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Giuliano l’Apostata, un rivoluzionario al potere – Tommaso Indelli

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I) I Costantinidi (337-355).

Quando Flavio Giuliano divenne imperatore, nel 361 d. C., l’impero romano non era certamente più quello di Augusto, perché la società, l’economia e le stesse strutture amministrative erano irreversibilmente cambiate. Uno dei promotori di tale cambiamento fu senz’altro Costantino, il primo “imperatore cristiano”(1). Grazie alla sua politica in favore della Chiesa cattolica, il cristianesimo era diventato un’autentica potenza politica ed economica. Costantino, infatti, con l’editto di Milano del 313 d. C., aveva riconosciuto il cristianesimo come religio licita, determinando la fine delle persecuzioni che si protraevano dal I secolo d. C. Teoricamente, in virtù dell’Editto, il cristianesimo doveva godere nell’impero degli stessi diritti delle altre confessioni religiose, ma non fu così, perché l’imperatore, tra il 316 e il 321, promulgò altre leggi con cui rafforzò la posizione sociale della Chiesa, conferendole particolari privilegi in campo fiscale, economico e giuridico(2). Alla morte di Costantino - il 22 maggio del 337 d. C. - la successione, in una prima fase, fu attuata secondo le sue disposizioni testamentarie. I figli dell’imperatore - Costanzo, Costante e Costantino II - celebrarono i funerali del padre, ma tentarono di tenerne nascosta la morte il più a lungo possibile, continuando ad emanare editti in suo nome. Questa situazione si protrasse fino al 9 settembre del 337, quando i soldati, sobillati da Costanzo, Costante e Costantino II, massacrarono, nel palazzo di Costantinopoli, alcuni dei membri della famiglia del defunto, cioè il fratellastro, Giulio Costanzo, e i nipoti, Dalmazio e Annibaliano, figli dell’altro fratellastro, Flavio Dalmazio, tutti associati al potere secondo le ultime volontà di Costantino(3). I figli di Giulio Costanzo - Flavio Costanzo Gallo e Flavio Claudio Giuliano - furono risparmiati e inviati a domicilio coatto in Cappadocia, nella villa di Macellum, sotto stretta sorveglianza di Eusebio (†341), vescovo di Nicomedia, e dell’eunuco Mardonio che si occupò dell’educazione dei giovani principi. L’impero fu diviso tra i figli di Costantino: Costante - che ottenne Italia, Africa e Illirico occidentale - Costantino II - che ottenne Spagna, Gallia e Britannia - e Costanzo II che ottenne l’Oriente - Egitto compreso - con la Tracia e con la capitale Costantinopoli. Ben presto la situazione si semplificò e Costanzo II, nel 350, rimase solo al potere, dopo la morte dei suoi fratelli che furono assassinati(4). Ma la vastità dell’impero e l’esigenza di condurre spedizioni militari su più fronti - contro i Germani, sul Reno, e contro i Persiani, sull’Eufrate - costrinsero Costanzo, privo di figli, a puntare sui cugini Gallo e Giuliano che - dopo anni di vessazioni - iniziarono ad assumere le prime responsabilità pubbliche. Giuliano e Gallo - figli di Giulio Costanzo, fratellastro di Costantino – appartenevano, dunque, alla dinastia costantiniana. Gallo, il maggiore, era figlio di Costanzo e della prima moglie - Galla - mentre Giuliano - nato a Costantinopoli nel 331 - era figlio delle seconde nozze di Costanzo con la greca Basilina, figlia di Giulio Giuliano - prefetto d’Egitto - che era morta quando Giuliano era ancora in tenera età, nel 333(5). In un primo tempo, Gallo sembrò destinato a maggiori successi rispetto al fratello. Infatti, nel 351, il cugino Costanzo II - divenuto unico imperatore - lo designò Cesare, cioè suo successore in pectore, affidandogli un comando straordinario sulle provincie d’Oriente e il compito di combattere i Persiani. Inoltre, Costanzo diede in moglie al cugino la sorella, Costantina. Gallo si stabilì in Siria, ad Antiochia, ma, nel 354, fu richiamato in Occidente e giustiziato a Pola, perché accusato di abuso di potere e di lesa maestà. La morte di Gallo fu un duro colpo per il fratellastro Giuliano che ne ritenne l’uccisione ingiusta e cominciò a maturare propositi di vendetta, sempre più forti, contro il cugino. D’altronde la cosa è comprensibile, se si considera che Giuliano aveva visto sterminata tutta la propria famiglia proprio per ordine di Costanzo. Fino al 354, Giuliano visse in disparte, badando esclusivamente alla sua formazione culturale nei più prestigiosi luoghi d’Oriente - Atene, Efeso, Costantinopoli - dove ebbe maestri d’eccezione, come il retore Libanio di Antiochia (†393) e il filosofo neoplatonico Massimo di Efeso (†372). Formalmente Giuliano - che era stato battezzato - continuò a professarsi cristiano e, a quanto sembra, fu anche consacrato lettore, uno degli uffici ecclesiastici del clero minore. Allo stesso tempo, Giuliano maturò la sua visione del mondo “pagana”, permeata di senso del dovere politico e rispetto per la religione degli avi, grazie anche allo studio del neoplatonismo, la visione innovativa del pensiero di Platone (†347)elaborata ad Alessandria d’Egitto dal filosofo Plotino di Licopoli (†270). Plotino, infatti, nel corso del III secolo, aveva sviluppato un sistema filosofico fondato sul culto dell’Uno - principio dell’Universo e personificazione del Sommo Bene platonico - entità assolutamente trascendente, da cui, per successive emanazioni - Intelletto Universale, Anima universale, Materia - sarebbe derivata tutta la realtà. Le emanazioni plotiniane consentivano di trovare un nesso metafisico tra materia e spirito, tra idee e sostanze corporee. Secondo Plotino, era al ricongiungimento con l’Uno - in una sorta di assimilazione mistica - che l’uomo doveva tendere, attraverso la filosofia e le pratiche religiose e teurgiche. Si tenga presente, inoltre, che tanto Plotino, quanto i suoi discepoli - Porfirio (†305) e Giamblico (†330) - furono acerrimi avversari del cristianesimo. Porfirio di Tiro, infatti, scrisse persino un’opera in 15 libri - Contro i Cristiani - che, probabilmente, fu letta da Giuliano e fornì elementi di ispirazione alla sua politica(6).

 

II) Le guerre galliche (355-360).

Morto Gallo, Giuliano fu convocato da Costanzo II a Milano, dove arrivò alla fine del 355. In presenza dell’imperatore e dell’imperatrice Eusebia (†360), il 6 novembre fu investito del titolo di Cesare e di comandante supremo delle milizie in Gallia, con il compito di riparare alla disastrosa situazione militare, determinata dalle incursioni dei barbari: i Franchi, lungo il corso del basso Reno, e gli Alemanni, lungo l’alto corso(7). Il titolo di Cesare, inoltre, conferì a Giuliano il ruolo di candidato in pectore alla successione imperiale che era stato anche di suo fratello Gallo. Poco dopo, Giuliano sposò la sorella di Costanzo, Elena, e ciò consolidò ancora di più i suoi legami con la dinastia costantiniana, ma i rapporti personali di Giuliano con la moglie non furono mai buoni. A causa dei costanti impegni istituzionali del marito, Elena fu sempre trascurata, non riuscendo neppure a dare a Giuliano una discendenza. Quando Elena morì, nel 360, Giuliano non si risposò, ma fece tumulare solennemente la moglie nel mausoleo di Santa Costanza - sorella di Costantino I - a Roma(8). Giuliano ereditava in Gallia una situazione difficile, a causa delle incursioni dei Franchi e degli Alemanni. La frontiera renana era rimasta sguarnita dopo la morte del magister militum per Gallias, Silvano, messo a morte dopo un’accusa calunniosa di sedizione e a Giuliano non restò che usare il pugno di ferro(9). Nell’agosto del 357, annientò le incursioni alemanne nella grande battaglia di Argentoratum - attuale Strasburgo - costringendo il re alemanno Cnodomario, fatto prigioniero, a siglare la pace(10). Con il trattato, gli Alemanni accettarono di fornire truppe all’impero in cambio di vettovagliamenti e a non violare il confine del Reno. Nel 358, toccò ai Franchi che, duramente sconfitti, furono costretti a trasferirsi, in buona parte, a ovest del fiume Reno - nella Gallia Belgica Secunda- accettando di diventare foederati, cioè “alleati” di Roma. In base al trattato, i Franchi si impegnarono a fornire truppe e a stabilirsi nei territori loro concessi dalle autorità romane, abbandonando, progressivamente, le usanze seminomadi e dedicandosi all’agricoltura. I Franchi, allora, avviarono un processo di lenta acculturazione ai valori della romanità, accompagnato da una proficua collaborazione con le autorità imperiali, destinata a dare i suoi frutti all’epoca di re Clodoveo (fine V secolo)(11). I meriti di Giuliano in Gallia non furono solo militari, poiché egli si preoccupò anche di mettere ordine nell’amministrazione civile, anticipando alcuni provvedimenti a favore del ceto popolare che avrebbe adottato dopo l’elezione a imperatore, più incisivamente. Diminuì l’ammontare delle imposte e ne affidò la riscossione ad ufficiali pubblici, non più a compagnie di speculatori privati - susceptatores- fissando un calmiere sui generi di prima necessità. La capitazione, o testatico, fu ridotta da 25 a 7 solidi, e furono drasticamente ridimensionate le spese. Nel febbraio del 360, tuttavia, avvenne una svolta nella vita del Cesare e in quella di tutto l’impero. A Lutetia Parisiorum - attuale Parigi - dove Giuliano aveva stabilito la sede del suo comando, giunse il tribuno Nebridio che, a nome di Costanzo II, ordinava a Giuliano di trasferirsi in Oriente, con parte delle truppe, per combattere i Persiani. Infatti, l’anno prima, Costanzo era accorso in Siria per proteggere la provincia dalle incursioni persiane, poiché il re di Persia, Sapore II (309-379), aveva scatenato una controffensiva contro la frontiera siriana, impossessandosi delle piazzeforti di Amida, Nisibi e Singara e di cinque satrapie orientali, cioè i cinque distretti amministrativi collocati nella Mesopotamia occidentale che erano stati annessi, nel 298, dall’imperatore Diocleziano (284-303). Poiché Costanzo non era riuscito nel suo intento, decise di chiedere aiuto al cugino, ma le truppe galliche, non disposte a trasferirsi in Siria, minacciarono Nebridio e decisero di proclamare imperatore Giuliano che accettò (estate 360). Il rifiuto delle truppe a trasferirsi in Siria derivava dal fatto che erano composte in larga parte da milites arruolati sul posto, poco disposti a trasferirsi in Oriente, abbandonando le proprie famiglie in Gallia. La nomina ad imperatore fu allora sancita nell’accampamento - a Lutetia - seguendo un rituale decisamente poco romano: Giuliano fu innalzato sugli scudi e sulla sua testa fu posta, come diadema, un’improvvisata corona ricavata da un torques, una collana militare rigida, molto usata dai legionari(12). Il novello Augusto diede notizia dell’accaduto al cugino, pensando che Costanzo avrebbe approvato la sua elezione, e proponendo di spartire l’impero: Giuliano avrebbe governato Spagna, Gallia e Britannia, lasciando il resto dell’impero a Costanzo. Le cose, tuttavia, non andarono così. Costanzo ritenne il cugino un usurpatore, mentre i generali gallici a lui fedeli - Barbazione, Ursicino, Florenzio - fuggirono in Siria. Dall’Asia Minore, Costanzo marciò verso Occidente, con l’intenzione di portare la guerra in Europa e annientare il cugino in una grande battaglia campale, e Giuliano, a sua volta, abbandonò la Gallia e marciò in direzione dei Balcani, lungo la valle del Danubio, intenzionato a contrastare l’arrivo di Costanzo. La battaglia decisiva si sarebbe dovuta combattere proprio nei Balcani, ma Costanzo morì in Asia Minore, a Mopucrene, il 3 novembre del 361, prima di aver attraversato i Dardanelli. Giuliano apprese la notizia della morte del cugino a Naisso, in Mesia, attuale Serbia. Sebbene Costanzo, sul letto di morte, lo avesse perdonato e riconosciuto come legittimo erede, Giuliano si affrettò a raggiungere Costantinopoli, dove proclamò un’amnistia generale e fece celebrare esequie solenni in onore del cugino che fu sepolto nel mausoleo imperiale, annesso alla chiesa dei SS. Apostoli voluta da Costantino, nel dicembre del 361. Evitando una sanguinosa guerra civile, Giuliano era diventato unico imperatore (13).

 

III) L’impero e la politica a favore degli humiliores (361-363).

Da imperatore, Giuliano si preoccupò di istituire a Calcedonia, in Bitinia, una commissione d’inchiesta presieduta dal prefetto d’Oriente, Secondo Sallustio (†367ca.), per punire i responsabili degli abusi perpetrati durante il governo del cugino Costanzo. Molti collaboratori di Costanzo - il ciambellano Eusebio, i delatori Paolo Catena e Apodemio, il comeslargitionumUrsulino, il prefetto Florenzio - furono messi a morte, ma solo i personaggi più in vista subirono questo destino.A dispetto del passato cristiano dei suoi predecessori - ad esempio Costantino - fin dai primi tempi il nuovo Augusto si diede anima e corpo alla politica di restaurazione degli antichi culti pagani, motivato da un sincero attaccamento alla religione dei padri - era stato iniziato ai misteri di Demetra e di Mitra - e non solo - come affermato dai suoi avversari - da una pervicace volontà di rivalsa contro i Costantinidi e il clero cristiano, ritenuti responsabili dell’uccisione dei suoi familiari. Riservando ad un paragrafo specifico l’analisi di tale politica di restaurazione, ci si concentrerà, qui di seguito, ad analizzare altri aspetti della politica giulianea. Anche al di fuori dell’ambito prettamente religioso, infatti, la politica di Giuliano fu sempre attenta ai bisogni delle classi sociali più basse - gli humiliores - fin dall’epoca del suo comando in Gallia. Ciò si tradusse in un abbassamento della pressione fiscale e in un tentativo di calmierare il prezzo dei beni di prima necessità - come il grano - mantenendoli accessibili al popolo, cercando di frenare il costante processo inflazionistico che travolgeva il denaro d’argento - moneta dei ceti medio-bassi - favorendo la coniazione di denari di buona qualità, con un buon contenuto di metallo prezioso, cosa che fu consentita dalla fusione degli enormi tesori confiscati alle chiese cristiane(14). Alla politica deflazionistica perseguita dall’imperatore, si aggiunsero l’abolizione di iniqui condoni fiscali e la persecuzione degli evasori, con taglio alle spese pubbliche superflue e riduzione degli effettivi amministrativi in sovrannumero, in maggioranza ufficiali delatori del fisco - come gli agentes in rebus e i curiosi - peraltro detestati dal popolo. Giuliano, inoltre, abolì la pratica del suffragium, ovvero la compravendita di uffici pubblici, promosse opere pubbliche, adottando misure favorevoli alle amministrazioni cittadine, cui restituì il possesso dei beni pubblici che erano stati loro sottratti dai suoi predecessori - per farne dono alla Chiesa o per incamerarli nel demanio statale - e proibì che i decurioni - i consiglieri municipali-potessero abbandonare il proprio ufficio e i connessi doveri per entrare nel clero(15). I privilegi fiscali del clero - che risalivano all’epoca costantiniana - furono aboliti, come l’esenzione dai munera e la possibilità di usufruire gratuitamente del cursus publicus, ossia del servizio di posta imperiale. Ecclesiastici e beni della chiesa furono, dunque, nuovamente tassati. Soprattutto le amministrazioni cittadine furono al centro della politica di Giuliano, il quale comprese che soltanto salvaguardando la salute finanziaria dei municipia - pilastro di tutta l’organizzazione imperiale - avrebbe potuto contare su una burocrazia solida ed efficace. Pertanto i decurioni, sui quali gravava l’onere di riscossione delle imposte in tutto il territorio della civitas, ottennero l’esenzione dall’aurum coronarium, l’imposta riscossa in occasione di alcune ricorrenze importanti, come il genetliaco dell’imperatore o l’anniversario della sua ascesa al trono(16). Anche i frequenti donativa, cioè le distribuzioni gratuite di denaro alle truppe, furono limitate e le res universitatis - i beni pubblici dei municipia- furono restituite alle città, dopo che erano state confiscate a beneficio del fisco imperiale(17). In tal modo, le città tornavano a respirare perché, sotto il profilo fiscale, ogni arca municipalis avrebbe avuto un discreto patrimonio fondiario da cui attingere rendite per riparare ad eventuali “buchi” di bilancio. I beni municipali, inoltre, potevano essere affittati o, comunque, ceduti in godimento a privati, in cambio del pagamento di imposte indirette, i cui proventi defluirono tutti nel tesoro cittadino e non più in quello imperiale. Inutile dire che tutte queste misure amministrative furono immediatamente abrogate dai successori di Giuliano e che, data la brevità del principato giulianeo, è impossibile valutare che impatto avrebbero avutonel lungo periodo, sulla società e sull’economia imperiale(18).

 

IV) La Restauratio pagana e le sue basi ideologiche.

