furono le popolazioni italiane di Istria e Dalmazia, abbandonate al loro destino di morte, per mano dei titini, da governi imbelli e da un Clan che, al momento della bisogna, quando c’era da difendere (per davvero!) l’integrità e l’italianità di quelle terre, tenne un atteggiamento di totale subalternità di fronte all’arroganza ed alla violenza delle truppe del Maresciallo Tito.

Ma, a pagarla a Tito, non furono solo gli italiani. Un folto gruppo di nazionalisti croati (ustascia), si calcola approssimativamente in svariate decine di migliaia, famiglie incluse, rifugiatisi in Austria, vennero, a fine guerra,  dai Britannici amorevolmente consegnati nelle mani dei titini che, senza tante esitazioni, li sterminarono tutti. Stesso destino, fu riservato alle migliaia di nazionalisti serbi di Draza Mihailovic, rei di aver collaborato con le truppe italiane. Senza voler contare, coloro che, fuori dall’Europa, avevano osato alzare la testa contro il colonialismo anglo francese, supportando l’Asse, dal Medio Oriente (Palestina ed Iraq…), al Nord Africa (Algeria, Marocco, Egitto, etc.) sino all’India e ad altre misconosciute realtà dell’Africa Sub Sahariana (Etiopia, Eritrea, Somalia, ed alcuni stati dell’Africa francofona…).

Certo, con tutti questi begli episodi, di cui qui abbiamo solamente citato, a caso, alcuni tra gli esempi più e meno noti, il numero delle vittime dei “buoni”, va aumentando notevolmente, a discapito di quelle dei “cattivi”. Ma se, ad onor del vero, l’esatto bilancio delle vittime civili dell’ultimo conflitto mondiale, può sempre costituire motivo di dubbio o polemica, a causa dei numeri notevoli da ambo le parti, allora, per avere un’idea più chiara sull’ipocrisia di certe giaculatorie, i conti basterebbe andare a farli su quanto perpetrato sia prima, che dopo l’avvento di Fascismo e Nazismo. Potremmo cominciare, per esempio, con gli States, oggi tanto prodighi a distribuir pagelle di democrazia a mezzo mondo ma che, all’alba del secolo passato avevano già sulla coscienza, la morte e la deportazione di milioni di africani, in cattività trascinati, non già per motivi bellici, ma per semplici e disgustosi fini di sfruttamento commerciale. Oltre al sistematico sterminio delle oriunde popolazioni amerinde, compiuto tra il silenzio e la totale indifferenza di un mondo che già allora, si riteneva animato di buoni e caritatevoli sentimenti civilizzatori. Tanto per ricordare a chi strilla tanto di razzismo. Negli States, sino al 1964 (sic!) ed oltre, era presente una vergognosa discriminazione nei riguardi dei discendenti afro americani degli schiavi deportati. E senza voler sminuire il ruolo di nessuno, i vari Imperi coloniali occidentali, accanto all’ideologia liberal progressista, si ammantavano di giustificazioni di tipo suprematista tali, da far passare Fascismo e Nazismo, per delle efficienti, ma slavate social democrazie. A tal proposito, andrebbero letti gli scritti di Winston Churcill durante la guerra anglo boera  e quelli di altri autori britannici del 19° secolo. Alle parole corrispondevano, però, anche i fatti. Re Leopoldo di Belgio governò il Congo belga con uno spietato ed efficiente pugno di ferro. Rivolte o altro erano ovunque schiacciate senza troppe storie….E tornando agli States. A solo voler fare il conto delle centinaia di interventi nei paesi dell’America Latina ( il cosiddetto “cortile di casa”) ed il Terzo Mondo in genere, a partire da Filippine, Indonesia, Viet Nam, Africa tutta e via discorrendo, tra interventi militari, bombardamenti, golpe e contro golpe con annesse stragi e “desaparecidos” vari, si arriverebbe ad un numero di vittime innocenti, da capogiro. E’ vero, i Totalitarismi, anche marxisti, da Stalin a Mao e Pol Pot, hanno fatto vittime a bizzeffe, ma c’è una sostanziale differenza tra le vittime dei primi e quelle delle nostre amate liberal democrazie.  Volendo usare un gergo moderno, di taglio per così dire “finanziario”, i Totalitarismi il conto lo hanno quasi sempre presentato in una “soluzione unica”, senza nemmeno potersi ammantare di troppi fronzoli morali, spesso neutralizzati e ridicolizzati da un’evidente preponderanza della dimensione ideologica.

Le liberal democrazie, di converso, il conto ce lo presentano in una soluzione “rateizzata”. I fatti sono, troppo spesso, coperti da giustificazioni moraleggianti. Alle altisonanti politiche espansive totalitarie, si preferisce una linea più discreta, fatta di tanti piccoli, ma decisivi colpi di assestamento. Le vicissitudini dei Totalitarismi, sono tutte motivate da un perenne stato di emergenza e di mobilitazione rivoluzionaria, che giustificano scelte spesso giuocoforza radicali e violente, mentre quelle delle liberal democrazie, sono vissute all’insegna di uno Status Quo, ammantato di una “normalità” che porta ad una conseguenziale e forzosa “normalizzazione”.

In Iraq si calcola siano stati uccisi due milioni e più di iracheni, durante la guerra a conduzione Usa, falsamente motivata dal finto pericolo rappresentato dal regime baathista. In Palestina, lo Stato israeliano, con la scusa della propria “sicurezza” ha potuto tranquillamente potuto perpetrare abusi e rappresaglie oltre i limiti sulla popolazione palestinese, come nel caso dei tremila e passa morti civili in quel di Gaza durante l’operazione “Piombo fuso”, a fronte della morte di neanche una decina di israeliani. Il numero delle vittime civili della strana guerra “a geometria variabile”, del “tutti contro tutti”, in Afghanistan, ci è tuttora ignota. In Serbia, stante il silenzio dei media occidentali sono stati effettuati bombardamenti con bombe all’uranio arricchito, alcune delle quali, guarda un po’, sono state frettolosamente scaricate dagli aerei Usa in quel del mar Adriatico.

In Siria ed in Yemen si combatte, oramai, una silenziosa guerra sponsorizzata da Usa ed alleatini vari, in funzione anti iraniana ed anti russa, arrivando a sponsorizzare milizie integraliste e stati islamici vari, con il solito corollario di vittime civili innocenti a bizzeffe. Senza voler contare le vittime civili degli integralismi terroristici, “made in Usa”. Dopo tutti questi bei fatti, qui elencati, tra l’altro in modo frettoloso e superficiale e solo per dare un esempio, il conteggio delle vittime dei “buoni” schizza vertiginosamente in alto, lasciando i “cattivi”, perdenti dell’ultimo conflitto mondiale, in una posizione oramai surclassata da ben altri fattacci del genere. La Storia ci lascia, a questo punto, con l’amaro in bocca, per la disgustosa e spregiudicata ipocrisia con le quali, ad oggi, si parla ancora con tanta enfasi, di vittime del nazi-fascismo ed annessi pericoli di “rigurgito”, mantenendo il più totale silenzio sulle altrui porcate, ad oggi, ancora perpetrate in spregio ai più elementari diritti umani.

Ed allora, ancora una volta, il Globalismo liberal democratico ha gettato la sua maschera, rivelando il suo volto prevaricatore, violento e repressivo, condito dalla tragica illusione di un consenso e di una libertà, invece rigidamente condizionati da gruppi di potere occulti. Ed ancor più, hanno gettato la maschera coloro che, per puro fine elettoralistico e politica spicciola, hanno ancora il coraggio della iene, di speculare sui poveri morti dell’ultimo conflitto mondiale, anziché rispettarne le tragiche vicissitudini, con il coraggio di una riflessione tutta incentrata sulle contraddizioni e le ingiustizie della democrazia occidentale e delle sue appendici progressiste e buoniste.

UMBERTO BIANCHI

Valle Giulia – Emanuele Casalena

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[caption id="attachment_26434" align="alignright" width="300"] Immagine fotografica della “ battaglia di valle Giulia “ del 1 Marzo 1968 dove compaiono giovani militanti di Avanguardia Nazionale[/caption]

“Io non c’ero” quel 1 marzo del 1968, sarei sbarcato a Valle Giulia l’anno dopo in un’ uggiosa mattinata d’autunno. Fresca matricola di Architettura dopo un’estate di arrovellamenti sul che fare da grande, contro il parere familiare, varcai la soglia di quella U progettata da Enrico Del Debbio, un mito dai racconti di mia zia Selva. Sulla “ battaglia di Valle Giulia “ è stato ruminato tutto, fu “ l’ occasione perduta ” d’ una rivolta generazionale, chissà, comunque onore a chi l’ha combattuta senza steccati, il resto sono opinioni blabliste dei manzoniani vili untori. Scorro un album di istantanee su quel giorno, beh un sorriso romantico mi viene ad osservare quel “cicciottello” di Giuliano Ferrara con un bastone in mano o la foto in grand’angolo degli studenti d’Avanguardia schierati per l’assalto col circolino rosso sopra  ciascuno e un numeretto,  possono con orgoglio dire “ guarda, c’ero anch’io, eccomi là, sono nella Storia “. So d’aver vissuto anni d’adrenalina a Valle Giulia, mi sia permesso anche di coraggio, in quattro gatti militanti di destra ad Architettura, unico nostro Socrate il prof. Furio Fasolo. Fu quella una cocciuta Resilienza sfociata nell’unica occupazione della Facoltà  fatta da destra, con il silenzio-assenso degli “Uccelli” di  Ramundo intenti a spiluccare sul solito filmato del Maggio francese, un cult come la corazzata Potemkin di Fantozzi. Il contenitore della storia però gioca un ruolo da protagonista nella storia, penso all’aula del Senato romano alle Idi di marzo, perché no al nostro Piave, visto che quest’anno è il centenario della Vittoria e tutto tace. Papa Giulio III in quest’area suburbana vi  fece costruire “l’ottava meraviglia del mondo” su vecchi terreni della sua famiglia, i Del Monte, e acquistandone di nuovi fino al al Tevere. Il complesso nel suo insieme comprendeva la Vigna vecchia con tanto di villa divenuta in seguito la palazzina di Pio IV sulla via Flaminia, il villino del Porticciolo sul fiume, andato distrutto, e la villa di Papa Giulio detta la “ vigna Del Monte ” sede del Museo Nazionale di Villa Giulia, involucro prezioso, unico dell’arte etrusca. Il Papa  regnò poco sul soglio petrino, fu eletto il 7 febbraio del 1550 dopo un conclave di tre mesi ricco di scontri tra cardinali, pesanti ingerenze dei regnanti, Carlo V ed il gallo Enrico II, passò a miglior vita ( si spera ) il 23 marzo del 1555. Si era in pieno clima post Riforma protestante con un Concilio di risposta, quello itinerante finito poi a  Trento. Giulio III non era un teologo, tutt’altro, era piuttosto un grande mediatore, inciuciava tra riformisti e conservatori, assai attento alle alleanze coi sovrani con l’obiettivo di riconquistare alla Chiesa le terre romagnole, la Rimini dei Malatesta ad esempio. Per le nuove costruzioni di campagna chiamò al progetto Michelangelo Buonarroti che aveva già fornito il disegno della scala interna del cortile del Belvedere nei giardini vaticani. Su quella prima idea di Villa Giulia mise mani e ingegno l’aretino Giorgio Vasari fresco dell’edizione Torrentini delle sue Vite. Ma i due maggiori artefici furono, senza dubbio, Jacopo Barozzi da Vignola e Bartolomeo Ammannati. Al primo dobbiamo il progetto della chiesa matrice della Compagnia del Gesù a Roma e l’imponente palazzo fortezza Farnese a Caprarola, al secondo il ponte di S. Trinita a Firenze e il “ biancone”,  ironicamente nomato così dai fiorentini, quel Nettuno capoccione della fontana di Piazza della Signoria. Architettura manierista quella della Vigna Del Monte, manuale di sintassi classica infarcita di deroghe legate all’immaginazione, dove i giardini ovattano il riposo, schiudono le porte arcane ai miti pagani ricreando le amene atmosfere dell’otium romano, che non era il dolce far niente, ma l’atto di pettinar pensieri, riflessioni, gusto della parola virtuale o proferita nel colloquiare sereno. Così  tra geometrie di bossi, viali incorniciati, porticati ombrosi, terrazze, si scende al meraviglioso ninfeo, il primo “ teatro dell’acqua” realizzato a Roma la cui fontana venne alimentata con l’acqua Vergine, la stessa che si verserà, più tardi, nelle vasche di Fontana di Trevi bagnandone le curve di Anitona. L’enigma metafisico sembra la cifra autentica di Villa Giulia, come il sorriso ineffabile dei due sposi etruschi sdraiati sul sarcofago. Ti avvolge lo spirito del mistero succhiando via l’adesso del tempo, l’attimo fuggente, il contingente del gesto, della parola, il selfie insulso dell’hic et nunc, ti inietta nei pori l’anima del mondoTaci. Su le soglie del bosco/ non odo parole che dici umane (…)” declamerebbe D’Annunzio.

[caption id="attachment_26435" align="aligncenter" width="1024"] Plastico di Villa Giulia sede dell’omonimo Museo Nazionale[/caption]

Valle Giulia è anche storia di enfiteusi, tra il 1881 e il 1890 i due fratelli Cartoni ottengono dal marchese Umberto Sacchetti il diritto reale di possesso di una vasta area compresa tra villa Borghese e le pendici del monte Parioli. I facoltosi “generoni”  riscatteranno in seguito il fondo diventandone proprietari a pieno titolo. Arriviamo così al 1908, fervono i programmi per celebrare il cinquantenario dell’unità d’Italia nell’11, allestendo un’Esposizione Internazionale Italiana distribuita, per temi, tra le tre capitali del giovine Regno, Torino, Firenze e Roma. Alla Capitale spetta il tema arti e cultura, nel quadro articolato dell’etnografia, c’è  in scaletta una mostra dedicata alle Belle Arti da allestire proprio  a Vigna Cartoni. Il Regno acquista dai due fratelloni quel  fondo periferico, incarica il frà massone Cesare Bazzani, archingegnere, di progettare un palazzone da destinare a Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Il professionista romano,  punta di diamante delle commesse pubbliche, amava risolversi nell’ eclettismo, cioè a seconda della funzione del progetto ne sceglieva lo stile cavandolo dal passato. Le Arti figurative gli suggerirono un corpo centrale simile a un tempio laico moncato de frontone, con due ali simmetriche laterali un po’ arretrate, un’ampia scalinata di accesso a un vasto pronao scandito da alte, massicce colonne binate. Quel vuoto di scandita penetrazione è, a nostro avviso, la parte architettonica migliore. All’interno ampie sono le sale espositive divise su tre livelli, oggettivamente grande è il loro respiro curato negli alveoli da un ornato diffuso, classicheggiante, con un vocabolario di 327 simboli alcuni di chiara matrice massonica. Una crosta pesante, anch’essa eclettica, che coniuga Vitruvio e stile Liberty, l’Italia si aggrappava al suo passato masticando il chewingum  elegante, sofisticato dell’Art nouveau, cartiglio alla Belle Epoque. Quella Vigna ex Cartoni da lì ospitò l’edificio dell’Accademia Britannica progettata da Sir Edwin Lutyens, anche qui l’operazione fu neoclassicismo forse palladiano, simmetria assoluta, corpo entrale da tempio tetrastilo ma con colonne anche qui binate, morbida la doppia scalinata ad arco che porta alla terrazza, ma creatività bassa, d’altronde  C. Monet tornò disgustato dallo stato delle arti in Inghilterra.

[caption id="attachment_26436" align="aligncenter" width="700"] Accademia Britannica-BSR – 1911[/caption]

Col tempo la valle amena tagliata da V.le Belle Arti su cui scorrevano le circolari destra e sinistra, mitici tram panoramici di Roma, vide spuntare altre Accademie e un paio d’ ambasciate, la più bella, intrigante era l’Accademia giapponese un esempio di architettura organica donataci da Oriente. Proprio accanto  a quella Britannica, nell’arco 1925-’26,  l’arch. carrarese E. Del Debbio progetterà la sede della Regia Scuola Superiore di Architettura insignita del titolo di Facoltà universitaria nel ’35. Nel ’30 venne finalmente individuato il sito, è a sinistra dell’Accademia Britannica, un lotto di 3.500  mq incastonato alle pendici dei Parioli con forti dislivelli e conseguenti opere di movimento terra. Ne viene fuori un complesso razionalista posizionato su un alto basamento rivestito da lastre di marmo bianco, con due accessi, uno frontale sul cortile aperto ed uno laterale in dolce pendio. La forma scelta è una grande U  dominata dalla simmetria, reminiscenza di uno dei postulati dell’architettura classica che cede qualcosa anche alle grandi finestre ad arco del piano terra, all’allineamento di corrispondenza delle bucature, al portale ionico di ingresso, alle paraste esterne della facciata. In sé l’organismo recepisce il canone dell’architettura fascista: coniugazione della modernità con le radici del passato. Del Debbio non era Terragni, fu l’architetto del Foro Mussolini, a lui si devono lo Stadio dei Marmi, la foresteria, l’Accademia di Ed. Fisica che ha lo stesso colore rosso marcio della Facoltà di Architettura. Grande illuminazione delle aule interne come si conviene per chi dovrebbe disegnare in diretta, cosa mai accaduta nei miei anni, lunghi corridoi come dorsali di comunicazione interna, un’aula magna a cavea dai cui scranni, non di rado, venivano lanciati bianchi aeroplani di carta, la biblioteca, i laboratori, ecc…

[caption id="attachment_26437" align="aligncenter" width="1024"] Foto della facciata della Focoltà di Architettura di Valle Giulia[/caption]

Per arrivare a quella cattedrale del sapere, dove insegnavano Zevi, Calvesi, i due Fasolo, Quaroni, Perugini e così via, gli studenti s’arrampicavano per scenografiche scalinate tra cornici di verdi cespugli, alcove biologiche di “sveltine” con le prostitute. Lemmi passavano i tram col loro cigolio alle fermate, sembravano imbarazzati nel disturbare quell’atmosfera aulica da Arcadia, pregna come la Villa di Giulio d’una nobile anima metafisica. Su in alto, sul piazzale della Facoltà, non si vedeva solo la città ma si respirava Roma, stando seduti sull’aiola con accanto l’albero della rivoluzione. Questo lo posso dire “et in Arcadia ego “.

                                          Emanuele Casalena

Bibliografia

Stefano Garano, Valle Giulia 1911-2001.La valle delle Accademie tra storia e progetto.- Palombi Editore, 2006 www.romasegreta.it, Villa Giulia www.villagiulia.beniculturali.it (mibact).  

La lezione di Piero Buscaroli – Pier Franco Lisorini

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Il 16 febbraio di due anni fa moriva a 86 anni Piero Buscaroli. Grande musicologo, il maggiore forse del Novecento, profondo conoscitore di Mozart, Beethoven, Bach ma anche giornalista, saggista, storico e, soprattutto, uomo libero come ce ne sono pochi e, nel mondo accademico o nelle redazioni, quasi punti. Un uomo libero come libera è la musica, sottratta, a differenza della parola, ai vincoli della grammatica, del significato, della compatibilità e della convenienza sociali. Simile in questo a un altro grande cultore di musica, Nietzsche, che si illudeva di poter trasferire nella parola la medesima libertà della musica, sfidando il paradosso e la provocazione e il rischio di voler semplicemente épater les bourgeois.

Nel secolo del politicamente corretto c’è poco spazio per un uomo libero, che pretende di essere libero di dire anche cose sgradevoli, di sfidare il senso comune, la buona creanza, il perbenismo e l’ipocrisia. Libero anche di fare affermazioni di cui dopo ricredersi, di oggettivare il lato oscuro dei propri pensieri e dei propri sentimenti, non per fare scandalo ma per liberarsi di un peso, per scaricare all’esterno scorie e sedimenti che solo se portati alla luce possono essere eliminati. Homo sum, nihil humani a me alienum puto, suona la battuta messa in bocca da Terenzio al suo personaggio, ma spesso si deve fare i conti con aspetti dell’umanità incompatibili con ciò che si vuol essere, come l’omosessualità che per essere rifiutata va riconosciuta e respinta. E allora non è una scelta legittima, una variazione sul tema, un arricchimento come la biodiversità, non è il “gay” che smussa le differenze e rimane come possibilità ma è il frocio o la checca da cui prendere le distanze, non per esecrarlo o punirlo ma per oggettivarlo e liberarsene. Non è omofobia come pretendono le anime belle, è solo il desiderio di fare chiarezza, di liberarsi dal peso della rimozione.

Un uomo libero, che, disgustato da questa repubblica nata male e cresciuta peggio, si proclamava ostentatamente fascista, sapendo bene che il fascismo è il passato, il non più affidato unicamente al ricordo, alla nostalgia, quella stessa struggente nostalgia che mostrava al Carducci “le donne gentili che danzavano in piazza e co’ re vinti i consoli tornavano”. E poco importa se il fascismo è stato anche servilismo, gonfia retorica, profittatori di regime, nuova pacchiana aristocrazia, come poco importa se il medioevo è stato anche ignoranza, sporcizia, superstizione: quel che conta è la mente libera e sognatrice dei grandi uomini che proiettano nel passato i propri sogni e soffrono le angustie del presente. Buscaroli era per questo in buona compagnia: grandi che nulla concedono alle orecchie pudiche dei benpensanti, aspri, assetati di verità, intransigenti come Leopardi che senza infingimenti condanna senza appello “l’amore universale, che, distruggendo l’amor patrio non gli sostituisce verun’altra passione attiva” ed è all’origine del “guasto” e decadenza delle nazioni”.

Ma era soprattutto uomo “enciclopedico”, secondo la definizione dello stesso Leopardi, non chiuso all’interno di competenze divenute asfittiche ma curioso e aperto verso tutto l’universo del sapere quanto disponibile all’impegno nel presente. Che non significa erudizione, tuttologia o, peggio, pretesa di invadere campi sconosciuti forti del prestigio conseguito nel proprio. Esattamente il contrario: non l’auctoritas ma l’humanitas, che non riduce la conoscenza a strumento di potere ma la riporta alla sua vera natura di epifania della ragione e che per essere individuale deve poter essere collettiva. E, riguardo all’impegno nel presente, in essa si esprime, insieme alla rivendicazione della propria personale esperienza, il proprio essere politico e sociale, senza aver niente a che vedere con l’intellettuale – parola orribile e insensata – engagé, impegnato, o, meglio, asservito e al soldo di una parte politica, che è poi sempre la stessa. Humanitas che, mi si consenta, è del tutto estranea ai gigioni da salotto e da palcoscenico come Sgarbi, scopritore un giorno sì e l’altro pure dell’acqua calda, falso anticonformista e perfettamente allineato e integrato, che invoca Catullo conosciuto per sentito dire, si inchina ai valori della resistenza e, bontà sua, riconosce che tutta l’intellighenzia comunista era cresciuta sotto le ali di Bottai.

Buscaroli no. Uomo di studi più a suo agio coi classici che con i best seller del momento, anche se di destra, di poche ma selezionate letture, animato dal proposito di far conoscere alle nuove generazioni quello che le vecchie hanno taciuto e stravolto, dal mito della resistenza al silenzio tombale sul terrorismo aereo degli angloamericani. Una strategia criminale, quella, che se viene ripetuta su piccolissima scala da Assad le vestali dell’antifascismo e i pennivendoli di regime si stracciano vesti; quella stessa strategia criminale che pretendeva di giustificare le atomiche su Hiroshima e Nagasaki con l’aver costretto il Giappone alla pace con due settimane di anticipo, che distrusse la più bella città della Germania, che a Milano aveva come bersaglio scuole e asili e, a guerra finita, per fare un favore a Tito si accaniva sulla Dalmazia italiana. L’aver scoperchiato questo vaso di ipocrisia e menzogne in una serie di servizi pubblicati sul Giornale di Feltri prima di esserne allontanato non è l’unico titolo di merito di Buscaroli giornalista. Il maggiore è proprio l’esser stato ridotto ai margini, confinato nella critica musicale, scotomizzato, la migliore prova della sua incompatibilità e della incompatibilità di ogni voce libera con questo regime marcio fino alle midolla.

  Pier Franco Lisorini

In limine della consunzione liberale: la quarta teoria politica di Aleksandr Dugin – Eduardo Zarelli

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Affrontare la lettura della prima opera di Aleksandr Dugin integralmente tradotta in Italia comporta il rischio di soggiacere al pregiudizio dell’immagine che l’autore abbia acquisito nei mezzi di comunicazione occidentali; l’idea cioè che il pensatore russo sia, direttamente o indirettamente, l’ispiratore del realismo geopolitico della Russia contemporanea, cioè un intellettuale funzionale alle politiche di Vladimir Putin. A questo proposito, basterebbe ricordare il fatto che il contratto di insegnamento del professor Dugin presso l’Università di Stato di Mosca non è stato rinnovato dal giugno 2014 per motivi politici, e comunque, nell'analisi seguente, ci sottrarremo completamente a tali argomenti per due motivi: il primo attiene all’onestà intellettuale, che deve tendere a confrontarsi oggettivamente con la riflessione filosofica dell’autore; il secondo discende dal primo, nel momento in cui l’attuale frangente di confronto internazionale vede l’Occidente a egemonia statunitense adoperare tutti gli strumenti a disposizione per identificare nella Russia un “nemico oggettivo”, operando un'esplicita azione di mistificazione propagandistica su qualsiasi riferimento culturale che provenga da quel Paese. In tal senso, ci limiteremo in questa sede a consigliare dei testi – peraltro alcuni già recensiti su Diorama Letterario – esemplari per comprendere le dinamiche in atto e il profilo politico effettivo di Aleksandr Dugin. Ci riferiamo in primis a Russofobia. Mille anni di diffidenza(Sandro Teti Editrice) del giornalista svizzero Guy Mettan, che ricostruisce le linee di forza religiose, geopolitiche e ideologiche di cui si nutre la russofobia; quindi all’opera di Paolo Borgognone, Capire la Russia. Correnti politiche e dinamiche sociali nella Russia e nell'Ucraina post-sovietiche(Zambon Editore), unita a Eurasia, Vladimir Putin e la grande politica (Edizioni Controcorrente) di Alain de Benoist, con cui si rendono chiare la genealogia e l’assoluta indipendenza dell'elaborazione teorica dell’autore rispetto agli equilibri di potere e agli assetti istituzionali della Federazione Russa. Significativo è anche l’ampio saggio di Roberto Pecchioli, Uscire dal XX secolo. Un’idea nuova per il Terzo Millennio. Per una Quarta teoria politica (Ereticamente), vera guida alla lettura del testo di Dugin, data la ricchezza e complessità dei temi che qui potranno essere solo accennati. In ultimo, il coerente profilo biografico-intellettuale che introduce il testo in oggetto, Comprendere Dugin– curatoda Andrea Virga – che consente filologicamente una corretta esegesi della matrice endogena dell’ispirazione filosofica dell’autore, unita ai contributi esogeni. E da questo possiamo sicuramente partire, constatando la grande ecletticità della riflessione di Dugin, che si risolve non in uno strumentale sincretismo ideologico, ma in un pensiero paradigmatico capace di arrivare alla riflessione politologica solo dopo avere suscitato chiavi di lettura gnoseologiche, epistemologiche, antropologiche e socialidi grande profondità, capaci cioè di porci di fronte allo scenario epocale del significato della civiltà e della sua decadenza.

Aleksandr Dugin è essenzialmente un filosofo. La sua vasta erudizione, unita alla propensione speculativa, lo porta a una necessità metodologica chiarificatrice. Per lui, “circolo ermeneutico” significa il nucleo forte, fondante di una dottrina, che egli identifica nell’heideggeriano “Dasein” (esserci), sinonimo di un uomo che sta nel mondo, che ha l’esistenza come specifico modo di essere. Il “Dasein” reinterpretato da Dugin è la volontà di declinare idee, storia e realtà di un soggetto consapevole, che concretamente vivee aspira a interpretare, comprendere e farsi partedella totalità cui appartiene.Nella parola composta esser-ci, la particella enclitica “ci” simboleggia i due caratteri dell’uomo, ovvero la sua esistenza spazio-temporale (essere-qui-ora) e la sua apertura all’Essere, all’infinito, alla trascendenza, alla dimensione spirituale della vita.L’uomo trascende la semplice esistenza e non può ridursi a mera presenza, è necessariamente progetto;da qui, la cura verso gli enti del suo conoscere e agire. Basandosi su questa linea interpretativa, Luisa Bonesio ha dato sviluppo, nel nostro Paese, alla geofilosofia, che si propone come sapere transdisciplinare impegnato a raccogliere e a confrontare prospettive di diversa matrice provenienti dalla geografia, dalla filosofia, dall’estetica e dall’antropologia. Al centro dell’interesse, viene posto il tema della pluralità dei luoghi della terra a confronto con la crescente omologazione delle tecniche in un mondo globalizzato. La geofilosofia non è una “filosofia della terra” o semplicemente una “geografia filosofica”, ma un pensiero-terra, che corrisponde all’intuizione di PiotrSavitzky – verso cui Dugin si sente debitore –per il quale ciascun luogo ha in sé l’essenza di ciò che vi è avvenuto e vi si è sviluppato, o vi si svilupperà nell’avvenire: lo spazio come destino. Contrapposto al titanico "spazio vitale" (lebensraum), teso alla conquista e alla sopraffazione dell’altro, è invece “luogo della vita”, in cui si svolge al meglio la vicenda concreta dei popoli che vi sono insediati e per ciò stesso condividono una certa idea di sé, appropriata culturalmente e sostenibile ecologicamente.

Al posto dell’universalismo, va colto il “pluriversalismo”, antidoto all’etnocentrismo dell’occidentalizzazione del mondo – cioè la globalizzazione – basata, in realtà, su principi localmente e storicamente dati (mercato, capitalismo, sviluppo tecno-scientifico illimitato, individualismo, liberaldemocrazia, diritti umani). Questi istituti, relativi a una cultura specifica, vengono imposti all’intera umanità come universali, ostracizzando di conseguenza i valori degli altri popoli e delle altre culture, giudicatecome sottosviluppate e destinate all’assimilazione nella modernità. Andrebbero quindi profondamente meditate le parole di Carl Gustav Jung, il quale asseriva che «non esiste l'umanità. Io esisto, voi esistete. L'umanità è soltanto una parola. Siate ciò che Dio vuole che siate; non vi preoccupate per l'umanità. Preoccupandovi dell'umanità, che non esiste, eludete il compito di guardare a ciò che esiste: il Sé»1.

Sulla base dei suddetti elementi concettuali,Dugin non puòche essere profondamente critico nei confronti di quella particolare forma mentis occidentale, che definiamo “ideologia del progresso”. Grandi interpreti della sociologia- da ÉmileDurkheim aPitirimSorokin –hanno sostenuto che il progresso sociale non esiste,è solo una costruzione artificiale, secondo i dettami del tempo. Ed è assai originale il riferimento del pensatore russo alla elaborazione di Gregory Bateson, antropologo, sociologo ed epistemologo tra i maggiori del XX secolo, nonché punto di riferimento della critica ecologista al riduzionismo della società tecnomorfa. La critica di Bateson si concentrò sui cosiddetti "processi monotònici”, quelli cioè che procedono in una sola direzione cumulativa costante. Gli alberi non crescono indefinitamente, gli animali e gli uomini neppure. Tale è l’assunto di base delle tesi della decrescita, della bioeconomia di Nicholas GeorgescuRoegen.I processi monotònicinon esistono né in biologia, né nel funzionamento delle macchine e, tanto meno, possono funzionare nelle società umane. Questo processo, quando avviene in natura, è incompatibile con la vita, distrugge la specie; nell’ambito della organizzazione tecnica, comporta la rottura; nell’ambito sociale, porta all’anomia e al declino. Un colpo netto quindi assestato all’idea della crescita indefinita, del determinismo, del progresso lineare, del “dopo” e del “nuovo” sempre superiori, migliori, del“prima”. «Processi monòtonici, come l’incremento della popolazione, in molti casi conducono alla guerra, la quale torna a ridurre la popolazione stessa», scrive Dugin, e soggiunge che «nella società attuale vediamo livelli di progresso tecnologico senza precedenti, insieme a un incredibile degrado morale», come già è stato detto – tra gli altri – dalnume dell’etologia contemporanea, Konrad Lorenz. Il principio di progresso infinito e indefinito, senza altro scopo e direzione all'infuori di se stesso, è l'espressione più evidente dell’ideologia contemporanea, sconosciuta alle tradizioni di tutte le culture indigene, come hanno ampiamente dimostrato gli antropologi. Non vi è dunque processo monotòno, cui non corrisponda l’incremento in un campo che determina il decremento in un altro. Del resto, questodimostra il secondo principio della termodinamica e la legge della entropia, nell’assoluta indifferenza da parte di sociologi, economisti e scienziati della politica, nonostante la messa in guardia fornita dalla teoria della complessità di Edgar Morin e le acquisizioni di Ilya Prigogine sulle “strutture dissipative”.

L’idea di evoluzione meccanicistica vettoriale (caso e necessità) va espunta decisamente tanto dall’orizzonte filosofico quanto da quello scientifico, ove nuovi paradigmi olistici e della complessità evidenziano la ciclicità dell’evolversi in forma e funzione. L’antropologo Marcel Mauss, nel suo capitaleSaggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, ha dimostrato che le società tradizionali si caratterizzavano sulla distruzione rituale e sacrificale di ogni eccesso. L’usura è l’interesse edonistico dell’eccedenza che si fa sistema contro il valore d’uso comunitario dei beni prodotti, un'alterazione della misura cosmogonica. La visione del mondo degli antichi era consapevole che l’aumento di risorse in un luogo ingenera una riduzione altrove, causando uno squilibrio generale da scongiurare con l’esercizio del potlach, che consisteva nel dono o nella distruzione intenzionale di ogni proprietà in eccesso.

La parola “civiltà” ha avuto una circolazione e un peso notevoli, nell’elaborazione dell’ideologia del progresso. All’opposto, i “pensatori della crisi”l'hanno considerata lo stadio terminale della culturaproblematizzandolo nel concetto di “Kultur-Zivilisation”, secondo cui la civilizzazione altro non è che un ulteriore processo monotòno, al quale va contrapposta la ciclicità della natura e della vita.Il paradigma del progresso – in realtà,il fideismo superstizioso e paradossalmente antiscientifico che lo circonda –vaquindi respinto a favore della ciclicità, così come deve essere rifiutato l’assioma dell'irreversibilità del tempo storico; tanto più che la specificità della cultura egemone consiste nella celebrazione del presente non solo come migliore, ma come unico mondo possibile, cui non si può contrapporre alcun altro progetto o alcuna altra ipotesi. Come sottolinea Francesco Germinario, nella logica della Forma-Capitale«se una storia può ancora darsi, essa riguarderà solo i processi in cui il presente si riproduce: dalla storia si è transitati nella post-storia, il presente può essere solo amministrato»2.

Tutte le ideologie politiche della modernità si sono identificate nella possibilità di un costante e cumulativo miglioramento della società, del processo storico come una finalità lineare della crescita. Si sono certamente poi differenziate nell'interpretazione di questo processo attribuendogli significati differenti, ma tutte si riconoscono nell'irreversibilità della storia e nel suo carattere “progressivo”. È perciò fondamentale, per Dugin, porre a base della sua teorizzazione filosofico-politica la negazione dell’irreversibilità della storia, compresa quindi anche la regressione deterministica da uno stadio superiore a uno decadente contemporaneo. Tanto il progresso come la regressione sono reali, ma relativi, non assoluti; non rappresentano una tendenza inerziale della storia. Il tempo è un fenomeno culturale e sociale, le sue strutture profonde dipendono non da una serialità meccanica, ma dall’influenza del paradigma dominante, perché l’oggetto è assegnato pluralisticamente dallo “spirito dei tempi”, non da un unico “spirito assoluto” che - con la dialettica hegeliana - si estranea da se stesso per poi imporsi quale metro razionale universale. La civilizzazione è,di conseguenza, un concetto ideologico che si infrange contro il muro della post-modernità, ove nel cuore stesso dell’Occidente si sviluppano categorie concettuali utili alla critica più radicale e alla vera e propria “decostruzione” del presente in favore della sincronicità di più civiltà.

Dai “filosofi del sospetto” (Marx, Nietzsche, Freud), argomentati da Paul Ricoeur, fino allo strutturalismo di Lévi-Strauss, i pensatori postmoderniBarthes, Focault, Derrida, Deleuze e Guattari vanno a contraddire la convinzione che l’uomo si stia emancipando dalla prigione dell’inconscio a favore del regno della ragione. Appare invece evidente–in controtendenza– come istinti e archetipi persistano nell’inconscio personale e collettivo, e il “Mito” con le sue suggestioni influenzino e predeterminino l’approccio logico. L’attività razionale si dimostra essere un tentativo di reprimere l’istinto e l’intuizione con sempre più complessi meccanismi psicologici difensivi di rimozione, proiezione e falsificazione indotta. Questo è un punto – a nostro dire - veramente centrale della riflessione di Dugin, perché la civilizzazione non si limita a eradicare il diverso da sé come “selvaggio” e “barbarico”, ma si costruisce essa stessa – strada facendo – su basi “selvagge” e “barbariche”, che migrano nell’inconscio individuale e collettivo della modernità. Il moderno secerne la massima contraddittorietà tra la pretesa illuministica e pacifica della ragionee iconflitti mondiali, i genocidi di massa, gli inusitati stermini etnico-religiosi di intere razze e Popoli. L’apparente crepuscolo della guerra come istituzione viene sostituito da una violenza terroristica generalizzata e asimmetrica. L’idea astratta di uguaglianza, che nella geopolitica si converte inevitabilmente nel dominio di qualcuno su qualcun altro, è un evidente unipolarismo imperialista. La civiltà occidentale risulta dalla volontà faustiana di porsi al di sopra delle altre civiltà, di stilare graduatorie, di considerarsi universalmente valida, di giudicare tutto e tutti sulla base di un imbarazzante criterio: avanti o indietro, rispetto al proprio modello postulato come insuperabile.La civilizzazione non sostituisce affatto la “barbarie”, né la segue cronologicamente: esse convivono e anzi, dati i mezzi tecnologico-scientifici a disposizione, si nutrono vicendevolmente in una spirale gravida dell’impensabile, come l’utilizzo dell’armamento nucleare, emblematicamente a opera della nazione elevata ad alfiere del processo in atto: gli Stati Uniti.

Due sono le vie possibili nel futuro: l’unificazione mondiale in un unico modello dominante, oppure il riconoscimento delle ragioni delle altre civiltà. La civilizzazione occidentale ha dimostrato di affrontare la questione sulla base di un principio assimilatore, considerando l’altro da sé imperfetto, residuale, marginale ed eretico, con il conseguente tragico corredo di “guerre infinite”, unilateralismo e distruzione dell’equità nelle relazioni internazionali e un progressivo prolasso di ogni codice etico e normativo nell’agire politico. Di contro, Dugin si spende nel porre al centro della propria opzione teorica un criterio “sincronico” della diversità e della convivenza di più civiltà, che si identificano in spazi geografico-culturali uniti da vocazioni spirituali e storie comuni: «Ogni civiltà reinterpreta la sostanza secondo i propri modelli inconsci, in cui religione, cultura, linguaggio e psicologia giocano un ruolo determinante». Non un universo, quindi, ma un pluri-verso e, in tale ottica, la globalizzazione è la morte del tempo in quanto si considera fine della storia.La civiltà assume un senso se èdifferenzialista, e diviene centrale e prioritaria nell’analisi della scienza politica, sostituendo i cliché della vulgata liberale egemone. L’autodeterminazione, unita al recupero di sovranità partecipate, è l’evento che va non atteso, bensì preparato, progettato, conquistato. È il senso ultimo del “Dasein”, perché l’esserci e l’esistenza non hanno significato alcuno se non entro comunità libere, dato che proprio sul significato di libertà si pone il discrimine dell'oltrepassamento della modernità. Ci aiuta, in questo, la lettura metafisica del rapporto con il nulla di Andrea Emo: «La libertà individuale, la famosa dignità umana in cui si concentra secondo il moderno indirizzo politico tutto il significato della civiltà, questa libertà individuale come si ottiene? Dando agli individui un'astratta libertà? Una libertà di atomi incondizionati e indeterminati? Una libertà "meccanica"? La libertà individuale necessita di un fuoco, di un entusiasmo, di una fede (o scopo: uno scopo non si crea che con una fede) che proviene da oltre l'individuo. L'individuo è un paradosso come tutto ciò che è spirituale, è soltanto in quanto si nega»3.

Siamo quindi al cuore di quella che l’autore definisce la«quarta teoria politica», che dà appunto il titolo all’intero saggio.Le ideologie sono state le protagoniste della politica moderna, caratterizzando il conflitto nella società di massa contemporanea. Tra le molte sorte, e poi tramontate, ad avere mobilitato le generazioni sono state quelle espresse dal liberalismo (sinistra e destra), dal comunismo (compresi socialismo, marxismo e socialdemocrazia) e dal fascismo (insieme al nazionalsocialismo e alle declinazioni varie della “terza via”). Illiberalismo è quindila prima teoria politica. Nata già nel XVIII secolo, si è dimostrata la più aderente al determinismo della modernità, persistendo e prevalendo su tutti i suoi avversari. Dunque non tutte le teorie politiche sono tramontate. Una è rimasta seduta su un trono grande quanto il mondo. Non ha più una dimensione politicae rappresenta non più una libera scelta, ma l’unico campo in cui si può giocare la partita dell’umanità: l’economia.

Con la vittoria del liberalismo, l’individuo è diventato il soggetto di riferimento per tutta l’umanità, emancipato da ogni appartenenza comunitaria e identità collettiva, catalizzato dall'ideologia dei diritti umani e dall'onnipervasiva catechesi del “politicamente corretto”. Il liberalismo è cioè riuscito nell’intento di sostituire il “politico” con l’autoregolazione amministrativa del presente e il moralismo, tanto da essere ormai– paradossalmente–più che una idea politica, una sussunzione totalitaria della realtà. Permeandosi nel profondo del tessuto sociale e dei comportamenti indotti, il liberalismo è oggi l’ordine naturale delle cose, la dittatura dei nostri tempi. La politica diviene biopolitica –delle “particelle elementari”, direbbe Michel Houellebecq– mezzo con cui il sistema regola la vita biologica e fisica attraverso dei nuovi istituti giuridici, il condizionamento tecnologico, la medicalizzazione di ogni atto e momento dell’esistenza, il controllo della stessa riproduzione, la polverizzazione della famiglia, e dove lo scambio, la produzione, il consumo, la rapida sostituzione del “materiale umano” (eugenetica, eutanasia, immigrazione di massa) disegnano un vitreo e distopico palcoscenico post-umano.

In questa cornice, non sono in dissolvenza semplicemente le ideologie, ma la politica stessa, ragione per cui chi non aderisce al conformismo esistente si trova nella difficilissima condizione di constatare che il nemico trionfante è in realtà impalpabile e i modelli critici pregressi sono dei simulacri che alimentano ininfluenti settarismi marginali. Il conflitto assume una partitura metapolitica, andando a confliggere contro i mulini a vento della “dromocrazia”. È il neologismo postulato da Paul Virilio per descrivere l'iperrealtà mediatico-digitale della “tecnoscienza”, che plasmala societàcome mero riflesso della comunicazione commerciale dei media (infotainment).Il punto è che noi oggi chiamiamo "liberalismo" una teoria che non è più tale, giacché si è liberata della sua componente politica ed etica per diventare quasi esclusivamente la giustificazione teorica di un’idea economica dell’esistente. La mercificazione abolisce tutti i confini materiali, i limiti morali, le compagini statali e le tradizioni religiose, al fine di dilatare il potere del mercato; in cambio, il liberismo offre una particolare sub-ideologia, quella dei diritti umani e civili, che sopprime progressivamente i diritti sociali e i doveri comunitari, determinando delle società “libertarie”, prive di vincoli e di etica comune,precipitate verso il nulla e l’odio di sé. La misura delle cose – scriveDugin – è il post-individuo, il “dividuo”, che mette in scena una surreale combinazione di parti di persone diverse (organi, cloni, rappresentazioni di genere, fino ad arrivare ai cyborg e ai mutanti). La proprietà privata diviene idolatria comportamentale e trasforma «ciò che un uomo possiede in ciò che possiede l’uomo». La “società civile”spoliticizza il governo della cosa pubblica e converte il bene comune in un melting pot globale, apolide e cosmopolita.

È possibile contrastare tutto ciò? L’ambizione della “quarta teoria politica” prova a soddisfare tale esigenza, ma per approssimazione e assimilazioni. Albert Einsteinaffermava: «Non si può risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che lo ha creato». Non può essere un'ideologia, bensì un modo dinamico di pensare e confrontarsi nel mezzodi una transizione epocale. La storia rimane una dinamica aperta, perciò politica, su cui muovere l’immaginario individuale e collettivo oltre il dominio dell’esistente.Ecco quindi la centralità di un concetto, che Thomas Kuhn ha introdotto per descrivere epistemològicamentele rivoluzioni scientifiche: è indispensabile rovesciare il paradigma, ovvero affrontare, revocare in dubbio e abbattere le idee forza e l’assiomatica corrente, che è quella del mondo liberale, liberista e libertario, inquietante miscela tra società dello spettacolo e sottocultura del consumatore, all’ombra dell’abolizione della politica.

Se Occidente significa modernità e diritti dell’uomo, ed è quindi non un luogo ma un concetto meta-geografico e universale, specularmente uguale deve essere la categoria da contrapporvi. Una metapolitica dell’Imperium di grandi spazi plurali. La civiltà consente una partecipazione olistica di ogni sua componente. La ragione e i sistemi filosofici, sociali, politici ed economici da essa creati sono in grado di svilupparsi secondo tendenze e caratteristiche appropriate e sostenibili, mentre l’inconscio collettivo mantiene liberamente i propri archetipi. Il riconoscimento della molteplicità etnoculturale, l’affermazione del principio di sussidiarietà, la distinzione tra nazionalità e cittadinanza, l’iscrizione delle sovranità in una cornice giuridica che le trascende e federa sono tutti elementi da declinare nell’attualità come riferimento all'elaborazione del concetto di Impero, un principio consono alla "philosophia perennis" e alla sapienzialità tradizionale. Dugin, in tal senso, rimanda a una realtà geopolitica, l’Eurasia, che tuttavia non va intesa tanto fisicamente quanto piuttosto mitopoieticamente. Il soggetto storico non è l’individuo, o la classe, o lo Stato, oppure la razza, ma l’uomo che intraprendeconsapevolmente una lotta esistenziale e metafisica contro la globalizzazione e l’imperialismo dei valori occidentali (la società aperta, i diritti dell’uomo, la società di mercato ecc.)per mezzo di un comunitarismo volontaristico.PerDugin,anzi, l'Europa e la Russia restano due soggetti distinti, che condividono però un destino strategico continentale comune. Possono, e probabilmente devono, diventare un unico grande spazio caratterizzato da due poli, due “spazi vitali”. La condizione preliminare è quella di liberarsi, da parte europea, della soggezione atlantica.

Europa-potenza o Europa-mercato?Il Mare è all’origine della modernità, mentre la Terra è la permanenza, la ciclicità che il contadino conosce e padroneggia nei tempi della semina e del raccolto, che è “eterno ritorno”, o meglio il ritorno dell’Eterno. Questa visione implica una prospettiva che risale ad Aristotele, al principio per cui lo spazio, quel certo “spazio” è il luogo naturale dove avvengono determinati fatti e non altri; il campo d’azione dell’uomo come “animale politico” (zôon politikòn). In questo senso, l’analisi geopolitica si sottrae al determinismo e assume una valenza nuova -idealtipica - e sarebbe il più grande errore considerare il futuro come un semplice prolungamento (o una semplice amplificazione) dei sedimenti aviti o delle tendenze attuali. Le cose cambieranno quando un nuovo “nomos della Terra” sarà apparso, al cospetto di un crinale tragico; per cui risultano definitive le parole di Friedrich Nietzsche: «L’Europa si farà sul bordo di una tomba».

Se le classi dirigenti liberali gestiscono il declino del proceduralismo democratico nella deriva tecnocratico-oligarchica, l’intelligenza critica deve essere comunitarista. Dugin cita esplicitamente l’opera di Louis Dumont – il magistrale Saggio sull’individualismo – per sottolineare come la principale analisi capace di opporsi all’individualismo sianon il marxismo, ma l’olismo. Nel quadro dell'antropologia e della sociologia, è il modello capace di operare lo scarto rivoluzionario. L’olismo si presta non solo a criticare scientificamente il liberalismo delle élite, ma anche a declinare la richiesta di partecipazione sociale delle masse disgregate della postmodernità. Se Ortega y Gasset, con La ribellione delle masse, aveva colto il culmine novecentesco di una modernità priva di tipi sociali capaci di indirizzare il destino degli eventi storici, Cristopher Lasch, con La ribellione delle élite, ha illustrato come le classi dirigenti postmoderne riflettano le principali caratteristiche della massa. Le attuali classi dirigenti esprimono la mediocrità di una visione del mondo tanto gretta quanto utilitaristica, annegando nel cinismo e nella spregiudicatezza qualsivoglia senso del dovere e della responsabilità collettiva. L’olismo si pone quindi come discrimine della contrapposizione politica e della trasformazione sociale oltre la modernità e la sua deriva nichilistica.