Fu, però, la politica di restaurazione religiosa a rendere Giuliano un protagonista indiscusso del IV secolo e a guadagnargli la fama di “Costantino del paganesimo” o, addirittura, di “Apostata”-ossia rinnegatore della fede - appellativo che gli fu attribuito da san Gregorio di Nazianzo (†390), uno dei “padri” della Chiesa d’Oriente.Giuliano, però, tentò di dare alla sua politica di Restauratio religiosa non solo un taglio giuridico-amministrativo, ma anche uno spessore “ideologico”, grazie al supporto della filosofia neoplatonica - di cui era seguace - e di offrire una visione il più possibile unitaria dell’“universo teologico pagano”. Questa sistemazione teorica del complesso delle credenze, dei rituali e dei simboli del politeismo greco-romano fu da Giuliano realizzata nella sua vasta opera letteraria - in prosa e versi - che fa di lui un imperatore del tutto particolare, animato da profondi interessi culturali(19). Il termine “Galilei” con cui Giuliano, nei suoi scritti, appellava i Cristiani, aveva una chiara accezione spregiativa, proprio come quello di “pagani” - campagnoli, rustici, villani - utilizzato dagli avversari dell’imperatore, per designare i fautori della religione di stato. L’appellativo di “Galilei” derivava dall’omonima regione palestinese, ubicata a nord della Giudea propriamente detta e dove si trovava Nazareth, villaggio da cui proveniva la famiglia di Gesù(20). Si ricordi, inoltre, che i Cristiani avevano cominciato ad essere chiamati così - e non più “Galilei” o “Nazareni” - proprio dai pagani, ad Antiochia, come riferisce il Nuovo Testamento(21). Partendo da una posizione neoplatonica ed enoteista, Giuliano riteneva gli dei greco-romani e delle singole stirpi ricomprese nell’impero - gli dei etnarchi - l’esito di un processo di progressiva generazione divina che, partendo dal principio unico generatore dell’universo - Dio - entità assolutamente trascendente, assimilato anche ad Helios-Apollo e a Mitra, degradava verso il basso, per successive e progressive emanazioni teofaniche - Intelletto Universale, Anima Universale, Dei Etnarchi - per giungere ai demoni, alla materia terrestre e al genere umano. Ogni religione - sosteneva Giuliano, ragionando da romano - era espressione del Mos Maiorum, ovvero del complesso delle tradizioni degli antenati e delle singole stirpi che popolavano l’impero e, dunque, non si poteva pretendere di abolirla - come suggerivano i Cristiani - senza profanare l’eredità dei padri e degli antiqui mores(22). Gli dei andavano onorati per la prosperità dello stato, con la celebrazione dei riti e delle antiche preghiere, e attraverso le pratiche teurgiche (23). Il cristianesimo, per il suo proselitismo universalistico e la sua intolleranza monoteista verso ogni altra forma di culto, appariva a Giuliano come una fede spregevole e socialmente sovversiva degli equilibri interni alle varie etnie dell’impero. Secondo Giuliano, i Cristiani, con il loro disprezzo per ogni culto e tradizione etnica, in nome di un malsano proselitismo cosmopolita che pretendeva di azzerare tradizioni secolari, apparivano come una sorta di animale polimorfo - ibrido - oltre che socialmente pericolosissimo, che andava se non distrutto, quantomeno messo in condizione di non nuocere(24). Inoltre, per colpa di Costantino, i Cristiani avevano acquistato troppo potere, diventando un vero e proprio stato nello stato, e ciò l’impero non poteva tollerarlo, pena la sua distruzione. La mancata venerazione degli dei - cosa che i Cristiani propagandavano - avrebbe causato la fine della pax deorum -del favore divino per l’impero - e, con esso, la fine di Roma. L’attaccamento alla tradizione e al culto dei padri spinse l’imperatore a simpatizzare persino col giudaismo, da lui considerato “religione etnica” - per la veneranda antichità del culto e delle Scritture ebraiche –e per l’attaccamento dei Giudei - avversari dei Cristiani - alle tradizioni dei padri. La logica che presiedeva alla politica dell’imperatore era chiara: favorire il giudaismo significava contrapporre ai cristiani un monoteismo più antico e - secondo l’Augusto - più nobile e prestigioso. Quello che colpiva Giuliano del giudaismo era la natura “etnica” - avversa a forme di proselitismo universalistico come il cristianesimo - e in cui rinveniva una forte affinità col “paganesimo”(25). E proprio in omaggio al dio giudaico che, come le altre divinità, Giuliano comprendeva nella categoria delle divinità etnarchiche, l’imperatore promosse la ricostruzione del tempio di Gerusalemme -distrutto da Tito nel 70 d. C. - oltre che per smentire la profezia, formulata da Cristo nei Vangeli, sulla sua distruzione(26). Tuttavia, questa iniziativa - affidata all’architetto Alipio di Antiochia - non fu portata a termine a causa di alcuni terremoti che devastarono la Palestina. Dal punto di vista legislativo e amministrativo, Giuliano non scatenò alcuna persecuzione cruenta contro il cristianesimo- che non fu messo fuorilegge - ma si limitò a colpirne gli interessi economici e politici, privando le gerarchie ecclesiastiche dei privilegi fiscali e giurisdizionali di cui avevano goduto dall’epoca di Costantino, come le esenzioni fiscali su beni e persone ecclesiastiche, il diritto del clero di essere giudicato da propri tribunali, ovvero il diritto dei tribunali vescovili di emanare sentenze nelle controversie tra laici- episcopalis audientia - il diritto delle chiese di ricevere eredità e donazioni, quello dei vescovi di servirsi del servizio di posta imperiale - cursus publicus - e, infine, il riconoscimento del giorno di festa cristiano - la domenica - come giorno festivo per tutto l’impero(27). Durante il principato giulianeo è, infatti, registrabile un solo caso di martirio cruento, quello di Iuventino e Massimo, due ufficiali della guardia imperiale cristiani mandati a morte, però, con l’accusa di cospirazione. Con i provvedimenti di Giuliano, la Chiesa tornò ad essere l’istituzione che era stata prima di Costatino I, una semplice associazione privata, priva del supporto del potere pubblico romano, e l’imperatore dispose anche la riapertura dei templi - chiusi sotto Costanzo II - ed il loro restauro, con la ripresa dei sacrifici cruenti(28). L’unica misura veramente coercitiva contro i Cristiani - ma dotata di una sua intrinseca ratio - fu il provvedimento di allontanamento dalle scuole pubbliche dei maestri “galilei” e, soprattutto, dall’attività d’insegnamento della grammatica e della retorica, dal momento che - come precisò in una delle sue Lettere l’imperatore - non era concepibile che uomini che disprezzavano i culti di stato insegnassero, manipolandola a loro piacimento, la “letteratura classica”, permeata dalla spiritualità greco-romana. Era meglio - sosteneva l’imperatore - che i Cristiani leggessero ed insegnassero i Vangeli o gli Atti di Luca, ma non Virgilio, Tacito, Omero o Platone! I Cristiani, quindi, potevano continuare a frequentare le scuole pagane, pur non potendo più insegnarvi, e potevano continuare a svolgere attività didattica in scuole proprie, studiando e commentando i testi della loro religione, ma non quelli delle altre. Giuliano, infatti, riteneva la paideia greco-romana - e l’ideale antropologico che essa propugnava - assolutamente inconciliabili con l’etica cristiana. Pertanto, o il Mos Maiorum o Cristo, tertium non datur! Libertà di culto, anche pubblico, ma rispetto per i principi basilari della Res Publica Romanorum! La vera novità della politica dell’imperatore in materia religiosa, però, fu il tentativo di edificare una vera e propria “chiesa pagana” anche sotto il profilo istituzionale, cioè di corroborare la romana religio non solo con un apparato concettuale ed ideologico chiaro, ma anche con una solida e ramificata struttura organizzativa, anche prendendo a modello la gerarchia degli uffici ecclesiastici! Prendendo a modello la Chiesa istituzionale, infatti, Giuliano tentò di organizzare su base gerarchica gli uffici sacerdotali pagani, ponendo al vertice degli stessi l’imperatore - in qualità di pontifex maximus - e alla base, in progressione, i sacerdoti provinciali e quelli cittadini che sovraintendevano al culto degli dei nelle province e nelle singole città. Incoraggiò anche la fondazione di ospedali, nosocomi e xenodochi “pagani”, al fine di sottrarre ai Cristiani il monopolio dell’assistenza sociale agli indigenti, e incoraggiò i suoi sostenitori ad essere sempre uomini di specchiata moralità, perché solo il buon esempio, corroborato da una morale severa ed austera, poteva creare una barriera alla rovina del “paganesimo”. In una prospettiva di tolleranza generale, Giuliano ordinò di revocare le sanzioni - esilio, carcere, confisca dei beni - che i suoi predecessori avevano erogato a danno di eretici e scismatici cristiani, per avvantaggiare la Chiesa ortodossa. In tal modo, l’imperatore si guadagnò la simpatia di donatisti, ariani e gnostici, fino ad allora perseguitati dal potere politico, ma ciò contribuì a creare maggiore conflittualità e divisioni all’interno della Chiesa, indebolendone le istituzioni, il che andava nella direziona auspicata dall’imperatore(29). Morto l’imperatore, questa politica fu ovviamente abbandonatae il cristianesimo ripristinato nella pienezza dei suoi poteri e delle sue forme. La Restauratio religiosa di Giuliano non può, in ogni caso, essere considerata il frutto esclusivo del suo pensiero e della sua azione politica. Non bisogna assolutamente dimenticare, infatti, che nell’opera di contrasto al cristianesimo, Giuliano poté avvalersi dell’opera di collaboratori fedeli e “ideologicamente” motivati, che appoggiarono la sua politica e, spesso, ne furono anche gli ispiratori. Molti di questi “ideologi” furono anche suoi amici fin dal tempo del comando in Gallia(30). Tra loro bisogna ricordare Secondo Sallustio (†367ca.), prefetto del pretorio d’Oriente (361-363), forse di origine gallica che, alla morte di Giuliano, fu anche acclamato imperatore, declinando, però, l’offerta delle truppe. Sallustio si rivelò un funzionario scrupoloso ed efficiente, ma anche valido studioso e filosofo. Infatti, fu autore di un’opera scritta in greco -Gli Dei e il Mondo - pervasa di spunti neoplatonici, in cui sintetizzava - sotto il profilo etico, cosmologico e teologico - le idee ispiratrici del “paganesimo”giulianeo. L’opera di Sallustio può essere definita, a buon diritto, il “catechismo ufficiale” della restaurazione religiosa di Giuliano. Accanto a Sallustio, bisogna ricordare anche il retore e filosofo neoplatonico Massimo di Efeso (†372), autore di commentari neoplatonici, maestro spirituale di Giuliano - che ne seguì, in gioventù, le lezioni a Pergamo - e che Giuliano volle a corte, una volta divenuto imperatore, come consigliere. Accanto a Massimo fu una figura di rilievo anche il retore siriano Libanio d’Antiochia (†393), docente a Nicomedia, Atene, Costantinopoli e, infine, nella sua stessa patria. Libanio fu autore di numerose Epistole e Discorsi. Tra quest’ultimi sono da ricordare l’Epitaffio in onore di Giuliano e il Discorso in difesa dei templi, indirizzato all’imperatore Teodosio I, in cui denunciava la prepotenza dei monaci cristiani, saccheggiatori e devastatori dei templi pagani. Da ricordare, infine, sono anche i retori Imerio di Prusa (†390) e Temistio (†388), che tenevano scuola a Costantinopoli, e che di Giuliano furono maestri e consiglieri. Entrambi nativi dell’Asia Minore e autori di Discorsi, nonostante il loro “paganesimo” furono destinati a grande fortuna anche sotto i successori di Giuliano. Basti pensare che il cristianissimo Teodosio designò Temistio prefetto di Costantinopoli (384) (31).

 

V) La campagna contro i Persiani e la morte di Giuliano.

Nell’inverno del 362, Giuliano si fermò ad Antiochia, in Siria, dove iniziarono a convergere le truppe - 60000 uomini circa - per la grande spedizione contro i Persiani. Probabilmente, l’imperatore intendeva emulare Alessandro il Macedone (356-323 a. C.) o, comunque, realizzare una grande impresa militare che lo rendesse pari ai suoi modelli: Giuliano intendeva recuperare le cinque satrapie orientali - perdute da Costanzo II nel 359 - e le piazzeforti di Amida, Nisibi e Singara. La permanenza ad Antiochia non fu piacevole, perché l’imperatore fu oggetto delle ribellioni e del sarcasmo degli abitanti, che mal tolleravano la sua politica anticristiana. Infatti, quando Giuliano dispose che dal tempio di Apollo - ubicato nel sobborgo di Dafne e da tempo trasformato in chiesa - fossero rimosse le spoglie di alcuni martiri cristiani, scoppiò un tumulto e alcuni monaci diedero alle fiamme l’edificio. Con grande dispiacere di Giuliano, i sacrifici nei templi andarono deserti e iniziò a circolare voce che se si continuavano ad ammazzare tanti buoi per le divinità, alla fine non si ci sarebbe stata più carne da mangiare (32). Comunque, nel marzo del 363, la spedizione ebbe inizio(33). L’imperatore, affiancato da un ottimo stato maggiore comprendente i migliori generali dell’impero - Nevitta, Arbizione, Gioviano, Procopio - aveva previsto l’invasione della Mesopotamia ad opera di due colonne, una proveniente dal fronte siriano - al suo comando - e l’altra, dal fronte armeno, guidata dal generale Procopio che era anche un suo parente. L’impresa, però, volse subito al peggio, perché al caldo opprimente e alla mancanza di adeguati vettovagliamenti, si aggiunse la “terra bruciata” messa in atto dai Persiani che, davanti all’avanzata romana, si ritiravano sempre più a est, evitando di dare battaglia e molestando i Romani con la guerriglia. Ad un certo punto Giuliano, forse per accelerare la marcia delle truppe, o per evitare che le navi cadessero in mani nemiche, decise di incendiare la flotta che stazionava sul Tigri - circa 2000 imbarcazioni - ma che era utile per i rifornimenti e per mantenere i contatti con le retrovie del fronte, che si spostava sempre più a oriente. L’imperatore riuscì ad espugnare e a saccheggiare Ctesifonte e Seleucia - le capitali persiane - senza riuscire a catturare il re e il tesoro di stato. Pertanto, in estate, decise di ripiegare a ovest, risalendo il corso del Tigri, ma a Maranga, nel corso di una scaramuccia con l’esercito persiano, il 26 giugno del 363, fu colpito da un giavellotto e, ferito gravemente, morì il giorno dopo(34). Si fece subito strada l’ipotesi - mai provata - che a scagliare la lancia fosse stato un soldato romano di fede cristiana, deciso a vendicare i suoi correligionari per le vessazioni provocate dalla politica dell’imperatore che - narra la leggenda - in punto di morte avrebbe esclamato: ‹‹viciste, Galilee››, ovvero‹‹hai vinto, Galileo››. Si trattava di una palese ammissione - al momento del trapasso - della sconfitta della sua politica e della vittoria di Cristo. Morto Giuliano, le truppe elessero un nuovo imperatore, Flavio Gioviano (363-364), di origine illirica, tribuno membro della guardia palatina e cristiano. Il nuovo Augusto concluse una pace ignominiosa con i Persiani: l’impero accettò di pagare alla Persia un tributo annuale e a cedere, definitivamente, i cinque distretti oltre l’Eufrate, lungo il quale fu fissata la frontiera tra i due stati. Il corpo di Giuliano fu tumulato a Tarso, in Cilicia, sulla strada del ritorno dell’esercito a Costantinopoli(35). Pochi anni dopo - ma non si hanno certezze in tal senso - il corpo fu tumulato a Costantinopoli, nel mausoleo costantiniano annesso alla chiesa dei SS. Apostoli, dove riposava anche Costanzo II. Gioviano e i suoi successori si affrettarono a sconfessare la politica anticristiana di Giuliano, abolendone la legislazione, chiudendo i templi e ripristinando le libertà della Chiesa. Infine, nel febbraio del 380, l’imperatore Flavio Teodosio I (379-395) emanò, a Tessalonica, un editto - Cunctospopulos - rivolto a tutti i popoli dell’impero. Con il provvedimento, l’Augusto proibiva ufficialmente il culto pagano, disponendo la chiusura dei templi, la loro distruzione o conversione in chiese cristiane, l’abolizione dei sacrifici agli dei, sotto minaccia di gravi sanzioni per i contravventori. Il cristianesimo, nella versione professata dal vescovo di Roma - Damaso (366-384) – fu imposto come unica religione di stato e il “politeismo greco-romano” non fu più considerato religio licita. Nello stesso torno di tempo, il collega di Teodosio in Occidente, Graziano (367-383), ne recepiva la normativa e ordinava la rimozione dall’atrio della curia senatoria - atrium Libertatis - a Roma, della statua della Vittoria. Il simulacro era stato posto lì da Cesare Augusto, nel 27 a. C., a simboleggiare che la grandezza e potenza dell’Urbe erano dovute, essenzialmente, alla pax deorum, ovvero al culto dei suoi dei. Così, alla fine del IV secolo - nonostante la tragica grandezza del tentativo di restaurazione giulianeo - gli equilibri politici si erano modificati a favore del cristianesimo a tal punto che si poteva affermare che i tanto disprezzati “Galilei” avevano definitivamente trionfato sull’antico culto di stato(36).

Note:

1 - In generale, sulla figura di Costantino I, J. Burckhardt, L’età di Costantino, Firenze 1957, A. Cameron, Il tardo impero romano, Bologna 1995, A. Marcone, Costantino il Grande, Bari 2000, F. Prinz, Da Costantino a Carlo Magno. La nascita dell’Europa, Roma 2004. 2 - La nuova politica di tolleranza favorì anche l’edificazione di nuovi edifici di culto cristiani e il riadattamento di edifici precedenti - in genere templi - agli usi sacri imposti dalla nuova religione. Le città diventarono il fulcro dell’organizzazione ecclesiastica, basata sulla diocesi e sulle sue ripartizioni interne comele parrocchie. La diocesi era l’organizzazione di base per l’inquadramento dei fedeli, per l’amministrazione dei sacramenti e per ogni adempimento liturgico. Il clero era articolato in una gerarchia di uffici: al vertice, il vescovo o arcivescovo, a seconda che fosse preposto o non ad a una metropoli ecclesiastica, ovvero ad una provincia comprensiva di più diocesi suffraganee, subordinate al metropolita. Al di sotto dei vescovi stavano i presbiteri e i diaconi, questi ultimi con funzioni di assistenza ai vescovi e ai presbiteri, e con mansioni di tutela del patrimonio ecclesiastico e di assistenza ai bisognosi. Seguivano i suddiaconi, gli ostiari, gli esorcisti, i lettori e gli accoliti - che appartenevano agli ordini minori - il grado più basso della gerarchia, con compiti di assistenza liturgica degli ordini maggiori. Il conferimento degli ordini spettava al vescovo, che era scelto dal clero della diocesi, escludendo il popolo, che si limitava ad approvare per acclamazione. L’elezione del vescovo era al centro di importanti trattative tra i ceti dirigenti della città e i vertici del potere politico, generalmente l’imperatore o i suoi rappresentanti. Una volta eletto, il vescovo suffraganeo era consacrato dal proprio metropolita, mentre il metropolita era consacrato da almeno tre vescovi della propria metropoli. Nel IV secolo, l’organizzazione complessiva della Chiesa fu ancora collegiale, ovvero basata sull’accordo dei vescovi, espresso in sede sinodale, mentre il vescovo di Roma - il papa - conservava solo un primato morale, ma non giurisdizionale, conferitogli dal prestigio della sua diocesi che ospitava le reliquie di Pietro e Paolo, principi degli apostoli. Per questi aspetti istituzionali di storia ecclesiastica, J. Lorz, Storia della Chiesa, vol. I, Antichità e Medioevo, Roma 1987. 3 - Giulio Costanzo e Flavio Dalmazio erano fratellastri di Costantino, in quanto figli del secondo matrimonio di suo padre, Costanzo Cloro (†306), con Teodora (†306ca.), figlia del tetrarca Valerio Massimiano (†308). Costantino, com’è noto, era figlio, forse illegittimo, di Costanzo Cloro e di una locandiera della Bitinia, Elena (†336), poi venerata come santa dalla Chiesa. Costanzo Cloro lasciò Elena per volere dell’imperatore Diocleziano (284-305),al fine di sposare Teodora. 4 - Costantino II fu ucciso nel 340, ad Aquileia, dopo essere stato sconfitto dal fratello, Costante, che si impossessò della sua parte d’impero. Nel 350, Costante fu a sua volta assassinato in Gallia da un usurpatore, il magistermilitum Flavio Magno Magnenzio, che fu poi ucciso da Costanzo, nel 353. 5 - Per questi aspetti genealogici sui Costantinidi si veda, J. Bidez, Vita di Giuliano imperatore, Rimini 2004. 6 - Sull’humus filosofico in cui crebbe e fu educato Giuliano, M. C. De Vita, Giuliano imperatore filosofo neoplatonico, Milano 2011. 7 - Una parte dei Franchi era già da tempo stanziata in Gallia come foederati (298ca.), lungo il basso corso del fiume Reno, nei territori corrispondenti, approssimativamente, all’odierna Olanda, Belgio e Renania inferiore. I Franchi erano divisi in due grandi raggruppamenti tribali, a carattere confederale, i Franchi Sali e i Franchi Ripuari - ciascuno con propri re - derivanti dall’accorpamento politico e militare di alcune tribù preesistenti - Sugambri, Catti, Catruari, Usipeti, Tencteri, Gambrivi - precedentemente stanziate sulla riva destra del Reno, lungo il suo corso inferiore e medio. Gli Alemanni o Alamanni, invece, erano una grande confederazione di tribù germaniche - Quadi, Marcomanni, Suebi - come sembra suggerire il nome stesso - Allmanner, tutti gli uomini - ed erano stanziati tra l’alto corso del Reno e del Danubio, negli attuali Baden e Wurttemberg, nella vallata del fiume Neckar e nel territorio della Foresta Nera. Da lì minacciavano il territorio romano. Gli Alemanni avevano occupato i preesistenti Agri Decumates, conquistati, nel I secolo d. C., dall’imperatore Domiziano (81-96). Gli Agri svolgevano la funzione di “cuscinetto” di protezione delle province romane ubicate a destra del Reno - Gallia, Germania inferiore e superiore - e a sud del Danubio (Rezia, attuale Svizzera e Austria occidentale). Sul punto, E. James, I Franchi. Gli albori dell’Europa. Storia e mito, Genova 1998. 8 - Il rapporto di Giuliano con la moglie Elena è, in realtà, poco conosciuto. Da scartare come pettegolezzi di corte sono le illazioni dei detrattori di Giuliano, secondo i quali il futuro imperatore avrebbe avuto come amante Eusebia, moglie del cugino, e che, a questa relazione, sarebbe da collegare la sua ascesa al potere. Sta di fatto che la relazione con Elena - a quanto è dato di sapere - fu l’unica relazione sentimentale che Giuliano ebbe nel corso della sua vita. Elena - che era anche cugina di Giuliano e sorella di Costanzo - sposò il Cesare nel 355, al momento del conferimento del comando in Gallia, per consolidare il rapporto tra il nuovo comandante e la dinastia regnante. L’assenza della sposa anche dall’epistolario giulianeo e le scarsissime informazioni che gli autori antichi forniscono sulla coppia, sembrerebbero confermare la natura esclusivamente “politica” di quel rapporto che, tra l’altro, non fu neanche consolidato dalla nascita di figli. L’unica gravidanza di Elena, nel 356, si concluse, infatti, con un aborto. Nel 360, a soli cinque anni dal matrimonio, l’Augusta morì di malattia, e Giuliano non si risposò, restando celibe fino alla morte, nel 363. La totale assenza di donne - persino “amiche” o “amanti” - nella vita di Giuliano, ha fatto parlare di una sua presunta “omosessualità”, ma gli elementi sulla base dei quali formulare tale giudizio sono del tutto assenti e sarebbe meglio, forse, parlare di una “frigidità” naturale del Cesare, dovuta sia alla tragica esperienza personale vissuta da ragazzo, sia ad una sua probabile anaffettività o indifferenza al sesso femminile, determinate dall’eccessivo carico di incombenze politico-militari, ma anche dagli svariati interessi intellettuali - i suoi amici più stretti furono esclusivamente uomini - tradottisi in una produzione letteraria non indifferente. 9 - Silvano, a dispetto del nome “latino”, era un franco, figlio del magister militum Bonito. 10 - All’epoca di Giuliano, gli Alemanni costituivano una confederazione potentissima governata da un re - Cnodomario - cui erano subordinati cinque subreguli e ben venti principes - capi aristocratici - secondo una gerarchia oltremodo elastica, ma efficace. 11 - Per la situazione politico-militare della prefettura Gallica, nel IV secolo d. C., S. Mazzarino, L’impero romano, vol. II, Roma- Bari 2010. 12 - V. Marotta, Il potere imperiale dalla morte di Giuliano al crollo dell’impero d’Occidente, in Storia di Roma, vol. III, Torino 2003. 13 - Per le campagne militari di Giuliano in Gallia si veda, T. Gnoli, Le guerre dell’imperatore Giuliano, Bologna 2015. 14 - Sulla situazione economico-sociale generale del Tardo Impero, A. Cameron, Un impero due destini. Roma e Costantinopoli fra il 395 e il 600, Genova 1996. 15 - Per la politica di Giuliano in campo economico-sociale si veda, S. Rossetto, L’ultimo Pagano. Vita dell’imperatore Giuliano, Rimini 2013. 16 - Sul punto, A. H. Jones, Il tardo Impero romano, vol. I, Milano 1973. 17 - Sul punto, P. Brown, Il mondo tardo antico. Da Marco Aurelio a Maometto, Torino 1974. 18 - Molte delle iniziative politiche giulianee, oggi, figurerebbero bene nel programma di un partito politico dichiaratamente “populista”! 19 - Giuliano fu uno scrittore infaticabile e prolifico. Tra i suoi scritti spicca il trattato in tre libri Contro i Galilei - non pervenutoci in originale - ma ricostruibile dalla confutazione che ne fece il patriarca di Alessandria, Cirillo (412-444), nel suo Contra Iulianum. A quest’opera sono da aggiungere l’Epistolario - Le Lettere - tra cui sono da ricordare quella indirizzata Al senato e al popolo di Roma, incui annunciava la sua proclamazione a imperatore - e le Orazioni, tra le quali due furono dedicate ad argomenti religiosi, ovvero la Ad Helios sovrano e Alla Madre degli dei. Da ricordare anche l’opera satirica I Cesari, in cui Giuliano passava in rassegna l’operato di tutti gli imperatori suoi predecessori a partire da Augusto, immaginando un banchetto voluto da Romolo, in occasione della festa dei Saturnali, durante il quale si discuteva su chi fosse stato il migliore di essi. La corona del vincitore andava -secondo Giuliano - a Marco Aurelio (161-180), ovvero all’ “imperatore filosofo”, seguace dello stoicismo e duro persecutore dei Cristiani. Dall’opera usciva molto male la figura di Costantino - zio di Giuliano e primo imperatore cristiano – e, in questo ruolo, sprezzante del culto degli dei. Tra le opere di Giuliano sono da ricordare anche alcune orazioni encomiastiche, come l’Elogio all’imperatore Costanzo, e alcune di taglio filosofico, come Sul Regno. Da menzionare, infine, l’opera satirica L’Odiatore della barba, indirizzata da Giuliano agli Antiocheni, responsabili di aver deriso il look barbuto dell’imperatore, poco adatto - secondo i canoni dell’epoca - ad un sovrano, ma semmai ad un filosofo o a un monaco cristiano! 20 - Si badi che gli appellativi di “pagano” e “politeista”, per indicare gli appartenenti alla religione ufficiale dell’impero romano - quella greco-romana - sono assolutamente impropri e fuorvianti, oltre che dispregiativi. L’uso di tale terminologia è frutto della pubblicistica apologetica cristiana del III-IV secolo e, prima di essa, di quella giudaica. Nessun “pagano” o “politeista”, infatti, si sarebbe definito come tale, ma avrebbe preferito altri termini per indicare se stesso e la propria fede religiosa, come homo pius e religio. 21 - Atti degli Apostoli 11,26. 22 - Sulla “polemica” giulianea contro i Cristiani, E. Wipszycka, Storia della Chiesa nella Tarda Antichità, Milano, 2000. 23 - La teurgia - molto praticata nei circoli neoplatonici o tra gli adepti dei culti misterici - era un insieme di pratiche magiche che, attraverso l’esecuzione di complessi rituali verbali e gestuali, aveva la finalità di “imbrigliare” l’energia divina in un essere umano, realizzando una sorta di osmosi tra spirito e materia, o nel simulacro della divinità che, animandosi, dispensava miracoli o responsi. 24 - Una sorta di sostenitori della “globalizzazione religiosa” ante litteram. 25 - Il cristianesimo nacque, fin dalle origini, come “eresia” del giudaismo, religione caratterizzata da una precisa identificazione etnica e da scarsa vocazione proselitistica. Basti pensare al fatto che l’“identità ebraica” - secondo i precetti talmudico-rabbinici - fu ed è determinata, innanzitutto, dal “sangue”, cioè dalla discendenza biologica in linea matrilineare - ciò in base al noto principio mater certa, pater numquam - e non dalla semplice adesione ad una pratica cultuale. Ovviamente, nella storia del “popolo eletto”, non sono mancati casi di conversione di “gentili” al giudaismo, quello che è mancato, invece, è stata un’attività proselitistica organizzata e metodica, rinvenibile, invece, nella storia degli altri due monoteismi abramitici, cioè cristianesimo ed islàm. D’altronde, un’intensa attività proselitistica avrebbe potuto rivelarsi un danno per una stirpe che mirava alla preservazione della propria “identità” etnoculturale, soprattutto tra le comunità della Diaspora che vivevano a contatto con genti straniere ed ostili, praticando, pertanto, una ferrea endogamia etnica. 26 - Per i rapporti tra Giuliano e gli Ebrei, M. Spinelli, Giuliano l’Apostata. Anticristo o cercatore di Dio?, Fidenza (PR) 2017. 27 - Sui privilegi ecclesiastici, G. M. Vian, La donazione di Costantino, Bologna 2004. 28 - Nel 356 - a quanto sembra - Costanzo II promulgò anche un editto che decretava la chiusura dei templi, con il divieto di sacrificare agli dei. 29 - La tolleranza costantiniana, infatti, favorì il proliferare dei dibattiti teologici che, a partire dal IV secolo, furono sempre più frequenti e riguardarono, soprattutto, l’interpretazione della natura di Cristo. Le eresie e gli scismi, quindi, iniziarono a proliferare. Tra le eresie più note di questo periodo, sono da ricordare l’arianesimo e il donatismo. Il primo, un’eresia trinitaria nata ad opera del presbitero egiziano Ario (†336), negava la piena divinità del Verbo divino - seconda persona della Trinità - considerato “creatura” del Padre creata nel tempo, e, quindi, non consustanziale a Dio e non pienamente divina. L’arianesimo fu condannato nel concilio ecumenico di Nicea, nel 325, convocato proprio da Costantino I. Nel IV secolo, infatti, divenne prassi abituale degli imperatori intervenire nelle vicende interne alla Chiesa, convocando sinodi ecclesiastici e imponendo il proprio punto di vista anche in materia di fede, al fine di combattere l’eresia e contrastare, così, la divisione dell’“inconsùtile tunica di Cristo”. Tra le eresie nate nel IV secolo, si ricordi anche il donatismo - condannato definitivamente nel sinodo di Cartagine del 411 - nato e diffusosi nell’Africa romana e, in seguito, sfociato in un vero e proprio scisma. Il donatismo prese nome dal vescovo africano Donato (†355), propugnatore dell’idea della “validità soggettiva” dei sacramenti, secondo cui l’efficacia degli atti sacramentali non dipendeva dalla corretta esecuzione del rito, ma dall’ortodossia e dall’integrità morale dell’officiante e del fedele cui erano impartititi. Sull’organizzazione ecclesiastica nel IV secolo e, più in generale, sulla teologia e la cultura cristiana del Tardo Impero, P. Brown, Potere e Cristianesimo nella Tarda antichità, Roma-Bari 1995, L. De Giovanni, Chiesa e stato nel codice teodosiano. Saggio sul libro XVI, Napoli 1980. 30 - E’ indubbio che, nella formazione del pensiero di Giuliano verso i Cristiani, abbia inciso, oltre l’esperienza personale, anche la lettura di due importanti scritti di feroce critica alla nuova religione, sia sotto l’aspetto socio-politico che dogmatico, ovvero il Discorso veritiero del pagano Celso, filosofo vissuto nel II secolo, e il Contro i Cristiani, di Porfirio di Tiro, discepolo di Plotino. 31 - Sono anche da ricordare Oribasio da Pergamo (†403), medico personale di Giuliano e autore di un’enciclopedia medica, l’Isagoge, il retore gallico Claudio Mamertino, autore di un Panegirico in onore diGiuliano, composto in occasione della sua nomina a console (362), lo storico africano Sesto Aurelio Vittore (†390ca.), praefectus Urbi e autore del De Caesaribus, e, infine, Ammiano Marcellino di Antiochia (†397), magister militum in Gallia e durante la campagna persiana. Ammiano fu anche storico, autore delle Historiae - scritte in latino - pervase da una visione politica dell’impero conservatrice e pagana, ma equilibrata e aliena da eccessi, ostile tanto al cristianesimo che ai barbari. 32 - E’ in questa situazione di tensione, ad Antiochia, che l’imperatore scrisse l’opera satirica L’Odiatore della barba, 33 - Sulla campagna contro i Persiani si veda, R. Rémondon. La crisi dell’impero romano. Da Marco Aurelio ad Anastasio, Milano 1975. 34 - Per i rapporti tra Roma e i Persiani, sotto il profilo militare, G. Cascarino – C. Sansilvestri, L’esercito romano. Armamento e organizzazione. Dal III sec. alla fine dell’Impero d’Occidente, Rimini 2009. 35 - Sulla tomba fu posta un’epigrafe: ‹‹Dalle rive del Tigri impetuoso, Giuliano è venuto a riposare qui, buon sovrano e valoroso guerriero››. 36 - La fedeltà agli antichi culti e al Mos Maiorum - che aveva guidato la politica di Restauratio di Giuliano – sopravvisse, in gran parte, all’interno dei circoli dell’aristocrazia romana, fino alla fine dell’impero d’Occidente nel 476 d. C. Tra gli esponenti di punta, in questa battaglia di preservazione degli antichi culti, si distinse, senz’altro, Quinto Aurelio Simmaco (†402), retore, filosofo e ufficiale pubblico. Simmaco fu praefectus urbi, nel 384, e console nel 391. Cercò di difendere gli antichi “culti pagani” contro i tentativi autoritari di sopprimerli, messi in atto prima dall’imperatore Graziano e, poi, da suo fratello, Valentiniano II (375-392). Quest’ultimo, confermando una decisione già assunta dal fratello, rimosse la statua della dea “Vittoria” dall’atrium Libertatis della curia romana, la sede in cui avvenivano le riunioni del senato nel Foro. Simmaco non riuscì a persuadere l’imperatore a ricollocare la statua al suo posto, anche perché, nella disputa, intervenne il vescovo di Milano, Ambrogio (374-397), minacciando Valentiniano di severe sanzioni ecclesiastiche, tra cui la scomunica. Il tentativo del “paganesimo” romano di sopravvivere, con coraggio, all’affermazione violenta della fede cristiana, culminò, nel 392, nell’assassinio di Valentiniano II, ad opera del magister militum franco, Arbogaste, e nell’elezione di un nuovo imperatore, il retore pagano di origine gallica Eugenio. Questa usurpazione provocò l’immediata reazione di Teodosio I che, nel 394, nella battaglia del Frigido - attuale Vipacco, affluente dell’Isonzo - annientò le forze dei ribelli e, con esse, una fetta consistente della nobilitas senatoria che si era schierata dalla parte degli antiqui mores (basti ricordare figure come VirioNicomaco Flaviano, praefectus praetorio). G. A. Cecconi, La città e l’impero. Una storia del mondo romano dalle origini a Teodosio il Grande, Carocci, Roma 2009.