L’uomo faustiano è stato l’apprendista stregone della società industriale, ha evocato forze titaniche che hanno ingenerato sommovimenti dissolutivi. Goethe, nel Faust, descrisse l'essere umano carpito dalla cupidigia dell'estrazione dell'oro che si trasforma in ricchezza di carta e usura, ma ora siamo a un passaggio ancora più radicale. Se prima la realtà prendeva la misura della moneta, ora nella rete digitale diviene pura virtualità, seguendo iperboliche serie di algoritmi.La fisica e la filosofia contemporanee hanno rivalutato l’idea del Caos, riferita non a un qualunque e informe disordine, ma ai sistemi complessi, alle equazioni con più risultati aperti, i quali, in realtà, costituiscono un ordine più complesso, difficile da afferrare nell’esperienza naturale, ma esistente; quindi il caos, in questa accezione, è una struttura dissipativa del logos, ultima propaggine del suo crollo e della sua decomposizione. Gilles Deleuze e FélixGuattari - non a caso - vorrebbero persuaderci della bontà del postmoderno come aggregato di frammenti non componibili che possono coesistere (rizoma), cui si può ben contrapporre l’intuizione di Alain de Benoist,secondo il quale bisogna invece pensare simultaneamente ciò che appare contraddittoriamente. Dobbiamo quindi ben distinguere tra due tipi di caos: quello postmoderno, che equivale alla confusione compiaciuta nel simulacro della presunta funzionalità tecnologica (gestell),e quello della classicità, cioè lo stato di disordine informe che precede il manifestarsi dell’ordine cosmico nell’alternarsi ciclico della complementarietà degli opposti. Oltre il confine dell’Essere c’è il Nulla, e il movimento verso questo limite è senza fine, ruota a spirale su se stesso. Niente e nessuno possono varcare questo confine verso il non essere, perché non esiste, non è. La condizione caotica dell’oggi, quindi,non è un determinismo, non ha il crisma dell’ineluttabile; è una possibilità, un'opportunità pre-ontologica. Sta tramontando l’estremo Occidente come contraffazione immanente del vivente, non certamente l’intangibile trascendenza del Vero e del Bello. La modernità ha ucciso l’eternità, la postmodernità vuole uccidere il tempo (fine della storia), ma il tempo non può venire meno, perché metafisicamente “immagine mobile dell’eternità”, capace di disporre nell’evento (ereignis) la sconfitta dei titani in favore degli Dei.

Eduardo Zarelli, animatore di Arianna Editrice (https://www.ariannaeditrice.it/) Note 1. Carl Gustav Jung, Jung parla. Interviste e incontri, Adelphi, 1995. 2. Francesco Germinario, Un mondo senza storia? La falsa utopia della società della post-storia, Asterios, 2017. 3. Andrea Emo, Quaderno n. 122 (1951),in: Giovanni Sessa, La meraviglia del nulla, Bietti, 2014.

Decima Flottiglia M.A.S.: propaganda per la riscossa (terza parte) – Gianluca Padovan

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«Inglese mio carissimo / preparati a nuotare / noi veniamo a sommozzare / sommozzar vicino a te // Bombe, bombe! Getta bombe finché vuoi / chi sommozza siamo noi / ed a fondo ci vai tu // Noi siam quelli del Serchio / siamo la gente matta / Visentini e Moccagatta / noi vogliamo vendicar»

Anonimo, L’uomo siluro, 1941

Sgusciando tra i siluri della Massoneria.

Nella Prima Guerra Mondiale il Mare Adriatico è stato considerato un teatro di operazioni poco favorevole alla conduzione della guerra navale intesa come scontro tra grandi formazioni.

Paolo Thaon di Revel (Torino 1859 – Roma 1948), Ispettore delle Siluranti nel 1912, Capo di Stato Maggiore della Regia Marina dal 1913 al 1915 e successivamente Comandante in capo delle forze navali (1917-1919), propone d’impiegare piccole unità siluranti per condurre veloci attacchi al naviglio avversario.

L’avversario, stavolta, è l’Imperiale e Reale Marina da Guerra (Kaiserliche und Königliche Kriegsmarine) dell’Impero d’Austria-Ungheria: il nostro alleato fino al 23 maggio del 1915 (con effetto a decorrere dal giorno seguente). Sulla carta l’altro alleato è il Kaiserreich tedesco, ovvero all’Impero di Germania, al quale paradossalmente il Regno d’Italia dichiara guerra il 27-28 agosto 1916, tramite Svizzera.

Facciamo un breve inciso.

Abbastanza di recente, dopo aver accennato a Paolo Thaon di Revel quale «ministro della Marina nei primi anni del governo Mussolini» nonché quale membro della Massoneria «del Supremo Consiglio di Rito scozzese antico e accettato», Aldo Mola scrive: «Tra altri massoni iniziati o regolarizzati nelle file della Gran Loggia», di orientamento monarchico e “istituzionale”, figura il poi Maresciallo d’Italia Ugo Cavallero, di Casale Monferrato: una terra che dette molti militari, da Tancredi Saletta a Pietro Badoglio (massone secondo Dunstano Cancellieri, ma senza prova documentaria) e Angelo Gatti (iniziato alla “Propaganda massonica”). In una loggia di Torino entrò Italo Balbo, che poi passò alla “Savonarola” di Ferrara, alla quale aderì Edmondo Rossoni, massimo sindacalista mussoliniano, massone all’indomani della dichiarazione di incompatibilità tra Logge e Partito nazionale fascista» (Aldo A. Mola, Tre secoli. Novità storiche per il museo della Massoneria, in il Giornale del Piemonte, Domenica 8 luglio, Anno XVI – Numero 161, Editore Polo Grafico, Mondovì 2012, p. 1).

Ora riprendiamo pure.

I primi studi per la realizzazione di una imbarcazione torpediniera sono italiani e risalgono all’incirca al 1906. Nel 1914 la Ditta Maccia Machini di Milano, il cui titolare è Gian Luigi Maccia, progetta un modello di Motobarca Anti Sommergibile (M.A.S.), ma è la Società Veneziana Automobili Navali (S.V.A.N.) a realizzare i primi esemplari che vengono chiamati Motobarche Armate S.V.A.N. o semplicemente M.A.S.: Motobarca Armata Silurante.

Per quanto riguarda le operazioni belliche si può ricordare che il 7 giugno 1916 i Tenenti di Vascello Alfredo Berardinelli, con MAS 5, e Gennaro Pagano di Melito, con MAS 7, penetrano nella baia di Durazzo e affondano con un siluro ciascuno il piroscafo austriaco Lokrum, carico di munizioni.

Il 1° novembre 1916 si conduce il forzamento del Canale di Fasana, situato lungo la costa sud occidentale della penisola d’Istria e alle 3 del mattino del giorno seguente il MAS 20 pilotato dal Tenente di Vascello Ildebrando Gorian lancia due siluri contro la corazzata costiera austriaca Mars. Le reti parasiluri impediscono agli ordigni di raggiungere la nave, ma il successo dell’operazione è comunque lampante.

Tra le operazioni di maggiore rilievo si annovera l’affondamento della nave da battaglia Wien, avvenuto il 10 dicembre 1917 forzando il Vallone di Muggia nella rada di Trieste, ad opera dell’allora Sottotenente di Vascello Luigi Rizzo a bordo del MAS 9. Nella medesima operazione il Capo Timoniere di 1a Classe Andrea Ferrarini, a bordo del MAS 13, manca la gemella Budapest. Ancora Rizzo, come Capitano di Corvetta e col MAS 15, nei pressi della minuscola isola di Lutrošnjak di fronte all’isola di Premuda, l’11 giugno 1918 affonda la corazzata da battaglia Szent Istvàn (Santo Stefano). Nel corso della medesima azione il MAS 21, pilotato dal Guardiamarina Giuseppe Aonzo, colpisce con un siluro, che non esplode, la corazzata da battaglia Tegetthoff.

Entrare nella rada e nel porto dove le navi avversarie sono alla fonda oppure attraccate al molo voleva dire superare prima le difese costituite da sbarramenti fissi e mobili, zone minate, nonché eludere la sorveglianza attiva. Non era certo un’impresa facile. I M.A.S., benché dotati non solo di motore a scoppio, ma anche di motore elettrico silenzioso, erano pur sempre natanti di superficie, quindi visibili. Dopo le prime imprese le difese avversarie divennero più efficaci e per il loro superamento ci si orientò verso altri tipi di mezzi.

Come scrivono Marco Spertini ed Emilio Bagnasco «Si può far risalire la nascita dei primi veri e propri mezzi d’assalto alla prima metà del 1917 quando l’ingegner Attilio Bisio, Direttore del Cantiere Navale S.V.A.N. di Venezia e creatore dei primi M.A.S., venne incaricato del progetto di un nuovo mezzo silurante in grado di superare le ostruzioni poste a difesa delle principali basi avversarie, segnatamente quella di Pola. Dopo prove ed esperimenti che si protrassero per tutto il 1917, venne infine definito il tipo di mezzo più adatto allo scopo: il “barchino-saltatore” di cui vennero posti in costruzione quattro esemplari (Grillo, Cavalletta, Locusta e Pulce) che furono pronti per l’impiego nel marzo 1918» (Marco Spertini, Erminio Bagnasco, I mezzi d’assalto della Xa Flottiglia MAS 1940-1945, Ermanno Albertelli Editore, terza ristampa, Parma 1997, p. 9).

Ogni mezzo d’assalto necessitava di un vettore per l’avvicinamento all’obiettivo e quindi veniva rimorchiato o caricato su di una nave militare. Ad esempio, durante l’incursione nel porto di Pola del 13 maggio 1918, il Grillo parte da Venezia «con l’appoggio della Sezione Torpediniere P.N.9 e P.N.10 e dei MAS 95 e 96 per la fase finale (a rimorchio), e 5 cacciatorpediniere (scorta a distanza)» (Ibidem, p. 37).

Gabriele D’Annunzio, personaggio di cui sovente si dimentica l’appartenenza alla Loggia di Piazza del Gesù con il 33° grado, nonché l’iniziazione al Martinismo (da taluni definito “sistema iniziatico” di stampo ebraico-massone), sfrutta la sigla M.A.S. per indicare il motto “memento audere semper” (ricordati di osare sempre).

Nel frattempo il Tenente Medico Raffaele Paolucci e il Capitano del Genio Navale Raffaele Rossetti pensano a una sorta di siluro dotato di cariche esplosive che navighi appena in affioramento. Nasce così la Torpedine Semovente Rossetti, denominata “Mignatta”: «Venne realizzata in due esemplari (S.1 e S.2) nell’Arsenale di Venezia tra la primavera e l’estate del 1918 su progetto del Cap. G.N. Raffaele Rossetti, cui furono apportate numerose modifiche in sede di costruzione ed a seguito delle prove di impiego effettuate dal giugno all’ottobre 1918. Simile a un siluro, era lunga 8 metri ed il corpo cilindrico aveva un diametro di 600 mm. Era mossa dalla macchina ad aria fredda di un siluro» (Ibidem, p. 17).

Con la “Mignatta” S.2 Paolucci e Rossetti forzano il porto di Pola durante la notte del 31 ottobre 1918 e poco prima dell’alba attaccano, affondando la corazzata da battaglia Viribus Unitis e il piroscafo passeggeri Wien. Si può ricordare che nel corso della Prima Guerra Mondiale solo l’Italia ha realizzato e impiegato con successo i veri e propri mezzi d’assalto navali, ponendo anche le basi per la creazione di corpi speciali di nuotatori per attaccare il naviglio utilizzando cariche magnetiche con innesco a orologeria.

Con la Seconda Guerra Mondiale e a seguito della resa incondizionata firmata il 3 settembre 1943 a Cassibile (Sicilia), la Xa Flottiglia M.A.S. ricorda al Popolo Italiano quali siano tanto le sue radici quanto le radici della Decima.

Per la difesa del suolo patrio.

Un manifesto di propaganda della Xa Flottiglia M.A.S. principia proprio ricordando il primato bellico italiano conquistato sul campo, o meglio per mare. Si tratta d’uno stampato di 50 x 82 centimetri, con caratteri neri su fondo sabbia. Ma sempre con il medesimo testo ne esistono anche altre versioni, con intestazioni differenti e stampati su carta d’altro colore.

Esso recita:

«XA FLOTTIGLIA MAS / medaglia d’oro al valor militare / “Erede diretta delle glorie dei violatori di porti che stupirono il mondo con le loro gesta nella prima guerra mondiale e dettero alla Marina italiana un primato finora ineguagliato, la Xa Flottiglia M.A.S. ha dimostrato che il seme gettato dagli eroi del passato ha fruttato buona messe, in numerose audacissime imprese sprezzante di ogni pericolo, fra difficoltà di ogni genere; create, così, dalle difficili condizioni naturali, come nei perfetti apprestamenti difensivi, dei porti, gli arditi dei reparti d’assalto della Marina, plasmati e guidati dalla Xa Flottiglia M.A.S., hanno saputo raggiungere il nemico nei sicuri recessi dei minuti porti affondando due navi da battaglia, due incrociatori, un cacciatorpediniere e numerosi piroscafi per oltre 100.000 tonnellate. / Fascio eletto di spiriti eroici la Xa Flottiglia M.A.S. è rimasta fedele al suo motto: / per l’onore e la bandiera„».

Un manifesto quasi identico, con caratteri neri su fondo arancione, fa anche presente dove, a Piacenza, si trovi l’Ufficio Arruolamento. Difatti nelle ultime righe recita:

«giovani arruolatevi nella Xa flottiglia mas! / L’Ufficio arruolamento per Piacenza è in Via Carducci, N 11».

Per chi si combatte?

Per quanto riguarda l’arruolarsi nella Xa Flottiglia M.A.S. ecco che cosa si chiarisce alla gente in questo manifesto di 50 x 20 centimetri, dai caratteri rossi (intestazione) e neri su fondo bianco:

«Xa flottiglia mas // Tutti i giovani, dai 17 ai 37 anni, che pur non avendo obblighi militari desiderano entrare a far parte dei gloriosi reparti della decima possono avanzare domanda di arruolamento. // Presentarsi il giorno ….. del corrente mese presso il / municipio di s. margherita».

Tutti questi stampati costituiscono la documentazione storica incontrovertibile dal momento che non solo è esistita, ma è stata anche e soprattutto esposta al pubblico. Taluni sono stati poi ripresi per la stampa delle cartoline postali.

Non si esclude che nei territori d’Istria e della Dalmazia siano stati stampati e affissi manifesti riguardanti la situazione venutasi a creare con l’aggressione delle truppe titine, ma ad oggi non se n’è trovata traccia negli archivi consultati. Altri chiamano uomini e donne all’arruolamento volontario, ovviamente nei reparti che compongono la Xa Flottiglia M.A.S.

Se fino ad oggi il “fenomeno Xa M.A.S.” è celebrato per le imprese compiute fino alla metà del 1943, poco considerato è il fondamentale contributo dato per la difesa del suolo patrio a seguito della vendita dell’Italia agli angloamericani.

Non solo.

Da parte di taluni personaggi della destra italiana si vede tutt’oggi con sospetto il fenomeno “Xa Flottiglia M.A.S.” dal 1943 al 1945, perché innegabilmente alcuni esponenti della Repubblica Sociale non gradirono la popolarità di questo piccolo ma motivato esercito d’Italiani che combattevano per la difesa del suolo patrio.

Un esempio per tutti lo si può anticipare ricordando la perplimente figura dell’ex sommergibilista e poi Sottosegretario di Stato per la Marina Repubblicana, Capitano di Vascello Ferruccio Ferrini: autore materiale dell’arresto del Comandante della Xa Flottiglia M.A.S. Junio Valerio Borghese nel 1944, sparisce pochi mesi dopo dalla scena della Repubblica Sociale Italiana e lo si ritrova nel “manipolo” dei così detti “fascisti rossi” di Giovanni Antonio de Rosas (Usini 1899 – Roma 1984), il cui pseudonimo è Stanis Ruinas. La loro voce è la rivista fondata a Roma nel 1947: Pensiero Nazionale, finanziata anche dal Partito Comunista Italiano. (1)

Rimanendo sul fronte della Decima, per quanto riguarda le motivazioni al combattere per difendere il suolo patrio, ecco un manifesto di 80 x 33 dai caratteri blu su fondo nocciola che esplicita:

«L’ADRIATICO È IN PERICOLO / La cupidigia della Russia, della Grecia, della Jugoslavia, dell’Inghilterra vorrebbe soffocare il nostro patriottismo. / LA DECIMA FLOTTIGLIA MAS / con passione fiumana e triestina difenderà a tutti i costi questi territori.».

Note

1) Sull’argomento “comunismo” vedere utilmente l’articolo Falce e maglietto, apparso su Ereticamente. Sul ruolo giocato anche dal P.C.I. nel dopoguerra prendere visione di Prigionieri!, sempre su Ereticamente.

Sotto la superficie – Lorenzo Merlo

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Qualche motivo del populismo - Le opzioni offerte dalla crisi - Il recupero delle tradizioni - La spinta della scienza - Oltre la dialettica dello scontro - La dimensione spirituale

Populismo ha un sinonimo. È superficialità.

Ma ha anche una biografia, e questa è tutt’altro che superficiale, tutt’altro che priva di dignità, almeno pari a quella che chiediamo per noi stessi.

Ed è qui che vale la pena di soffermarsi, affinché coloro che tacciano di populismo chi la pensa diversamente, possano trovare le sue responsabilità dell’attuale stato delle cose.

Tutto il mondo in quattro punti

L’operoso provincialismo urbano e l’ingenuità rurale, nel dopoguerra italiano si mescolarono in una umana ricetta di solidarietà che solo a pensarci ci si commuove. Quasi fossero consapevoli che l’individualismo riduce l’amore.

[caption id="attachment_26469" align="alignright" width="297"] Appare superficiale ogni espressione ingenua e non strategica, spesso quindi autentica. Appare superficiale chi non dispone dei mezzi dialettici per argomentare se stesso.[/caption]

Con la pietanza del boom economico tutti si riempirono la pancia (senza troppi secondi sensi). I pastori sardi lavoravano in Fiat, le bambine siciliane andavano finalmente a scuola. Le donne lottavano. Gli studenti, con una chimica impossibile, fecero molecola con gli operai. Questi risalirono la corrente per arrivare all’origine di come stanno le cose e riuscirono a farsi riconoscere almeno una parte di dignità.

Il fervore comune era tale che c’era una colonna sonora sociale unica per tutti. Sentire oggi Il mio canto libero, La locomotiva o Crosby Stills Nash and Young è letteralmente essere là, in quel sentimento legante. Essere corpo unico verso qualcosa di imminente e di migliore.

La strategia della tensione, occulta e leviatana figlia di padre Stato e madre Nera, lasciò sul campo la gente comune e mancò di poco il suo obiettivo totalitaristico.

La protesta armata, che apparentemente non portò che a morti emanazioni dello Stato, non ebbe il seguito necessario per ricostruirsi una legittimità. Mise però in evidenza, per la prima volta, il vassallaggio italiano nei confronti della longa manus di servizi segreti italiani e stranieri.

Chetate le acque si avviarono ragionamenti meno estremistici sebbene altrettanto illegali. Mi riferisco al finanziamento ai partiti, alla corruzione, all’evasione fiscale, alle mafie.

L’importazione dell’edonismo reaganiano, esaltazione dell’individualismo, si propagò veloce come una miccia accesa verso le ideologie ancora apparentemente in salute della destra popolare e della sinistra, ma di fatto già minate. Per i politici, il ritrovo per l’happy hour era più sentito di quello in parlamento. Per molti i soldi erano facili e spenderli ostentatamente, uno status symbol da sbattere in faccia a chi stava indietro.

[caption id="attachment_26468" align="alignright" width="300"] I non vedenti hanno utilizzato il termine complottisti per riferirsi a coloro che sostengono l’esistenza di deep state d’ordine vario.[/caption]

Tangentopoli rase al suolo la classe politica, ma come Attila fece terra bruciata.

Sotto l’egida dello slogan, lo stato come un’azienda, nacquero governi, piani finanziari e politiche estere all’ombra del bungabunga e di promesse spettacolari, nei confronti delle quali la sinistra da tempo sterile, non aveva altro che freccette colpevolizzanti, di poco conto.

Si iniziava a percepire che ciò che stavamo diventando, le modalità storiche con le quali avevamo in passato trattato il prossimo e osservato il mondo stavano venendo meno.

I piani mondialistici delle cricche capitalistico-finanziarie ebreo-americane stavano pilotando bene la loro motonave anche in acque italiane. Internazionalmente parlando per mantenere la rotta egemonica suggerivano ai governi le opzioni da preferire, creavano guerre, pilotavano la comunicazione. (1)

I paladini del liberismo sotto la bandiera della globalizzazione, avanzavano convincendo molti che le alternative erano tutte peggiori. Lo tsunami che provocarono, annegò gli ultimi scogli delle nazioni, delle ideologie, delle economie locali, della solidarietà, del comunitarismo, delle province e di tutte le dinamiche relazionali tra queste dimensioni, nientemeno del tessuto con il quale ci vestivamo.

Avendo da anni delegato la politica – come tanto altro – a fare e pensare in nostra vece, abbiamo creduto alle promesse senza verifica alcuna. E con quelle ci siamo rivestiti. Abbiamo soprasseduto su un’Europa che, a pensarci bene, come per la democrazia, non è mai esistita, almeno per noi dell’ultima fila, così come ce l’avevano venduta.

A qualunque partito si fosse guardato con simpatia, nelle tasche dei bei vestiti nuovi, non trovammo più le nostre cose. Né la morale del Vangelo, né la mappa delle conquiste dei lavoratori, né la nostalgia. C’erano i video dei radical chic. Parlavano di tutto ma non più di quello che ci interessava. Dedicati ai più popolari diritti individuali, difendevano tutto e tutti, mentre le banche, il debito pubblico, la disoccupazione, gli articoli 18, le mazzette, le privatizzazioni, l’immigrazione fuori controllo, la malasanità, i cappi della burocrazia, le carceri piene, i delinquenti fuori, le pene in prescrizione potevano battere bandiera panamense e attraccare a banchine un tempo off-limits.

[caption id="attachment_26467" align="alignright" width="202"] Il capitalismo non ha altra ragione che accumulare denaro per poterne accumulare ulteriormente. Da questa logica non sono esenti le case farmaceutiche, in particolare le multinazionali riunite a cartello, il cui scopo quindi è produrre malattie. Ne va della loro sopravvivenza.[/caption]

Non si occupavano del signoraggio bancario, del degrado sociale, della sudditanza militare, monetaria, nazionale, il progressismo lo esigeva, punto.

Lo iato tra chi comandava e chi lavorava era divenuto via via più radicale. La fiducia era bruciata e non servono metafore, né aggiunte per misurare quel tipo di disastro, tranne che chiamarlo delitto, lutto.

Neppure le istituzioni godevano più della I maiuscola, se non per le partite dei partiti.

Così è stato fecondato il populismo. Movimento silente di astensionisti.

In crescita costante dall’epoca della questione morale di Berlinguer. Erano gli anni ‘70. Saltato il tappo del barattolo delle ideologie, pompato da amminoacidi di consumismo, quel popolo si è moltiplicato senza avere un valore da seguire, facile preda di emozioni. Ora spesso si raduna ancora, ma non in piazza e contro qualcosa, preferisce i centri commerciali, pensa per sé.

Razzismi e pensieri di governi forti occupano sempre più le menti di quegli orfani in cerca di famiglia. Qualcuno l’ha trovata. Osservando che le discendenze di destra e sinistra sono incredibilmente salite sulla medesima scialuppa e dialogano su come riprendere terra, ha deciso di essere del gruppo.

Tracce del nuovo paradigma

Ma nella contrazione generale che tutto ha coinvolto, c’è uno spazio che si espande e respira sotto le macerie della post-modernità. È una vena sottotraccia che non ha ancora il linguaggio idoneo per uscire e pubblicarsi, ma lo troverà. Si tratta delle voci di coloro che in tutto questo decorso, che alcuni non esitano a chiamare catastrofico, riconoscono la presenza satanica di un comune genitore, il materialismo tout court. Con i suoi figli, il positivismo, il capitalismo, lo scientismo, l’imperialismo; con i suoi nipoti, l’opulenza, il culto della personalità e quello del denaro; con i suoi dogmi, per il progresso ad infinitum, per la tecnologia, per il tempo lineare, per l’apparire, forma una famiglia piuttosto invadente e pesante, che oscura e mortifica l’intelligenza del cuore, la bellezza di ognuno, il senso del bene comune, l’equilibrio individuale e sociale.

[caption id="attachment_26466" align="alignright" width="208"] «Non c’è nessun pericolo. Le macerie sostengono la facciata.»[/caption]

Nel tempo lineare il presente si allontana da noi e va verso il passato.