Tommaso Indelli, assegnista di Storia Medievale, Università degli Studi di Salerno.


Una nuova Wealtanschauung per un Nuovo Ordine – Roberto Siconolfi

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Il nuovo paradigma scientifico-metafisico

In diversi ambiti scientifici, storici, di ricerca, politici e finanche popolari, sta nascendo una sorta di bisogno, nel senso proprio maslowiano, riguardo il mondo spirituale. Una serie di convergenze, inoltre, stanno celebrando la fine di un paradigma, e la nascita di un altro. Il razionalismo, il positivismo, il materialismo con tutte le loro armi ideologico-politiche (liberalismo e marxismo), si stanno avviando verso la loro parabola discendente. Di converso si afferma il mondo della fisica quantistica e delle particelle subatomiche, il ritorno a principi “metafisici”, e l’elaborazione di forme politico-comunitarie nuove. Partiamo dal fatto che la scienza accademica e la metafisica “dominante” (la religione) portano avanti un “antagonismo di facciata”. Da una parte la scienza va sempre più verso un fanatismo positivistico e della “ragione onnipotente”. Dall’altra la religione, aggiorna le proprie concezioni di religo (dal latino io lego), seppur alla luce della nuova retorica mondialista, socialisteggiante, e per certi versi New Age (discorsi su accoglienza e amore universale).  Quindi, da un lato abbiamo un atteggiamento di chiusura a prescindere da parte dell’accademismo nei confronti di tutto ciò che non passa il vaglio del metodo galileiano e di tutto ciò che va oltre i canoni della materia, seppur aggiornata ad energia. Dall’altro il dogmatismo “storico” delle gerarchie religiose che vietano, come dice espressamente Papa Francesco, altri cammini spirituali, di accesso diretto e senza mediazione alla fonte divina, e persino semplici percorsi di autocoscienza funzionali ad uno sviluppo personale. Due atteggiamenti, insomma, speculari tra loro, ma che rispettivamente si aggiudicano il dominio delle menti e dei cuori. Tuttavia, è possibile trovare un punto di sintesi tra quelli che non sono affatto sistemi tra loro antitetici, ma come si può vedere compenetrabili.

Le odierne teorie del tutto, ad esempio, integrate al mondo spirituale, vanno proprio nella direzione, che è stata già battuta in altri periodi storici. Come con la “fenomenologia” di Husserl, che, tra l’800 e il ‘900,nasce in opposizione al positivismo e all’irrazionalismo. Questa si presenta come una “eidetica”, ovvero un sapere delle essenze intellettuali. Per intellettuale (intellegibile) non intendiamo ciò che è esclusivamente raziocinante ed astratto, ma quel capire che coincide col vedere, “il vedere il senso delle cose”. Ciò richiama all’antichità dove era presente il concetto di EIDOS (idea platonica). Tornando ad oggi, e consideriamo che la fisica quantistica occidentale con le teorie di Bohm e Pribram su universo e cervello olografico è giunta a conclusioni simili a quelle dei saperi ancestrali e dell’altra parte del globo, l’oriente.  La teoria dell’Universo olografico, frattale e non locale di David Bohm coincide con quelle di Plotino, sul frattale appunto,e del neoplatonismo, o con la teoria sui cicli cosmici di Guénon – parte sui Kalpa. Allo stesso modo la teoria di Karl H. Pribram sul “Cervello olografico” – la natura olografica della realtà – ricalca la visione dell’universo mentale del Kybalion, ad esempio, ed è in linea con le abilità acquisite tramite le antiche pratiche meditative e trascendentali.

 

Il nuovo modello politico-comunitario

Su questa base scientifico-metafisica si può ipotizzare di far fede alla Coscienza (Dio Brahma della Tradizione Indù) come principio di tipo “superiore”, l’”Idea” alla quale conformarsi. Intorno ad essa sarebbe possibile delineare un modello comunitario olistico – riprendendo la definizione di Ferdinand Tönnies di Gemeinschaft (Comunità) differente da Geselleschaft (Società).  Un modello valido proprio per l’Occidente contemporaneo, dove sembra davvero difficile immaginare ordinamenti politici comprendendo anche l’elemento dei “corpi sottili”. E dove proprio questi ultimi, sono i maggiormente sotto assedio da parte della “struttura” di potere. Essi sono di conseguenza il principale raggio d’azione sul quale operare, riformulando il concetto di battaglia interiore evoliana. Un anello debole da rompere e sul quale agire,alla maniera di Lenin.Un territorio da “liberare” e da rendere, quindi, dominante! La “struttura” di potere opera nel senso di un appiattimento e di una colonizzazione proprio delle coscienze, attraverso tutta una serie di meccanismi quali: la manipolazione mediatica; il cosa e come pensare con tanto di gendarme (psicopolizia orwelliana); l’induzione continua all’acquisto di beni e consumi inutili e dannosi; la provocazione di riflessi condizionati più o meno programmati come col terrorismo; la stimolazione continua rancore, invidia, paure e sensi di colpa; la politica dei loghi ad opera delle multinazionali (moderne eggregore), la costrizione più o meno consapevole all’utilizzo della lingua inglese (gergo aziendale-comunicativo); l’uso costante e pervasivo della tecnologia informatica (es. internet e social network); la diffusione dei sistemi di vita delle star di Hollywood, o del jet set in generale, e della pornografia on line; l’abuso di alcolici e sostanze stupefacenti; la produzione di arte e cultura di pessima qualità; la svendita del patrimonio etnico, nazionale, identitario e tradizionale.

Il subordinare la vita terrena a principi “superiori” fa parte dell’organizzazione statale delle grandi civiltà, a partire dall’antica India dove esisteva la “visione” delle diverse ere cosmiche – gli Yuga – con propedeuticità specifiche che determinavano tutto il sistema delle caste. Quest’ultimo era l’essenza della piena realizzazione di una natura differenziata in base alle leggi del dharma. Questa natura, trovava armonia proprio nel fatto che essere un sacerdote – Brahmana –, un guerriero – Kshatrya –, un produttore – Vaishya –, o un lavoratore – Shudra – era in virtù delle più intrinseche predisposizioni personali. Passando per altre grandi civiltà come quella Sumera, quella Egizia o quella Ebraica, anche nell’antica Grecia il principio della trascendenza era fondamentale nell’articolazione dello Stato ma non solo. Per Platone, nella sua opera La Repubblica, «vi è un modello fissato nei cieli per chiunque voglia vederlo e, avendolo visto, conformarvisi in sé stesso. Ma che esso esista in qualche luogo o abbia mai ad esistere, è cosa priva d’importanza: perché questo è il solo Stato nella politica di cui egli possa mai considerarsi parte». Su questa base si può dedurre che esiste una possibilità di collegare gli ordini cosmici a quelli terrestri e che comunque, anche la non ottimalità di un modello statale concreto non ha importanza in fin dei conti se, viceversa, questo modello “armonico” e “celeste” è “costellato” interiormente. E quest’ultima considerazione vale soprattutto nei periodi di decadenza.

Nell’evoluzione stessa delle grandi civiltà, come quella europea, sono venute fuori altre grandi narrazioni, che a varia misura hanno parlato agli uomini basandosi su importanti visioni metafisiche – es.il Cristianesimo. Oppure pensiamo a Giorgio Gemisto Pletone, il quale, come Platone, in base a principi “trascendenti” ha propugnato una Repubblica governata da“re filosofi”, con particolari forme di diritto finalizzate all’educazione, un’economia senza moneta e un esercito nazionale. Dunque un sistema economico e politico, sociale e lavorativo, militare e religioso atto a fare degli elleniun popolo prospero e armonioso.  All’interno di questo discorso, anche se da un diverso punto di vista, esistono ancora esperienze politiche dove si conserva un principio “spirituale” al centro della organizzazione statale. Facendo una panoramica, con occhio analitico e senza giudizio, possiamo menzionare la Russia, dove la carica mitologica di grandi personalità storiche come Pietro il Grande, il recupero stesso della figura di Stalin o la centralità dei principi Cristiani – come guida a tutti i livelli della società – sono correnti nazionali importanti per la presidenza Putin. Questi, tra l’altro, si forgia dei consigli di un grande esperto di Tradizione come Aleksandr Dugin. Ma anche le Repubbliche Bolivariane tengono ancora fede a principi come quelli della lotta di liberazione nazionale di Simon Bolivar e José Marti, oppure la Cuba socialista che addirittura recupera il ruolo del Cristianesimo. E guarda caso, sono proprio questi – per quanto riguarda il mondo a noi più vicino – gli Stati che riescono a suscitare ancora quel consenso popolare che si avverte a tutti i livelli e che si basa sull’egemonia delle menti e dei cuori di gramsciana memoria. Anche stati arabi come l’Iran o la Siria si muovono in questa direzione, conservando il principio religioso musulmano come guida politica. Infine citiamo la Cina che conserva il primato del Partito Comunista alla guida del paese. Insomma il recupero di un principio “superiore” sul quale far vertere un’intera comunità politica, principio che per i motivi elencati sopra è individuabile nella “Coscienza”, sembra essere una chiave di volta per una nuova rivoluzione. E per rivoluzione intendiamo revolvere (dal latino), ovvero tornare al mondo dei principi e dell’ordine naturale. Un altro parametro fondamentale, anch’esso sotto attacco nella società odierna.

Roberto Siconolfi

Il governo che verrà. un’analisi fuori dalle righe – Umberto Bianchi

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Il rullare dei tamburi mediatici, accompagnato dalle alte grida delle varie ochette del “politically correct” ha creato una specie di nebbione, di “gap” informativo, da cui, ad oggi, sembra difficile dipanarsi, a meno di non voler compiere un quanto mai dovuto esercizio di onestà intellettuale. Mai come questa volta, di fronte alla disperata situazione in cui il nostro paese versa, si è riversato un così massiccio profluvio di promesse, intenti, allettamenti d’ogni genere e tipo. Se da una parte la sinistra di governo continua spudoratamente a vantare dei quanto mai fantasmagorici successi e progressi, ottenuti in questi anni di succedersi di governi abusivi, dall’altra parte sembra regnare non meno confusione ed incertezza. Cominciamo con quello che, tra i vari “competitors” dell’agone politico nazionale, ha assurto ad indiscusso protagonista delle aspettative di questi ultimi tempi, e cioè il Movimento 5 Stelle.

Nato quale forza anti sistema, ammantata dalla pretesa di un rigorismo e di uno spirito neo francescano, spinti al limite dell’assurdo, dopo aver, per l’appunto, inaugurato la propria presenza sugli scranni parlamentari, cacciando anche chi solo osava farsi vedere in tivvù o concedeva interviste, senza il consenso del proprio barbuto padre-padrone, Beppe Grillo, nel giro di pochi anni, è andato via via assumendo, grazie a tutta una serie di capriole, sfondoni e giravolte, la valenza di entità politica proteiforme che un giorno dice una cosa ed il giorno seguente ne fa un’altra diametralmente opposta. Si strizza l’occhio all’insofferenza verso il fenomeno migratorio salvo, in parlamento, votare contro il reato di immigrazione clandestina o a favore dell’inserimento dei minori stranieri nel nostro paese e tutta una serie di altre, simili amenità. L’anima dura ed antimperialista del “movement” svenduta dal nostro azzimato Di Maio nazionale, con puntatine negli Usa ed a London City, che tanto hanno il dolciastro sapore del perpetuarsi dell’antica ed italica pratica del lecchinaggio ai Poteri Forti. Da ferrei censori del rigore morale, ad inquisiti qua e là per varie schifezzuole (l’accusa di firme false in quel di Trinacria, tanto per fare un esempio…), sino, e qui viene il peggio, ad una gestione immobilista ed incapacitante della res publica, in vari e poco esaltanti esempi, come quello della disastrosa gestione Raggi, in quel di Roma.

Oh per carità! Nessuno accusa nessuno di corruzione, ci mancherebbe altro… e poi, sinché uno non è condannato, non lo si dovrebbe esporre ad alcuna gogna mediatica; ma, il fatto della totale inefficienza ed incapacità di queste persone, con il caso Roma, è sotto gli occhi di tutti. Senza se e senza ma. Urlano che loro mai e poi mai, si coalizzeranno con alcuno, salvo scoprire, a conti fatti, che se vorranno avere un peso reale sulla futura scena politica nazionale, dovranno, guarda un po’, allearsi con qualcuno. Due nomi a caso. O la Lega di Matteo Salvini o i Liberi e Uniti di Grasso e della Boldrini. Sarebbe a dire, come scegliere tra il Sole e la Luna. Nulla di più. Sarebbe forse il caso che, stavolta, i nostri pentastellati, una bella schiarita se la dessero per davvero. Farebbero una gran cosa a loro stessi ma, anche e specialmente, agli italiani, sempre più stanchi ed annoiati di insensate giravolte e di paroloni roboanti. Senza poi contare, l’immagine vomitevole e squallida, della carica degli esclusi, ovverosia di quella manica di sfigati che, pur di farsi mettere in lista, nonostante non credano in una sola delle parole del Verbo grillino, sono capaci anche di ricorrere in tribunale, nonostante i calci in faccia ed i “vaffa”, amorevolmente ricevuti dal popolo penta stellato.

Un capitolo a parte merita, invece, il centro destra o, quanto meno, quel che ne rimane sulla piazza. Se nelle sue precedenti gestioni, pur tra mille distinguo, la coalizione delle tre principali forze del centro destra era coesa sul tema del liberismo economico, ora le cose hanno subito una inaspettata metamorfosi. Se Berlusconi si aspettava un ritorno sulla scena simile a quello degli anni precedenti, stavolta pensiamo che dovrà abbondantemente ricredersi. Di fronte all’appiattimento berlusconista per pura convenienza personale, sulle posizioni globaliste e buoniste del PPE, presentate in una salsa un pò più “conservative”, con la Lega di Matteo Salvini e le realtà che le girano attorno, le cose sono alquanto differenti. Da una fase eminentemente localista e liberista, la Lega ha compiuto il grande balzo verso una dimensione nazionale e comunitaria, finendo con l’incarnare appieno le ansie ed i mal di pancia di un’opinione pubblica, spaventata e preoccupata dai disastrosi esiti di quel mix di politiche progressiste e neoliberiste che, sempre più, hanno caratterizzato gli ultimi anni della vita del nostro paese e dell’intera Europa.