Intanto ci sentiamo procedere verso il futuro, candidi e indenni nei confronti di ciò che abbiamo fatto. Al contrario, al bene comune corrisponde il tempo circolare. In esso ogni azione o sentimento è lì a ripresentarsi nel suo valore maligno o benigno, tanto a noi stessi, quanto ad altri noi. La sua frequenza o il suo raggio è relativo alla nostra condizione, al nostro sentimento. Esattamente come varia l’intensità del dolore in funzione della sua accettazione — leggi assunzione di responsabilità di quanto l’ha causato — o rifiuto — leggi, assegnazione di responsabilità —. Un argomento che, in termini toltechi, riguarda il dominio del tempo. Più a oriente di chiama accettazione, perdono tra i cristiani.

Quelle voci appartengono a uomini e donne mute, antesignane dell’astensionismo. Da molto non hanno rappresentanza. Ognuno a loro modo opera per estendere quello spazio occulto affinché divenga forza comune. Parlano con circospezione di spiritualità, sanno che può essere facilmente fraintesa. Evitano di citare che stanno solo cavalcando le vie già tracciate dai Maya, dai Toltechi, dagli Egizi, dal Buddhismo, dalla Kabbalah e da altre tradizioni tra cui il Cristianesimo, quello vero non quello posticcio, populista, superficiale appunto che la religione ci ha fatto conoscere. Sanno che per qualcuno, siccome non si può toccare, siccome la scienza dice che non c’è, non esiste, non  è misurabile, è un tabù, meglio non toccarlo. Siccome non lo dice il metodo, né la regola, non va bene. Sanno che sono quelli che risolvono la questione accusando di ciarlatanismo a destra e a manca. Lo fanno serenamente, hanno tutta la loro famiglia culturale a proteggerli. Eppure, come con le diete seguite per colpa di pressioni culturali, dove, indipendentemente dai risultati, non impari nulla su te stesso, anche il metodo, che ci addestra a risposte predefinite, non permette di maneggiare la materia dei nostri limiti . Non contiene alcuna maieutica per scoprire come spostarli più in là, come evolvere.

Sanno anche di essere al cospetto di un lento, inesorabile switch storico prodotto del cambio di frequenze energetiche dell’universo, che implica cambi di paradigma al quale l’uomo non potrà sottrarsi.

Sanno che siamo ad una concezione provincialista del cosmo e si adoperano per ampliarne il campo. Sanno e sentono che è in atto un passo evolutivo verso una convivialità nuova. L’avvento della fisica quantistica  ne è un segno, sebbene il peso sociale avrà bisogno di tempo per compiersi.

Eppure, spiritualità ha un senso elementare. Significa essere nel qui ed ora. Una specie di formula alchemica spesso impropriamente declamata. Essere su pezzo, per dirla con modalità giornalistiche o psicologiche; essere identificati con quanto stiamo facendo, annullare il tempo, divenire eternità. Essere quindi creativi e forti al meglio delle nostre potenzialità. Ma il contenuto della dimensione spirituale lo si riconosce anche con un sinonimo adatto a questi tempi: benessere fisico e interiore.

[caption id="attachment_26465" align="alignright" width="242"] Einstein fu il primo scienziato a prendere coscienza che la realtà dipende/è creata dall’osservatore.[/caption]

È un senso che, come qualunque altra dote, va coltivato ed è allenabile.

Come ogni percorso ha la sua durata, le sue difficoltà, le sue ricadute. Arrivati in vetta, se ne vedono altre, altrettanto lontane e impegnative. Tuttavia si capisce che il mondo è sempre quello, eppure è diverso. Come nella fisica quantistica, ma l’avevano detto le Tradizioni da migliaia di anni, a secondo dell’interlocutore le particelle possono avere carattere ondulatorio o materico. Una magia, per chi non c’arriva, dalla quale è doveroso guardarsi. Una banalità per chi l’ha ricreata, dalla quale non può più prescindere. Perché quelle scoperte non riguardano solo i laboratori dell’infinitamente piccolo. Riguardano quello che pensiamo, che facciamo, che sentiamo.

Se prima credevamo che le cose fossero separate, se prima potevamo usare la forza, forse anche la semplice intelligenza dialettica per sopraffare il prossimo, ora, dalla cima, le cose appaiono nella loro contiguità, gli altri sono dei noi a tutti gli effetti, prendiamo coscienza che pensare e fare del male al prossimo sia esattamente farlo a noi. Prendiamo coscienza che siamo totalmente

i responsabili della realtà individuale e sociale che viviamo. Siamo consapevoli che senza il nostro lavoro, non potremo lasciare alle future generazioni qualcosa di meglio di quanto abbiamo finora realizzato. Siamo ora capaci di affermare che la politica dello scontro, quella delle opposte fazioni, della negazione del rispetto, perpetuerà la storia così come la conosciamo. Di conseguenza lavoriamo per andare oltre il dualismo dello scontro, per realizzare la realtà attraverso il modo della relazione. Non più oggettiva, ma relativa a me.

È tempo per riconoscere che quanto ci appare ovvio e vero non è che l’appiattimento del nostro genio nei confronti delle descrizione della realtà che abbiamo appreso dai genitori, dall’ambito di nascita e infanzia. Tanta altra ce n’è, se vogliamo.

Ci sono due livelli di consapevolezza. Uno, nel quale è come se ci si avvedesse di qualcosa che era sempre stato lì e che mai avevamo notato. Questo livello è il più diffuso, lo si potrebbe chiamare intellettuale. Siccome permette all’ego una certa soddisfazione, facilmente ci si ferma lì, come se quanto c’era da fare fosse stato fatto. L’altro potrebbe essere chiamato livello d’incarnazione. Oltre a quanto già dicano le parole utilizzate per nominarli, la differenza tra i due è ulteriormente semplice. La consapevolezza intellettuale corrisponde a un sapere che prima non avevamo. Come tutti i saperi riguarda la sfera dell’io. In sostanza è un avere. La consapevolezza intellettuale è però già un passo. Ci strappa dall’ottusità dell’ego e ci permette di vedere noi stessi al pari degli altri. Permette di riconoscere quale morale strumentalmente utilizziamo a nostro vantaggio per erigerci sopra gli altri.

[caption id="attachment_26464" align="alignright" width="202"] “Fate gesti, abbiate pensieri, vivete sentimenti di deliberata bellezza.”[/caption]

La consapevolezza incarnata riguarda invece la sfera dell’essere. Con l’avere noi maneggiamo quel nuovo dispositivo nelle relazioni, affinché l’io se ne giovi. In sostanza è una questione di autostima. Con l’essere non abbiamo più bisogno di mostrare quella consapevolezza come fosse qualcosa di prioritario, da esprimere e trasferire ad altri. Essa uscirà dal nostro fare non dal nostro dire. Non godrà di nessuna nostra difesa. Non è un’allusione a divenire concorrenti di Madre Teresa di Calcutta che probabilmente non avrebbe saputo scrivere un saggio sulla consapevolezza in quanto era e non aveva. È invece una considerazione sostenuta dall’idea che tutti noi abbiamo  il nostro gradiente specifico a disposizione per essere incrementato.

Una vorrà convincere, scuotere gli altri. L’altra lancerà reti senza pretese di pesca. Tuttavia ogni tanto qualcuno resterà tra le maglie. Se vorranno li lascerà andare. Non eserciterà su loro alcun potere, se non maieutico al loro percorso evolutivo. Non vuole imporre il proprio ordine al prossimo. Ma non si tratta di una scelta razionale, né un’imposizione etica o razionale. È piuttosto un comportamento d’ordine estetico, sentimentale. Ovvero non si risente quando al cospetto di affermazioni a lui opposte. Non c’è più quel lui. È stato sostituito dall’accettazione, è stato svuotato d’orgoglio, una specie d’invulnerabilità.

Ovvero, restando soddisfatti del livello intellettuale non si cambia nulla, al massimo di fa moda. Con la seconda consapevolezza non c’è niente da cambiare perché si è già cambiato tutto. Permutare dalla prima alla seconda serve un pieno di umiltà, un cambio di abitudini. È qui il percorso nel quale immettersi. Così l’egoica pretesa di affermazione del verbo e l’emozione del vanto dialettico possono cessare, lasciando il campo all’amore.

Tutti gli scientisti, ovvero, per cultura, tutti noi che ci affidiamo alla formula scientificamente provato o non provato per ritenerci dalla parte della verità abbiamo ora il necessario per comprendere che si erano felicemente appiattiti, su una cultura infarcita di superstizioni alle quali avevamo dato valore assoluto, con le quali avevamo abdicato a noi stessi. Il razionalismo,

il materialismo, l’oggettività, la fisica meccanicista ne sono state le orbite formali di forte magnetismo, sulle quali abbiamo esplorato il poco cosmo che possono permettersi.

Ma ora, che anche la fisica, nel suo step quantistico ha raggiunto le prospettive che necessariamente relegano la scienza classica a dato minore e niente più che autoreferenziale, ora che è stato dimostrato che averla creduta assoluta risulta quantomeno inopportuno, anche i signori scientisti, per restare fedeli al culto della scienza, dovrebbero avvedersi e rivedersi.

[caption id="attachment_26463" align="alignright" width="292"] ...l’uomo non è al centro di niente se non del proprio ego.[/caption]

Fu impugnando la torcia dei lumi che si credette di poter ridurre la vita a sola materia. Socialmente parlando fu facile trasferire quelle convinzioni e reificare via via ogni cosa.

Tutto ruotò e ancora ruota intorno al perno dell’economia. Niente ha finora potuto godere di più attenzioni di quanto non ne siano state date al Pil, alla produttività, al denaro. E se quello era il perno, sotto al giogo a tirare la pietra della macina eravamo, tutti noi. Ridurre tutto a economia è una specie di blasfemia nei confronti della vita. In quel miserabile piano di lettura noi, famiglia, società sono soltanto soggetti economici, definiti con le stesse parole utilizzate per le merci. Nel deserto di vetro e acciaio della mente economica non v’è traccia di relazioni umane, del loro valore sostanziale.

Il presuntuoso predominio sulla natura e su tutti gli esseri senzienti è una superstizione che sta culturalmente barcollando, come dopo Copernico, che aveva fatto notare che la Terra non era al centro dell’universo, l’uomo non è al centro di niente se non del proprio ego.

Fu così che la natura, gli animali, la terra, l’ambiente, i loro cicli, furono messi da parte insieme alla conoscenza sottile proveniente da tutte le geografie del mondo e delle epoche passate. In grama alternativa, considerati alla stregua di una proprietà privata o di cose di poco conto. Quel modo si è impadronito della nostra sensibilità. È rimasto legittimo per tanto e per troppo ma ora che ci si sta risvegliando, si chiama sfruttamento o arroganza. Ora è chiaro che stiamo tagliando il ramo sul quale siamo seduti.

C’è ancora chi continua a tagliare, a tirare dritto verso il baratro. Non vede che le sue verità, che voler raggiungere la verità alimenta esattamente ciò che andrebbe smorzato: l’implicita lotta, per difenderle, al momento giusto diviene fondamentalismo. Un concentrato sulla propria affermazione che non guarda allo strazio che provocherà. A quel tipo di uomo interessa solo il successo di ciò in cui si identifica.

È costituito anche da queste cose il paradigma capillare di cui è piena la nostra fisiologia. È anche in queste cose che possiamo riconoscere l’esigenza e le modalità su come andare oltre, su come liberarcene, su come non perpetrarlo e perpetuarlo. È nelle nostre potenzialità realizzare altro, esattamente così come abbiamo realizzato queste.

Ai tempi nostri, tanto la destra popolare che la sinistra popolare non hanno mai preso le distanze da quel materialismo, dal capitalismo. Non ne hanno mai vista la disumanità. Non hanno mai fatto caso

[caption id="attachment_26462" align="alignright" width="300"] Oggi siamo avveduti delle carte che abbiamo in mano. Non vogliamo più giocarle dietro consiglio di qualcuno o di qualcosa d’altro che non sia il nostro sentire.[/caption]

che su quella via uccidevano tutta l’intelligenza del sentire, tutta la capacità di creare. A testa alta, le loro scelte tenute su dal valore economico, hanno distrutto coste, valli e paesaggi.

Diversamente ha sempre detto e fatto la cultura spirituale della destra tradizionale, da sempre anticapitalista. Le sue altre espressioni, quali il razzismo e il nativismo, il paganesimo modulate con maturità, non sono altro che l’attuale localismo, bioregionalismo, decrescita e recupero della sacralità della natura. Aspetti e dimensioni della realtà, dell’individuo, della socialità che ora stanno emergendo nelle coscienze di tutti.

Significa che molte idee prima espressioni di un colore ora sono espressioni d’intelligenza e quello considerate. Significa cioè una liberazione da preconcetti e tanto altro. C’è di mezzo un’ecologia della mente, senza la quale convinzioni e dogmi continueranno a intossicarci, a ucciderci vicendevolmente e da soli.

Oggi siamo avveduti delle carte che abbiamo in mano. Non vogliamo più giocarle dietro consiglio di qualcuno o di qualcosa d’altro che non sia il nostro sentire. Non vogliamo più creare società, uomini dominati dalla paura che li obbliga ad anelare sicurezza, che gli impedisce di volare, che gli castra l’atteggiamento creativo, la sua potenza più infinita. Né individui e società alienate, psicopatiche, per le quali è ordinario e comprensibile lo sfogo della violenza sugli altri e su sé. Il progresso ci ha messo all’angolo di noi stessi. Ci ha comprato come con gli specchietti comprava i nativi e i colonizzati. È bastato un benefit o un mutuo per la tv al plasma. Ci ha devastato lo spirito creativo.

È tempo di riprenderlo.

1              https://www.youtube.com/watch?v=dmh-xdfFh-Q

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Lorenzo Merlo

L’alleanza tra cavalieri e popolo nella guerra dei contadini come mito politico nella Rivoluzione Conservatrice – Giovanni Pucci

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Tra i molteplici temi che hanno svolto un ruolo evocativo per quel movimento culturale conosciuto come 'Rivoluzione Conservatrice', che ha svolto un ruolo non marginale in Germania nel periodo tra le due guerre mondiali, si può annoverare la 'guerra dei contadini', ovvero quella serie di tumulti avvenuti tra il 1524 e il 1526 nel cuore del Sacro Romano Impero sfociati in qualcosa di ben più grande prima di essere poi soffocati nel sangue. Passata alla storia appunto con l'epiteto di guerra, essa si diversificò dalle precedenti rivolte per il numero degli individui mobilitato, per l'estensione geografica delle zone coinvolte e per la radicalità delle rivendicazioni. Anticipazioni della stessa possono essere rintracciate nella formazione del Bunschuh (ovvero Lega dello scarpone) nel 1513 e nella rivolta dell'Armer Konrad nel 1514. Ma il suo prodomo è senz'altro la cosiddetta 'rivolta dei cavalieri', un moto che prende il via nell'estate del 1522 e che vede 5000 fanti e 1500 cavalieri comandati da Ulrich von Hutten e Franz von Sickingen (1481-1523) tenere in scacco i mercenari dei Vescovi di Treviri, Magonza e Colonia prima di capitolare nel 1523 nell'assedio di Landsstuhl. Le molle sociali che spinsero la piccola aristocrazia rurale tedesca a stringere alleanza con i poveri e gli oppressi per tentare una radicale riforma della patria e dello stato delle cose furono le mutate condizioni sociali che avevano gettato sul lastrico un ceto un tempo potente a favore nella nuova e ricca borghesia cittadina, degli affamati mercanti e delle sempre più influenti famiglie di banchieri che avevano ormai in pugno l'imperatore, ridotto a vuoto simbolo, con il contorno del parassitismo dei principi guelfi e di un clero sempre più corrotto. Fu probabilmente questa rudimentale 'alleanza di popolo' tra alcuni elementi delle classi guerriere e quelle lavoratrici contro gli strati improduttivi e gli elementi stranieri alla nazione germanica (in primis i vescovi mandati da Roma) che volevano fare una rivoluzione per correggere un ordine ormai invertito e non per accelerarne l'inversione ad affascinare gli intellettuali tedeschi che nel XX secolo aderirono in vario modo alla Rivoluzione Conservatrice. La figura di von Sickingen, un soldato dei Freikorps nel '500, s'impresse nei cuori di chi bramava una rinascita tedesca dopo l'umiliazione di Versailles ed il tradimento di Novembre, la dichiarazione di resa proclamata dal governo di Berlino con l'esercito tedesco invitto sul campo e con le linee del fronte in pieno territorio francese. Il condottiero vagheggiava l'eliminazione dei principi ecclesiastici, la creazione di una Chiesa autenticamente tedesca, la cancellazione del commercio bancario, l'istituzione di un governo tenuto dall'imperatore con un consiglio di soli cavalieri: una visione che univa idealmente le richieste di un rango sociale declinante, quello dei cavalieri, con quelle del popolo, interessato a combattere i vecchi e nuovi approfittatori sociali.

La guerra dei contadini inizia nel 1524 con una serie di sommosse di rustici che all'inizio dell'anno seguente si organizzano in schiere armate (haufen). Al comando del più famoso, lo Schwarzer Haufen, troviamo l'ex condottiero dei lanzichenecchi Floryan Geyer (1490-1525). Nobile di nascita, aderente alla riforma luterana che aveva creato il sostrato culturale per le rivolte (anche se poi Lutero condannerà violentemente gli insorti ed i loro propositi), egli reclamava il ristabilimento del potere imperiale, la destituzione dei principi e il sequestro dei beni ecclesiastici. Morirà il 9 giugno del 1525, assassinato a Rimpar dopo esser scampato alla distruzione del castello di Ingolstadt, dove aveva organizzato l'ultima resistenza del Battaglione Nero. Il suo nome vivrà nella leggenda. Altra figura carismatica ripresa poi dai rivoluzionar-conservatori nel XX secolo fu quella di Gotz von Berlichingen (1480-1562) che con un arto di ferro a sostituzione del braccio destro perso nel 1508 in battaglia comandò i ribelli nel distretto di Odenwald contro i principi del Sacro Romano Impero. I nomi di Geyer, von Berlichingen, di von Hutten e di von Sickingen ricorreranno più volte negli scritti di Arthur Moeller van der Bruck (figura di riferimento dei jungkorservativen e centrale nella RC), dello storico Friedrich Stieve o del popolare scrittore Hermann Lons. Sia detto per inciso, a Gotz von Berlichinger e Floryan Geyer, eroi conosciuti da tutte le fasce della popolazione vennero intitolate altrettante divisioni delle Waffen SS durante la seconda guerra mondiale, con buona pace di chi nega ogni collegamento tra la Rivoluzione Conservatrice ed il successivo regime nazionalsocialista.

Un'urbanizzazione che erodeva con gli espropri gli spazi per l'agricoltura e lasciava i piccoli proprietari terrieri senza terra e senza la possibilità di sostentarsi, un'accumulazione di capitale bancario tramite l'usura e di rendite finanziarie, l'impoverimento progressivo e la perdita di prestigio dell'antica nobilità rurale, la corruzione e l'arroganza del clero romano: queste sono le condizioni che permisero di vedere bande di contadini inquadrate da cavalieri. Con il passaggio dall'economia feudale ai primi abbozzi di un sistema capitalistico emersero nelle campagne tali disagi sociali che inevitabilmente trovarono uno sbocco violento. Sbocco che dopo delle vittorie iniziali, s'arrestò e viene represso in modo belluino, come monito a venire. Quindi, fallendo, la guerra dei contadini non scardinò l'ordine sociale ma lo consolidò definitivamente. Ferma a quei casi che abbiamo citato, la saldatura tra popolo e tradizione nazionale non si realizzò completamente e le 12 tesi che rappresentavano le doglianze del movimento rimasero inapplicabili, accontentandosi quest'ultimo di singole vendette personali sui nobili e sulle loro proprietà, peraltro limitate alle fasi iniziali. Il comune interesse la comune volontà di restaurare simboli di giustizia e di riscatto sociale, da ricercare tramite l'unità del popolo tedesco, di fatto non si realizzò. Pur idealizzando le figure cui abbiamo accennato gli autori della Rivoluzione Conservatrice questo lo ebbero a mente molto lucidamente e lo misero nero su bianco negli scritti che incitavano ad un riscatto nazional-popolare. Anche da tali suggestioni prese le mosse quel movimento politico che arrivò al potere in Germania, con un programma che mirava a rettificare gli straniamenti economici e sociali della modernità senza negarla e che con il pragmatismo e la prassi quotidiana inverò nel reale le teorizzazioni dei pensatori che lo avevano preceduto e al quale un numero assai cospicuo di loro aderì, vedendo nello stesso la logica continuazione politica delle loro idee.

Giovanni Pucci

L’Impero della mente – Umberto Iacoviello

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“Eccovi il piano […] attentamente elaborato per una lingua internazionale, capace di una vasta gamma di attività pratiche e scambio di idee. […] Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che portare via le terre o le province agli altri popoli, o schiacciarli con lo sfruttamento. Gli imperi del futuro, sono gli imperi della mente.”