Diffidenza e chiusura verso l’Europa, deciso stop al fenomeno migratorio, un più attento occhio a politiche economiche di stampo protezionista, che vanno nella direzione opposta di quella auspicata dai guru dell’economia neoliberista ed anche di quella a cui, ancora, guarda speranzoso Silvio Berlusconi. E qui viene il bello. Cosa accadrà all’indomani di una possibile vittoria della coalizione di centro-destra? Chi il Premier? L’immarcescente Berlusconi o il muscolare Salvini? Un altro paralizzante compromesso sino ad un appuntamento elettorale nuovamente spostato alle calende greche o una rottura netta e definitiva? O…? Tutto questo senza considerare quel micidiale mix di malcontento ed indecisione, per l’occasione calcolato dai vari istituti di sondaggio, in percentuali tali, da poter condurre ad un quadro politico fluido ed instabile, come non mai. Di fronte ad un simile scenario, per chiunque voglia costruire una concreta alternativa al sistema globale ed alle sue multiformi sirene, in questo caso rappresentate da partiti tutti, in egual modo, più o meno delegittimati, non rimane altro che approntare una strategia che, nel medio lungo termine, sappia prendere in considerazione varie modalità di azione.

La prima, dall’apparenza sicuramente più semplice ed attraente, potrebbe consistere nel cercare di entrare in una tra le varie formazioni politiche che, ad oggi, sembrano più di altre, avvicinarsi ad un milieu ideologico sovranista ed identitario rischiando però, di rimanere incagliati nelle secche di un berluschismo di ritorno o nelle pastrette dei contrasti tra le varie anime di un arcipelago politico, che invaliderebbero qualunque seria istanza antagonista. La seconda opzione, quella di entrare in una tra le varie formazioni “minori” anti-sistema, al fine di farne una forza dotata di un peso politico a livello nazionale, rischia di rimanere prigioniera del diffuso settarismo che informa di sé la maggior parte di queste formazioni. La terza opzione, forse più lunga e “scomoda” è rappresentata da una via più “meta politica”, ovverosia dalla capacità di un nucleo di persone di assumere, nel tempo, la valenza di un vero e proprio gruppo “ di pressione”, attraverso una costante azione di formazione-informazione, volta ad orientare i consensi in una certa direzione. Obiettivo difficile ed ambizioso, ma non irraggiungibile, caratterizzato dall’indubbio vantaggio dal poter costituire una forza autonoma in grado di veicolare messaggi destabilizzanti. Non dimentichiamoci che, mai come adesso, il sistema globale nella sua euforica arroganza, nella sua tracotanza ed intolleranza culturale, mostra una inaspettata fragilità.

E’ di appena un giorno fa, la notizia di un’altra grave caduta delle borse valori di mezzo mondo, che rimette così in discussione i tanto decantati risultaticchi in tema di crescita economica dei paesi occidentali e non solo, tornando ad agitare lo spauracchio di una recessione che rischia, così, di cronicizzarsi. Il conclamato fallimento delle politiche di accoglienza ed integrazione dei “migranti”, con i vari attentati in mezza Europa firmati ISIS e con l’esponenziale aumento del consenso dei movimenti sovranisti ed identitari. Qui in Italia, una perdita dei consensi elettorali a detrimento degli schieramenti di maggioranza, può rendere difficilmente governabile il paese, spalancando la porta a scenari completamente inaspettati, considerando anche un generalizzato e diffuso malcontento. Il modello neoliberista ed i suoi addentellati tardo-progressisti stanno oramai agli sgoccioli e, prima o poi, la Storia presenterà loro un conto da saldare molto salato. Nel frattempo, qualunque strada è buona per iniziare ad organizzarsi, al fine di arrivare ad esser pronti a riempire quel vuoto di potere che, il graduale venir meno per autoconsunzione del modello liberista, ci lascerà in eredità. Non senza ricordare né sottovalutare, la gattopardesca adattabilità di un Potere Globale che tutto farà, perché “tutto possa cambiare, per nulla cambiare”.

UMBERTO BIANCHI

L’Africa che ci invade e ci travolge con le pratiche oscure della Necromanzia – Il Poliscriba

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Il Palo Mayombe si svolge intorno a un nganga, un calderone nel quale vengono gettati la testa, le dita delle mani e dei piedi, le tibie, le costole e il sangue della vittima. Il mayombero, cioè il sacerdote del rito, controlla così lo spirito del morto, lo comanda e lo invia a fare ciò che vuole.

 

Renè Guenon sosteneva che le società segrete dedite a culti di magia nera fossero eterodirette, ovvero che i centri di emanazione di ordini superiori si trovassero in luoghi lontani dall’esercizio quotidiano dei rituali da parte delle sette interessate ai culti magici.

Ciò è vero soprattutto da quando l’Africa è entrata prepotentemente nella nostra vita sociale, sospinta da un’orda di ignoranza, superstizione, violenza e stregoneria del più basso livello.

Ma non dobbiamo confondere le magie buone da quelle cattive, oggi più che mai.

Ciò che sta accadendo in Europa è una gravissima contaminazione spirituale già avvenuta durante la triangolazione schiavistica, iniziata e mai terminata, più di tre secoli fa.

Lo schiavismo nero, degenerazione umana delle più aberranti, che ha interessato la maggior parte dei popoli e delle razze del pianeta, ha trascinato con sé una marea nera di rituali necromantici o negromantici (anche se lessicalmente si possono ravvisare alcune differenze nell’uso storico-linguistico dei due lemmi) che ha trovato sbocchi all’interno del cristianesimo, dell’islam, dell’induismo, della musica, della cinematografia, dell’arte.

La fusione sincretica del monoteismo mediorientale con lo spiritismo animista lo ritroviamo intatto da secoli nei Caraibi, in Centro America, in Brasile e in vaste zone africane che hanno obbligato l’intransigenza dell’Islam a cedergli il passo, anche se i comunisti italiani negano il tratto etno-antropologico inconfutabile dell’uso della necromanzia in Africa, per non sembrare razzisti, scaricando la responsabilità dei sacrifici umani sul capitalismo di rapina, come riportato in un recente articolo del Manifesto datato 8 febbraio 2018 dal titolo: “ Contro i bambini, i crimini rituali dei nuovi marabutti.” reperibile online.

La pratica oscura di uccidere, eviscerare, smembrare cadaveri per assoggettare le anime dei morti è antichissima e connaturata con un certo tipo di tribalismo che dal cuore nero dell’Africa, il Congo, si è poi diramato attraverso le rotte mercantili e schiavistiche a partire dal XVII° secolo.

Semmai, tali atti raccapriccianti, sempre esistiti, oggi sono diventati oggetto di un nuovo mercato, soprattutto dove le condizioni socioeconomiche devastanti rendono disponibile una grande quantità di carne umana che, una volta utilizzata per i sacrifici, nessuno difficilmente reclamerà.

Il 31 gennaio 2018, Pamela Mastropietro ha trovato la sua orribile morte sotto la luce impietosa della superluna blu, un evento raro che per un mayombero esperto poteva essere un segno estremamente propiziatorio per la riuscita della sua macabra liturgia.

La cronaca ci ha raccontato questa terribile storia, ma nessuno ha voluto tirare in ballo il Palo Mayombe.

È pur vero che molti sedicenti esperti di magia continuano a difendere la necromanzia come una pratica innocua, il cui status di bontà deve essere equiparato a qualsiasi altro rituale, anche quello pseudocannibalico eucaristico.

Altri indagatori dell’occulto parlano invece di minacce provenienti da basse energie che promanano da questi rituali e suscitano effetti negativi sulla natura e la società, sotto il controllo di donne e uomini che le userebbero per scopi e finalità assolutamente antitetiche al corpus trasformazionale teurgico e alchemico dell’individuo in cerca della conoscenza iniziatica, che percorre da millenni le vene mistiche e misteriche dell’Occidente.

Eppure, il mistero delle donne spezzate, mutilate e abbandonate in sacchi o valigie ai bordi delle strade, è stato affrontato anche da siti antirazzisti, illuministi e progressisti come quello di Repubblica, dove si ricordava, in un articolo dal titolo Indagine sui cadaveri mutilati (archivio Repubblica 2007-08-26) che:“ Poco prima del Natale 1999 un cacciatore notò un grosso sacco nero in un bosco nei pressi di Macerata. Lo aprì e svenne. Nel sacco c' erano i resti di una donna giovanissima, bianca, nuda. Le braccia erano legate dietro la schiena; la testa e le mani erano state tagliate.”

Forse una singolare coincidenza, ma fatti del genere si sono ripetuti e recentemente intensificati nel nostro paese, senza ricevere degna attenzione, o una spiegazione che non sia tendenzialmente la solita pista del serial killer o del pazzo che ha tentato maldestramente e orribilmente di sbarazzarsi di un corpo morto.

In verità, esiste un Osservatorio nazionale che censisce i fatti di cronaca come quelli di Macerata, ma difficilmente, per motivi di correttezza politica, si riuscirà a correlare la stregoneria africana con tali efferati delitti.

Pazzia, premeditazione, necrofilia, si dirà.

Che ci siano sette segrete che operano nell’ombra, protette da poteri forti, facenti parte degli stessi apparati di potere, immerse in un mondo occulto, non è affatto una novità.

Così come non lo è la possibilità di un salto involutivo dei membri di queste al contatto con un neotribalismo d’importazione che è passato, nello spazio di un decennio, dalle capanne ad internet.

Se c’è una rete macabra, un’ interconnessione tra sette che praticano sacrifici umani, viene da chiedersi: chi sono i mandanti? Come vengono reclutati i fornitori di vittime sacrificali? Come vengono scelte? Per quali oscuri scopi si stanno perpetrando questi truculenti rituali?

Riporto da un’intervista alla docente di antropologia culturale esperta di sette occulte e massoneria, la defunta prof.ssa Cecilia Gatto Trocchi sulla Repubblica edizione di Firenze del 26 giugno 2002, questo stralcio:

Lei conosce casi analoghi di escissioni in persone defunte da poco?

"Questo è molto più raro e fa pensare ai riti di magia nera, voodoo di origine africana o afroamericana, nei quali vengono usati pezzi di cadavere, parti organiche dei morti, dalle quali si ritiene di ricavare la forza, il fundamiento. Questa idea è antichissima. Orazio racconta di due streghe che uccidono un ragazzo per prendergli parti del corpo. Il diritto romano puniva severissimamente questo reato: era l'unico caso in cui veniva ammessa la tortura".

Rubare pezzi di corpo per accrescere la propria forza. Non è pazzesco?

"Sono cavolate, ma molto pericolose".

 

Prigionieri! – Gianluca Padovan

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«Nel giugno del 1954 l’ex partigiano Edgardo Sogno aveva denunciato in una conferenza stampa proprio D’Onofrio, accusandolo di essere a capo di un’organizzazione spionistica che vedeva mobilitati i deputati del PCI nel fornire all’URSS notizie militari ed economiche relative alla difesa dello Stato italiano. Poche settimane dopo da un archivio del ministero dell’Industria sarebbero misteriosamente scomparsi importanti documenti militari»

Alessandro Frigerio, Reduci alla sbarra. 1949: il processo D’Onofrio e il ruolo del PCI nei lager sovietici; 2006

Agitare con il maglietto.

Oggi gli “agitatori del popolo” gridano al “revisionismo storico”, condannando con indice accusatore coloro i quali si permettono di parlare e scrivere di Storia non uniformandosi pedissequamente alla “storia” confezionata ad uso e consumo del Popolo. Confezionata affinché non susciti domande da ritenersi illecite.

Parlando di Storia un aspetto da considerare, per poter ben inquadrare il panorama innanzitutto italiano, è la sorte toccata a coloro i quali sono stati inviati dal massonico Regno d’Italia, nominalmente condotto dal Gran Consiglio del Fascismo (quattro quinti del quale composto da massoni) a combattere oltre confine nel corso della Seconda Guerra Mondiale (a questo proposito vedere il mio precedente articolo Compagni di gioco).

Se qualcheduno sbuffa sostenendo, a ragione, che da allora è passato quasi un secolo, gli posso fare notare che da più di un secolo la politica, innanzitutto italiana, si è cristallizzata su posizioni tutt’altro che congeniali al Popolo. O, meglio, ad oggi il Popolo a scuola non studia la Storia, ma bensì la “storiella” di facciata; difatti dirigono le sorti dello sfasciato Paese quegli individui che in modo massonicamente sinistro hanno operato nel corso della Storia e della Seconda Guerra Mondiale. Ma il Popolo deve continuare ad ignorare per poter essere “docilmente governato”. E mandato in guerra quando serve, … ovvero quando serve alla loggia di turno, non alla Patria.

Mancò tutto tranne il Valore.

Il “surrogato della Storia” ci recita a campana che i paracadutisti delle Divisione Folgore e i soldati, in primis gli Alpini della Divisione Julia, furono inviati al fronte e si coprirono di gloria.

Poniamoci una domandina: perché ciò si è reso necessario?

A mo’ di risposta si può citare quello che qualcheduno ha già scritto: «mancò tutto tranne il valore».

In quanto soldati potevano essere mandati al fronte in caso di guerra, ma altrettanto certamente la “patria” che li aveva inviati doveva quanto meno provvedere loro. Ma così non è stato e non per mera negligenza, ma bensì per calcolo preordinato.

Attenzione: personalmente sono del parere che la “patria”, allora come oggi diretta da personaggi afferenti a logge e ad altre “patrie”, sia entrata nella II Guerra Mondiale per motivi ancora da chiarire e che abbia provveduto, nel corso delle buone occasioni che si sono presentate, a togliersi di torno i migliori Combattenti che, di contro, qualsiasi altra Patria avrebbe riconosciuto e onorato come suoi Figli migliori.

Tutto ciò fermo restando che l’Italia s’era alleata alla Germania e questa subì i fatti di Danzica indotti dalla Polonia e a cui sono seguiti gli scontri armati, prodromi del pretesto franco-inglese d’attaccare la Germania. Difatti non si dimentichi il fallimentare attacco della Francia alla Saarland tedesca il 7 settembre 1939. Ma non desidero parlare di ciò, bensì di… prigionieri!

Il motivo di questo mio articoletto vergato in punta di daga è presto chiarito: ci stanno conducendo verso un nuovo stato di guerra. O, per meglio dire, la guerra non è mai stata conclusa e a breve potremo ritrovarci nuovamente sotto le bombe e non certo per finirla definitivamente.

Conosciuta la Storia passata, pertanto sapendo che fine ha fatto il Popolo prima, durante e dopo ogni moderno conflitto, si può essere ancora disposti a dare credito al “governo” che vorrà proclamare un nuovo stato di guerra?

Il Popolo, una volta conosciuta la Storia passata, saprà perfettamente che fine faranno consorti, figli e nipoti una volta entrati in guerra. Il Popolo avvallerà quindi una nuova guerra? O, meglio, il Popolo si farà cogliere nuovamente impreparato?

Ovvero: il Popolo si farà mandare in guerra perché gli saranno puntati alle spalle i fucili con baionette innestate come in passato?

Detto questo, entriamo nella faccenda dei prigionieri di guerra italiani.

L’ufficiale storia scritta non è Storia.

Ecco un paio di recenti considerazioni scritte da Nicola Labanca, il quale ha probabilmente potuto usufruire di una curiosa “documentazione storica” su cui formarsi e, conseguentemente, su cui scrivere. Difatti si vedano, più avanti, ad utile confronto, le trascrizioni delle documentazioni redatte da Ministeri, Commissioni, Storici, etc.

Riporto quindi un paio di passi, o passetti, di Labanca lasciando poi al Lettore ogni riflessiva valutazione:

«In conclusione la prigionia italiana ebbe caratteri contrastanti: fu più consistente percentualmente (rispetto ai mobilitati) rispetto a molte altre potenze ma non conobbe il dramma di quella sovietica, durò più a lungo di altre ma fu la più breve fra quelle delle tre ex-potenze fasciste che avevano scatenato la guerra. Fu insomma la prigionia di una potenza fascista prima e cobelligerante poi. Se nelle sofferenze individuali non è lecito stilare graduatorie, dal punto di vista degli Stati si può osservare che la prigionia italiana non fu così dura come avrebbe potuto essere quella di una potenza scatenatrice del conflitto (…). In linea generale, come ha fatto notare con estrema nettezza Giorgio Rochat, i governi del dopoguerra decisero di accantonare quanto prima il problema della prigionia perché ciò avrebbe comportato un riesame profondo delle cause della guerra fascista e più in generale del fascismo» (Nicola Labanca, Gli internati militari nel quadro della prigionia italiana della seconda guerra mondiale, e il loro ritorno in patria, in Pier Paolo Poggio -a cura di-, Resistenza e guerra totale, Fondazione Luigi Micheletti, Grafo edizioni, Brescia 2006, p. 61).

Ecco il secondo passetto, da meditare attentamente, sempre scritto da Labanca:

«A peggiorare l’immagine della politica italiana verso i reduci sono venute poi le ricerche di Sandro Rinauro. Esse hanno mostrato l’influenza del problema della disoccupazione sulle politiche dei governi dell’Italia postbellica per i reduci: il timore della disoccupazione e quello del rovesciarsi sul mercato del lavoro italiano della valanga del ritorno dei reduci avrebbero ridotto le pressioni dei governi italiani per un pronto rimpatrio degli ex-prigionieri. In realtà lo status di potenza minore, sottoposta al diktat armistiziale e solo “cobelligerante” più che vincitrice del conflitto, assieme alle oggettive ristrettezze di mezzi di trasporto (che spingevano gli alleati a recuperare quanto prima i propri uomini e solo poi quelli di una potenza già fascista) contribuivano da soli ad allungare i tempi del ritorno» (Ibidem, p. 64).

Voti nel cassetto e dietro i reticolati inglesi…

Cominciamo con il ricordare i prigionieri Italiani sopravvissuti ai campi di concentramento in India. Costoro vengono in massima parte rimpatriati solo nel 1947 e questo è dovuto, con ogni probabilità, al fatto che il Governo italiano ha chiesto agli angloamericani che i prigionieri di guerra rimangano detenuti fin dopo il referendum istituzionale del 2 giugno 1946, dove il Popolo italiano dovrà scegliere tra monarchia e repubblica. A questo proposito puntualizza con estrema chiarezza il Generale degli Alpini Gianni Marizza:

«Annotava ancora il Capitano Poesio nel suo diario giovedì 16 marzo 1944 che “Radio Delhi ci dimostra che se non rimpatriamo è perché il governo Badoglio non vuole”. Se questo fatto nella prima parte del 1944 era solo un sospetto, due anni più tardi diventa una certezza. Infatti gli Italiani (ma non tutti, come vedremo) nella giornata del 2 giugno e nella mattina del 3 giugno 1946 vengono chiamati ad esprimersi sulla forma istituzionale del nuovo stato uscito dalla guerra: monarchia o repubblica? I primi risultati pervenuti, in particolare i rapporti dell’Arma dei Carabinieri, indicano una netta prevalenza di voti in favore della monarchia. Improvvisamente, dopo che anche al Papa era stato comunicato l’andamento sfavorevole alla repubblica e dopo che lo stesso presidente del consiglio Alcide De Gasperi aveva telefonato al ministro della Real Casa per anticipare la vittoria della monarchia, la situazione stranamente cambia di colpo. Si narra che Giuseppe Romita, ministro dell’interno, abbia rassicurato il primo ministro con la famosa frase “Ho un milione di voti nel cassetto”. Alla fine la repubblica ottiene 12.717.923 voti, mentre i favorevoli alla monarchia risultano 10.719.284, ma non mancano ricorsi e voci di brogli. Non mancano nemmeno nutrite proteste di piazza e violente repressioni, come a Napoli dove nove manifestanti perdono la vita e 150 rimangono feriti. Analizzando i dati regione per regione si nota come l’Italia sia praticamente spaccata in due: il nord, dove la repubblica prevale con il 66,2%, ed il sud, dove la monarchia vince con il 63,8% (…). Brogli a parte, va notato che una gran moltitudine di Italiani fu esclusa dal voto. Non votò la provincia di Bolzano (300.000 elettori), non votò la Venezia Giulia (1.300.000), non votarono gli Istriani e i Dalmati (250.000), non votarono gli Italiani delle Colonie e tutti i prigionieri di guerra (centinaia di migliaia) che, alla faccia della cobelligeranza, erano ancora nelle mani dei sovietici e degli Alleati, fra cui i rinchiusi a Yol (…). Non si hanno notizie di altri casi storici in cui un governo abbia deliberatamente rallentato la restituzione dei propri prigionieri di guerra» (Giovanni Marizza, Diecimila italiani dimenticati in India, Herald Editore, Roma 2012, pp. 54-55).

Il trattato-capestro.

Il 10 febbraio 1947 è firmato a Parigi il Trattato di Pace, imposto all’Italia e sulla cui validità sarebbe opportuno condurre oggi ampie e circostanziate indagini: innanzitutto per mantenere la coscienza, come Italiani del XXI secolo, su cosa si sia stati costretti a concedere e quanto esso incida negativamente sull’attuale vita nazionale, sociale ed economica.

L’Articolo 71 dispone: «1. I prigionieri di guerra italiani saranno rimpatriati al più presto possibile, in conformità degli accordi conclusi tra ciascuna delle Potenze che detengono tali prigionieri e l’Italia».

A questo punto desidero rammentare un paio di casi per tutti: il rimpatrio del Capitano di Corvetta Stefano Baccarini il 1° novembre 1949 e la sorte toccata ai Marò della Xa Flottiglia M.A.S. di stanza alla Base Est di Brioni.

Stefano Baccarini.

Questa è stata la sorte di un Soldato Italiano per tutti:

«La X ha pagato. Stefano Baccarini di Enrico, n. 9-9-1910 a Firenze, aveva comandato la corvetta “Tifone”, autoaffondata nella notte del 22-5-1943 sulla spiaggia di Korbus (Tunisia) dopo un tentativo di forzare il blocco navale ed aereo nemico, ormai caduta anche Tunisi. Rimpatriato con una nave ospedale, fu destinato al comando di un reparto del reggimento “San Marco”. Rimase al suo posto. Capitano di corvetta fu, con la X MAS, al comando della compagnia “Nazario Sauro”. Soldato di assoluta onestà, credette nel patto sottoscritto con il Comitato di liberazione di Pola; fu tratto in arresto, deportato a Cocevie, torturato con ferocia e legato con filo di ferro, imprigionato entro una cisterna per mesi e mesi, quasi impazzì, perdette i denti, i capelli, fu ridotto ad una larva umana. Il 1° novembre 1949 venne consegnato, alla frontiera, vicino a Trieste, a due agenti dei servizi segreti italiani… Dopo molte sofferenze, decedeva, prematuramente, a Firenze il 7 ottobre 1966» (Luigi Papo de Montona, L’Istria tradita. Storia e tragedia senza la parola fine, Vol. 2°, Unione degli Istriani Trieste, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 1999, pp. 50-51).