Queste parole non sono state pronunciate durante un discorso alle folle da un despota a capo di un regime autoritario preso dell’euforia e non sono state scritte da George Orwell, queste parole sono state pronunciate dal primo ministro del Regno Unito, Winston Churchill.1 Certo, parlare di imperi della mente potrebbe far pensare a Matrix, Inception o Total Recall, niente di più lontano. L’impero della mente è qualcosa di molto più concreto, mai pienamente realizzato, che agisce su di un piano più sottile, è un continuo lavori in corso ma è qui ed è ovunque: dagli scaffali nei supermercati ai militari sparsi qua e là per il mondo per garantire la democrazia, dalla neolingua del politicamente corretto al ministero della verità che chiama fake news tutto ciò che non è conforme al pensiero unico. L’impero della mente si manifesta con varie sfaccettature e ridurlo ad un mero fatto economico è un’approssimazione; quella economica infatti, è solo una delle vie del disvelamento di questa nuova forma d’impero, esso rappresenta un fenomeno che travolge la vita dell’individuo nella sua totalità. Usando un termine teologico esiste una sorta di consustanzialità tra economia, politica e cultura. L’ordine non è casuale e vedremo il perché. La sempre valida formula goethiana secondo cui “nessuno è più schiavo di colui che si ritiene libero senza esserlo” ci aiuta meglio a comprendere su quale piano agisce questa forma di potere; di certo non più sul piano fisico con l’uso barbaro della violenza epidermica -almeno in Occidente - ma usando un tipo di violenza che penetra in fondo: quella psicologica. Di fatto oggi è molto più semplice condizionare il pensiero delle masse, gli strumenti che i media possiedono per condizionare l’opinione pubblica superano – in efficacia – le propagande messe in scena dai regimi del secolo scorso. Le idee non sono più una libera espressione dell’individuo che per formazione e carattere formula, non i modi di pensare, ma il modo di pensare viene imposto dall’alto e chi non si adatta viene subito marchiato come nemico dell’umanità con etichette variopinte e inopportune. In Storia del pensiero politico, il politologo Marcel Prélot ci illumina sulla funzione dell’opinione all’interno di un governo “il linguaggio corrente e il senso comune concordano nel rifiutare il nome di <<governo d’opinione>> alle monarchie tradizionali o alle monocrazie popolari. Questi regimi implicano infatti un monismo fondamentale: ammettono un’unica opinione con cui s’identificano, accettano un’unica dottrina dello stato cui tutti hanno il dovere di aderire. Coloro che si rifiutano di farlo sono nemici, criminali che devono essere eliminati coi mezzi più radicali. Viceversa un autentico regime d’opinione implica il riconoscimento d’un pluralismo dottrinale, la coscienza e l’accettazione di più partiti irriducibili gli uni agli altri, realmente tollerati se non addirittura riconosciuti come l’espressione di una benefica diversità. Mentre le monocrazie vedono nell’opinione solo un elemento passivo cui chiedere appoggio” conclude poco dopo “tranne contro coloro che si servono di mezzi illegali, lo stato non dispone di alcun criterio etico per condannare un’opinione”2. Il pensiero unico a cui siamo sottomessi è di fatto di stampo monocratico, accetta cioè solo l’esistenza di se stesso e vede il dissidente, come un nemico da abbattere. Vi è un fenomeno che potremmo definire effetto gregge delle opinioni. In Psicologia delle Folle l’antropologo Gustave Le Bon descrive come si propagano a macchia d’olio le convinzioni tra le folle “un individuo può essere messo in condizioni tali che, avendo perso la propria personalità cosciente, obbedisca a tutti i suggerimenti di chi appunto tale coscienza gli ha sottratta”, non è difficile immaginare in che modo queste opinioni vengano imposte dall’alto soprattutto tramite la propaganda televisiva, e molto meno tramite il web3. Come si cambia il modo di pensare delle folle? Usando la ripetizione che attraverso il contagio, radica nelle coscienze delle folle dei modi di pensare. Riprendiamo l’opera di Le Bon “Ben si comprende l’efficacia che la ripetizione ha sulle folle vedendo quale potere essa esercita sulle menti più illuminate. Infatti la cosa ripetuta finisce con l’incrostarsi nelle ragioni profonde dell’inconscio, in cui si elaborano i moventi delle nostre azioni. Dopo qualche tempo, dimenticando chi è l’autore dell’asserzione ripetuta, finiamo col crederci.” Bisogna scegliere se essere solo un numero o uomini liberi di cui vi è grande penuria. Parlavamo pocanzi delle etichette che vengono affibbiate a chi non rientra nei canoni del pensiero unico, proviamo per sommi capi –senza pretese di esaustività- ad analizzarne due, quelle più in voga. Razzista/xenofobo: la grandi migrazioni di popoli dell’Africa verso l’Europa degli ultimi anni è un tema centrale all’interno dei dibattiti pubblici. Non si può parlare del business dell’immigrazione -accusa fondata viste le inoppugnabili prove documentali a riguardo- o dei pericoli di un’eccessiva immigrazione, senza essere tacciati di razzismo/xenofobia. Queste accuse vengono maggiormente da quella sinistra che affonda le sue radici nel socialismo (?); quindi per evitare ogni tipo di accusa, lasciamo la parola a Carl Marx che nella sua opera monumentale –Il capitale- scrive “Ma se una sovrappopolazione operaia è il prodotto necessario della accumulazione ossia dello sviluppo della ricchezza su base capitalistica, questa sovrappopolazione diventa, viceversa, la leva dell’accumulazione capitalistica e addirittura una delle condizioni d’esistenza del modo di produzione capitalistico. Essa costituisce un esercito industriale di riserva disponibile che appartiene al capitale in maniera così completa come se quest’ultimo l’avesse allevato a sue proprie spese, e crea per i mutevoli bisogni di valorizzazione di esso il materiale umano sfruttabile sempre pronto, indipendentemente dai limiti del reale aumento della popolazione.”4 Non solo una “leva” di accumulazione capitalistica, ma “addirittura una delle condizioni d’esistenza del modo di produzione capitalistico”, il capitalismo necessita una “sovrappopolazione operaia” per garantire la propria sopravvivenza: l’aumento della popolazione assicura un esercito di schiavi disposti a lavorare per qualsiasi salario, costringendo gli “autoctoni” a lavorare per un salario più basso (sfruttamento). Quarant’anni dopo continuò Max Weber “Il capitalismo per dispiegarsi, richiede la presenza di un eccesso di popolazione da poter ingaggiare, sul mercato del lavoro, a basso prezzo. Ma un “esercito di riserva” eccessivo favorisce bensì, in certe circostanze, la sua espansione quantitativa, però ostacola il suo sviluppo qualitativo, e specialmente il passaggio a forme aziendali che sfruttino l’intensità del lavoro. Salario basso non si identifica affatto con lavoro a buon mercato. Già da un punto di vista meramente quantitativo, il rendimento del lavoro in ogni circostanza diminuisce se il salario è fisiologicamente insufficiente, e questa situazione a lungo andare spesso significa addirittura una “selezione dei meno validi”.”5 Weber si spinge oltre, scrivendo che oltre allo sfruttamento, scade anche la qualità del lavoro. Anche per l’immigrazione, il problema non è solo economico. L’immigrazione è un tema che divide la gente e tutto ciò che divide è cosa buona per chi si sfrega le mani da dietro le quinte: divide et impera6. Fascisti/populisti e antifascisti: qualsiasi uomo che al centrosinistra non piace, rischia di diventare anacronisticamente fascista, il termine più in voga negli ultimi anni, probabilmente perché generale e più sbrigativo. E’ fin troppo facile rievocare lo spauracchio del Fascismo, leggi razziali e compagnia varia per screditare un uomo o un gruppo di uomini, che col fascismo non hanno nulla a che fare, la parola viene usata per qualsiasi atto non conforme. Se non sei con me, sei contro di me. E’ curioso notare come gli antifascisti combattono un nemico che non esiste più, mentre trovano normalissimo il dispiegarsi di un capitalismo feroce che sta abbattendo uno ad uno i diritti sociali. Combattono il fascismo utilizzando dei metodi più che fascisti: parlano di democrazia e tolleranza ma vorrebbero silenziare tutti quelli che non la pensano come loro, parlano di antirazzismo ma vorrebbero una nuova razza meticcia, sono “la voce del popolo” ma non parlano mai di lavoro e quando uscì fuori il conflitto di interessi della Boschi (PD) con il caso Etruria, nessun antifascista è sceso in piazza. A giudicare dai loro comportamenti, l’antifascismo di oggi rappresenta il braccio armato del capitalismo. Brigate Rosse docet. Il pensiero unico, vuole un livellamento dell’opinione pubblica, in cui spesso più per paura di essere ostracizzato che per convinzione, l’individuo finisce per adattarsi al pensiero dominante. Forse per non essere tacciati anche noi di fascismo dovremmo citare Oscar Wilde, che con l’intelligenza che lo contraddistingueva scrisse più di un secolo fa nel suo romanzo più famoso che “La morale moderna consiste nell’accettare i luoghi comuni della propria epoca; ma per un uomo colto ciò significa commettere un atto della più volgare immoralità”. Della stessa opinione è un altro gigante del XIX secolo, Friedrich Nietzsche, che nella sua seconda considerazione inattuale, scrive che gli uomini attivi –coloro che vogliono scrivere la storia- devono imparare da essa “il supremo comandamento di diventare maturi e di sfuggire al fascino paralizzante dell’educazione del tempo, che vede la sua utilità nel non lasciarvi maturare, per dominare e sfruttare voi, gli immaturi. E se desiderate biografie, allora non siano quelle col ritornello ‹‹Il signor Taldeitali e il suo tempo››, ma quelle sul cui frontespizio si dovrebbe leggere: ‹‹Un lottatore contro il suo tempo››.”7 Di pensatori inattuali si potrebbero citare altri nomi importanti: da Jünger che ottimisticamente auspica una trasformazione del gregge in branco grazie all’esortazione di uomini liberi che il pensatore tedesco paragona a lupi che si celano nel gregge, al già sopracitato George Orwell che in una visione più pessimistica scrive che i prolet finché non avranno coscienza della propria forza, non si ribelleranno. Tutti uomini di un certo spessore che gli intellettualoidi odierni, soldati del politicamente corretto taccerebbero di populismo per il solo fatto di pensare diversamente. Ma tornando a Churchill e al suo piano di dominio attraverso la lingua, ci sembra opportuno riportare un esempio preso dalla nostra storia, precisamente da Vincenzo Cuoco che nel 1801 nel suo Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 ammoniva già i rischi di una cieca apertura alle lingue e alle culture straniere per l’identità culturale dei napoletani: “La nazione napoletana sviluppò una frivola mania per le mode degli esteri. Questo produceva un male al nostro commercio ed alle nostre manifatture: in Napoli un sartore non sapeva cucire un abito, se il disegno non fosse venuto da Londra o da Parigi. Dall’imitazione delle vesti si passò a quella del costume e delle maniere, idi all’imitazione delle lingue: si apprendeva il francese e l’inglese, mentre era più vergognoso il non sapere l’italiano. L’imitazione delle lingue portò seco finalmente quella delle opinioni.” Non riteniamo esagerate le conclusioni dello storico antiborbonico, alla luce del primato commerciale-culturale angloamericano che negli ultimi settant’anni ha esercitato la sua egemonia sull’Europa (e non solo), basti pensare al basic english entrato prepotentemente nelle nostre scuole o al Black Friday, che è entrato nelle nostre usanze, a prescindere dal Giorno del ringraziamento, una festa che –almeno per il momento- non ci appartiene. C’è un altro aspetto dell’Impero per cui vale la pena spendere due parole: il Grande Fratello. Ormai tutti sanno che siamo costantemente spiati, molti però, non immaginano come e soprattutto a che pro; viviamo in un mondo sempre più altamente tecnologico (o come direbbero gli inglesi hi-tech) e come potrebbe essere pericoloso ad esempio, l’aspirapolvere-robot che ci gironzola dentro casa risucchiando la polvere? Colin Angle –amministratore delegato dell’azienda iRobot che produce queste macchine- in un’intervista ha lasciato intendere che questi robot sono in grado di tracciare una mappa minuziosa della casa e i dati trasmessi ai software dell’azienda potrebbero essere venduti ad altre aziende come Amazon o Google con l’obiettivo di proporre offerte su misura per la nostra casa, come prodotti per bambini se l’aspirapolvere-robot rivela una cameretta. Dopo queste dichiarazioni, si è alzato un polverone e Colin Angle ha dovuto smentire che ciò sia realmente avvenuto, a suo avviso è solo una possibilità. Stessa cosa è accaduta per una società americana che sviluppa prodotti di elettronica di consumo, che ha dovuto pagare una multa di oltre due milioni di dollari per aver installato un software nelle smart tv che riconosceva i programmi guardati e trasmetteva dati all’azienda produttrice che arrivavano perfino a controllare se uno spettatore avesse visitato un sito web dopo aver visto una pubblicità in tv. Sono questi i rischi che si corrono quando si è circondati da apparecchi smart. Essere spiati ovunque, più che con la sicurezza ha a che fare con il commercio. Nelle strade, nei supermercati, nelle grandi stazioni non è difficile trovare gli schermi Quividi, che hanno all’interno una telecamera che permette di registrare età, sesso e l’attenzione che i passanti mostrano osservando una pubblicità, consentendo a chi si occupa di marketing di migliorare le pubblicità. Molte preoccupazioni suscitano anche gli smartphone, è di dominio pubblico il fatto che il Messico abbia istallato di nascosto un software chiamato Pegasus (prodotto israeliano) per controllare persone “pericolose” per lo status quo, come attivisti e giornalisti. Non è difficile immaginare quante informazioni si possono estrapolare da uno cellulare di nuova generazione, dagli spostamenti registrati col gps, all’attivazione (all’insaputa dell’utente) del microfono o peggio ancora della videocamera, ai messaggi, ai siti internet visitati.8 Possiamo affermare di vivere nell’era in cui non esiste più il privato, non solo perché da una parte c’è chi spinge per l’assottigliamento della linea che separa pubblico e privato, ma anche e forse soprattutto perché siamo noi stessi a cedere le nostre informazioni, accettando –senza leggere- i termini che compaiono quando installiamo una nuova applicazione o postando giornalmente autoscatti che mostrano i luoghi e le persone che frequentiamo con tanto di GPS. Ogni passo in avanti della tecnologia è un passo indietro per la libertà. Siamo partiti da Churchill per arrivare ad un’aspirapolvere che ci monitorizza la casa, c’è un filo conduttore che unisce tutto questo, lo statista inglese aveva intuito che la lingua –l’inglese- doveva essere alla base per i futuri consumatori globali, completamente sradicati e ridotti a homo consumes, fruitori di prodotti commerciali (preferibilmente anglo-americani). Il mondo che si presenta oggi, sembra essere il prodotto di ciò che auspicava Churchill nel suo discorso-manifesto, ci troviamo all’interno dell’Impero ma il solo fatto di parlarne, l’esserne consapevoli, dimostra che all’interno di esso ci sono ancora dei lupi, quegli esseri che non hanno dimenticato cos’è la libertà e sebbene risulta difficile immaginare una rivolta di massa contro questo impero, i lupi sentono ancora la necessità di ululare per ribellarsi all’impero, rischiando di attirarsi tutte le etichette che l’impero affigge ai suoi dissidenti. Siamo coscienti però, che le etichette si attaccano solo alla superficie e una minoranza sempre più rumorosa sta alzando la voce utilizzando gli stessi strumenti che l’impero adopera. Da ogni dominio nasce una resistenza. Lo slogan di ogni ribelle deve essere Hic et nunc!

Note 1Discorso-manifesto dell’unione anglo-americana tenuto ad Harvard il 6 settembre 1943. 2Storia del pensiero politico, Marcel Prélot (Mondadori, 1975) 3Realtà e “post-verità”, Umberto Iacoviello (Ereticamente 26/07/2017). 4Il capitale, libro primo, settima sezione. (Editori Riuniti,1980) pg.692 5L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Max Weber (RCS). 6Il problema dell’immigrazione è molto più vasto ed andrebbe analizzato oltre che da un punto di vista economico anche demografico e culturale. I demografi affermano chiaramente che il volto dell’Europa sta cambiando rapidamente, un esempio per tutti, in Gran Bretagna entro il 2065 meno della metà della popolazione avrà origini britanniche, mentre nella più vicina Germania il 36% dei bambini sotto i cinque anni, sono figli di immigrati. Ma l’eccellenza è in Italia, dal 2002 al 2017 gli immigrati in Italia sono aumentati del 207% . La sostituzione etnica degli europei non è una paranoia dei populisti, ma la strada che abbiamo intrapreso. Per quanto riguarda l’identità, un caso emblematico è sicuramente il quartiere Molenbeek nel centro di Bruxelles. Le Monde nel novembre 2015 ha scritto “l’elenco delle persone che sono transitate per Molenbeek prima di essere coinvolte in attività terroristiche è impressionante”, nel cuore dell’Europa vi è una concentrazione di 100.000 immigrati (africani e arabi) che manifesta esibendo cartelli con scritte a dir poco preoccupanti come “No democrazia, noi vogliamo solo l’islam”. 7Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Friedrich Nietzsche (Adelphi 1973). 8Focus, ottobre 2017 (n.300).

La grande sconfitta – Umberto Bianchi

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Stranamente, il risultato elettorale testè uscito dalle urne, ha lasciato ammutoliti e silenti i coribanti e le ochette del buonismo a gogò. Forse certe persone si credevano che, a suon di antifascismo, jus soli, accompagnati dallo spauracchio degli “estremismi”, di fronte ad un atteggiamento di rancido moderatismo e di simil-responsabilità gli elettori, dal nord al sud della nostra penisola, li avrebbero amorevolmente e doviziosamente premiati. E non sono certo bastate le facili suggestioni di un voto di scambio all’insegna di fritture di pesce e quant’altro, a modificare quanto uscito dalle urne, né i nervosismi e le rampognette euro-globaliste di Frau Merkel e dei Dem d’Oltreoceano.

Quanto sinora uscito dalle urne, prospetta la predominanza di due blocchi che, con tutte le differenze che li contraddistinguono, sono accomunati da uno spiccato atteggiamento anti-sistemico: la Lega di Matteo Salvini da una parte ed il Movimento Cinque Stelle, dall’altra. Mentre, però, la Lega è divenuta la forza politica preponderante di una coalizione di “centro-destra” (termine questo, sempre più svuotato dei suoi originari significati ideologici, sic!), formata da altri soggetti politici, il Cinque Stelle da solo, ha ottenuto il trenta e più per cento dei voti del corpo elettorale nostrano, affermandosi sì quale primo partito del quadro politico, quanto a numero di voti, ma pur sempre privo di quella maggioranza, per legge, necessaria a poter governare da soli.

Pertanto, dallo scenario che ne vien fuori, delle due ipotesi l’una: o Lega e Cinque Stelle, siglano un accordo per spartirsi il governo del paese in nome di un mix di sovranismo, identitarismo, contestazione e radicale rivisitazione di quanto fatto dagli ultimi governi in materia di economia, previdenza sociale e quant’altro oppure, un mandato esplorativo ed un conseguente “governo di scopo”, al fine di espletare le più immediate ed urgenti priorità istituzionali, sino al conseguimento di una appropriata legge elettorale. A complicare ulteriormente il quadro, la poca disponibilità, almeno a parole, da parte dei vari soggetti in giuoco, Lega in primis, (ma anche i Pentastellati, sino a poco tempo fa…e non è detto che, more solito, non ci ripensino…) a condividere con altri il governo del paese.

Comunque la si voglia mettere, ad uscire clamorosamente sconfitta da questo confronto elettorale, non è solamente la “sinistra” intesa quale aggregazione politica o partitica che dir si voglia, quanto una mentalità, un’assetto di pensiero che si sviluppa in una modalità di agire dalle molteplici implicazioni e che noi, per una questione di brevità semantica, definiremo “moderata”.  Sì, perché se non si fosse capito, a creare le premesse ed a portare l’Italia sul baratro di un disastro politico, economico e sociale, sono stati proprio loro, i “moderati” di tutte le salse e le risme.

Moderazione. Questa sembrava esser divenuta la parola d’ordine di tutte le formazioni politiche nostrane verso la metà degli anni ’90, a seguito della “vaporizzazione” della Cortina di Ferro e dell’euforia liberista da ciò ingenerata ed indotta e di cui gli scritti di un Francis Fukuyama, preconizzanti una quanto mai improbabile “Fine della Storia”, fecero da battistrada.

In Italia, la necessità di innestare un profondo processo di cambiamento e rinnovamento dell’intero assetto istituzionale e politico di un paese, rappresentato dal sorgere della Lega di Bossi e dal crollo del pentapartito a seguito delle inchieste di “Mani Pulite”, si tramutò ben presto in uno scontro senza soluzione di continuità tra due schieramenti sorti proprio al fine di contenere quelle istanze di cambiamento di cui abbiamo detto: la Sinistra buonista e “democratica” PDS/DS/PD e la Destra berlusconista.

I “ma”, i “però”, i “distinguo”, i contorsionismi politici, pronunciati al fine di non turbare troppo il nuovo assetto globale neoliberista, assursero ad irrinunciabile assioma, accompagnato dall’idea di un’economia liberista che tutto avrebbe risolto e felicemente regolato, a patto che ne fossero codinamente seguiti i dettami. Una crisi finanziaria dopo l’altra e ci si accorse che così non era, anzi.

Il generale peggioramento delle condizioni di vita degli Europei e degli Italiani, in particolare, accompagnati da un progressivo inasprirsi della pressione fiscale, le folli spese militari per spedizioni all’estero, in ossequio ai diktat della “Comunità Internazionale (leggi Usa…), lo strapotere e la sostanziale impunità delle istituzioni finanziarie, accompagnato da consistenti tagli alla spesa pubblica e previdenziale, l’impossibilità di perseguire delle autonome politiche di bilancio, accompagnate da incisive politiche di tutela delle proprie industrie, la pratica della delocalizzazione di queste ultime, al fine di abbassare il costo del lavoro, il tutto realizzato grazie ad accordi-capestro, impunemente sottoscritti sia a livello europeo (Maastricht, Lisbona, Direttiva Bolkenstein, etc.) che internazionali (Wto, etc.), la folle pratica di apertura delle frontiere e dell’ingresso di orde multietniche, al fine di sostituire la mano d’opera locale, con una servile d’importazione,a basso costo, priva di diritti, più facilmente manovrabile, al fine di stravolgere e snaturare pericolosamente i già fragili equilbri di un paese…

Questo mix di insicurezza sociale, rabbia e paura, è stato, da una parte, intercettato da alcuni settori di quello che era il raggruppamento moderato della destra “moderata”, ovverosia Lega e Fratelli d’Italia/An che, ripresentatisi al corpo elettorale all’insegna di un approccio “duro”, di tipo sovranista ed identitario, imponendo, pertanto, un radicale cambio alla tabella di marcia a formazioni prima ammantate di moderatismo.

Dall’altra parte, per il Cinque Stelle, il discorso è differente. Sorto improvvisamente sullo scenario politico nostrano, sotto gli auspici del duo Grillo-Casaleggio, al di là delle iniziale sparate anti sistema e delle garanzie di affidabilità conclamate a gran voce, permane un’entità politica proteiforme, in grado di smentire a piè sospinto, quanto poco prima proclamato, lasciando così in forte dubbio un avveduto osservatore politico. Dubbio rinforzato dall’esempio della pessima non-gestione della Capitale da parte della giunta Raggi. Non solo. Sono in non pochi a dubitare sull’autenticità delle intenzioni dei Cinque Stelle. Frasi di Grillo sulla funzione di “contenimento” della sua creatura politica, rispetto a spinte “estremiste” sullo scenario nostrano, la voce di una sua presenza sul panfilo “Britannia”, durante la fatidica riunione del ’94, la mai chiarita funzione della Casaleggio ed Associati, sino al sospetto di rapporti con alcuni settori della massoneria britannica, contribuiscono ad incrementare tutti quei dubbi precedentemente esposti.

A questo punto, diviene d’obbligo il classico “che fare?”.  Ad onor del vero, in un simile scenario non ci si può più affidare a forze minoritarie, dell’ una o dell’altra parte, troppo spesso ammantate di sterili nostalgismi ed ancora immerse in contrasti ed aporie tali, da non renderne più credibile l’azione politica se non ad un livello settoriale, “di nicchia”, quale può essere quello prettamente giovanile, tanto per fare un esempio. Rimane, invece, molto più realistica e sicuramente praticabile, l’idea di un’interazione con quella, tra le forze maggioritarie presenti sullo scenario, che più può avvicinarsi a tematiche autenticamente sovraniste ed identitarie.

Tra tutte quelle forze che oggi si presentano quale alternativa al sistema, la Lega è, al momento, quella che maggiormente sembra voler portare avanti certe tematiche. Certo, anche qui, il condizionale è d’obbligo, viste le cadute del passato. Ma proprio in virtù di quella discontinuità di cui abbiamo parlato e  di cui la “gestione” Salvini sembra essere il classico esempio, è da qui che si dovrebbe ripartire per iniziare un reale percorso di cambiamento, spingendo per emarginare e ricacciare nei retroscala della Storia, qualunque tentazione “moderata”.

Non sarà una battaglia facile. Troppi pregiudizi, troppe pressioni, troppi interessi, ancora brigano in tal senso. Ancora si debbono iniziare le trattative per un governo. I grandi sconfitti della contesa, i “moderati” di sinistra e di destra, non si lasceranno certo togliere senza far storie, l’amata poltrona. L’Europetta di Frau Merkel, dell’ubriacone Juncker e del presuntuoso ed ipocrita Macron, oltre ai servetti del Financial Times, con vari toni, hanno detto che non gradiscono…

Resta comunque che, di queste elezioni, i grandi sconfitti sono loro, i moderati, i buonisti, i liberal-progressisti da salotto, gli slavati europeisti da Master alla Luiss. Un segnale molto forte, in tal senso, è pervenuto anche agli altolocati papaveri globalisti, alla Soros. E non è una sconfitta da poco, momentanea. E’ la prima, cocente batosta, per un contesto politico ed ideale, che ha avuto tutte le occasioni di questo mondo per dimostrare che la ragione stava dalla propria parte ed invece ha, a più riprese, “toppato”, uscendo in modo irrimediabile dall’orizzonte ideale dei popoli europei.

Un’altra era va, dunque, profilandosi. Un’era i cui esiti sono, se vogliamo, ancor più incerti di quella del benessere a gogò, che ci ha appena preceduto. Si tratta di riuscire ad evitare il declino dell’Europa e dell’Italia e di riconquistare il benessere materiale e spirituale che fu di quell’Europa, che ebbe un ruolo centrale nella Storia del mondo. Ora, a dispetto di Francis Fukuyama e di tutta la corte dei tartufi buonisti e progressisti, la ruota della Storia, per l’Europa, sta ricominciando, pian piano, a girare. E non è cosa da poco.

UMBERTO BIANCHI

  Fonte immagine viagginews

Il sogno del Cavallo – Sandro Giovannini

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Che ci fosse sopra, sotto, intorno, un’idea d’inganno non affiorata alla coscienza, lo sospettavo. Quella spinta così prepotente che si era imposta in me di realizzare effettivamente il grande cavallo, al di là della congerie d’impulsi determinatasi senza un’apparente causa, era d’evidenza innegabile. La furia ideativa e creativa non s’è fermata per un anno intero anche se ho continuato a fare contemporaneamente anche altre cose. Ma ero certo, ogni mattina, con il sole o la pioggia, freddo o caldo, che era quello che volevo perseguire, in un’abitudine assurda e compiaciuta, dove, alla fine, anche la stanchezza fisica trovava un suo quotidiano, meritato, riposo.

“...Un approccio psicologico significa quel che dice il suo nome: una via psichica al mito, una connessione con il mito che procede attraverso l’anima, includendo specialmente la sua bizzarra fantasia e la sua sofferenza (psicopatologia), un disvelare ed estrarre l’a

[caption id="attachment_26552" align="alignright" width="300"] Il Cavallo del Fato[/caption]

nima riconoscendone importanza mitica e viceversa. Infatti è soltanto quando la psiche si riconosce come una messa in scena di mitemi che può ‘comprendere’ il mito, sicché una esegesi psicologica del mito ha inizio con l’esegesi di se stessi, con il ‘fare anima’. E, reciprocamente: soltanto quando il mito è ricondotto nell’anima, soltanto quando il mito assume importanza psicologica diviene una realtà vivente, necessaria per la vita, e cessa di essere un artificio letterario, filosofico o religioso...”. (1)

 

Benissimo... che io ne fossi convinto o meno, o meglio che mi sfiorasse il potente dubbio che una certificazione psicologica comunque fosse e sarà sempre una buona sequela per rintracciare l’orma di verità comode o scomode, soprattutto per evitare che l’interpretazione a posteriori confermasse l’esaltazione fissata, (2) in questo caso latamente o strettamente artistica, direi che, mano a mano che i giorni utili crescevano ed il grande cavallo prendeva forma, il mio ‘fare anima’ si rinforzasse. Ma è come se tale intuizione fosse, platonicamente, il rivolgimento della coscienza dal sensibile al soprasensibile, che però come ben sappiamo non è di ordine logico-discorsivo, ma d’ordine noetico e favorisce l’uomo nel presagire progressivamente l’anima, l’intero, l’intelletto puro, il Nous, ovvero ciò che, in consapevolezza crescente, permane invariabilmente costante dietro l’apparire ed il divenire...