Per quanto riguarda i Marò della Xa Flottiglia M.A.S. si possono ricordare, per tutti, coloro di stanza alla Base Est di Brioni: «dopo la partenza del comandante Lenzi per l’ultima missione in Adriatico, in base agli ordini ricevuti dal comandante Baccarini cercarono di trasferirsi a Pola. A Brioni rimasero soltanto due MTM con alcuni Tedeschi. I marò, divisi in due gruppi, giunsero con i loro barconi a Pola, ma oramai era troppo tardi; la città era già in mani slave. I marò furono separati dagli ufficiali e dai sottufficiali; ebbero inizio le solite sparizioni; un gruppo fu imbarcato su zattere e barconi e trasferito al campo di Tivat, un porto alle Bocche di Cattaro in Dalmazia. Ma nel corso della traversata alcuni furono fatti sbarcare a Curzola. Non dettero più notizie. Due marò furono uccisi a calci e pugni a Spalato ed i loro corpi furono fatti sparire. Il 26 dicembre 1946 alcuni superstiti vennero trasferiti in Bosnia ad ingrossare i famosi battaglioni di volontari messi al lavoro sulla “ferrovia della giovinezza”. I pochi che riuscirono a superare le torture, la fame, la fatica, le malattie furono liberati il 27 marzo 1947 e con loro alcune centinaia di prigionieri di altri reparti della RSI» (Ibidem, p. 50).

Foibe e dintorni.

Un altro fatto su cui i così detti “media” generalmente sorvolano è l’esodo di decine di migliaia di persone dalle terre italiane cadute in mano alle truppe di Tito prima e inglobate nella Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia poi. Ci si guarda dal dire come furono accolti in Italia e che la maggior parte fu stanziata inizialmente in vecchi campi di prigionia perché considerati “fascisti”, non già Cittadini Italiani scampati al genocidio e alle deportazioni.

A ciò si aggiungano le vicende delle foibe e dello sterminio dei prigionieri italiani nei campi di concentramento jugoslavi, o meglio di annullamento, da cui rimpatriarono solo il 6% degli internati.

I fatti si ricollegano all’altrettanto tragica prigionìa subita dagli altri soldati Italiani, soprattutto appartenenti al Corpo degli Alpini, detenuti nei campi sovietici di concentramento, o meglio di sterminio: gruppi di sopravvissuti vennero rimpatriati fino al 1954, ma da lì al 1957 ne tornarono ancora e comunque non erano tutti.

A ricordo dell’inanità, o per meglio dire a causa della criminale complicità del governo italiano, artefici soprattutto Palmiro Togliatti e il Partito Comunista Italiano, vediamo alcuni documenti di seguito riprodotti. Perché, piaccia o meno, la Storia è composta dai fatti, ovvero dagli accadimenti, e dai documenti: non dalla carta straccia pubblicata a posteriori dai prezzolati per mettere le toppe sui pantaloni sfondati.

Scrive Alessandro Frigerio: «La questione dei campi di concentramento sovietici tornò prepotentemente alla ribalta nel 1948 quando un gruppo di reduci dell’ARMIR denunciò l’ecatombe di uomini all’interno dei campi di prigionia e le pesanti responsabilità dei funzionari del Partito Comunista Italiano presenti nei lager, i quali, oltre a negare qualsiasi aiuto ai loro connazionali, contribuirono a suscitare tra i prigionieri un opprimente clima da guerra civile. Tra i responsabili figurava anche uno dei più stretti collaboratori di Togliatti, Edoardo D’Onofrio, rivoluzionario di professione, funzionario devoto al partito e a Mosca, più volte parlamentare, che dal 1949 porterà i suoi accusatori in tribunale» (Alessandro Frigerio, Reduci alla sbarra. 1949: il processo D’Onofrio e il ruolo del PCI nei lager sovietici, Mursia Editore, Milano 2006, pp. 6-7).

Qualcuno ordinò «che nessuno torni»?

Nel corso della guerra l’Italia invia sul fronte russo il CSIR (Corpo di Spedizione Italiano in Russia), a cui fa seguito, su pressione anche di Benito Mussolini, l’8a Armata Italiana in Russia, meglio nota come ARMIR, costituita in buona parte da Alpini. Quanti non sono tornati?

Le cifre sono svariate, spesso discordanti. Comincio con il riportare quanto scritto da Giulio Bedeschi: «Quando si parla dei 74.800 “non tornati”, si fa riferimento ai militari dell’ARMIR, schierati sul fronte al Don nell’inverno ’42-’43 fra 229.005 uomini che componevano l’Ottava Armata Italiana, impegnati quindi nelle disastrose battaglie di quell’inverno e nella ritirata che le concluse» (Giulio Bedeschi, Per uno che riemerge dal nulla, migliaia non torneranno mai più, in Ministero della Difesa – Commissariato Generale Onoranze Caduti in Guerra e U.N.I.R.R. – Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia, Elenco Ufficiale dei prigionieri italiani deceduti nei lager russi, Supplemento de il Notiziario U.N.I.R.R., n. 45, 4° fascicolo, Milano s.d., p. 12).

Si è indicativamente calcolato che dalla Russia faccia ritorno un Italiano su due, ma delle sole Divisioni Alpine rimpatria un Alpino su dieci.

Altre fonti, altri dati: «Sull’entità dei nostri prigionieri in Russia si sono azzardate varie cifre: - 60.000 secondo i nostri calcoli al termine della campagna di guerra; - 85.000 secondo un comunicato apparso sul giornaletto “Alba” del 10-2-1943 – periodico edito in Russia e distribuito nei campi di concentramento italiani –; - 115.000 secondo un comunicato dell’agenzia d’informazioni Tass, diramato nella notte tra il 15 e il 16 marzo 1943; - 50.000 o 80.000 secondo una rassegna della stampa svedese del 3 aprile 1944 – secondo cui da notizie raccolte da un suo corrispondente londinese, si riteneva prossima la organizzazione in Russia di una Armata italiana composta di 50.000-80.000 prigionieri di guerra» (Ufficio del Delegato Italiano presso la Commissione Speciale dell’O.N.U. per i prigionieri di guerra, Note e documenti riguardanti i militari italiani prigionieri e dispersi in Russia, Arti Grafiche Sella, Milano 1958, p. 8).

Un’altra fonte afferma che «su circa 70.000 soldati italiani catturati dall’Esercito Rosso dopo la disfatta dell’ARMIR, 10.087 furono rimpatriati, ovvero solamente il 14%. Tale percentuale risulta spaventosamente bassa soprattutto se confrontata con le percentuali di prigionieri di guerra italiani rimpatriati dalle altre potenze belligeranti: il 99% dagli Stati Uniti e dalla Francia ed il 98% dalla Germania e dall’Inghilterra» (Luca Vaglica, I prigionieri di guerra italiani in URSS. Tra propaganda e rieducazione politica “L’Alba” 1943-1946, Prospettiva Editrice, Civitavecchia 2010, p. 5).

Ben si comprende che le cifre, purtroppo, discordano, pur rimanendo assolutamente indicative della strage perpetrata nei confronti dei militari italiani prigionieri. A riprova dell’eccidio così si legge in una pubblicazione del Ministero della Difesa: «Purtroppo la mortalità continuò ad infierire sia per le epidemie, portate e diffuse dai nuovi arrivati, sia per il persistere di trattamenti al di sotto della soglia di sopravvivenza» (Ministero della Difesa – Commissariato Generale Onoranze Caduti in Guerra, CSIR – ARMIR. Campi di prigionia e fosse comuni, Stabilimento Grafico Militare, Gaeta 1966, p. 1).

L’alba dorata… di massonica memoria?

Nei campi di concentramento sovietici si è operata la rieducazione politica dei prigionieri, anche attraverso la pubblicazione di giornali. Coadiuvati da comunisti italiani pubblicarono “L’Alba. Per un’Italia libera e indipendente. Giornale dei prigionieri di guerra italiani in Unione Sovietica”:

«Il giornale riusciva a raggiungere tutti i campi disseminati nell’intera Unione Sovietica e dal 1945 anche quelli che ospitavano gli italiani, già prigionieri dei nazisti in Germania, “liberati” dai russi nella loro avanzata e trasferiti nelle retrovie ucraine e bielorusse in lager sovietici istituiti dopo la liberazione di quei territori. Il comitato di redazione di quel giornale vantava nomi illustri di antifascisti comunisti italiani quali lo stesso Togliatti, che si firmava con gli pseudonimi di Ercole Ercoli o Mario Correnti, Vincenzo Bianco, Giovanni Germanetto, Ruggero Grieco, Giulio Cerreti, Anselmo e Andrea Marabini, Romolo Rovera, Luigi Longo, Edoardo D’Onofrio. Dopo i primi quattro numeri sotto la direzione di Rita Montagnana, compagna di Palmiro Togliatti, il giornale fu poi diretto fino all’agosto del 1944 da Edoardo D’Onofrio, infine da Luigi Amaldesi e Paolo Robotti» (Luca Vaglica, I prigionieri di guerra italiani in URSS. Tra propaganda e rieducazione politica “L’Alba” 1943-1946, op. cit., pp. 177-178).

Palmiro Togliatti, amico e compagno di Antonio Gramsci, poi Segretario dell’Internazionale comunista nel 1937, prende dimora in Russia per tornare in Italia nel 1944 come ministro nel governo Badoglio; a questo proposito vedere il mio precedente articolo Falce e maglietto. Diviene ministro di Grazia e Giustizia tra il 1945 e il 1946, assumendo la dirigenza del Partito Comunista Italiano; nel 1964, data della sua morte, anche in ricordo del fidato servizio reso a Iosif Vissarionovic Dzugasvili alias Stalin, il secondino-capo della Lubianka, il governo russo fa cambiare nome alla città di Stavropol in «Togliatti» (Toljatti). Come curiosità si può rammentare che in tale città, noto centro petrolifero, è impiantato dalla FIAT uno stabilimento automobilistico.

Palmiro Togliatti scrive una letterina…

Riccardo Baldi nel sito web da lui curato (4a Divisione Alpina Cuneense. Campagna di Russia) scriveva: «Nel 1992, qualche anno dopo l’apertura degli Archivi di Mosca, lo storico Franco Andreucci, scopre una lettera scritta da Palmiro Togliatti (alias “Ercoli”) il 15 febbraio 1943 a Vincenzo Bianco (allora funzionario del Komintern). Nella lettera, suddivisa in vari capitoli, Togliatti risponde alle varie questioni politiche sollevate dal Bianco. Al terzo capitolo (vedi pagine 7, 8 e 9) della lettera, dove Bianco evidentemente chiedeva a Togliatti di fare qualcosa per i tanti prigionieri italiani nei Gulag russi, la risposta di Togliatti è agghiacciante: “...L’altra questione sulla quale sono in disaccordo con te, è quella del trattamento dei prigionieri. Non sono per niente feroce, come tu sai. Sono umanitario quanto te, o quanto può esserlo una dama della Croce Rossa. La nostra posizione di principio rispetto agli eserciti che hanno invaso la Unione Sovietica, è stata definita da Stalin, e non vi è più niente da dire. Nella pratica, però, se un buon numero dei prigionieri morirà, in conseguenza delle dure condizioni di fatto, non ci trovo assolutamente niente da dire, anzi e ti spiego il perché. Non c’è dubbio che il popolo italiano è stato avvelenato dalla ideologia imperialista e brigantista del fascismo. Non nella stessa misura che il popolo tedesco, ma in misura considerevole. Il veleno è penetrato tra i contadini, tra gli operai, non parliamo della piccola borghesia e degli intellettuali, è penetrato nel popolo, insomma. Il fatto che per migliaia e migliaia di famiglie la guerra di Mussolini, e soprattutto la spedizione contro la Russia, si concludano con una tragedia, con un lutto personale, è il migliore, è il più efficace degli antidoti. Quanto più largamente penetrerà nel popola la convinzione che aggressione contro altri paesi significa rovina e morte per il proprio, significa rovina e morte per ogni cittadino individualmente preso, tanto meglio sarà per l’avvenire d’Italia...”» (Sito web: cuneense.it).

La lettera suona come una condanna a morte.

Edoardo D’Onofrio e le vicende giudiziarie.

Edoardo D’Onofrio, nato a Roma nel 1901, nel 1921 passa dal Partito Socialista al Partito Comunista d’Italia e l’anno successivo si reca a Mosca al IV Congresso dell’Internazionale. Nel 1943 è incaricato dal Partito Comunista Sovietico di dirigere il lavoro politico tra i prigionieri italiani. Nel 1948 diviene oggetto di una campagna di stampa, che lo indica come aguzzino dei soldati italiani prigionieri di guerra in Russia. Difatti qualcheduno rimane indignato dal fatto che il personaggio, deputato alla costituente nei seggi del PCI, stia per essere eletto senatore della Repubblica Italiana. Relativamente alla faccenda ecco che cosa si scrive nel numero unico “Russia”, edito a cura dell’UNIRR (Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia):

«D’Onofrio durante la sua permanenza nei campi di concentramento di Oranki e di Skit:

  1. assistito dal Fiammenghi e alla presenza di un Ufficiale dell’N.K.V.D. ha sottoposto ad estenuanti interrogatori i prigionieri italiani detenuti in quei campi;
  2. non si trattava di semplici conversazioni politiche, come ipocritamente il D’Onofrio vorrebbe far credere, ma di veri e propri interrogatori di carattere politico che spesso duravano delle ore e durante i quali veniva messo a verbale quanto il prigioniero rispondeva;
  3. immediatamente dopo la visita di D’Onofrio in quei campi, alcuni dei prigionieri italiani che in quei giorni erano stati sottoposti ad interrogatorio furono allontanati e rinchiusi in campi di punizione e ancora oggi alcuni sono trattenuti nei campi di concentramento di Kiev;
  4. simili procedimenti avevano il duplice scopo di far crollare prima con lusinghe e poi con esplicite minacce (“non ritornerete a casa”; “lei non conosce la Siberia?” allusioni alla famiglia, carcere e simili) la resistenza fisica e morale di questi uomini ridotti dalla fame, dalle malattie, dai maltrattamenti a cadaveri viventi e guadagnare l’adesione degli altri prigionieri intimoriti dall’esempio della sorte toccata a questi.

Firmato: Domenico Dal Toso, Luigi Avalli, Ivo Emett, etc.» (Tratto da “Russia”, p. 7; consultabile su web ai siti: cuneense.it, bibliotecapersicetana.it).

Dopo tali dichiarazioni D’Onofrio denuncia per diffamazione gli Autori di “Russia” e il processo ha inizio nel maggio 1949, durando tre mesi con 33 udienze, i cui atti sono consultabili anche nel sito Internet controstoria.it. Perderà la causa e dovrà pagare le spese processuali a coloro che avevano scritto la verità sul suo conto. Si riporta utilmente uno stralcio del verbale relativo alla prima giornata del processo:

«Dal Toso: — Lasciammo Krinovaia in 400 ufficiali. Giungemmo ad Oranki in 290. Gli altri erano morti durante il trasferimento compiuto nell’interno di carri bestiame e senza alcun cibo. Nel nuovo campo scoppiò una violenta epidemia di tifo petecchiale. Ma non fu dato altro medicamento che del permanganato. Quando fui trasferito al campo convalescenziario di Skit, pesavo soltanto 39 chili. Durante la permanenza ad Oranki venne per la prima volta il Fiammenghi il quale tenne numerose conferenze ai prigionieri.

Presidente: — Cosa vi disse in particolare il Fiammenghi?

Dal Toso: — Voleva conoscere la nostra opinione politica.

(...)

A domanda del presidente, Dal Toso precisa che il signor D’Onofrio, comunista, si qualificò di professione “cospiratore”.

Presidente: — Come, come?...

Dal Toso: — Sì, sì, professione “cospiratore”. Così ci disse. Egli era accompagnato da un ufficiale della polizia russa. Prima ci parlò a lungo della patria lontana, delle nostre case, delle famiglie, provocando la comprensibile commozione dei presenti. Poi ritornò per farci firmare il famoso appello al popolo. Il cap. Magnani, che era a capo della nostra comunità, rispose a nome di tutti che i soldati e gli ufficiali italiani erano legati da un giuramento al Re e che quindi mai avrebbero potuto firmare un appello del genere. D’Onofrio andò su tutte le furie e la sua reazione fu immediata. Il capitano Magnani fu chiamato dal D’Onofrio ed ebbe con lui, presente un capitano russo, un colloquio durato due ore Al termine di esso il Magnani aveva il viso stravolto. Il giorno successivo veniva trasferito in altro campo e da allora non s’è saputo più nulla di lui se non che fu rinchiuso in un campo di punizione. D’Onofrio aveva detto: “Al capitano Magnani ci penso io”.

(...)

Subito dopo viene introdotto il secondo reduce querelato. È il tenente di fanteria della divisione Sforzesca, Luigi Avalli, fatto prigioniero nell’agosto 1942 in Russia. È tutto un racconto di sofferenze senza nome che si riassumono nel desiderio più volte espresso dai prigionieri di essere fucilati piuttosto di continuare a vivere in quegli infernali campi di concentramento. Krinovaja - Minciurinsk - Tamboff: nessuno ne parla eppure erano simili e forse anche peggiori di Meidanek - Buchenwald - Mathausen che tutto il mondo conosce! L’imputato narra le pressioni politiche cui i prigionieri erano sottoposti, con le continue conferenze, le domande, gli interrogatori del Fiammenghi e del D’Onofrio, che richiamavano all’ordine chiunque osasse esprimere opinioni sfavorevoli sul regime sovietico. Con questa deposizione s’è chiusa la prima udienza. L’atmosfera nell’aula è grave, pesante. Il racconto dei reduci ha lasciato in tutti una penosa impressione» (Sito web: bibliotecapersicetana.it).

Nel 1954 D’Onofrio è oggetto di un’ulteriore campagna di stampa, ma ugualmente viene eletto Vicepresidente della Camera. Complimenti a chi gli ha fatto fare carriera!

Camerati in camicia rosa.

Ecco alcuni stralci tratti dal già citato libro di Frigerio, che parlano del sostegno dato a D’Onofrio: «Danilo Ferretti, ex fascista che in prigionia si era avvicinato agli ideali comunisti, fu chiamato a deporre a favore di D’Onofrio» (Alessandro Frigerio, Reduci alla sbarra. 1949: il processo D’Onofrio e il ruolo del PCI nei lager sovietici, op. cit., p. 86); «Durante il dibattimento due testi destarono grande scalpore: Fidia Gambetti e Danilo Ferretti. Su di loro D’Onofrio fece grande affidamento per dimostrare la bontà delle iniziative “educative” tenute in prigionia. Entrambi, infatti, come abbiamo già accennato, erano passati dal fascismo più puro a un comunismo altrettanto cristallino e appassionato. Fidia Gambetti, in particolare, era un’ex camicia nera con ambizioni letterarie, distintosi come giornalista e per la composizione di appassionate liriche a Mussolini. In prigionia aveva mutato opinione e su “l’Alba” aveva pubblicato un diario a puntate in cui spiegava la sua adesione al fascismo e la successiva metamorfosi» (Ibidem, pp. 120-121).

A proposito dei decessi, avvenuti nei campi di concentramento russi, Gambetti al processo dichiara: «“In complesso nei campi di concentramento si stava bene. Vi furono, sì, dei morti, ma i prigionieri che arrivavano già malati preferivano cambiare il pane che veniva loro distribuito con del tabacco e così si produceva un veicolo di infezione”» (Ibidem, pp. 121-122).

Attenzione: le testimonianze e la letteratura sulle atrocità subite dai prigionieri italiani in Russia non mancano. In un lavoro del Ministero della Difesa sui lager istituiti in Russia si legge: «In una seconda fase, alcuni lager furono chiusi: tra questi Miciurinsk, Nekrilovo, Khrinovoe ed i sopravvissuti distribuiti in altri impianti (…). Purtroppo la mortalità continuò ad infierire sia per le epidemie, portate e diffuse dai nuovi arrivati, sia per il persistere di trattamenti al di sotto della soglia di sopravvivenza» (Ministero della Difesa – Commissariato Generale Onoranze Caduti di Guerra, Ricerche effettuate sul territorio della Comunità di Stati indipendenti (ex URSS) per la localizzazione delle fosse comuni e dei campi di concentramento. Dati di interesse, Stabilimento Grafico Militare, Gaeta 1996, p. 1).

Inoltre: «Abbiamo oggi, fornita dagli stessi russi, la conferma di quello che i pochi Reduci hanno sempre sostenuto, quasi mai creduti, spesso indicati come propinatori di notizie false: e cioè che la grande ecatombe che si è verificata nei lager a causa della fame e delle epidemie (…). Infine, in base alla data ed alla località di cattura, si è accertato che più di 10.000 dei prigionieri segnalati non appartenevano all’ARMIR. Una parte è stata presa dai russi nei campi di concentramento tedeschi della Jugoslavia ed appartenevano alle unità italiane operanti in Grecia, Montenegro e nelle isole dell’Egeo, che i tedeschi avevano disarmato e internato dopo l’8 settembre del ’43. Un’altra parte di militari italiani internati fu presa nei lager tedeschi della Polonia nei primi mesi del ’45» (Ministero della Difesa – Commissariato Generale Onoranze Caduti in Guerra e U.N.I.R.R. – Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia, Elenco Ufficiale dei prigionieri italiani deceduti nei lager russi, Supplemento de il Notiziario U.N.I.R.R., 1° fascicolo, Milano s.d., p. 5).

La menzogna: dispersi!

Il quadro della faccenda dei Reduci non rimpatriati può essere reso più chiaro anche dalla lettura di quanto scritto nel 1958 dall’Ufficio del Legato Italiano presso la Commissione Speciale dell’O.N.U. e di cui si riporta uno stralcio:

«Dall’ultimo rapporto della Commissione Speciale dell’ONU per i prigionieri di guerra fatto al Segretario Generale delle Nazioni Unite al termine della VII Sessione di Ginevra si sono tratti alcuni dati, che possono dare la sensazione dei risultati conseguiti e quanto ancora rimane da conoscere sui prigionieri e dispersi dei tre Paesi maggiormente interessati. I dati si riferiscono al periodo 1950-1957 e cioè dalla istituzione della Commissione fino alla VII Sessione della stessa – secondo le segnalazioni fatte dai Governi:

- Militari e civili della Germania Occidentale rimpatriati dall’URSS, Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia, Romania e altri paesi. N. 30.000 (circa).

- Militari e civili del Giappone, rimpatriati dalla URSS, Cina, Australia, Filippine e altri paesi. N. 34.000 (circa).

- Militari e civili dell’Italia, rimpatriati dalla URSS, Polonia, Albania, Jugoslavia ed altri paesi. N. 101.

- I mancati della Germania, Giappone, Italia:

Prigionieri detenuti in URSS della Germania: 68.

Prigionieri detenuti in URSS del Giappone: 1.300.

Prigionieri detenuti in URSS dell’Italia: /.

- Prigionieri dei quali è stata provata la cattività in URSS, non rimpatriati e dei quali si ignora la sorte: Germania 100.000 (circa); Giappone 8.000; Italia 1396.

- Dispersi in URSS: Germania 1.200.000 (circa); Giappone 370.000; Italia 63.654.

Dopo la segnalazione di tali dati e a conclusione del suo rapporto, la Commissione fa rilevare ancora una volta il rifiuto del Governo dell’URSS di cooperare con la Commissione, la quale provvide a precisare sempre nei rapporti dell’Assemblea Generale dell’ONU i termini della questione dei prigionieri di guerra fatti durante la seconda guerra mondiale e cioè che essa fosse risolta d’accordo in uno spirito di pura umanità ed in termini accettabili da tutti i Governi interessati. Rinnova infine l’appello a questi Governi ed alle varie Organizzazioni di continuare i loro sforzi perché il problema dei prigionieri di guerra non era stato ancora completamente risolto» (Ufficio del Delegato Italiano presso la Commissione Speciale dell’O.N.U. per i prigionieri di guerra, Note e documenti riguardanti i militari italiani prigionieri e dispersi in Russia, op. cit., pp. 44-45).

I Caduti che ancora oggi si vuole dimenticare.

Oltre all’utile lettura dei vari fascicoli del Ministero della Difesa – Commissariato Generale Onoranze Caduti in Guerra e U.N.I.R.R. “Elenco Ufficiale dei prigionieri italiani deceduti nei lager russi”, si può rammentare che nel dopoguerra si cerca fraudolentemente di addurre al mancato rientro di tanti soldati italiani, soprattutto Alpini, la loro decisione di rimanere in Russia creandosi là una famiglia.

Si ricordi inoltre che Enrico Reginato (Treviso 1913 – Padova 1990), catturato nell’aprile del 1942 durante la battaglia di Stalino, è stato liberato dal campo di prigionia solo nel 1954. Tornato in Italia ha pubblicato il libro 12 anni di prigionia nell’URSS, edito da Garzanti nel 1955.

A Ginevra, il 9 settembre 1957 «Nella seduta pubblica il Delegato Italiano, in tono non aggressivo per evitare eventuali reazioni sfavorevoli da parte sovietica, dopo aver ringraziato la Commissione per l’opera svolta, pronunciò la seguente dichiarazione: “Signor Presidente, allorché nel febbraio 1952 noi ci siamo riuniti per la prima volta a Ginevra, voi avete dichiarato che l’iniziativa delle Nazioni Unite e il compito della Commissione dovevano ispirarsi profondamente e unicamente a principii e a uno spirito di umanità. Ed è rispettando queste direttive che si è svolta la nostra azione in questi cinque anni, nella speranza che le nostre domande fossero state accolte e di conseguenza si potessero attendere i fini che l’ONU ha fissato alla nostra Commissione: determinare il dramma che costituisce la sorte dei prigionieri, far ritornare alle loro famiglie i prigionieri che risultano ancora essere trattenuti dal nemico di ieri (…). Io stesso, a nome del mio Governo, in occasione della sessione del 1953, ho dichiarato – quando facevo appello al senso di solidarietà del Governo dell’Unione delle Repubbliche Sovietiche – che noi eravamo disposti a dimenticare tutti i disaccordi, tutta l’incomprensione esistente nel passato e che eravamo disposti a collaborare su un piano di perfetta uguaglianza, escludendo il carattere di speculazione politica con chiunque sarebbe venuto verso di noi con la stessa cordialità e con la stessa nobiltà di intenzioni (…). Oggi, al contrario, le madri, divenute vecchie e le spose, che hanno visto i loro figli diventare grandi, esigono, dalle autorità responsabili, che sia loro detto quale sia la sorte dei militari datti prigionieri e non più tornati (…). Se noi insistiamo in questa domanda di ricerche e continuiamo ad agitare il problema è perché noi siamo convinti che i motivi di tale ricerca hanno una base sicura, come lo dimostra il fatto del rimpatrio di prigionieri, rimpatrio che si è verificato dopo le dichiarazioni ufficiali del Governo di Mosca sull’inesistenza di altri cittadini italiani prigionieri di guerra in territorio sovietico. Con ciò noi non vogliamo formulare un’accusa o una lagnanza al Governo di Mosca, ma solo constatare come, grazie a delle circostanze e a degli elementi che forse il Governo sovietico stesso non è in grado di controllare, sono rientrati in Italia dei militari che Mosca affermava che non esistevano (…). Che essi sappiano che un atto di tale livello, procurerebbe loro la riconoscenza e la gratitudine di più di 60.000 famiglie che sono interessate al problema della ricerca dei dispersi. Senza alcun dubbio molto cammino è stato fatto dopo il 1952, ma il fine è ancora lontano» (Ufficio del Delegato Italiano presso la Commissione Speciale dell’O.N.U. per i prigionieri di guerra, Note e documenti riguardanti i militari italiani prigionieri e dispersi in Russia, op. cit., pp. 42-43).

Ad ogni buon conto, nel sopra citato lavoro pubblicato nel 1958 così si legge nella conclusione: «Dal 1954 al 1957 rimpatriarono ancora 4 prigionieri, considerati dispersi e per i quali le famiglie beneficiavano già della pensione di guerra e 4 civili italiani (…). Chi siano, ove si trovino e che fine abbiano fatto i prigionieri non rimpatriati lo possono sapere solo le autorità sovietiche. È pertanto a loro che si è chiesto e si rinnova continuamente la domanda di una collaborazione fattiva» (Ibidem, pp. 51-51). Sempre nel citato lavoro, ma negli allegati, compare una carta dei territori sovietici con indicati numerosi campi di concentramento ancora “attivi” e la seguente didascalia: «Alcuni campi di concentramento ove sono stati internati prigionieri di guerra italiani. Nelle zone sottolineate vi sarebbe ancora qualche nostro connazionale» (Ibidem, s.p.); e i campi “sottolineati” sono i seguenti: Leningrad, Tscherepavez, Molotow, Workuta, Inta, Abis, Norilsk, Karakanda, Tashkent, Taisket.

Un documento del Ministero della Difesa, Commissariato Generale Onoranze Caduti in Guerra, datato 8 maggio 1993 e firmato dal Commissario Generale, Generale Benito Gavazza, in un passo fornisce una indicazione su cui riflettere: «Purtroppo nulla sarà possibile fare per il rientro in Patria dei Resti mortali di questi Caduti i quali, nella quasi totalità, furono sepolti in fosse comuni unitamente a militari di altre nazionalità in località vicine ai campi di concentramento. Tengo a precisare che personale di questo Commissariato Generale ha già iniziato l’individuazione di tali fosse comuni e su di esse verranno erette lapidi commemorative a perenne ricordo del sacrificio dei militari italiani e a testimonianza della loro presenza in quei luoghi. I parenti di questi Caduti sono già stati avvertiti di questa situazione e la CIFAG (Commissione Internazionale Formazione Atti Giuridici) sta provvedendo a formalizzare l’atto di morte modificando lo “status” degli stessi da “disperso” o “morto presunto” in “morto”» (Ministero della Difesa – Commissariato Generale Onoranze Caduti in Guerra – Direzione Situazione e Statistica. Prot. n. 3/2089/430/RUSSIA. Oggetto: Elenco Dispersi in Russia. Indirizzato a UNIRR Via Burigozzo 4/a, 20122 Milano. 8 maggio 1993 [Ministero della Difesa – Commissariato Generale Onoranze Caduti in Guerra e U.N.I.R.R. – Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia, Elenco Ufficiale dei prigionieri italiani deceduti nei lager russi, Supplemento de il Notiziario U.N.I.R.R., 1° fascicolo, op. cit., p. 3]).

Ricordare!

Alla data odierna vi sono molteplici individui che la nostra Storia Patria non ha ancora condannato: sono gli sterminatori e i loro complici.

«Dopo ottocento-mille chilometri, ridotti a poche centinaia delle migliaia che eravamo alla partenza delle colonne, giungemmo ai campi di concentramento e qui la tragedia raggiunse l’apice ed i nostri cuori scoppiarono uno dopo l’altro. Fame, pazzia, tifo petecchiale, dissenteria ridussero ancor più le nostre file. Tambov, Krinovaja, Miciurinsk che a più riprese riunirono 30.000, 20.000 e 7.500 italiani ne riconsegnarono alla vita 3.450!!! Negli altri campi ci fu la stessa proporzione. Poi ai sopravvissuti furono riservate altre sofferenze. Ridotta la fame, diminuite le malattie ecco apparire i commissari politici russi, e italiani al loro servizio, per iniziare una martellante propaganda che, senza successo, ma non risparmiando minacce, dolorosi trasferimenti in campi più duri, blandizie e promesse, tentarono di far breccia sui sentimenti di italianità che ognuno conservava intatti. Finalmente venne il giorno tanto sperato del rientro in Patria. Prima i soldati e poi gli ufficiali. I loro nomi vennero cancellati al momento della partenza ed essi vennero rimandati nei campi di prigionia, dove altri erano rimasti sottoposti ad assurde accuse che li tennero in durissima prigionia per 12 anni. Pochi altri indiziati, per fortuite coincidenze, riuscirono a mimetizzarsi ed a rientrare in Patria, benché anche loro fossero stati minacciati di processi e pene a vita. Ogni prigioniero porta con se il ricordo di quegli anni tremendi e ricorda i nomi di altri italiani che esercitavano con zelo i compiti che i russi avevano a loro affidato che non fu certo di aiutare i connazionali a sopravvivere, a lenire le loro sofferenze morali e materiali, a cercare di far avere e dare notizie alle famiglie, ma a deriderli, ad insultarli, a minacciarli, quando si dimostrava fierezza e dignità di Soldato Italiano» (Ministero della Difesa – Commissariato Generale Onoranze Caduti in Guerra e U.N.I.R.R. – Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia, Elenco Ufficiale dei prigionieri italiani deceduti nei lager russi, Supplemento de il Notiziario U.N.I.R.R., n. 45, 4° fascicolo, op. cit., pp. 10-11).

Ricordare è il primo sforzo che si deve compiere per sapere chi siamo e conoscere il vero volto di chi abbiamo davanti quando ci parla, soprattutto se si tratta di un “politico”. Se Togliatti ha detto e fatto ciò che i documenti comprovano è anche e soprattutto perché in Italia una larga schiera di sostenitori e di fiancheggiatori lo hanno protetto. E ad oggi c’è chi ne “protegge” la memoria.

Decine di migliaia di soldati italiani dati per dispersi erano in realtà prigionieri. Una percentuale spaventosamente alta di prigionieri è stata fatta morire, in alcuni casi, e proditoriamente ammazzata in altri.

A denti stretti, ma concludendo…

Oggi, comodamente assisi in poltrona, vogliamo continuare ad essere prigionieri delle menzogne che ci hanno raccontato? Vogliamo continuare a farci raccontare menzogne? Vogliamo continuare a lasciare che si scrivano solo menzogne?

Ma, soprattutto, dobbiamo stare ad ascoltare le geremiadi di coloro i quali “non sanno a che santi votarsi” e per non volere o non potere guardare la stella bianca (americana), vogliono che si guardi con occhio languido e supplice quella rossa (sovietica)? La “risoluzione” non rimane in un gruppo di logge o nell’altro. Queste non sono le sole alternative, ma in ogni caso è ora che ci si faccia forza e si trovi in noi stessi e innanzitutto in Casa Nostra, nella nostra Patria, cio’ che ci serve per essere finalmente una Nazione.

Ma, mi ripeto, innanzitutto che non si dimentichi.

Se decine di migliaia di Soldati e soprattutto di Alpini non sono tornati alle loro case al termine della guerra si devono ringraziare soprattutto i comunisti sovietici, i comunisti italiani e coloro i quali li hanno appoggiati e difesi. E lo stesso si ricordi per quanto riguarda i non rimpatriati dalle nostre terre slave.

Almeno che questo venga scritto a chiare lettere sui libri di storia che i nostri figli e nipoti leggeranno nei giorni a venire.

Dal Surrealismo alla pittura metafisica: De Chirico e le strade dell’inconscio – Stefano Mayorca

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[caption id="attachment_26013" align="alignright" width="238"] Giorgio De Chirico[/caption]

Il tema dell’inconscio e delle dinamiche scaturenti da una analisi profonda dell’essere nascosto, è stata al centro di una ricerca pittorica e visiva (film) che nasceva da un intimo desiderio volto a scandagliare i recessi remoti della mente e dell’anima. Stiamo parlando del “Surrealismo”, movimento culturale del Novecento la cui genesi vede la luce a Parigi negli anni 20. Principale teorico di tale corrente fu il poeta André Breton, influenzato in questa ricerca dal pensiero freudiano legato all’inconscio, ai sogni e al simbolismo onirico che ne deriva, formulato da Freud nel 1900. Non vi aderì Giorgio De Chirico (Volo, 10 luglio 1888 – Roma, 20 novembre 1978), che pure aveva fornito con la sua pittura metafisica un contributo determinante alla nascita del movimento, mentre vi aderì, seppure con una certa originalità, il fratello Andrea, più noto con lo pseudonimo di Alberto Savinio. L’influsso marxista e le incursioni comuniste all’interno di questa realtà artistica probabilmente, spinsero De Chirico a non condividere certe scelte di ordine politico.

Lo stesso Salvador Dalì (1904-1989), uno dei massimi esponenti del Surrealismo, era fortemente contrario a queste inflitrazioni e rimase sempre su posizioni conservatrici. Abbiamo detto che la nuova corrente culturale-pittorica venne ispirata dalla pittura Metafisica de chirichiana, vero e proprio stile che affonda nei recessi più nascosti della mente in maniera quasi esoterica, in cui le atmosfere dal sapore classico e magico sembrano echeggiare nei dipinti del grande artista. Rinveniamo in tale analisi sperimentale -a nostro giudizio- l’esperienza e l’influenza del lavoro dello Psicologo, analista e psichiatra svizzero, uno dei padri della psicoanalisi assieme a Sigmund Freud, Carl Gustav Jung (1875-1961), che fu anche studioso di medianità e fenomeni paranormali. Fortemente dotato a livello paranormale, nella sua autobiografia dal titolo Ricordi, sogno riflessioni, Jung esordisce con queste parole: La mia vita è la storia di un autorealizzazione dell’inconscio”. E, in effetti, l’esistenza del grande studioso fu decisamente anomala, eccezionale, circonfusa da impenetrabile mistero.

 

Jung e lo Gnosticismo

Coscienza e coscienza exstrasomatica

origini della pittura metafisica?

 Da queste sue esperienze disseminate negli anni comunque estrapolò le sue teorie sulla coscienza, fortemente influenzate dall’antico pensiero gnostico, il movimento magico-religioso dai contorni ermetici (dottrina ermetica), sviluppatosi soprattutto nel II, III secolo nell’ambito del cristianesimo esoterico-iniziatico, del quale costituiva la maggiore tendenza eterodossa. Questo circolo ermetico, la cui regole erano contenute nei famosi Libri Apocrifi, rinvenuti intorno al 1945 a Nag Hammadi (alto Egitto), celava nelle pratiche segrete e interne, elementi alchimici di notevole spessore operativo. Il termine Gnosticismo nasce dalla parola greca gnosis e indica la sapienza, la conoscenza segreta del Divino, che i seguaci dell’Ordine affermavano di possedere. Jung approfondirà in particolare il pensiero dello gnostico Basilide (metà del II secolo d.C.), che contribuirà a illuminare le teorie junghiane e lo avvicinerà alla Grande Opera alchimica. Secondo la visione ermetica di Basilide, esiste nell’essere umano una duplice valenza, identificabile nel dualismo cosmico, nel quale convergono luce e tenebra scaturenti dall’incontro tra il mondo terrestre e quello celeste. Nell’ambito di tale concezione si colloca, inoltre, il concetto legato alla parte nascosta dell’uomo, il lato oscuro insito nella natura umana. Jung intravide in questo postulato la possibilità che l’uomo rappresentasse il ponte teso sull’abisso fra questo mondo, il regno dell’oscurità (l’astrale, da astreo, ossia privo di luce) e il regno luminoso e celeste.

Non a caso affermava che esiste un’indipendenza dell’anima da spazio e tempo, ampiamente dimostrata dai fenomeni extranormali. Egli sosteneva a riguardo che l’esistenza temporale interiore è parallela a quella esteriore, e per tale ragione noi esistiamo parallelamente in entrambi i mondi, cosa di cui di tanto in tanto ci coglie l’intuizione. Ciò che però è al di fuori del tempo non può modificarsi secondo le nostre concezioni: possiede una relativa eternità. In sostanza, Jung considerava la coscienza e l’inconscio egualmente importanti e legava la coscienza all’Io, come si rileva dalle sue parole: “La coscienza necessita di un centro, di un Io che sia cosciente di qualcosa. Non conosciamo alcun tipo di coscienza, né potremmo immaginarne una che sia priva di un Io. Non può esistere alcuna coscienza, senza qualcuno che affermi: “Io sono conscio” ”. Da questa interpretazione prenderà vita il concetto junghiano di Supercoscienza o Coscienza extrasomatica, molto vicina all’immagine simbolica dell’Ermete interiore, il vero tempio delle pratiche alchimiche. La pittura Metafisica non sfugge a tale postulato. Le famose piazze dipinte da De Chirico, assumono strane identità che collegano l’inconscio o meglio, la Coscienza extrasomatica a quelle dimensioni che paiono svilupparsi in diversi piani, in realtà parallele che si snodano in mondi solo apparentemente conosciuti ma in vero collocati oltre la soglia del piano fisico.

 

Ettore e Andromaca

Nel dipinto “Ettore e Andromaca”, la componente metafisica è fortissima, carica di ancestrali richiami che riconducono ai recessi più insondabili dell’io, dove luci e ombre sembrano rincorrersi in un gioco di magistrali chiaroscuri, e mediante elementi geometrici che ne segnano tutto il mistero. La luce sul fondo, quasi spettrale, genera inquietudine, si affaccia in un luogo sconosciuto e, la stasi dei personaggi, conferisce a tutta la scena un sapore di immoto, un senso di attesa, mentre il bagliore che si promana dal basso del fondo, assume il ruolo di benefica conclusione. È la luce della coscienza risvegliata che allude al risveglio dell’Io addormentato, alla nuova consapevolezza, frutto di chi sa ritrovare la sua vera essenza, di quanti percorrono la strada, la via, il sentiero che conduce nelle regioni altre, illuminate dalla Lux rivelatrice, suprema Conoscenza.

L’opera di De Chirico è unica, inimitabile anche se molto imitata. Un mondo, anzi un Universo, in cui si muovono curiosi personaggi, situazioni al confine tra paradosso e magia. Miti che si rinnovano sulla tela, riportando alla luce le antiche e affascinanti storie di eroi e di mitici uomini-animali, come i centauri e le sirene che appaiono sulla superficie pittorica o gli splendidi cavalli che sono colmi di vitalità e magia. Una assoluta alchimia di cromatismi che trasporta oltre i confini dell’anima, al di là di quanto è solo materia, per veicolarci nel sottile, dove la materialità è attenuata ma non assente. La presenza di forme androginiche nel contesto dell’opera di De Chirico è palese. I celebri manichini asessuati lo confermano. Alchimiche assonanze percorrono i suoi dipinti e confluiscono nell’ignoto, nel mistero, il vero mistero che è l’uomo stesso, anche se egli non ne è consapevole.

  Stefano Mayorca    

Le Vie di HERMES – La Sapienza Ermetica a Napoli ed in Europa

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Informazioni per chi fosse interessato all'acquisto. Le Vie di HERMES La Sapienza Ermetica a Napoli ed in Europa Atti del Convegno del Primo Simposio Internazionale di Studi Ermetici Nel 400° Anniversario della morte del medico-alchimista partenopeo Giambattista Della Porta - Napoli 30 Maggio 2015
Indice dell’Opera: - LA “VIA REGIA” DI PRAGA Un percorso iniziatico tra potere regale e simbolismo di Mauro Ruggiero – - LA CHIESA DI S.GIOVANNI A CARBONARA IN NAPOLI: Solarità spirituale, Neoplatonismo ed Ermetismo nel linguaggio delle forme artistiche. di Stefano Arcella –

- IL MONDO SECRETO DI GIULIANO KREMMERZ Alcune considerazioni sulla nascita della Fratellanza Terapeutico-Magica di Miriam e sulla mitopoiesi del Grande Oriente Egizio - Appendice documentaria: Giuliano Kremmerz descritto da una contemporanea: Isabella Grassi incontra il Mago di Portici (9 gennaio 1921) di Cristian Guzzo –

- IL DIO DEL SILENZIO La figura di Arpocrate, immagine-simbolo del segreto iniziatico nella tradizione ermetica di Sigfrido E.F. Höbel – - GIOVAN BATTISTA DELLA PORTA E L’ARTE MEDICA DELLA MEMORIA di Luca Valentini – - DE SIDERALI FATO VITANDO Tommaso Campanella, il Filosofo Mago di Stefano Mayorca – – L’EROICO FURORE DELLA CONOSCENZA In cruce sub sphaera venit Sapientia vera di Daniele Laganà – Edizione numerata in ampio formato (cm. 32 x 23), 112 pagine, illustrato, € 20,00 EDIZIONI REBIS via Venezia, 42 – 55049 Viareggio (Lucca) – Italia Tel. 0584 943038 – 373 7436098 – Fax 0584 943107 www.edizionirebis.it email: ordini@edizionirebis.it

Ribaltare la prospettiva – Enrico Marino

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Dopo i fatti di Macerata, Mattarella è intervenuto per affermare che “l’Italia ha bisogno di sentirsi comunità di vita in cui tutti siamo legati da una sorte comune, in cui si vive insieme agli altri senza diffidenza”. Siamo abituati alle facce toste della politica, ma francamente sentire questo presidente parlare di “comunità” risulta oltremodo stravagante e fastidioso. Tanto spettrale quanto divisivo, tutte le volte che s’è pronunciato, Mattarella s’è sempre proposto come un uomo di parte, schierato ideologicamente e politicamente a sinistra, su posizioni talmente settarie da risultare decisamente fuorvianti e propagandistiche, com’è avvenuto con le sue recenti dichiarazioni sul fascismo apparse tanto faziose quanto storicamente fasulle e politicamente intolleranti. Perciò, è ancora più risibile e ipocrita questo suo appello alla comunità nazionale quando sono proprio personaggi come lui che, da oltre settanta anni, spargono a piene mani nel Paese i germi del rancore, della sopraffazione, dell’intolleranza e della falsità. Non ci può essere nessun legame e nessun vincolo comunitario fra noi e loro, né fra loro e la maggioranza del popolo italiano che, specialmente negli ultimi tempi, ha subito un vero e proprio processo di spoliazione economica, sociale, morale e identitaria ad opera di questo sistema.