La stessa confusione delle forme, con da una parte il “valore avido di pericolo”, al modo di Seneca (...ma è già tutto l’alto pensiero greco, da Erodoto ad Eschilo, che presenta il coraggio di esporsi al pericolo ed alla sofferenza come primaria possibilità d’una conoscenza piena della realtà esterna assieme a quella del nostro animo) e, dall’altro estremo, il calcolo più strettamente esigibile partendo dalla predisposizione al rifiuto totale del rischio che vorrebbe oggi dominare (in tutti i campi) in un certo tipo di società consumisticamente sedata e medicalizzata, potrebbe così trovare al suo centro non la separatezza selvaggia artemidea od ermetica nell’odierna versione anarcoide, o la borghese soddisfatta autoesclusione normalizzata(si) ed esclusa(si) dal tragico, o l’atarassia fasulla della governance, o l’esotico approdo nel nirvana, od una più corriva e stanca evasione dalla storia, quanto l’investigarsi socratico, spinto ai limiti del potenziale umano (persino post-umanistico), ma sempre rammemorante l’inquietante daimon. La forma allora si confonde in uno, nel suo stesso processo di formazione, che è una vocazione impregiudicata ancor prima di essere un’invocazione consapevole od una scelta apparentemente lucida. Alla fine, se ben sperimentiamo, ci rendiamo conto che sono sempre i nostri sistemi ontologici, penetrati nella (dalla) persona e catafratti nella società, qualsiasi possa attestarsi la nostra più spinta consapevolezza, a scegliere per noi.

Se poi comunque la fatalità ci inganni, se sembri divorarci tutto il tempo e lasciarci come gusci vuoti, dopo le infinite consumazioni subìte o temute, comunque gelidamente operanti, noi possiamo ancora implicarci in un totale vittorioso capovolgimento del nostro atteggiamento. Almeno del nostro. La malia del mondo olimpico: un’onesta incuranza per la necessità imposta(ci), l’attrazione della universale competizione (sperabilmente, per noi) non finalizzata, (agire senza agire). Cercando di non rimanere stregati all’interno dello stesso cerchio magico che ci siamo creati da soli, con tanta fatica ed intelligenza o d’illudersi di poterne fuoriuscire facilmente. Raggiungendo quella fine misura delle ‘affinità elettive’: “... chi vuol liberarsi dal male, sa sempre quel che vuole, chi vuole qualcosa di meglio di ciò che ha, è sempre cieco...” Riflessione utile anche per porci di fronte al baratro della responsabilità... verso il fare, che non è solo, allora, goethianamente, il fare comprensibilmente umano contro la sofferenza, ma il fare ben al di là delle stesse avversità, odi, timori, ingiustizie, falsificazioni, incomprensioni, potenza tamasica. Non solo, ovviamente, nel fare artistico. Avremmo allora incredibilmente ancora risorse (le ricostituiremmo per osmosi) per assumerci la responsabilità del destino di fronte a questa vacuità che attira come un vortice.

D’altra parte riconfortiamoci: se scopriamo definitivamente che anche quella che chiamiamo psicopatologia è un modo essenziale della vita psicologica, un luogo comune (il dicibile/indicibile/ineffabile, perché prospettivamente di tutti, per tutti, ma senza alcuna banalità) della vita... come anche la clinica ha spesso dovuto ammettere, pur grandemente turbandosi e rendendosi fondamentalmente inetta a penetrarla soprattutto rispetto a certi plessi di cosiddetta “depravazione” (...il balbettio della comunità), sappiamo però ancor di più che ogni vacuità ed ogni destino, quindi ogni errore/orrore e controscelta, sono anch’essi dentro il mito costitutivamente ed inespugnabilmente, dentro la cognizione del dolore e del piacere e quindi in noi fin dall’inizio dei tempi e vi staranno fino alla fine. La strategia di sognate negazioni, dissimulazioni, silenziamenti o sedazioni orwelliane del dolore, come l’opposta strategia dell’avviluppamento dell’intero universo nel dolore (meno nel piacere), rivelazioniste od orientaleggianti, non ci faranno meglio penetrare nelle categorie del tragico (qui e ora... non solo di un tragico filologico) ma nel grottesco. Questo lo verifichiamo costantemente e possiamo crederlo per accertamento. Qui allora si squaderna definitivamente il vero inganno della storia lineare, ma questa rivelazione non appare, appunto, per esaltazione fissata, ideologica, ma per conquista operativa.

Ovvio che non possiamo fare - allora, partendo dal posteriore - delle artificiali “costruzioni mitiche”: “...Queste non sono perciò rappresentazioni mitiche, ma costruzioni mitiche. In un certo senso viene messa in atto più verità mitica nel vicolo che nei templi siciliani di Crowley o in un laboratorio di psicodrammi californiano dove si eseguono danze paniche...”. (3)

In tal senso l’opera che nasce dalle nostre mani deve rifuggire anche - come deviante deriva - dall’eccessiva costruzione artificiale a priori. Non essere quindi programmata come artificiale, per quanto di artificiale abbia tutto, poi, resa in atto, ma come un’evenienza irresistibile - dati certi percorsi d’autoformazione. Ma non è la parodia risibile del creativo, dell’attimo fuggente, del maledettismo, dello sregolamento, della devianza. Perché fantasia e comportamento, il dentro ed il fuori, non siano (sono) antitetici ma una sorta di continuum. Certo questo non sarebbe scuola, od in parte laterale, ma vita. Un continuum ibrido, denso, per nulla sistemato, a priori. Verranno dopo le sistematizzazioni, le giustificazioni, le attente analisi. Pur utili. Ma la ragione prima è la stessa dell’impulso incontrollabile, perché del tutto panico. Ciò è l’archetipico, ma non certo per una riflessione posteriore (o meglio... la riflessione può entrarci - è persino inevitabile - per non perderne il profumo ed il sapore - sin dall’inizio... entrare in quel continuum, ma con estrema discrezione, come memoria degli istanti originarii), quanto per una pregnanza indissolubile. E questo non impedirebbe, poi, il massimo possibile d’autoriflessione.

E d’altra parte ancora non è che possiamo (un esempio fra altri) raccogliere il senso di una “negatività dialettica” alla Kierkegaard, costitutiva dell’essenza dello spirito, da una parte come opposizione alla dialettica idealistica classica che alla fine tese comunque a conciliare la gnosi con la rivelazione o dall’altra, all’opposto tavolo di lavoro, la dissezione infinita, come sotto la lente pur validamente cangiante ma sempre decostruttiva del positivismo scientifico. Ed ancora il discorso sulla necessità del recupero del tragico che viene avanzato dal migliore Pensiero di Tradizione attuale (Sessa, Damiano, etc...) si determina proprio in totale contrapposizione alla spinta che enormemente preme dal basso (soprattutto come contesto occidentalista, ovviamente) di una fuga dalla responsabilità, per effetto della... “...convinzione che i processi di recupero di ciò che preme sulla coscienza per essere redento dalla sua inerzia o dal suo disfacimento (il dolore, il passato, la memoria, la colpa, la morte) non possano ormai sensatamente intendersi se non in forma di miti, allegorie, creazioni artistiche, configurazioni del desiderio. Molte situazioni della vita delle persone (dolore, malattia, vecchiaia, morte) vengono infatti giudicate ormai irriscattabili, perché non possono più venir ritenute seriamente redimibili, né in un aldilà religioso, in una condizioni di risarcimento paradisiaco per il male sopportato, né in un futuro laico di generale soddisfazione terrena, mediante l’avvento di una società migliore, che toccherà in eredità ai nostri pronipoti. La trasformazione magico-alchemica del negativo in positivo e le promesse di ripagare le sofferenze patite nel presente per mezzo delle gioie fatte balenare nell’avvenire sono per molti diventate inattendibili. Si tende di più a sfruttare le occasioni e a vivere nel presente, sembra prevalere il desiderio di cogliere immediatamente, come doni irripetibilii, i rari momenti dell’amore, dell’amicizia, del piacere o del benessere, che altrimenti non potrebbero più tornare. E, parallelamente a sopportare nello stordimento e nella cupa rassegnazione un dolore ridiventato inspiegabile, una pena la cui sopportazione non mostra alcun elemento di nobiltà d’animo...” (4)

Dei tanti tragici (semplificando al massimo), di cui il postmoderno può tener conto, quello mitico, quello fideistico, quello romantico, quello idealistico, quello nichilistico, quello decostruttivo, etc., nelle loro partitarie innumerevoli declinazioni, noi abbiamo come riferimento primariamente quello mitico, proprio per la sua originarietà indiscutibile e perché porta in sé il minor peso possibile di una consumazione storica che ci può impedire sovente di coglierne gli elementi essenziali. Discorso non privo, comprensibilmente, di pericoli e contraddizioni, anche perché noi siamo consapevoli che il tragico come strumento, in un mondo del trapasso, è fondamentalmente diverso da quello che si imporrà, assieme a tutte le dimensioni della leggerezza e della gioia e persino dell’esaltazione, in un universo che abbia potuto effettivamente superare la crisi nihilistica.

In tal senso ora procediamo a rivolgerci originariamente alla dimensione triadica dialettica, ove riscontriamo, comparativamente, ogni tipologia archetipica. Rivelante, in quanto fondante, ogni altro tipo di ricomprensione rivolta all’origine.

Riflettiamo, quindi, della dialettica, la dimensione ontologica. Allora sappiamo bene che oltre alla trinità assiso-babilonese, la dimensione originaria ne declinava ben altre. C’erano quelle induiste, buddiste, greche, etrusche, romane, galliche, iraniche... Ancora Adamo di Brema, diceva che nell’antico tempio di Uppsala, in Svezia, nel XIII secolo, venivano persistentemente venerate le statue di tre divinità: la più potente, Thor, aveva il trono al centro, ed invece, ai lati, Odino (Wotan) e Fery (Freyr). Nel culto di Mitra, vi è una triade formata da Ormuzd, Anahita, Mithra. Nelle tradizioni dell’estremo oriente, fin dai Veda a noi noti, ricorre sempre il tre. Brahma, Visnù, Shiva. Dalla metafisica aria, per la manifestazione del sacro. Tutto sembra, dal centrale al laterale, dall’ordine alla devianza, dall’equilibrio alla sproporzione, dal femminile al maschile, dall’attrazione alla repulsione, persino in ogni innegabile evenienza specifica, doversi rimoltiplicare all’infinito per tre, come inarrestabile processo dialettico...

[caption id="attachment_26553" align="alignright" width="300"] l'YPPOS, la nave fenicia[/caption]

E, i tre orizzonti dello scenario ontologico, corrispondono, nella dimensione antropologica, ai tre stati di coscienza dell’uomo: la veglia, il sogno ed il sonno profondo, sperimentando che ognuno di tali stadi fondamentali, preso a sé, ha potenti attributi sugli altri, ma, che, nel terzo stadio, mirabilmente riassuntivo dei due (...perché della “…stessa sostanza del Padre”), si determina una complessione che “....riposa nello spazio che è interno al cuore”... apprendre par coeur... e...“...ci fa muovere a piacimento nel nostro regno” (6) e ciò, almeno in apparenza, del tutto autonomamente oltre ché spontaneamente. E, comunque, in ricerca tramite tante vie, qui al mezzogiorno, nella piena luce senza ombra (perché poi dobbiamo riconoscere che è la fase di veglia trasfigurata, che sperimenta e che invera le altre... ed è dalla veglia comunque che moriamo, ovvero interrompiamo la nostra venuta al mondo...), il tempo si potrebbe arrestare, come lo spazio indefinirsi, nel fornirci l’esempio concreto del centro, quell’unico (moltiplicabile) centro nostro e solo... un continuum (dei tre stati) rivelatosi efficace. La stessa teoria del piacere e del dolore, l’infinita diatriba sul chi abbia più consistenza ontologica o preminenza gerarchica, fondante linee spirituali, religiose, filosofiche, (ed ora anche scientifiche… basterebbe approfondire solo un poco la ricerca neurobiologica sugli arti fastasma e sulla predeterminazione del sistema nervoso centrale…), qui si potrebbe spegnere, nel continuum, nel centro realizzato, almeno in parte ed in divenire.

Il sogno del cavallo, allora, s’era insediato giustamente nel secondo stato di coscienza, come in una sua dimensione centrale ed in fondo inespugnabile, ma baluginava dal profondo l’archetipo insondabile e riportava sempre poi, e ci riporta ancora ora, nella veglia, al rifrangersi infinito nello specchio che noi ricreiamo ad arte. Comunque in quell’intelligenza del rischio, di scoprire parti presentite (e forse, in parte almeno, sperimentate) e di metterle in un duro gioco senza eccessiva paura o timore del secolo. Poi in quella veglia quotidiana, che ci fa estraneo il cavallo per la sua diversità radicale ed assieme orma indelebile e muta della memoria ancestrale... quindi contemporaneo. Col suo essere innegabilmente rozzo e raffinato assieme, qualcosa del noi più reagente, forse persino discentrato, ma vitale...

Cosa importa se sia stato solo l’enosichthon, (7) lo scuotitore di terra, la parafrasi di un terremoto che esclude la conquista, forse a ricordare un rivolgimento epocale od una disgrazia somma, una decadenza innegabile nei secoli od una specifica guerra spietata, oppure quell’yppos, (8) quella concava nave dei doni e delle primizie dedicate agli dei della terra e del mare per impetrarne accoglimento o dipartita... o tutte e due? Non lo sapremo mai e tutto sommato poco importa farne un’esegesi che soddisfi la necessità, pur comprensibile, delle corrispondenze esterne.

Osserviamo invece come il sogno del cavallo si sia solidificato e poi catafratto in una storia ben più ampia del solo inganno, del solo espediente, della sola realtà della follia... Noi siamo andati dalla mitica distruzione per fuoco di Troia, tramite il cavallo, dentro il cavallo, sulle statue sopra il cavallo, anche negli specchi che riflettono i nostri dubbi e le nostre certezze e la nostra stessa ventura di uomini consumati dalla civiltà terminale, fino alla scaturigine dell’idea, fino a quel concretissimo SPQR, (9) nato dal fuoco, che brucerà per sempre, nello stesso fuoco della disperazione, del sacrificio, della rinascita.

Note: 1) James Hillman, Saggio su Pan, Adelphi, 1977, pag. 29. 2) Ludwig Binswanger, Tre forme di esistenza mancata: esaltazione fissata, stramberia, manierismo, Bompiani. 3) J. Hillman, cit., pag. 89. 4) Remo Bodei, Il senso della sofferenza, in: “Piacere e dolore”, CUEN, 1999, pag. 44. 5) Ginette Paris, La grazia pagana. Artemide, Hestia, Mnemosine, Moretti e Vitali, 2002. 6) Bṛhad-āraṇyaka-upaniṣad, II, I, 17. 7) “...Il racconto tradizionale della fine di Troia è, in realtà, talmente debole che secondo il solito Dione di Prusa (Orazione, XI,118) la guerra si sarebbe conclusa con un accordo che lasciava la città in mano ai Troiani, e dunque con un sostanziale fallimento della spedizione (da notare che, dagli scavi condotti nel sito di Troia, non risulta che vi sia mai stato un insediamento acheo nella città). Interessante l’ipotesi, già avanzata da F. Schachermeyr (Poseidon, Bern 1950, 194), e recentemente riproposta da E. Cline (Poseidon’s Horses: Plate Tectonics and Earthquake Storms in the ‘Late Bronze Age Aegean and Eastern Mediterranean’, “Journal of Archaeological Science” 27 [2002] 43-63, nonché, con specifico riferimento a Troia, Troy as a ‘Contested Periphery’: Archaeological Perspectives on Cross-Cultural and Cross-Disciplinary Interactions Concerning Bronze Age Anatolia, in “Hittites, Greeks and Their Neighbors in Ancient Anatolia: An International Conference on Cross-Cultural Interaction”, Atlanta, 17-19 September 2004), secondo cui il cavallo di Troia sarebbe da considerarsi come metafora di un terremoto, essendo il cavallo animale sacro a Poseidone, «scuotitore della terra» (Enosichthon)...” Da: Eleonora Cavallini, a Proposito di Troy, Quaderni di Scienza della Conservazione, pag. 301-333, nota 50, pag. 328. 8) Secondo la recente teoria dell’archeologo navale Francesco Tiboni... 9) Iliade, XX, 208..., “La profezia di Enea”, Heliopolis Edizioni, collana Tabulae, varie edizioni.

  Sandro Giovannini

Il Castello dei cavalieri a Rodi – Gli affreschi scomparsi. Emanuele Casalena

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La damnatio aeterna ha il volto tragico della xìrias, maschera tragica del vecchio senza memoria. Quel che fu è sepolto nell’oblio, rimosso dagli inetti con l’ orecchie cerate per non udire il canto della nostra Storia. Anche queste elezioni, snobbate dalla supponenza degli aristogatti del purismo, segnano la volontà, magari un po’ guascona, di riprendere un cammino interrotto brandendo l’orgoglio nazionale, chiamato dai cretini rossi populismo, parola magica come antifascismo, con identico significato  l’essere contro l’eretico dissenso. Abbiamo assistito impotenti o al più bubbolanti  su fb alle sfilate carnascialesche dei lanzichenecchi  contro i “ lebbrosi spirituali ”, così definiti dall’inquisizione, i sedicenti fascisti, sappiamo, numeri alla mano, com’è finita. E’ sempre di quel fantasma che i paragnosti di  regime dicono di sentire  il perfido ghigno nelle sale del loro castello blindato. Quel maledetto assassinato senza processo, seviziato, sputacchiato, appeso “giù la testa” a una pensilina, proprio lui uomo dell’anno 1917 per un quotidiano romano.. Un fenomeno paranormale inquietante, occorrono i ghostbusters dell’ANPI per stanare l’ectoplasma e liberare dalla sua presenza il maniero. Speriamo sia finita questa pantomima.

Qui parleremo d’altri fantasmi che in apparenza non c’entrano niente, ma ci torneremo sopra, cominciando con un classico C’era una volta un imponente castello con torri ed alte mura merlate, inespugnabile al nemico, baluardo invalicabile d’ un Ordine sovrano, il castello di Rodi. Questa arcigna fortezza era dell’Ordine gerosolimitano dei Cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme, oggi conosciuti come Cavalieri di Malta quelli, per intenderci, appollaiati sopra all’Aventino. Quest’Ordine ospitaliero emise il suo vagito nel 1048 partorito da una puerpera di mercanti della Repubblica marinara di Amalfi. Per ecumenica concessione del Califfo d’Egitto, ottennero il placet di costruire, nella Città Santa, una chiesetta con annessi convento ed ospedale.  Lo scopo era di accudire, cum  fraterna caritate, ai tanti pellegrini che arrivavano stremati in Terra Santa dalla  Francigena meridionale, offrendo loro cure sanitarie ed assistenza dopo l’ interminabile viaggio. I cavalieri non erano una moderna Onlus pelosa ma monaci professanti tre voti cardinali: povertà, castità, obbedienza.  Papa Pasquale II, con bolla del 15 febbraio 1113, pose sotto tutela della Chiesa l’ospedale lasciando però al capitolo dei frati massima autonomia di autogoverno. Il profilo ispiratore dell’Ordine laicale fu, in principio, quello benedettino dell’ora et labora,  in seguito i monaci abbracciarono quello eremitano degli agostiniani. Ma i consacrati non brandivano soltanto il crocifisso, impugnavano anche la spada per difendere i pellegrini da briganti e ottomani lungo la rotta verso il Regno di Gerusalemme. Nel 1291, con la perdita della Terra Santa, l’Ordine si trasferì pro tempore nell’isola di Cipro dove aveva acquisito numerosi beni. Ma nel 1306 il Gran Maestro Foulques de Villaret conquistò in armi l’isola di Rodi, nel Dodecaneso, sconfiggendo i turchi con la flotta navale offerta all’Ordine in leasing  dal Governatore Vignolo de’ Vignoli che, da buon genovese, fece un grande affare.  Tre anni dopo, nel 1309,  Rodi fu   proclamata Stato indipendente, baluardo del Cristianesimo verso il Medio Oriente. Nello stesso anno presero inizio i lavori di edificazione del  castello sulle rovine d’un antico palazzo bizantino ed ancor prima di un tempio alle pendici dell’Acropoli, termineranno col 1346, parrebbe un’opera dell’Italia odierna, visti i tempi. La continua minaccia ottomana spinse in seguito il Gran Maestro dell’Ordine, Emery d’Amboise, ad ampliare la fortificazioni del Palazzo, siamo nel 1505.  Il successore Philippe Villiers de L’Isle-Adam proseguirà l’opera difensiva nel 1521 dopo la sua investitura a Gran Maestro. Ma il gatto mussulmano  incombeva sulla preda, spiccò il balzo e a nulla valsero le richieste di aiuto in armi e uomini, l’Ordine dei cavalieri di Rodi  restò da solo a  pugnar forte per la sovranità del piccolo Stato contro gli ottomani di Solimano il Magnifico ( narcisismo mediceo?) arrivati con 400 navi e circa 60.000 soldati. L’assedio durò ben sei mesi dal giugno del 1522 al 22 dicembre dello stesso anno quando i cavalieri superstiti ottennero di lasciare incolumi la loro roccaforte per rifugiarsi a Malta. La lunga resistenza dei monaci soldati è infarcita di autentico coraggio e acume militare contro un nemico in schiacciante supremazia d’ uomini e mezzi. Quel castello inespugnabile, il migliore mai costruito in Europa, con i suoi terrapieni, gli 8 metri di spessore delle mura, le sue alte torri merlate, presentava ormai strappi d’artiglieria come le calze di una donna. Così Angelica cadde tra le braccia di Medoro il saraceno e Orlando, sconfitto non solo in armi ma nel cuore, dovette per mare raggiungere le coste maltesi, di certo non mancò il valore per difendere l’isola del Colosso, perla nel Mediterraneo d’una cristianità guerriera lontana anni luce da quella di Bergoglio.

Il 1856 fu un anno infausto per il Palazzo dei cavalieri, saltò per aria la polveriera del castello mettendolo in ginocchio, un fatto simile aveva pugnalato il Partenone di Atene dove i turchi avevano ammassato armi e polvere da sparo nel doppio νάος,  centrato da una cannonata veneziana, fece Bum!!! Con quel che più non resta. C’era una volta anche un’Italia colonialista, contro un’Europa nostra storica nemica, cercava di conquistarsi nuove terre nel mare nostrum, toccò alla Libia, era il 1912. I berberi delle Tripolitania e della Cirenaica facevano un’imprevista resistenza grazie all’aiuto logistico di militari turchi. Si decise allora d’ aggredire territori ottomani come le isole del Dodecaneso, una manovra di disturbo ben riuscita tanto che l’arcipelago e la  Libia divennero tricolori col trattato di Losanna sottoscritto dalla mezza luna nel 1923.

Dal ’12 al ’23 gli investimenti italiani nel Dodecaneso erano stati, a dire il vero, di entità assai modesta proprio per l’incertezza sulla “ proprietà ” ufficiale di quei territori occupati; ma dalla firma del Trattato gli interventi si moltiplicarono per italianizzare quelle isole. Fra le tante opere si decise di ricostruire ex novo il Palazzo dei Maestri cavalieri  di Rodi così come ci appare oggi, con una cesta di sofismi sulla tipologia di restauro da seguire, se asciutta filologia o con mega  deroghe per farne una sontuosa residenza estiva del re Vittorio Emanuele III oltre che la sede del Governatorato. Da qui inizia un’altra fiaba sempre con c’era una volta un gran bravo pittore  di nome Pietro Gaudenzi, genovese del 1880 trapiantato a Roma, direi di più ad Anticoli Corrado dove si spense nel ’55. Il suo palazzo baronale, che aveva acquistato, è un autentico luogo dell’anima, palpi nel grande studio una densità quasi materica di quella sacralità che sempre sposa l’arte alla sua fucina, il genius loci non è un satiro bizzarro ma il pensiero macinato che si rende opera studiata, sapiente.  Dotato di un giardino pensile all’italiana con aiuole incorniciate dai bossi, respiri il lirismo pacato, ancestrale del mondo sbucciato dalle sue croste, ti avvolge di un prezioso mantello mentre sorseggi un caffè e traguardi il verde intenso dei monti, si risveglia la poesia dei pochi autentici valori, il lavoro dei campi, il tempo dilatato dei luoghi, la famiglia amata, gli stessi che Pietro dipingeva con asciutta grandezza.