Non può esservi comunità di destino con chi ha costruito le sue fortune politiche proprio sulla negazione e la divisione della coscienza e della comunità nazionali, con chi, dalla morte della Patria fino all’odierno tentativo di snazionalizzazione del popolo italiano, ha sempre esercitato cinicamente il potere in un’ottica di parte, per egemonizzare e manipolare la cultura, la storia, la memoria e l’educazione della Nazione.

Anzi, più passa il tempo più questo establishment si compatta dietro un rancido antifascismo, strumentale e fuori tempo, per mascherare i fallimentari esiti di oltre mezzo secolo di politiche scellerate. Non a caso nel 2018, nell’era del digitale, dell’informatica e dell’esplosione di un nuovo progresso scientifico e tecnologico, in Italia ancora si muore su un treno di pendolari a causa di linee ferroviarie antiquate o in una fabbrica per l’assenza di misure di sicurezza; in un cantiere senza tutele o in una corsia d’ospedale o per il mancato arrivo di un’ambulanza; si muore per frane e alluvioni dovute al degrado ambientale o in una scuola priva di una struttura antisismica; per il fallimento di un’azienda e la disoccupazione o per la violenza di un immigrato clandestino. Grazie alla foia ideologica del mainstream politico mediatico, abbiamo un potere che si accanisce sul popolo italiano, ma che favorisce in ogni modo l’invasione del Paese da parte di masse di irregolari africani in cerca di facile fortuna e di comodità. Viviamo il paradosso di battaglie, in nome del politicamente corretto, per l’eliminazione della parola “razza” dalla Costituzione, ma vediamo la stessa Costituzione disapplicata e negata nei suoi fondamentali articoli che riguardano la libertà di pensiero e di associazione, la tutela dei cittadini e la garanzia del diritto al lavoro. Abbiamo uno Stato che è tollerante con i crimini degli immigrati, che crea le condizioni di disagio e di frustrazione tra gli italiani, ma che usa il pugno di ferro contro chi reagisce per disperazione a quel degrado accusandolo immediatamente, senza attenuanti, di terrorismo e xenofobia. E’ accaduto a Macerata, può accadere nuovamente ovunque. Perché ovunque assistiamo alla discriminazione attuata dalle Istituzioni nei confronti degli italiani in forme e modalità spregevoli. Nel comune marchigiano, ad esempio, il ministro della Giustizia, il comunista Orlando, s’è precipitato a visitare i negri feriti dagli spari, ma non la madre di Pamela, la ragazza squartata dal clandestino nigeriano, il crimine che ha causato la reazione del giovane italiano Luca Traini. Ovunque assistiamo a forme di prevaricazione nei confronti degli italiani, con i clandestini ospitati in strutture alberghiere, con cooperative che assumono solo stranieri, con agevolazioni sulle tariffe telefoniche solo per gli immigrati, con concorsi e opportunità riservate solo agli irregolari. Ci ritroviamo con oltre 800mila clandestini, che non sappiamo espellere e che quest’anno ci costeranno oltre 5 miliardi di euro, ma abbiamo pensionati alla fame, 10 milioni di italiani poveri, milioni di disoccupati e altri milioni di giovani sfruttati con contratti precari, privi di qualunque diritto e costretti a espatriare. E dobbiamo ascoltare le sirene del PD che, con stomachevole impudenza, si attribuiscono addirittura il merito di aver posto un freno all’immigrazione selvaggia, cosa peraltro non vera, quando i responsabili di quella stessa immigrazione sono loro che, per anni, l’hanno favorita, arrivando al punto di accettare lo sbarco di tutti i clandestini sul nostro territorio, in cambio di una maggiore flessibilità della UE sulla crescita del nostro debito pubblico e la possibilità di utilizzare i fondi degli aiuti europei come mance elettorali. Il disgusto che suscitano questi politici è il segnale più evidente della differenza antropologica che esiste tra loro e noi e della inconciliabilità assoluta della nostra visione del mondo con la loro. Non abbiamo, né vogliamo avere, nulla a che spartire con questa genia che ha inquinato e reso putride tutte le istituzioni del Paese, dalla politica alla amministrazione pubblica fino alla magistratura. Noi e loro siamo entità antitetiche e irriducibili. Per questo occorre controbattere alle falsità della loro propaganda con l’intransigenza delle nostre posizioni, adottando e imponendo un totale mutamento di prospettiva nell’affrontare ogni problema. Se è vero, com’è vero, che settant’anni di liturgie antifasciste, di medagliette dell’Anpi e di giornate della memoria non sono servite a estirpare il fascismo, non è perché il “mostro” fascista risorge quando arretra la democrazia, ma perché agli ideali sociali e nazionali fanno appello i popoli vessati da anni di politiche criminali, di progetti disumanizzanti, di distruzione di ogni valore, di irrisione della legalità, di corruzione diffusa, di demolizione dello stato sociale, di deformazione della famiglia naturale, di alterazione razziale, di svilimento della Nazione e di indegna soggezione alle altrui politiche internazionali. Se è vero, com’è vero, che i movimenti identitari e patriottici rinascono e si affermano nelle periferie abbandonate del Paese, non è perché è venuta meno la sinistra a una “sua naturale missione”, ma perché il fascismo ha sempre espresso valori sociali e popolari, perché la partecipazione è più comunitaria e più nobile della lotta di classe, perché la sinistra non ha alcuna esclusività nel campo sociale, perché la sua presenza in mezzo ai diseredati ha sempre assunto connotati esclusivamente sovversivi, perché l’intellighenzia progressista ha sempre pronunciato parole in libertà e s’è compiaciuta di sofismi intellettuali lontani dal popolo e dalle sue reali necessità. Se è vero, com’è vero, che si diffonde una reazione contraria all’immigrazione, non è perché gli italiani oggi ragionano in termini di superiorità e di inferiorità etnica, ma perché sono resi esausti da una propaganda bugiarda e accogliente che mira allo stravolgimento sociale e razziale del Paese. Non saranno certo le leggi a cambiare la realtà delle cose né le ideologie a smentire l’esistenza in natura delle razze, ma soprattutto non saranno le ipocrisie della sinistra a confondere ulteriormente le carte in tavola sul problema della immigrazione. Oggi gli esponenti della sinistra gettano la maschera e, dopo aver consentito per anni l’ingresso di clandestini, dichiarano l’impossibilità di espellerli, di fermare l’immigrazione e la necessità di integrare tutti gli irregolari. Non è vero. L’immigrazione si può fermare con il blocco navale, col collegamento operativo della nostra marina con le motovedette libiche, con l’emarginazione delle Ong, con le pressioni economiche sui Paesi di provenienza dei clandestini, Paesi che hanno precisi accordi commerciali e ricevono aiuti dall’UE. Gli africani vanno aiutati in Africa, ma prima va chiarito che devono restare nelle loro terre. Quanto agli irregolari già sbarcati in Italia, vale quanto già detto circa gli accordi internazionali ed economici. Addirittura gli stranieri, in assenza di accordi coi Paesi d’origine, possono essere ricollocati presso altri Paesi. I clandestini africani entrati illegalmente in Israele, che dovranno lasciare il Paese entro tre mesi, o rischieranno l’arresto, pur essendo provenienti da Sudan ed Eritrea dovranno partire “per il loro Paese o un Paese terzo”, ovvero il Ruanda con il quale è stato stretto uno specifico accordo. In base all’intesa i migranti potranno essere espulsi nel Paese africano anche senza il loro consenso. Chi partirà entro la fine di marzo otterrà un contributo di 3500 dollari e non dovrà pagare il biglietto aereo. Il provvedimento rientra nell’impegno a far partire da Israele circa 42mila migranti africani entrati illegalmente prima che fosse costruito un muro lungo il confine con l’Egitto. A queste condizioni gli 800mila clandestini presenti nel nostro Paese potrebbero essere ricollocati in Africa con una spesa 2.800milioni di dollari, invece di pesare sul nostro bilancio per oltre 5miliardi di euro. Se queste politiche sono adottate da Israele, Paese simbolo dei nostri antifascisti, tanto più potrebbero essere adottate da noi senza alcun timore di poter essere accusati di razzismo. Non occorre aggiungere altro per affermare ancora di più la distanza tra noi e questa sinistra indecente, che da troppo tempo occupa il potere, che ha perduto ogni contatto con la realtà e che invece di occuparsi delle richieste di tutela che provengono da larga parte della società e dalle fasce più umili del popolo italiano ha preferito fare propaganda contro i simboli e i monumenti del Ventennio. Chi semina vento, raccoglie tempesta. Sarebbe ora che una tempesta nazional popolare spazzasse via i miasmi di questi grotteschi e squallidi antifascisti. Enrico Marino

Primi fuochi di guerriglia (chi la fa, l’aspetti) – Umberto Bianchi

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Urlano e strillano le nostre ochette buoniste, come non mai. L’indicibile, l’evento cataclismatico, il tanto temuto giorno, è venuto. Dopo il codino subire anni di soprusi, violenze e prepotenze d’ogni tipo da parte della dilagante presenza di una multicolore truppa di stranieri abusivamente sbarcati ed altrettanto abusivamente insediatisi sul territorio di un paese sovrano, con la compiacenza di politici e padroncini venduti ai Poteri Forti, qualcosa che “loro”non si aspettavano proprio, si è invece verificato.

All’indomani dell’orrenda fine di una connazionale di soli diciotto anni, squartata dopo esser stata forse uccisa dalla “dose letale”, amorevolmente vendutale da un “immigrato/invasore” nigeriano, un giovane italiano, in preda ad un acceso di rabbia, ha ferito a colpi d’arma da fuoco sei persone, per lo più “migranti” africani. Ed allora giù urla, strilli, condanne, comitati per l’ordine pubblico…addirittura l’Europa del circo di Bruxelles ha avuto da dire la sua sulla vicenda.

Certo, sparare non è né bello, né rappresenta il massimo della legalità, anzi. Ma, d’altronde, cosa altro potevamo aspettarci in un paese attanagliato da una crisi economica oramai senza uscita, a cui, tanto per dare un ulteriore colpo di grazia, è stato conferito l’incomodo ruolo di caritatevole ostello per turme di poveri, emarginati, malati, prostitute, criminali, pederasti ed avventurieri di mezzo mondo? Cosa potevamo, dunque, aspettarci con gente che campa sulle spalle di una cittadinanza sempre più immiserita ed indebitata, grazie a sovvenzioni, regalie e quant’altro? Gente che vive, tra l’altro, ai margini della società, attraverso espedienti che, troppo spesso, degenerano in una impressionante serie di crimini.

Furti, spaccio, violenze carnali ed ora, dulcis in fundo, l’orrenda fine di una giovane connazionale, forse morta per una dose letale, ma impietosamente fatta sparire nel più orrido dei modi, perché si potesse far sparire ogni traccia di quell’imprevisto incidente di percorso, dal brillante curriculum di un solerte spacciatore nigeriano. Anzi. La reazione del giovane ed avventato maceratese si è anche verificata con sin troppo ritardo, su quelle che dovrebbero essere le normali “tabelle di marcia” della reattività di un popolo, da troppi anni oramai, frustrato dalla invadente ed incontrollata presenza di stranieri, la cui sgradita presenza è stata imposta, tramite un’operazione di forzoso ed innaturale innesto, da un ceto politico, totalmente asservito ai “desiderata” dei Poteri Forti. Più Europa, meno frontiere, più immigrazione, meno benessere. Nei fatti, questo sembra essere il devastante programma a cui Lor Signori stanno cercando, in tutti i modi, di farci assuefare. Ma, come la Storia dovrebbe insegnarci, esistono degli elementi imprevisti ed imprevedibili, che sfuggono ad ogni logica o, quantomeno, a quelle forme di logica unicamente dettate da una visione superficiale e minimalista delle cose. Qualche imbecille sostiene che la multiculturalità o multirazzialità che dir si voglia, è, oramai, indissolubilmente iscritta nel destino di quelle genti europee, troppo vecchie e rammollite da decenni di benessere per reagire e che, pertanto, la piccola Europa, dovrebbe rassegnarsi ad un destino di subalternità davanti ai cosiddetti “paesi emergenti” ed alle loro maggiori risorse umane e geopolitiche.

Discorsi che fanno leva sull’ignoranza di determinati fattori storici, tipo quello di un continente il cui Dna o fenotipo genetico che dir si voglia è, da tempo immemorabile, rappresentato dalla razza europide, bianca o caucasica che dir si voglia, indoeuropea e non, ma sempre e comunque, bianca. Nel corso della sua lunghissima storia, l’Europa ha subito invasioni di tutti i tipi e generi. Quelle perpetrate da popoli extraeuropei si sono, però, sempre concluse con la disfatta finale di questi ultimi, magari anche dopo secoli, come avvenuto con gli Arabi in Andalusia o in Sicilia nell’Evo Medio. Le popolazioni barbare che penetrarono nell’Impero Romano, sino a stravolgerne vita ed istituzioni, essendo anch’esse indoeuropee, finirono con l’incardinarsi nell’humus spirituale,contribuendo alla genesi delle nazionalità europee, così come le conosciamo oggi. Allora di fronte al dato obiettivo di millenni e millenni di civiltà europea “bianca” o europide che dir si voglia, si dovrebbe avere l’onestà intellettuale di porsi la domanda su come ciò sia stato possibile.

La risposta sta nella collaudata capacità degli europei e degli occidentali di saper cadere e rinascere senza soluzione di continuità, assorbendo o agglutinando, sino a far sparire totalmente o quasi, tutte quelle genti e culture non europee che, nel corso dei millenni, hanno tentato di affacciarsi sul proscenio del cosiddetto “Vecchio Continente”. E questo, a costo di soluzioni non sempre indolori, anzi. Pertanto, di fronte ai millenni della nostra Storia, bisognerebbe chiedersi se, quanto si sta ad oggi verificando con i cosiddetti “ migranti”, altri non sia che un momento degli ultimi quaranta/cinquanta anni di una vicenda di ben altra portata e se, non sia il caso di correre ai rimedi, prima che si verifichi un’altra di quelle epocali tragedie, a cui la nostra lunga storia ci ha abituati.

Non è con la repressione buonista, né con una persuasione mediatica da strapazzo che si fermano determinate dinamiche storiche. La “piccola” Europa è, da tempo immemorabile, sede di Dei, Dee ed Eroi, fondatori di città ed intere civiltà. Lo sguardo sull’Europa è, in verità, lo sguardo su una silenziosa schiera di archetipi viventi, in Italia ed in Grecia, in particolare. Ogni qualvolta Europa ha corso pericoli dall’esterno, ha saputo trovare la forza di rialzarsi e reagire, proprio in quegli archetipi che sembravano essere lontani ed assenti. Così fu alle Termopili, quando il gigantesco Impero Persiano le prese di santa ragione dalle piccole, ma coese “poleis” elleniche. Così fu per Cartagine che, con Annibale, pensava di fare di Roma uno scalo portuale mediorientale, alle dirette dipendenze della sponda nordafricana del mare Nostrum. Così fu a Poitiers quando le ordinate ed eleganti cavallerie islamiche, ce le presero dai più rozzi guerrieri Svevi e Burgundi. E fu anche così, quando i Serbi di Krajna ressero l’urto delle orde turche in avanzata verso Vienna o quando, a Lepanto, l’Europa umiliò e colò definitivamente a picco la flotta ottomana e le rispettive speranze di far del nostro continente una “dependance” islamica.

Quello degli ultimi sessant’anni di liberal democrazia buonista, rappresenta solamente un momento, un soffio nella millenaria storia europea. Un fisiologico momento di “defaillance” seguito a due conflitti mondiali ed ai precedenti decenni di guerre “urbi et orbi”. Non è la prima volta che il nostro Continente, si sveglia d’improvviso e si trasforma in una colossale macchina di morte, in un immenso campo di battaglia, da cui non esiste possibilità di fuga alcuna. Quei colpi di pistola, sparati in quel di Macerata, quasi a casaccio, altri non sono che i primi seri, segnali di una rivolta che, ben presto potrebbe assumere, con le incipienti tensioni sociali, ben altro e più grave tenore ed, oltretutto, dovrebbero far capire a tutti che è iniziata la fine di un’epoca. Che se ne avvedessero le nostre sciagurate classi politiche e che, al posto di uno smielato e deleterio buonismo, torni a far capolino il buon senso. Il liberismo globale, il buonismo, l’egualitarismo idiota e livellatore, l’edonismo fine a sé stesso, hanno i giorni, anzi, le ore, contati. Smantellare pezzo per pezzo le scelte neoliberiste e globali, dovrebbe divenire l’imperativo categorico della politica prossima ventura.

Coloro che sinora hanno brigato per mantenere inalterato l’attuale andazzo, alla luce di certi episodi dovrebbero avere l’onestà intellettuale di capire di avere sbagliato ed iniziare a porre rimedio. Dovrebbero, ma non lo faranno mai, per una forma di strana malafede accompagnata ad una conclamata e patologica imbecillità senile chiamata “buonismo”. Questa “lue” dell’anima occidentale importata dalle sponde del Mediterraneo Orientale, da genti che del commercio sleale, della malversazione e dell’usura (agli altri, sic!) avevano fatto la propria unica risorsa materiale e spirituale e che, già, aveva colato a picco l’Impero Romano, oggi va ripresentandosi in forme nuove ed inedite ma, pur tuttavia, antichissime. Ieri le sponde orientali del Mare Nostrum, oggi quelle orientali dell’Atlantico, a Wall Street. Il denaro prodotto dal nulla e prestato a tasso maggiorato sulla pelle dei popoli frutta, eccome. Cacciare via interi popoli dalle proprie terre, come ora accade in Africa, per farli soppiantare da ipertecnologiche e aziende, sede di multinazionali, sponsorizzate da “fondi sovrani” americani, cinesi, britannici o francesi, frutta eccome. Come anche il pianto, nella veste di quella continua ed oscena giaculatoria buonista, che tanto ricorda il sinistro latrato di una iena pronta a scagliarsi su una vittima, quello, statene tranquilli, frutta sempre. Il vittimismo che a lui si accompagna, rivela la peggiore delle menzogne: quella di chi vuole nascondere l’essenza della vita, imperniata su un anelito di potenza al di là del bene e del male, nel nome di una visione edulcorata ed ipocrita del mondo.

Ed allora, cari buonisti, non aspettatevi nulla di buono da questo tormentato scorcio di nuovo millennio. Se credevate che i popoli europei si lasciassero distruggere,umiliare, schiavizzare impunemente, senza reagire, allora vi sbagliate di grosso. Se credete di fermare la Storia con divieti, faccette truci e proclami altisonanti, allora si vede che non avete capito proprio nulla. Macerata è il primo, spontaneo squillo di un qualcosa che, voi, e solo voi, avete evocato con politiche folli e suicide ed il cui insostenibile prezzo stanno pagando i popoli europei. Ed allora, lasciamo pure che l’eterno ruota del Samsara della Storia torni a girare ed Europa torni ad essere quello che sempre è stata e sempre sarà. Al di là di momenti, contingenze epocali e dei vostri stessi pianterelli. Tanto non vi crede più nessuno….

UMBERTO BIANCHI

Mercury’s child, il canto dei lupi

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E’ di pochi mesi l’uscita di “Il canto dei lupi”, opera prima dei “Mercury’s Child”. Il gruppo musicale, anch’esso di recenti formazione e nascita, richiama già nel nome la fluidità mercuriale di un’ operazione alchemica, offrendosi il modo di giocare musicalmente con suoni della tradizione che oscillano tra le sottili suggestioni celticheggianti e i territori del “progressive”, l’aspetto forse più sofisticato e misterioso di tutta la musica rock. Se qualche purista della tradizione, sentendo parlare di musica rock, dovesse storcere il naso, qui si tratterebbe di un atteggiamento abbastanza superficiale: non solo l’aspetto “progressive” identificò stilemi musicali oramai già abbastanza lontani e di ben più ampio respiro rispetto alla matrice originaria del rock, ma nel caso specifico esso, a prescindere dall’evocare l’ elemento “metallico” proprio all’epoca in cui siamo, ne acquisisce il linguaggio espressivo nella sua forma più attuale, più popolare e più diretta, divenendo il veicolo in tal senso più efficace per traslare il messaggio di cui si fa portatore: dal musicista all’orecchio di chi ascolta.

Mercury’s Child batte il sentiero della canzone, la forma di musica più diretta e popolare, come già detto. Volendo giocare a far le “persone colte” si direbbe che in tal modo la musica aggira le barriere razionali per operare direttamente sull’elemento astrale: per un messaggio dalle forti peculiarità culturali non c’è veicolo migliore e chi ascolta, trasportato in un “tempo senza tempo”, viene guidato a dar forza al suo immaginario e, di conseguenza, alla sua “qualità che plasma”. E tuttavia, per poter giungere a tanto, per poter accedere alla dimensione del “tempo senza tempo” l’ascoltatore dovrà essere educato/ri-educato proprio al senso musicale del ritmo, quel “calcolare senza sapere di star calcolando” in cui Goethe identifica una delle possibilità dell’anima umana. Questa è l’impresa alla quale deve accingersi il musicista, colui che attraverso i misteriosi sentieri evolutivi di ogni singola consapevolezza è stato gratificato dall’ esser naturalmente provvisto di quelle qualità di base che gli consentono di suddividere il tempo, e creare musica.