[caption id="attachment_26573" align="aligncenter" width="1090"] Pietro Gaudenzi, lo sposalizio, olio su tela, 1932[/caption]

Ne aveva fatta di strada quel figliol d’un musicista bergamasco tra opere premiate e riconoscimenti accademici, dalla sua Genova a Roma nel 1904 fino a quel paesino bucolico, incantato dove dall’Ottocento s’era fermati stuoli d’artisti squattrinati in cerca dell’Arcadia. Era già famoso Anticoli Corrado ( dal nome di Corrado d’Antiochia ), le sue pastorelle posavano per pittori e scultori ma anche gli uomini facevan da modelli all’occorrenza. Lì conobbe la sua donna Candida Toppi modella come papà Francesco, convolarono a nozze nel 1909. L’uomo del nord scoprì in quei  luoghi ameni la fusione tra materia e spirito depurati, ciascuno, d’ ogni inutile retorica dove ciò che vediamo è senza la maschera dell’apparire. Questa simbiosi sarà il suo stile di narratore verista col pennello o con le tessere musive. Fu un amore inteso quello tra Pietro e Candida le cui sorelle si mariteranno tutte con artisti compresa Augusta seconda moglie di Gaudenzi. Dall’unione, in nove anni, nasceranno quattro figli, i primi due, Leonardo e Ruggero, voleranno  via quand’ erano  teneri germogli, resteranno Enrico, anche lui valente pittore e Giuliana. Quand’ero piccino  i nonni mi parlavano ancora della “spagnola” un’influenza cavaliera della morte in tutto il globo, si portò via, in due anni, milioni di persone tra 25 e il doppio. Insorse nel 1918 portandosi via anche Candida modella di uno splendido dipinto in veste di madonna con bambino, era il celebre quadro interrotto. Le setole non pescheranno più i colori, riposeranno nel bicchiere dal momento che lei aveva varcato, d’improvviso, la soglia dell’ultima porta.  La tela resterà un non finito a testimoniare il tempo che si arresta alla prematura scomparsa della sua Musa e sposa, una poesia a olio a lei dicata, un epitaffio alla sua memoria.  Lo stesso Pietro trasformerà poi il dipinto in un’opera sacra, votiva, aggiungendo una leggera aureola dietro il capo di Candida e fornendo il quadro d’ una cornice dorata con sportelli per custodirne privatamente il ricordo, la trasformò in un’icona.

    [caption id="attachment_26571" align="alignleft" width="236"] Pietro Gaudenzi, il quadro interrotto, olio su tela, 1918 ca[/caption]

Pietro resta a Milano, città vulcanica per l’arte italiana negli anni ’20, si pensi a Novecento, mercato importante per le sue gallerie, la risonanza dei critici, l’illuminata borghesia industriale. Numerose le sue partecipazioni alla Biennale veneziana dal ’20 fino al ’42, alla Quadriennale romana, alla Mostre d’Arte sacra, condite di Premi e riconoscimenti. Nel ’35 quando torna definitivamente nell’amata Anticoli Corrado, Pietro è un artista di prua nel panorama italiano, impegnato anche nel sindacato fascista e vicino al progetto di arte nazionale di R. Farinacci ideatore del Premio Cemona che Pietro vinse nel ’41. Sempre in quel 1935 era convolato in seconde nozze con Augusta, la sorella di Candida che gli darà altri due figli, Iacopo e Maria Candida. Già professore emerito delle Accademie di Genova e Parma, proprio nel ’35 gli fu assegnata la cattedra di pittura all’Accademia di Napoli, nel ’36 vince il premio Mussolini nelle arti, nel ’37 è accademico di S. Luca, nel ’39 accademico d’Italia, nel ’40 viene insignito della medaglia d’oro dal Ministero dell’Educazione nazionale. Questo in riassunto “ Bolaffi ” per chiarire che Gaudenzi godeva di chiara fama nazionale nel campo delle arti, questo spiega l’affidamento alla sua mano degli affreschi per il castello dei cavalieri di Rodi. Vi chiederete quale fosse il suo stile, beh da un amore per la pennellata veloce, memoria dell’impressionismo o forse ancor più della scapigliatura, la tavolozza si era dimagrita, il segno aveva scelto una composta severità, l’attimo che passa si era trasformato in assorta meditazione compositiva, il realismo delle immagini si spogliava del tempo per varcare la soglia del’eterno. La lezione di Sironi era magistrale, impossibile non recuperare dalla storia il rinascimento spogliandolo di tutto il superfluo e dandogli i panni del presente. Definiremmo il suo stile lirismo magico, là dove coglie dalla realtà l’essenza dello spirito dell’uomo nella sua grande dignità di natura naturans, il tutto senza l’ombra di orpelli.

La Galleria del Laocoonte a Roma nell’ottobre del 1914 dedicò una vernissage agli affreschi scomparsi di Pietro Gaudenzi nel Palazzo dei Maestri cavalieri di Rodi. Fu il Governatore dell’Egeo e dell’isola della rosa ( significazione di Rodi ) Cesare Maria De Vecchi a commissionare il ciclo pittorico al valente pittore genovese, da eseguirsi nelle sale poste al secondo piano del castello. I temi erano cari al fascismo, il pane e la famiglia in tempi di orgogliosa autarchia. Sappiamo dalla testimonianza del figlio Jacopo che il papà si mise all’opera nel ’39 e proseguì fino ai primi anni ’40. Dopo l’8 settembre del ’43 le truppe tedesche, pur in netta inferiorità numerica, occuparono con la forza Rodi l’11 del mese ed a seguire, fino al 17 novembre, le altre isole del Dodecaneso sottraendole al Governatorato italiano che s’ era girato il pastrano schierandosi con gli Alleati dopo il voltafaccia di Badoglio. In seguito Rodi venne occupata fino al ’47 dall’esercito inglese, quella “follia fascista” come aveva definito la ricostruzione del Castello la stampa anglosassone, divenne sede del loro Comando succedendo alla Wehrmacht tedesca. Gli affreschi scomparirono nel nulla, volatilizzati , finiti in Germania? in Inghilterra? Solo ipotesi, se prima o dopo il 10 febbraio del ’47 quando l’Italietta di De Gasperi cedette tutti i  territori dell’Impero agli Alleati, Grecia compresa. Si suppose che quei dipinti, testimonianza del fascismo, fossero stati censurati con un “braghettone” di bianco, un po’ come accadde all’affresco di Sironi nell’Aula Magna del Rettorato della Sapienza a Roma. Quelle stanze restarono blindate per anni, inaccessibili a studiosi o semplici turisti, quasi a nascondere un misfatto. La realtà cruda testimonia che i muri affrescati sono stati scalpellati fino a riportare a vergine i blocchi di arenaria, il pavimento d’ antichi mosaici  ricoperto, il muro divisorio con camino abbattuto, questo è lo stato dei luoghi, una canaglia di “ fantasma “ li ha resi tali.          

Era il capolavoro di Gaudenzi, l’impresa di più vasto impegno e respiro, è stato divelto o strappato via, finito chissà dove, magari rivenduto a pezzi come una pala o distrutto perché non ci fosse memoria alcuna dell’arte dell’invasore, una pulizia etnica delle figure italiane che narravano il duro lavoro dei campi, la mietitura del grano, la fragranza del pane, o ancora lo sposalizio della vergine, la visitazione, la natività. Erano personaggi di Anticoli che vestivano con inalterata dignità le vesti dei lavoratori, delle massaie per poi cambiarli con quelli sacri della famiglia di Nazareth. Gli umili restano tali, le donne di Gaudenzi sono segnate dalla vita ma portano in carne una sapienza arcaica che venera la terra miniera di vita.

[caption id="attachment_26566" align="aligncenter" width="700"] Pietro Gaudenzi, cartone della natività, 1939 ca[/caption]

Ma l’Italietta pifferaia dei potenti in oltre settant’anni ha voltato le spalle, in fondo erano opere che incarnavano lo spirito del fascismo, meglio se distrutte da antesignani talebani alla Boldrini, papè satan aleppe, papè satan ma come infinite volte la poesia cancellata, dimentica gli scadenti attori e riaffiora sulle labbra dei credenti creduti fantasmi.

Emanuele Casalena Bibliografia
  • Amarilli Marcovecchio, Pietro Gaudenzi, Dizionario biografico degli italiani, vol. 52, anno 1999 Enc. Treccani.
  • Civico Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Anticoli Corrado, Pietro Gaudenzi: gli affreschi perduti del Castello dei Cavalieri a Rodi.
  • Maria Onori, Le modelle di Anticoli, il Manifesto del 22 settembre 1917
  • Galleria del Laocoonte, Pietro Gaudenzi, gli affreschi perduti del castello dei cavalieri a Rodi.
  • Via Gallica, la Storia di Rodi al tempo dei cavalieri.
 

Decima Flottiglia M.A.S.: propaganda per la riscossa (quarta parte) – Gianluca Padovan

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«L’unica meta che possa oggi esservi per gli italiani è quella di ricacciare gli invasori inglesi dal nostro paese»

Junio Valerio Borghese; 1944

Per la difesa dell’Italia.

Non avendolo fatto, verrebbe da dire, oggigiorno di genti e d’etnìe da cacciare dal nostro paese ve ne sono parecchie… e gli inglesi sono passati, in un certo senso, in secondo piano.

Difatti abbiamo, lo si ricorda, 114 basi militari americane operative che occupano l’Italia. Pertanto la domanda sorge lecita e spontanea: ma in Italia chi comanda? Non certo quelli che si sono appena eletti, questo è certo.

Questa quarta (e non ultima) parte dedicata all’epopea della Xa Flottiglia M.A.S. intende innanzitutto ricordare che in un momento storico del tutto particolare, quale fu la resa incondizionata firmata a Cassibile il 3 settembre 1943, in parecchi non riposero le armi. Anzi, al di là delle ideologie politiche e partitiche molti si arruolarono proprio perché capirono che non vi era un simulacro di fascismo da riesumare, ma occorreva difendere l’Italia.

Era ed è tutt’oggi necessario difendere il luogo dove si vive, la propria cultura, le proprie tradizioni.

Semplificando, ma non banalizzando i concetti, occorre sempre ricordare che l’Unità d’Italia è stata voluta e finanziata dalla Massoneria inglese, poi messa in secondo piano da quella americana guidata dal generale confederato, nonché criminale di guerra, Albert Pike, capo della Massoneria americana (vedere utilmente PERCORSI INIZIATICI ALTERNATIVI Parte terza: la Stella d’Italia).

Oggi paghiamo le conseguenze delle azioni dei mercenari di casa Savoia, i quali sono andati a concludere la loro tradizione guerriera al servizio di stranieri proprio con la cessione di penisola ed isole nel 1943.

In questa corrente massonica s’è poi inserita quella dell’Est, cresciuta e fattasi forte nel “Bund” ebraico sovietico. Difatti con l’ascesa del comunismo in Russia le mani di questo si sono allungate sull’intera Europa. E da qualche tempo a questa parte ci stanno riprovando (vedere utilmente Falce e maglietto).

Di mano in mano…

Se dell’epopea della Xa Flottiglia M.A.S. si tende a guardare i soli fatti “ante 8 settembre ’43”, è invece utile esaminare soprattutto quello che successe dopo. Solo così si potrà capire e ricordare che qualcheduno, al di là d’ogni possibilità di vittoria, riscattò l’onore degli Italiani e si batté perché così doveva essere.

Oltre ai manifesti d’affiggere ai muri, visti in precedenza, nell’ambito della propaganda della Decima i volantini costituiscono un ulteriore messaggio diretto a tutti, ma più puntuale.

Pochi contengono disegni, generalmente secondari rispetto al testo che si desidera far conoscere e diffondere. Molti sono latori di messaggi chiari e inequivocabili, generalmente incitanti all’arruolamento; altri sono informativi, soprattutto sullo spirito che anima i combattenti volontari della Xa Flottiglia M.A.S.

Solide basi.

Un volantino (15,2 x 21,2 cm) dai caratteri neri su fondo bianco reca trasversalmente la scritta: «25 luglio / 8 settembre» in campo rettangolare carta da zucchero chiaro, avvolto da serpente in verde.

Il testo, inequivocabile, recita:

«Per 39 mesi alleati e nemici hanno proclamato il valore militare, le qualità guerriere, le virtù umane del nostro soldato, che ha affrontato per terra e sul mare, come nei cieli, le due più grandi Potenze moderne // L’8 settembre come il 25 luglio tradimento e insipienza, egoismo e viltà dei capi hanno compromesso l’esito della guerra, ma non hanno offuscato l’onore di chi l’ha combattuta // Quest’onore è restato la forza per la riscossa italiana e la garanzia della ripresa nazionale e internazionale del Paese. // Per questo la Decima combatte».

Quasi fosse consequenziale al precedente, abbiamo poi un altro volantino (15,2 x 21,2 cm) dai caratteri neri su fondo rosa carne, con due catene che s’incrociano formando la X:

«Che vuole l’Italia? // 1) i suoi confini naturali per la sicurezza del suo popolo // 2) le colonie per il lavoro e la prosperità dei suoi figli // 3) il suo posto nel mondo per l’esercizio della sua missione di civiltà // 4) il diritto – che le dànno 3000 anni di storia – della “parità tra i pari„ con tutti gli Stati, nella ricostruzione del mondo. // La R.S.I. rappresenta il regime popolare italiano, e costituisce una garanzia per i popoli con la sua sana, operosa e realistica democrazia. // Questi sono gli ideali per cui la «Decima» combatte».

Questo testo dal contenuto ineccepibile risente tuttavia di una certa passata “propaganda” di stampo smaccatamente sabaudo prima e tinto d’entusiasmi fascisti poi. Senza entrare nel merito della faccenda “colonialismo” si rimanda il tutto alla lettura (o rilettura) su Ereticamente di: A.O.I.: “a noi” oppure “ahi… noi”?

Altrettanto chiaro e ineccepibile è un altro foglio destinato a passare di mano in mano. Si tratta di un volantino (21,7 x 14 cm) dai caratteri neri su fondo nocciola chiaro, con Xa in rosso posta orizzontalmente (con a verso l’alto) e contenente all’interno del carattere la scritta ripetuta consecutivamente su più righe: «per l’onore».

Eccone il testo:

«DECIMA FLOTTIGLIA MAS // Nella Xa non c’è posto per gl’imboscati, per i disfattisti, per i vecchi massoni, per gli antifascisti. In mare gli atti di eroismo della Xa sono leggendari; in terra il barbarigo ha immortalato il suo nome // nella decima non si fanno vane promesse // ARRUOLATI! // I gradi e le promozioni non si prendono a tavolino ma in combattimento».

“Parteggianti”.

Non mancano, come per i manifesti, i volantini riguardanti le azioni commesse dai “parteggianti”, ma quasi tutti destinati a fare riflettere sullo stato dell’Italia e sulla drammaticità della lotta fratricida, soprattutto perché ben altro nemico incombe.

I caratteri del volantino (14 x 21,7 cm) sono neri su fondo nocciola chiaro, con Xa in rosso posta orizzontalmente e contenente all’interno del carattere la scritta ripetuta consecutivamente su più righe: «per l’onore».

Così arringa il testo, chiaro e incisivo:

«Italiani! // Basta con la lotta fratricida che ci dilania! Siamo o non siamo, qualunque cosa si dica, figli di una stessa Italia? Siamo o non siamo fratelli di lavoro, di lingua, di fede, di sangue? Dobbiamo o non dobbiamo risolvere gli stessi, identici, duri problemi della vita? Viviamo o non viviamo nella stessa luminosa terra ora martoriata? Abbiamo combattuto fianco a fianco. Abbiamo uguale retaggio di memorie e morti. Abbiamo sofferto le stesse amarezze e privazioni: fame, freddo, lutti e sacrifici. Soffriamo ancora insieme in questa vita dura, di lotta che ci affratella disperatamente. Speriamo tutti in un avvenire nostro. Abbiamo ideali comuni, forse senza che noi ci si abbia mai pensato. Perché lottarci e attenderci agli angoli delle vie come assassini; perché, italiani, annidarci nelle selve accettando una sorte in altri tempi riserbata ai delinquenti comuni? // riconosciamoci, uniamoci lealmente. // Fratellanza è forza. La prova dura non è finita. Basta col sangue fraterno! // il sole d’italia risorgerà».

Dai caratteri neri su fondo nocciola chiaro il volantino (22 x 27,9 cm) intitolato Lettera a un bandito pone in luce l’operato di chi non si è sentito Italiano e certamente non si è sentito e basta.

Eccone il testo, che non necessita d’alcun commento:

«DECIMA FLOTTIGLIA MAS // ufficio stampa – piazzale fiume 1 – milano // Lettera a un bandito // Il marò allievo ufficiale del Battaglione “Barbarigo” Mario Tedeschi, catturato dai banditi ad Ozegna nell’imboscata in cui fu trucidato il comandante Bardelli con 9 suoi uomini e liberato poi, dopo 8 giorni di prigionia, ha scritto una lettera al capo della banda. Eccone il testo: // Credo, Piero, che non avrei accettato l’invito fattomi di scrivere quanto è passato in questi giorni dall’8 al 15, se al mio ritorno ad Ivrea non avessi veduto le fotografie dei miei compagni caduti nell’imboscata di Ozegna. Il viso sfigurato di Bardelli, morto da eroe; la sua bocca che le mani dei tuoi avevano lasciata spalancata dopo averne strappato i denti d’oro; la figura orrendamente deturpata del povero Fiaschi, ucciso con un colpo a bruciapelo nel cranio mentre già rantolava ferito; quei volti lordati oscenamente di fango; quelle divise lacerate dall’ansia del predone che frugava, hanno rinvigorito, se possibile, il risentimento dell’animo mio. Chi scrive queste righe, e lo riconoscerai dalla firma, è uno che ti ha dimostrato di non aver paura. Non sono quindi le ripetute minacce di morte, di arruolamento al «Battaglione San Pietro», come voi dite, che mi ispirano; ma è la ferita profonda lasciata nell’animo mio dall’aver veduto a quali punti di bassezza possono giungere gli Italiani. Lo slavo che alla sera dell’8, sulla piazza di Pont Canavese, ci prometteva di tagliarci prima il naso, poi le orecchie e, infine, il ventre, è molto superiore a voi che fingeste di trattare con Bardelli per far giungere i rinforzi e circondarci nella piazzetta della Chiesa, dove noi attendevamo con le armi scariche, fiduciosi della vostra parola. Venivamo dal fronte, dove avevamo combattuto non per un partito o per lo straniero, ma per l’Italia, così come voi stessi dite di fare: eppure furono degli Italiani che incolonnarono i 29 prigionieri per le vie di Pont Canavese, così come furono Italiani quelli che accompagnarono la sfilata percuotendoci e sputandoci in viso. È assai poco nobile, credimi, abbandonare all’odio e all’insulto stupido e bestiale di una popolazione accecata, dei soldati che hanno combattuto bene e si sono dovuti arrendere solo perché senza munizioni! Poi tentaste di convincerci a cambiar bandiera: e per sette giorni di fila fu un alternarsi di velate minacce e di botte propagandistiche; di menzogne sull’andamento delle guerra e sul comportamento dei nostri Comandi. Nessuno, del «Barbarigo», ha ceduto. Tu lo sai. Ma parliamo di voi, dei tuoi uomini, che qui si conoscono solo attraverso le voci di due propagande opposte. Il gruppo Piero è così composto: // 1) Una grandissima parte, formata per lo più di renitenti alla leva, che sta sui monti per paura di combattere; costoro, logicamente, non vanno in azione, ma sbrigano i servizi; 2) una parte risultante di individui che non possono scendere in pianura avendo commesso dei reati comuni nel periodo dal 25 luglio ad oggi; 3) una parte minima di individui che formano il nucleo combattente; parte in cui ho trovato qualche raro elemento che vorrei fosse con noi. La proporzione tra i combattenti e gli imboscati e dell’1 a 10. // A questo aggiungi che tutta la massa va avanti per forza d’inerzia, senza che sia possibile applicare una benché minima forma di disciplina. È stato un tuo amico che confessò ad uno di noi: «Se tentiamo di instaurare la disciplina qui restiamo in due». Questo gruppo di persone che financo nel vestire dimostrano la zingaresca essenza della cosa (ho visto uno dei vostri pavoneggiarsi di un berretto da gerarca fascista con su alcune penne rosse) vive distruggendo il patrimonio zootecnico della Valsassina, togliendo ai contadini burro e farina, prendendo (naturalmente in nome dell’Italia) tutto quello che vuole, ovunque lo trovi. E infatti vi vantate di non aver soldi in tasca, pur non mancando di nulla. Con simili combattenti mi diceste di voler rifare l’Italia, ma chiunque ragiona sa benissimo che la pace segnerà lo scioglimento improvviso dei reparti partigiani, dato che il 99% dei componenti altro non attende che quell’ora per tornare a casa, infischiandosene della situazione politica e dell’interesse nazionale. È evidente quindi che voi fate il gioco degli Inglesi, che voi proclamate di voler eliminare come i Tedeschi, e del Comitato di liberazione nazionale, composto di elementi più o meno bastardi che speculano sul momento. A rinforzare la cosa, noto infine che tutti i ribelli che ho incontrato vivono esclusivamente sulla propaganda di radio Londra, la quale li sorregge con menzogne che vengono tranquillamente bevute. Non fummo forse avvisati nel nostro periodo di prigionia che Londra aveva comunicato che Milano era stata violentemente bombardata e che uno sciopero generale era scoppiato a Genova, Milano e Torino? Allontanati da ogni contatto, i tuoi uomini guardano oggi con gli occhi che loro volle dare il nemico: credi, Piero, che questo sia bene per l’Italia? Non si deve forse proprio a questo la tremenda confusione di idee che ho notato fra voi, per cui combattete per Badoglio chiamandolo «bastardo»? Vi dite comunisti ossequiando i preti, vi chiamate liberi affidando il servizio viveri e il controllo dei rifornimenti ad un inglese, proclamate l’uguaglianza lasciando che il Comitato di liberazione vi abbandoni sui monti senza un soldo, appropriandosi dei vari chili di biglietti da mille lanciati dagli aerei, vi dite patrioti terrorizzando le innocue popolazioni con le requisizioni forzate e con i saccheggi. Questa l’impressione fotografica dei ribelli di Val Soana. Del periodo di prigionia non credo sia necessario parlare. È stato un alternarsi continuo di ansie e di calma, durante il quale siamo stati trattati con ipocrita cordialità. Il fatto che ci abbiate costretti in trenta in due stanzette, obbligati a lavare i vostri piatti, promessa ogni giorno la libertà, sono cose trascurabili di fronte al dolore provocato nel vedere quanto in basso sia caduta questa nostra Patria adorata. È per questo che noi, Piero, ci auguriamo di tornare presto al fronte. Ti sia ben chiaro però che mentre dall’imboscata di Ozegna tu non hai guadagnato che i pochi oggetti che avevamo indosso (ci toglieste persino la cinghia dei pantaloni) e il nostro denaro, noi abbiamo riportato il ricordo incancellabile della voce di Barbarigo che grida: «Barbarigo non si arrende! Fuoco!», additandoci così la via della vendetta e dell’onore. // Da Repubblica Fascista del 18-7-44».

I falsi.

Oggi sul “mercato del collezionismo” non mancano i falsi, ovvero manifestini e volantini fatti passare per veri. Taluni sono riconoscibili per il tipo di carta utilizzata, altri per essere stati stampati in carattere Times New Roman. Ad esempio, è presente una serie di quattro piccoli volantini, formato 8 x 11 cm, che hanno il testo in caratteri neri e una grande Xa di colore celeste, con doppia sottolineatura inferiormente alla lettera a in apice, che sono stati anche pubblicati.

Ricordo d’infanzia – Luca Maccaferri

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Presentiamo ai lettori di EreticaMente uno scritto di un caro amico e di un profondo conoscitore delle tradizioni spirituali, Luca Maccaferri, dedicato ad un ricordo della propria fanciullezza e come si potrà subito scorgere si tratta, in realtà, di una bella meditazione profonda. Il ricordo, infatti, quando sublimato da emozioni dell'animo purificato, è spesso associato alla memoria ancestrale della nostra personalità storica, indi attinente alle profondità più preziose della nostra interiorità. Nello scritto che seguirà, leggendolo vi accorgerete quasi di partecipare ai suoni ed ai colori della Natura, vi accorgerete che la bellezza descritta non è una rappresentazione ma un preciso stato di coscienza, localizzabile poco nella mente o nel pensiero riflesso, ma spesso negli antri non sentimentali del cuore, ove la visione ha reso limpida la percezione di una realtà che non abbisogna di languori, ma di secca identificazione, tra ciò che siamo da sempre ed il Divino. Buona lettura.

(introduzione a cura di Luca Valentini)

 

Dedicato alla santa memoria di mia nonna materna Virginia Oppi (1900-1977).

Avrò avuto quattro anni, o forse cinque... non ricordo bene; ma di una cosa sono più che certo: il giardino e il tramonto di quel giorno non li dimenticherò mai; e se quel particolare giorno appartiene oramai ad un remoto passato, i doni che mi ha elargito rimarranno per sempre racchiusi nel mio cuore come il più prezioso dei tesori, come la noce d'oro delle fiabe da schiacciare sotto i denti nel momento del bisogno (dopo tutto non è forse vero che proprio nei momenti più buî giova di rammemorare quelli più luminosi?).

Era di primavera inoltrata (o forse già d'estate) nell'amato giardino dell'infanzia, il giardino della casa di famiglia di mia madre, nella quale all'epoca dei fatti narrati (più di quarant'anni or sono) ancora abitavano la mia nonna Virginia e le sue tre sorelle Luisa, Elena ed Adriana. Ora quel giardino, sconsideratamente trasformato in un anonimo parcheggio condominiale, non esiste più. Ne ricordo il caratteristico cancello bianco, il vialetto ricoperto di ghiaia fina fiancheggiato dalla folta siepe con le canne di bambù (compagne dei miei primi giochi), il pergolato con la vite dai generosi grappoli, la grande pianta di magnolia e l'albero di albicocco, col quale avevo stretto una sorta di amicizia in virtù dello squisito (e mai più eguagliato) sapore dei suoi abbondanti e succosi frutti. Fu quello il teatro di alcuni fra i miei giorni più felici.

Ecco allora che mi rivedo in quel fatidico pomeriggio, seduto ad un piccolo tavolino rotondo da giardino stile Belle Epoque: desco improvvisato sul quale la cara zia (in realtà prozia) Adriana mi avrebbe servito una frugale cena en plein air. L'ora era quella per me più densa di suggestione, quella del tramonto. Il fulgido disco solare scendeva lento di fronte a me ed io socchiudevo gli occhi inebriandomi di quei tiepidi raggi di sole che lasciavo filtrare attraverso le palpebre, fino a restarne piacevolmente abbacinato. Ebbro di quella inedita e gradevole sensazione, d'improvviso sentii diversamente. Nel suo lento sprofondare il sole era un muto testimone di verità, verità secondo la quale ogni rapporto tra un «io» e un «tu» è effimero, in quanto tutto si riunisce sotto ai suoi raggi. Ripensando a quel momento è proprio come se avessi in certo qual modo smarrito il senso del mio «io» particolare per essere riassorbito nel «Sé» universale, così da essere accolto nel seno della natura circostante, nei confronti della quale sembrava svanire ogni senso di umana separatezza: a tal riguardo è assai eloquente una sentenza di Meister Eckhart, secondo cui “Ego, la parola io, non appartiene che a Dio nella sua unità”. Si potrebbe parafrasare poeticamente il concetto attraverso le parole di Ernst Wiechert, quando in merito al barone Amadeus von Liljecrona, personaggio chiave del suo romanzo Missa sine nomine, afferma che “aveva raggiunto una pace così meravigliosa che egli trattenne quasi il respiro per non essere qualcuno”.

In quell'istante perfetto era quindi apparentemente annullato ogni principio di alterità e distinzione: sovrana regnava la quiete, intatta era l'aura, quasi che sotto il caduco fosse d'acchito apparso il duraturo. Ma a cosa corrisponde, in definitiva, l'idea di perfezione? Anticamente nelle concezioni greche l'idea di Bene aveva un significato ontologico, e non morale, corrispondendo alla perfezione di un essere, al suo stato di completezza, opposto al male ossia alla passione, corrispondente ad un'azione esterna che produca «alterazione» e «impurità»: secondo Novalis “ogni male è isolato e isolante, è il principio di separazione”; e ricordiamo che «diavolo», dal greco [dia] attraverso [ballo] metto, significa propriamente separare, dividere, frapporre una barriera, creare fratture.

È forse possibile allora che per un singolo istante ci fossimo trovati in quella singolare condizione in cui è dato di raccogliere l'evangelico granello di senape? In cui è possibile vedere l'immagine di là dei veli? Davvero difficile dare una risposta definitiva, anche se indubbiamente è testimonio di coerenza che proprio l'astro diurno abbia favorito l'epifania spirituale testè descritta: è infatti una tradizione universale che il nostro vero Padre sia il Sole, principio primo della Luce e del Tempo (“quelli ch'è padre d'ogne mortal vita”, canta Dante nel Paradiso, XXII, 116), mentre il padre umano è solo il mezzo con cui la vita si trasmette e non la sua origine.

Ma il tempo di quell'estasi fu breve, fugace: d'un tratto arrivò la zia Adriana con la cena ed io fui inesorabilmente risospinto all'interno della ruota del divenire. Forse tentare di descrivere humanis verbis una simile esperienza è una chimera, un vano sortilegio, poiché si sa, in certi casi le parole non sono atte a trasferire certe emozioni, certi stati dell'animo in realtà ineffabili: il Lettore è quindi pregato di accogliere con benevolenza quanto gli è stato offerto in queste poche, imperfette righe. Dopo tutto avevo solo quattro anni, o forse cinque... non ricordo bene.

Luca Maccaferri

Discorsi del discernimento o Istruzioni spirituali – Meister Eckhart

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Questi sono i discorsi che il vicario di Turingia, priore di Erfurt, fratello Eckhart, dell’ordine dei Predicatori, rivolse ai suoi novizi che gli ponevano numerose questioni durante le loro discussioni serali.

7. Come si debbano compiere nel modo più ragionevole le opere

Così è per molti, e facilmente lo si ottiene se lo si vuole: le cose con cui abbiamo a che fare non ci ostacolano e non imprimono in noi immagini durature, giacché, quando il cuore è colmo di Dio, non possono trovarvi posto le creature. Ma questo non deve bastarci: noi dobbiamo utilizzare al massimo tutte le cose, non importa quali, e dobbiamo farlo dovunque siamo, e per quanto estraneo o inadeguato possa essere ciò che vediamo o sentiamo. Solo allora, e non prima, ci comportiamo come si deve. E mai, in ciò, l’uomo deve giungere a una fine, anzi, egli può così crescere senza interruzione, e ottenere sempre di più in una vera crescita.

In tutte le cose e in tutte le opere si deve attentamente fare uso della ragione, prendere coscienza di noi stessi e del nostro essere interiore, in tutte le cose si deve cogliere Dio nel modo più alto possibile. L’uomo infatti deve essere come dice Nostro Signore: «Siate come quelli che vegliano sempre e attendono il loro padrone» [1]. In verità, chi è in attesa sta vigile e guarda intorno a sé da dove può arrivare colui che aspetta, e in tutto ciò che accade, per quanto estraneo possa sembrargli, cerca di vedere se questi c’è. Nello stesso modo noi dobbiamo consapevolmente cercare in tutte le cose Nostro Signore. Occorre porvi impegno e adoperare tutti i nostri sensi e le nostre facoltà: solo così ci si comporta in modo giusto, e si trova e si coglie Dio ugualmente in tutte le cose.

Certo, un’opera non è identica a un’altra, ma, per chi compie le proprie opere con egual spirito, in verità tutte le opere sono eguali, e per chi agisce con giustizia e veramente possiede Dio, in verità Dio risplende nelle cose profane tanto chiaramente quanto in quelle divine. Non certo che l’uomo debba compiere qualcosa di profano o sconveniente, piuttosto egli deve volgere verso Dio quanto gli accade di vedere o intendere tra le cose esteriori. Colui per il quale Dio è così presente in tutte le cose, e che domina e usa in modo perfetto la propria ragione, questi è il solo a conoscere la vera pace e a possedere veramente il regno dei cieli.

Per chi si comporta giustamente vi sono due possibilità: o imparare a cogliere e a possedere Dio in ogni opera, o rinunciare a tutte le opere. Ma l’uomo, poiché in questa vita non può stare senza attività, peculiari del suo essere e di vario genere, deve apprendere a possedere Dio in tutte le cose e a permanere, senza ostacoli, in ogni opera e in ogni luogo. Perciò il principiante, quando deve agire tra gli uomini, deve prima impadronirsi fortemente di Dio e fissarlo con fermezza nel proprio cuore – unirsi a lui con ogni pensiero, intenzione, volontà e forza –, in modo che dentro di sé non possa formarsi nessun’altra immagine.

9. Come l’inclinazione al peccato sia sempre utile all’uomo

Devi sapere che l’inclinazione al peccato è sempre di grande profitto e utilità per l’uomo retto. Ascolta bene: ecco due uomini. Il primo non è mai sopraffatto da alcuna debolezza, o lo è assai poco; il secondo, al contrario, è per natura soggetto a forti tentazioni. Dalla presenza delle cose esteriori, l’uomo esteriore in lui è portato alla collera, alla vanità, forse alla sensualità, secondo gli incontri che fa, ma nelle sue potenze superiori egli permane costantemente fermo, impassibile; non vuole errare, né cedere alla collera o ad altro peccato; così egli lotta senza tregua contro la sua debolezza, forse per lui naturale – molti uomini sono infatti portati per natura alla collera, all’orgoglio o ad altri difetti –, e non vuole commettere il peccato. Questo secondo uomo deve essere molto più lodato, la sua ricompensa è assai più grande, e la sua virtù più nobile di quella del primo. Infatti la perfezione della virtù si manifesta nell’agone, come dice san Paolo: «La virtù si compie nella debolezza» [2].

L’inclinazione al peccato non è peccato; il peccato è voler peccare, voler montare in collera è il peccato. In verità, l’uomo giusto, se potesse realizzare il suo desiderio, non dovrebbe desiderare d’esser liberato da questa inclinazione, giacché senza di essa l’uomo sarebbe incerto in tutte le cose e in tutte le opere, non starebbe più in guardia di fronte alle cose e sarebbe privato dell’onore del combattimento, della vittoria e della ricompensa. Infatti l’inclinazione e la tendenza al peccato portano la virtù e la ricompensa dello sforzo. Da questa inclinazione deriva all’uomo uno zelo sempre maggiore nel rafforzare l’esercizio della virtù, essa lo incita potentemente alla virtù, è una pungente sferza che mette l’uomo in guardia e lo spinge a essere virtuoso. Infatti, più l’uomo si sente debole, più deve armarsi di forza e di vittoria, giacché la virtù, come il peccato, sta nella volontà.

10. Come la volontà possa tutto e come tutte le virtù risiedano nella volontà, purché giusta

L’uomo non deve spaventarsi di nulla, finché la sua volontà è buona, né deve affliggersi se non Può metterla in pratica attraverso le opere; né deve considerarsi lontano dalla virtù, se ha in sé una vera buona volontà, giacché la virtù e ogni bene risiedono nella buona volontà. Se tu possiedi una volontà giusta, nulla ti mancherà: né amore, né umiltà, né virtù alcuna. Ciò che tu vuoi con tutta la tua volontà, tu lo possiedi, e non te lo può togliere né Dio né alcuna creatura, purché la tua volontà sia integra e veramente divina, e applicata al presente. Non devi dire, perciò: «Vorrei …», giacché questo rimanda al futuro, ma invece: «Voglio che ora sia così». Ora, poni mente a ciò: se anche una cosa è lontana da me mille leghe, quando la voglio davvero la possiedo più realmente di ciò che sta sulle mie ginocchia e che io non voglio.

Il bene non porta meno fortemente al bene di quanto il male non conduca al male. Guarda: anche se non compio nessuna cattiva azione, se ho la volontà di fare il male, ne porto il peccato come se avessi compiuto quell’azione. In questa piena volontà io potrei commettere un peccato così grave come se avessi ucciso tutti gli uomini, pur non avendo fatto assolutamente nulla. E dunque, perché non dovrebbe essere lo stesso per la volontà buona? Ma è lo stesso, e incomparabilmente ancora di più.

In verità, con la volontà io posso tutto. Posso sostenere la pena di tutti gli uomini, nutrire tutti i poveri, compiere le opere di ogni uomo, e qualsiasi cosa tu possa immaginare. Se non è la volontà che ti manca, ma solo la possibilità di agire, in verità tu hai compiuto, davanti a Dio, tutto questo, e nessuno te lo può togliere o contestare un solo istante, giacché voler fare, se se ne avesse la possibilità, e aver fatto, sono davanti a Dio la stessa cosa. Ugualmente, se io volessi avere tanta volontà quanta ne ha il mondo intero, e se tale desiderio fosse grande e totale, davvero io avrei questa volontà, perché io ho ciò che voglio avere. Ugualmente, se volessi avere tanto amore quanto ne hanno tutti gli uomini insieme, e tanto lodare Dio, o qualsiasi cosa tu possa immaginare, davvero tu l’avresti, se la tua volontà fosse perfetta.

Ora potresti chiedere quando la volontà sia retta.

La volontà è piena e retta quando è totalmente spoglia di se stessa, disappropriata, e formata sulla volontà di Dio. Sì, più è così, più è retta e vera. In questa volontà tu puoi tutto, si tratti di amore o di qualsiasi altra cosa tu voglia.

Tu domandi: Come posso avere l’amore se non lo sperimento in me, non ne sento la presenza, mentre lo colgo invece in tanti uomini che danno prova di grandi opere, e nei quali vedo una grande devozione e cose straordinarie, che mi sono estranee?

Qui devi considerare che nell’amore vi sono due cose: una è l’essenza dell’amore, l’altra è la sua operazione, la manifestazione dell’amore. La sede dell’essenza dell’amore è unicamente nella volontà, per cui chi ha più volontà ha più amore. Ma chi ne abbia di più, questo nessuno lo sa dell’altro; ciò è nascosto nell’anima, giacché Dio è nascosto nel fondo dell’anima. Questo amore risiede totalmente nella volontà, e chi ha più volontà ha più amore.

Ma vi è anche un’altra cosa: la manifestazione, l’operazione dell’amore. Essa si dà a vedere come interiorità, devozione, giubilo, ma non sempre è la cosa migliore, giacché talvolta un simile sentimento di piacere e una simile dolcezza sono il prodotto della natura e non dell’amore: può essere un effetto celeste, o anche un effetto dei sensi, e non sempre coloro che più lo provano sono i migliori. Anche ammettendo che ciò venga realmente da Dio, egli lo concede a tali persone per attrarle, stimolarle o condurle a un maggior distacco dagli altri uomini. Accade però spesso che tali persone, quando in loro si accresce l’amore, non provino più così tante emozioni; che esse abbiano amore appare allora davvero chiaro se, anche senza tale sostegno, mantengono un’identica costante fedeltà nei confronti di Dio.

Pur se tutto questo fosse amore pieno e totale, non sarebbe ancora la cosa migliore; ed ecco perché: si deve talvolta, per amore, abbandonare tale giubilo per qualcosa di migliore, o, talvolta, per compiere una necessaria opera di amore spirituale o materiale. L’ho già detto altre volte: se anche fossi rapito in spirito come san Paolo e sapessi che un malato aspetta da me un po’ di minestra, riterrei preferibile, per amore, uscire da tale rapimento e soccorrere l’indigente in un amore più grande.

Non bisogna credere di privarsi così di una grazia, perché ciò che si abbandona volontariamente per amore viene reso con ben maggior liberalità, secondo quanto ha detto Cristo: «Chi abbandona qualche cosa per me, riceverà il centuplo» [3]. In verità, ciò che l’uomo tralascia e abbandona per Dio – anche se desidera vivamente provare tanta consolazione e profondità di sentimento e fa il possibile per questo, ma Dio non glielo concede, ed egli allora vi rinuncia volentieri per amor suo – lo ritroverà in Dio come se avesse avuto in pieno possesso ogni bene mai esistito. Al centuplo si ritroverà tutto ciò di cui ci si è volontariamente spogliati, che si è abbandonato e offerto per Dio, giacché ciò che si vorrebbe, ma di cui si fa a meno per Dio, sia nel corpo sia nello spirito, lo si ritrova totalmente in Dio, come se lo si fosse sempre posseduto e volontariamente lasciato: col suo volontario consenso l’uomo deve infatti essere privato di ogni cosa per Dio, e nell’amore rinunciare a ogni consolazione dell’amore.

Che si debbano talvolta abbandonare, per amore, tali sensazioni, ce lo mostra san Paolo, che tanto amava, quando dice: «Ho desiderato di essere separato da Cristo per amore dei miei fratelli» [4]. Egli non intende dire di essere separato dal primo modo dell’amore, giacché per nulla, in cielo o in terra, vorrebbe esserne separato; ma intende dire proprio questo: di essere pronto a rinunciare alla consolazione.

Sappiate però che gli amici di Dio non sono mai senza consolazione, perché la volontà di Dio è la loro suprema consolazione, sia essa consolazione o assenza di consolazione.

* Estratti dal Trattato Die Rede der Unterscheidunge (Discorsi del discernimento o Istruzioni spirituali). Cfr. Meister Eckhart, Dell’uomo nobile, a cura di Marco Vannini, Adelphi, Milano, 1999.

Si ringrazia per la collaborazione Lettera e Spirito

1. Luca 12, 36.

↩

2. 2 Corinzi 12, 9.

↩

3. Matteo 19,29.

↩

4. Romani 9, 3.

Il Mistero della Fontana Aurea: simboli segreti della sorgente vitale interiore – Stefano Mayorca

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Nella Tradizione esoterica, quella più autentica, rinveniamo alcuni elementi di ordine secretato che alludono a una sostanza irradiante che sta alla base di alcune operazioni dalle valenze alchimiche. Una sostanza volta a trasmutare lo spirito per mezzo della materia luminosa che è celata all’interno dell’uomo, benché molti la ricerchino al di fuori di esso. La sua materializzazione si produce attraverso un processo arcano, ottenuto mediante la manipolazione della materia luminescente indispensabile per rendere vitale e dinamizzato il seme aureo del mercurio esaltato. La sua estrinsecazione avviene nel corso di alcune date astrali-lunari durante le quali si sensibilizza, con un procedimento occulto e occultato, la condensazione di detta emanazione organico-psichica. Questa Luce, dai contorni magnetici e vitalizzanti, si espande con l’ausilio di particolari carmi, formule, respirazioni, cifre e glifi geniali, patrimonio sapienziale di una dottrina ermetico-alchimica di origine remota che rinveniamo tra i Magi Caldei ed Egizi e la Scienza Pitagorica-Italica. Ciò che più conta in tale ambito operativo è la trasmutazione della semenza nascosta, proiettata e successivamente attivata attraverso l’assunzione degli elementi sottili che presiedono alla trasformazione interiore e animica. La mutazione graduale dei vari livelli eterici si attua rendendo fertile il comparto organico, fecondando l’anima che, una volta gravida di energia, dà alla luce il magico figliolo, l’entità misteriosa che racchiude tutte le concezioni universali e metafisiche. Così i vari Corpi si sostanziano lentamente per divinizzarsi in Terra. Il veicolo aureato, in poche parole, attua la sintesi del Solve et Coagula e ciò che era disperso, disunito, frammentato, si unifica nuovamente creando la Cosa Una di trismegistica memoria, come ben espresso nella celebre Tavola Smaragdina, Tabula Zaradi o Tavola di Smeraldo. Non a caso, lo smeraldo è correlato all’apportatore di Luce, il principio luciferiano o Fuoco trascendente irraggiante calore e lucentezza, datore di vita, Serpente fecondatore.

 

I Quattro Corpi o Principi della struttura sottile

Le diverse manifestazioni della matericità sottile sono in intima connessione con lo sviluppo dei veicoli stessi, cioè delle parti eteriche precedentemente menzionate e la loro conseguente purificazione. Nell’ambito della Scienza Hermetica sono contemplate quattro parti elementari che configurano i quattro elementi universali (stadi involutivi del Principio Intelligente di Vita). Sole – Fuoco - che corrisponde al Principio Intelligente di Vita; Mercurio – Aria - ovvero l’individuazione del Principio che potremmo definire: Prima Umanazione; Luna – Acqua - che corrisponde al Mediatore Plastico, Corpo Astrale o Lunare; Saturno – Terra - Corpo tangibile, organismo sensorio individuabile nella materia pesante e carnea. Ciascun corpo deve assumere il separando attivo e giungere in tal modo alla liberazione di tutti gli elementi sottili che ne segnano la presenza reale, e che risultano paralizzati dalla morsa involutiva. E’ in questa maniera che si opera la liberazione del Corpo Lunare dalla prigionia di quello Saturniano, pesante e avvolto dalla materialità prodotta dall’incarnazione. Il Mediatore Plastico-Lunare è costituito da una materia sottilissima che compenetra l’organismo sensorio del quale è la vera anima. Esso è plasmabile e adattabile, può prendere qualsiasi forma e incamera qualunque impressione, alla stregua di una lastra fotografica sensibilissima che registra ogni più piccola emozione, pensiero, umore ed esperienza. E proprio il comparto lunare è deputato a concretare l’essenza di luce per renderla più sensibile, affinandone le percezioni e i livelli di crescita. Purgando contemporaneamente la struttura fisica, si perviene alla purità alchimica-ermetica che deve originare l’Oro, fecondo apportatore di rinascita e di vita. Questo Oro è talmente sottile nella sua composizione animica, che non è possibile percepirne la presenza tangibile senza compiere un lavoro prolungato ed estremamente complesso.

La Fontana di Luce: l’Archeus Vitae

Come una fonte d’acqua cristallina e dissetante, l’elemento ermetico che alchimicamente sottende alla realizzazione dell’Elixir è commisto alle sostanze interne e la sua composizione organica è al centro di numerose mutazioni di ordine cellulare. Questa è la Fontana di Vita o la Sorgente Invisibile di Eterna Giovinezza. Non a caso, il simbolo celato nelle fonti d’acqua che sgorgano dalle antiche fontane in pietra alludono proprio a tale elemento che è formato da una luce magnetica, un lampo che custodisce il segreto della generazione e rigenerazione del Corpo sottile e di quello fisico. Prendiamo ad esempio la celebre Fonte di Giuturna, ancora visibile all’interno del Foro Romano. Essa indica egualmente l’acqua luminosa o semenza occulta che permea l’individuo storico. Ogni fase si ingenera all’interno e ciò che si emette rientra per consentire la ricostituzione dei tessuti eterici e carnei. La vera seminagione e la partenogenesi occulta si completano solo con un lavoro faticoso. Un’Opera mirata a fare insorgere nella realtà oggettiva quanto necessita, per addivenire alla mutazione totale che è rappresentata dal Sole, datore di vita, afflato dello Spirito Osirideo, pietra immortale e ammonia. Nell’essenza piromagica (magia del Fuoco), con la sorgente di vita, la Fontana creatrice di energia radiante, si accende la messe delle forze sessuali che devono essere trasmutate. Lo scettro di luce dorata, strumento dell’anima primigenia, riassorbe il magico frutto che va conservato dentro per creare nuova materia e nuova sostanza.L’Angelo alato di mercuriale costituzione si presenta e la divina coscienza prende forma. L’unione degli opposti partoriti da sé stessi si attua in un atto di magistrale Creazione. L’esistenza del divino incarnato fa udire la sua voce, tutto si compie nell’assoluto e nel relativo, affinché l’Uomo-Dio si affranchi dalla materia pesante o zavorra di concrezioni metafisiche-astrali. L’Archeus alfine è pronto, la sua prole interiore, vera sorgente attivata, può essere proiettata dall’interno all’esterno, con ritmiche respirazioni esternatesi dal magnete interiore. L’uomo di Luce così concepito entra nello stato solare e vive nell’unità della Legge, la causa Prima di qualsivoglia forma vitale. Lo stato di eternità, che trascende l’umana ragione, rappresenta il Grande Arcano che è interdetto ai profani. Il Separando del Sole è raggiunto, l’Alcaest osirideo, il Tesoro sapienziale, l’Unità, il Tutto, sono finalmente una cosa sola.

La fontana sacra e inesauribile, immortale ed eterna, sprigiona la sua energia di Fuoco ardente, incombustibile come il roseto di mosaica memoria. E’ il fuoco che non brucia, non distrugge, ma nutre e rende immortali. E’ lo Spirito radiante, che alla stregua di una fiamma perenne non può estinguersi. E’ il volto cangiante del Dio occulto. Nessuna certezza è data circa la riuscita di quanto descritto e non è possibile fornirla a meno di non mentire. Solo nella soggetività del proprio operato, forse, è probabile rinvenire un frammento di verità. Lontano, però, da qualsivoglia esaltazione, misticismo o squlibrio ma mediante una sana razionalità che è e deve essere alla base di ogni sperimentazione e cammino iniziatico. Un cammino che non può essere per tutti e dove anche i presunti maestri tendono a non essere sinceri, pur di detenere un logoro potere ormai in agonia. L’autentico iniziato segue se stesso e non è soggetto ad asservimento o a qualsivoglia forma di sottomissione. Egli è libero, perché l’Ermetismo deve liberare non legare. Solo così la vera Luce rischiarerà le lunghe ombre del tenebroso cacodemone, il genio maligno.

  Stefano Mayorca
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