La creatività è il principale segno distintivo di Mercury’s Child il cui nome, coniugato nella “barbara” lingua tanto invisa a D’Annunzio, serve qui a dare una dimensione di internazionalità a qualcosa che internazionale di certo ancora non è, ma che coniuga quella fluidità di cui sopra e tende ad espandersi, a non restare chiuso in quegli spazi, davvero troppo angusti, in cui una cultura cosiddetta “tradizionale” ha forse involontariamente relegato uno degli aspetti più magici di tutto il sapere umano. Fatti salvi alcuni(peraltro encomiabili) tentativi di gruppi come “La compagnia dell’anello” e “Gli amici del vento”, che a tratti produssero canzoni anche molto evocative, il cantautorato tradizionale, se lo si vuol chiamare così, di fatto non ha lasciato un così cospicuo segno; probabilmente per aver troppo poco battuto i sentieri di un suono più congeniale alla sua cultura d’origine. Anche quando si trattò di esprimere sentimenti di ribellione e di lotta, il voler mostrare l’evidente appartenenza ad un contesto storico oramai pregresso e il voler fare riferimento ad un “sociale” malato, che era già “territorio di caccia” del cantautorato di sinistra, probabilmente penalizzò quei tentativi, trasportandoli in una congiuntura ad essi non troppo affine, quantunque lo sforzo fosse assolutamente ammirevole.

Del resto, bisogna ammettere anche che la cifra artistica dei musicisti che in quell’epoca andarono per la maggiore era oltremodo importante, e forte di un sostegno politico che probabilmente i gruppi “della tradizione” in realtà non ebbero mai, e in ogni caso non in forma così cospicua. Cosicché bisogna riconoscere la bravura artistica dei vari Dalla, De Gregori, del primo Venditti, egemoni pressoché incontrastati della cultura musicale del paese. Dall’ “altro lato” un campione assoluto come Battisti offriva senza dubbio l’alternativa della sua arte e della sua originalità costrette anch’esse, però, a mantenersi in qualche modo entro i confini del sociale e del sentimento, quantunque universalizzato grazie anche all’ inarrivabile maestria di Mogol. Battisti era “sul mercato” discografico, e per quanto mantenesse una posizione abbastanza distante e “sottoesposta” rispetto ai media, oggettivamente non avrebbe potuto dar seguito, con le sue canzoni, ad istanze magiche o sapienziali: il mercato, nel quale egli aveva comunque scelto di stare, non gli avrebbe permesso di spingersi di così tanto oltre l’ usuale, anzi potremmo dire che la sua bravura consistè proprio nel lasciare comunque un messaggio, utilizzando mezzi usuali. Tra l’altro i suddetti cantautori, in voga già sul finire degli anni ’70, erano un po’ in procinto di subentrare allo stesso Battisti che li aveva preceduti, ma che stava man mano esaurendo l’ispirazione dei suoi primi anni.

Senza assolutamente volersi equiparare ad un modello così alto come quello del rietino, e nel pieno, assoluto rispetto di quei gruppi alternativi e rivoluzionari che per primi cercarono di rendere in musica sentimenti come la fedeltà, sia ai propri valori che alla parola data, lo slancio eroico e guerriero sprezzante dell’estremo sacrificio, e il magico sacrificio dello stesso antico sapiente, che rinuncia al mondo per realizzare nel massimo grado il suo spirito, Mercury’s Child batte il sentiero di un suono antico ma sempre nuovo, che si industria di superare ogni dogma proprio relativamente all’aspetto puramente musicale, al di la dei testi: per cui l’orecchio dell’ascoltatore non avrà modo di cader preda della noia, potendo fluire fra le note evocative e a tratti persino gioiosamente struggenti de “Il mare e il vento”, di “E tu”, e la potente, arcaica e selvaggia natura di “Imbolc”; tra la magica e sottilmente sciamanica atmosfera della ballad “Il canto dei lupi” e la gioiosa e popolare festa di “Ostara”, giocata sulle note e sui ritmi di un rock con tutti i “crismi”. E poi la festa continua, tra l’alternanza di danza popolare e valzer che rendono assai caratteristico l’impianto musicale di “Samhain” e l’austera, aristocratica potenza di “Principe”, che canta un condottiero dalla sapienza antica, deciso nel gesto, fertile nell’ispirazione: un brano nel quale l’ imponente, epica ed a tratti sinfonica atmosfera musicale narra il carisma di una guida regale che, se da un lato inorgoglisce la sua stirpe divina e solare, dall’altro rassicura un popolo che lo segue incondizionatamente, fiducioso nella magia di una filiazione eroica che, evolianamente parlando, evoca il mito del sangue, veicolo di forze sottili ed arcane. La conclusione, più che degna, di tutto questo, è in un brano il cui scopo è quello di affratellare quanti lottano per riportare al suo pieno fulgore quella luce antica che il testo de Il canto dei lupi dice “mai spenta”.

Nel brano “Terra dei Padri”, conclusivo, un impianto musicale ed un arrangiamento ancor più decisamente “progressive”, forte di una sofisticatissima partitura di flauto, sorreggono l’invito rivolto a popoli fratelli, ed inteso a far si che riconoscano la loro Madre comune in quella “Terra dei Padri” il cui suolo, sacro, ha generato Re, guerrieri ed Eroi, superando ogni contingente divergenza. Dalla Terra Saturnia all’Irlanda e le Fiandre, in nome di un’ Europa mai abbastanza unita ed oggi preda di attacchi vili, invasioni, globalizzazione, speculazioni finanziarie, il suono di Mercury’s Child intende porsi come un ponte ideale tra passato e futuro, per proiettare con un linguaggio moderno le istanze di un’antica sapienza e risvegliare, attraverso la fascinazione del suono, quell’ esaltazione fluidica che dalle anime antiche di Samhain, quinto brano del CD, riporti sentimenti di orgoglio per le proprie radici culturali, e la voglia di lottare perché esse non abbiano a scomparire, piantando piuttosto il seme che possa germogliare in una nuova fioritura, culturale ma anche sociale, per le generazioni a venire.

  CENNI BIOGRAFICI

Mercury’s Child nasce da un’idea di Giuseppe Gaglione già nel 2013, in occasione di una festa di “amici della tradizione”, nella natia Napoli. Precedentemente, in simili occasioni, si era notato come in questi incontri l’elemento musicale che gradevolmente li rifiniva dovesse rifarsi a qualcosa di pregresso, fermo alle pur bellissime canzoni di Lucio Battisti ed al folklore napoletano evocativo, quest’ultimo, a tratti anche di prerogative magiche e sapienziali soprattutto nei testi di Raffaele Viviani . O alle eroiche istanze di lotta del brigantaggio meridionale, toccasana per gli animi guerrieri che in genere non disertano questo tipo di pur conviviali riunioni. Balzava alle orecchie tuttavia come quel suono fosse in qualche modo “fermo”, legato ad un’epoca che, per quanto a suo modo “eroica”, non è più la nostra. Si percepiva come se mancasse, fondamentalmente, lo slancio per proseguire la creazione di nuove forme, capaci nuovamente di esaltare ogni animo desideroso, quantomeno, di “mantenersi in piedi in un mondo di rovine”.

Così Giuseppe Gaglione, in quel non troppo lontano 2013, decise di riportare in vita il vecchio gruppo che si era costituito anni prima con il medesimo anelito, capace di musiche completamente originali e creative, ed al quale era stato dato, all’epoca, il nome tolkieniano di “Silmarillion”. Di quel gruppo, fondato dal percussionista Franco Sansone, egli fu voce sia “a supporto” che solista, e compositore di alcuni brani, oltre quelli del suddetto Sansone e di alcuni amici di Torre del Greco e di Napoli, come Massimo Marra e Pino Campobasso. Nel 2013 venne dunque innanzitutto cambiato il nome della band, alla quale venne dato il nome suggestivo di “Mercury’s Child”. Del vecchio gruppo Giuseppe Gaglione(classe 1959) riuscì a recuperare il flautista Raffaele Sansone(1962), fratello del fondatore, il chitarrista Romolo Selvaggio(1963), di ispirazione beatlesiana ed attento cultore delle suggestive sonorità celtiche e, recentemente, il bassista Michele Mennella(1963), anche lui musicalmente “figlio” dei quattro di Liverpool ma dotato di sensibilità musicale tale da consentirgli di spaziare agevolmente tra le sonorità più segnatamente “progressive”. Al nucleo suddetto si aggiunse il giovane e talentuosissimo chitarrista classico Fausto Somma(1992), diplomato allo storico conservatorio Napoletano di San Pietro a Macella, fucina di grandi maestri, ed il fisarmonicista, cantante, percussionista, chitarrista, in una parola polistrumentista Decio Osvaldo delle Chiaie(1956), l’elemento di maggior prestigio stante la sua lunga militanza ne “Li Ciaravoli”, gruppo di musica popolare la cui fama, all’epoca della maggior fioritura di questo genere, fu probabilmente seconda in Campania solo a quella della mitica Nuova Compagnia di Canto Popolare. A supporto di questo, che è il nucleo-base, si avvicendano il giovanissimo batterista-percussionista Ennio Gaglione(1997), ed i più “navigati” Maurizio Carbone(flauto) e Nunzio Moscarella(batteria).

A fare infine da significativo supporto alla fase canora ma anche all’aspetto estetico di tutto il gruppo, con la loro avvenente bellezza, si susseguono volta per volta le cantanti Arca Colamarino, talento istintivo, la giovanissima Anna Piergallino, soprano classico, e la fantasiosa, bellissima e talentuosa Argia Di Donato, attuale cantante, “voce” del CD ed autrice di molti testi dello stesso. Mercury’s Child è dunque il nuovo nome del gruppo, ad indicare anche l’anelito a volersi librare, sulle ali dell’elemento mercuriale, oltre la filiazione tolkieniana dei precedenti Silmarillion per volare sempre più in alto alla ricerca di quella già citata “luce mai spenta”.

Riferimenti telematici:

 - gruppo facebook

- alcuni video del gruppo (video 1) - (video 2) - (video 3);

- una recensione all'album (CLICCA QUI).

Grace O’Malley, la regina dei pirati di Connemara – Franz Camillo Bertagnolli Ravazzi

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Grace O'Malley nacque intorno al 1530 nella contea di Mayo da Owen Dubhdarra O’Malley,capo clan degli O'Malley.Fin da piccola Grace seppe sempre che volle fare il marinaio ma fu sempre scoraggiata nei suoi propositi. Si sentì estremamente offesa quando suo padre si rifiutò di portarla con se su un veliero e la leggenda narra che Grace si tagliò i suoi lunghi capelli e prese a vestirsi da uomo per provare ai suoi familiari che poteva affrontare il viaggio e fare la vita del marinaio. Vedendo ciò suo padre e suo fratello la chiamarono Grainne Mhaol e la soprannominarono Grace la Calva (ciò si pensa che abbia portato al suo soprannome Granuaile).Comunque grazie alla sua insistenza le fu permesso di andare per mare con suo padre e la sua flotta di navi. Da bambina viaggiava spesso con suo padre nelle missioni commerciali d'oltre mare. Una volta di ritorno da un viaggio dalla Spagna la loro nave fu attaccata da un vascello inglese. Il padre di Grace le aveva detto che in caso di attacco lei avrebbe dovuto rimanere sottocoperta ma lei non gli obbedì. Si arrampicò invece sul sartiame. Osservando la battaglia dall'alto notò un pirata inglese avvicinarsi furtivamente estraendo un pugnale dietro la sua schiena. La coraggiosa Granuaile si lanciò giù dal sartiame e saltò sulla schiena del pirata che minacciava suo padre gridando nel frattempo. La distrazione consentì agli O'Malley di riguadagnare il controllo della nave e di sconfiggere i pirati inglesi. Passò la sua giovinezza ad apprendere le arti marinare e col tempo di avere la sua propria flotta di navi. La sua famiglia si era arricchita con la pesca e con il commercio ma più avanti nella vita ella si dedicò alla pirateria assalendo navi pirata Turche e Spagnole e addirittura la flotta Inglese. Aumentò il suo patrimonio fino a includere una flotta e diverse isole e castelli sulla costa occidentale dell'Irlanda. In età avanzata si fece una reputazione da comandante spietata attraverso le sue imprese in battaglia a fianco dei suoi seguaci. La leggenda racconta che ella partorì uno dei suoi figli in alto mare. Il giorno seguente il parto la sua nave fu attacca da pirati turchi .Nonostante fosse esausta per il parto prese un'arma e guidò i suoi uomini contro i turchi costringendoli alla ritirata.

Grace si sposò due volte nella vita Il suo primo marito fu Donald O'Flaherty che era figlio del capoclan degli O'Flaherty e prossimo alla successione alla guida del clan. Grace e Donald si sposarono quando lei aveva 16 anni. A quell'epoca quel tipo di matrimonio era di consuetudine per le famiglie combinare matrimoni quindi la loro unione fu inizialmente più un fatto politico che emotivo. Gli O'Flaherty erano un clan marinaresco come gli O'Malley aveva diritti a casa del loro clan. Attraverso il loro matrimonio Grace imparò molto sulla tradizione marinaresca da Donald e il suo clan si arricchì delle conoscenze nautiche di Grace.Ella fu presto al comando della flotta degli O'Flaherty e dominò le acque circostanti le loro terre. Nonostante fosse inusuale per quel tempo che una donna comandasse degli uomini Grace si conquistò il rispetto dei suoi seguaci attraverso la sua scaltrezza, la sua conoscenza del mare e grazie al suo coraggio. Il suo marito Donald aveva la reputazione di testa calda e questo probabilmente gli costò la vita in una battaglia contro un clan rivale. Grace e Donald furono sposati per 19 anni. Secondo la legge Irlandese le vedove avevano diritto a una parte del patrimonio del marito ma per qualche strana ragione gli O'Flaherty non seguirono la tradizione. Grace fu costretta a reggersi sul supporto degli O'Flaherty. Questo non le piacque per niente così radunò i suoi fedeli seguaci e si mise a commerciare per i mari per conto proprio. Mise in pratica le conoscenze apprese da suo padre e da suo marito e riuscì a sbarazzarsi degli O'Flaherty .Grace ritornò dagli O'Malley portando i suoi seguaci con lei diventando un capoclan per conto proprio e rivendicando il titolo di capoclan per suo marito.

Nella stessa maniera sposò il suo secondo marito Richard Burke per rafforzare la sua posizione nella costa occidentale dell'Irlanda . Dalla morte di Donald riuscì a espandere il suo impero fino a includere 5 castelli e diverse isole di Clew Bay però aveva ancora bisogno del castello di Rockfleet situato nel nord est della baia per rafforzare il suo dominio dell'area. La leggenda racconta che Grace viaggiò fino a Rockfleet e bussò alla porta di Richard per fargli una proposta di matrimonio della durata di un anno. Ella spiegò che la loro unione avrebbe dato a entrambi i clan la possibilità di resistere all'imminente invasione degli Inglesi(che si stavano lentamente ma inesorabilmente impadronendo dell'Irlanda).Si crede che dopo un anno esatto Grace avrebbe rilasciato Richard offrendogli apparentemente l'opzione di terminare il matrimonio ma ormai egli era perdutamente innamorato di lei e rimasero sposati fino alla morte di lui avvenuta 17 anni dopo. Grace ebbe in totale 4 figli. Donald e Grace ebbero 3 figli ,2 figli e una figlia. I loro figli furono Owen e Murrough e la loro figlia Margaret.Più tardi quando Grace era sposata con Richard ebbe il suo ultimo figlio Tibbot. Nel 1593 dopo molti anni di difficoltosi combattimenti contro gli Inglesi e dopo la cattura di suo fratello e di suo figlio da parte di forze inglesi ella visitò la regina Elisabetta per chiedere la pace e il rilascio di suo figlio e di suo fratello. Gli eventi che portarono all'incontro tra Grace e la regina Elisabetta ebbero profondi impatti sull'incontro stesso e in seguito sul comportamento di Grace. Durante la vita di Grace gli inglesi avevano conquistato gran parte dell'Irlanda nel corso di un processo chiamato "Sumit and Regrant.

Gli inglesi convinsero(o forzarono) i capoclan a cedergli le loro terre e in cambio gli avrebbero dato un titolo nobiliare inglese. Alcuni capoclan si arresero altri si ribellarono e Grace fu tra questi ultimi. Ella conservò la propria indipendenza molto più a lungo del resto dell'Irlanda ma nei suoi ultimi anni la potenza inglese iniziò a costituire un peso per lei. All'età di 56 anni fu catturata da Sir Richard Bingham,uno spietato governatore che la regina aveva installato nei nuovi territori passati in mano inglese. Poco dopo aver ricevuto il suo incarico mandò le guardie ad arrestare Grace e ad impiccarla. Grace fu arrestata assieme ad altri membri del suo clan e preparata per l'esecuzione. Determinata a morire con dignità ,tenne alta la testa e aspettò il momento dell'esecuzione. All'ultimo minuto il suo genero si offrì come ostaggio in cambio della promessa che Grace non si sarebbe mai più ribellata. Birmingham la rilasciò in base a quella promessa ma non le permise di riottenere il suo potere per punirla del suo atteggiamento rivoltoso. Nel corso del tempo Bingham le tolse il suo bestiame per ridurla in povertà e complottò per uccidere il suo figlio maggiore Owen. Durante quel periodo della rivolta Irlandese,l'Armada spagnola imperversava contro gli Inglesi al largo delle coste Irlandesi e Scozzesi. Non è noto se Grace abbia assistito gli Inglesi contro gli Spagnoli oppure se combatté semplicemente per proteggere quel poco che le rimaneva però si sa che intorno al 1588 Grace macellò centinaia di spagnoli della nave di Don Pedro de Mendoza vicino al castello dell'Isola di Clare.Perfino nei tardi anni della sua cinquantina Grace era spietata in battaglia. Nei primi anni del decennio 1590 Grace era ridotta in povertà grazie agli sforzi di Bingham. A quel tempo era in corso una ribellione piuttosto vasta contro gli Inglesi e Bingham temeva che Grace avrebbe potuto portare aiuto ai ribelli.

In una lettera che Bingham scrisse in quel tempo egli affermava che Grace O'Malley era una nota traditrice e la sobillatrice di tutte le ribellioni avvenute in quella zona da 40 anni. Grace aveva mandato lettere alla regina Elisabetta domandando giustizia però non ricevette mai risposta. Nel 1593 suo figlio Theobald e suo fratello Donal-na Piopa furono arrestati e gettati in prigione. Quella fu la goccia finale che fece traboccare il vaso e Grace decise di andare a Londra dalla regina di persona per chiedere il rilascio dei suoi familiari e la restituzione delle sue terre e dei suoi beni. Grace spiegò le vele e cercò di evitare le navi inglesi che pattugliavano i mari tra le sue terre e Londra. L'incontro ebbe luogo al castello di Greenwich. Nessuno sa perché la regina Elisabetta accettò di incontrarsi da sola con Grace O'Malley (e non l'avesse fatta imprigionare o giustiziare).Grace parlava fluentemente il latino e per questo fu in grado di parlare con la regina. Alcuni riportano anche che O’Malley avesse starnutito, e che quindi una dama le avesse porto un fazzoletto ricamato. Si soffiò il naso, ma, subito dopo averlo fatto, lo gettò tra le fiamme di un vicino caminetto. Di fronte alla corte scioccata Elisabetta I disse che in Inghilterra era buon uso infilare il fazzoletto usato nella manica, ma O'Malley rispose che in Irlanda erano disapprovate le persone così trascurate da tenere della stoffa sporca sulla propria persona. Grace le spiegò che le sue azioni non erano atti di ribellione ma legittima difesa. Le spiegò che l'eredità dei suoi mariti era ingiustamente trattenuta dalla regina e pretese che quei diritti fossero rispettati. Grace chiese la liberazione di suo fratello e di suo genero. In cambio Grace avrebbe aiutato la regina contro i suoi nemici di mare e di terra. La regina acconsentì e Grace fece ritorno in Irlanda e domandò a Bingham il rilascio di suo genero e di suo fratello e il ritorno a lei delle sue proprietà in base agli ordini della regina. Grace O'Malley viene ricordata come una comandante spietata e una combattente coraggiosa. Nei suoi 70 anni di vita lei e la sua famiglia videro la potenza inglese espandersi in Irlanda ma grazie alla loro forza e alla loro potenza il suo clan e i suoi vicini riuscirono ad arginare gli invasori. Si dice che dall'anno della sua morte nel 1603 nessun altro capoclan irlandese riuscì a preservare il vecchio stile di vita Gaelico come Grace O'Malley e la sua famiglia riuscirono a fare in vita.

Franz Camillo Bertagnolli Ravazzi

Anselmo Bucci (1887-1955) – Emanuele Casalena

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 “la tua vita sia tessuta di delusioni piuttosto che di rimpianti”

“Ora accadde che un gruppo di artisti amici discutesse un giorno, in Milano, dell’arte italiana e delle sue tradizioni. Fra questi artisti, uno - Anselmo Bucci - che per essere più vissuto all’estero più aveva dei fatti di casa nostra una visione larga e panoramica, si attardò a spiegare lungamente il carattere inconfondibile (come oggi si dice) dell’arte plastica italiana nei secoli: nel Quattrocento, nel Cinquecento, nel Seicento… Non vi è ascoltatore distratto, che all’udire non evochi una visione storica sfolgorante e completa, per quanto riguarda la vita dello spirito e del pensiero(…). E, nella vita spirituale, la evocazione contempla specialmente la vita dell’arte e, in modo particolare, la creazione plastica”.

                                                          Margherita Sarfatti, Storia della pittura moderna (1930)
 

Fossombron ( in gallo-piceno) è il paese natio di Luigi Mercantini, ex seminarista poi patriota, paroliere dell’Inno di Garibaldi: “si alzan le tombe/si levano i morti…), poeta della spigolatrice di Sapri. Sì di quella lirica degli “eran trecento giovani e forti e sono morti” dedicata alla sfortunata impresa di Carlo Pisacane che noi bambini ingrembiulati di blu recitavamo a memoria quando il Risorgimento era ancora la locomotiva della nostra Storia. Frammenti di nazionalismo balilla illustrati sui testi delle elementari, Garibaldi come Tex, fragranza  delle gesta d’ eroi. La Fossombrone d’ Achille Muzio, Ispettore scolastico (figlio di Teresa Mercantini e Anselmo Bucci) e Sestilia Chiavarelli genitori di Giovanni, Anselmo, Emilia la “Bigia” e Maria. Nel 1887 la famosa abbazia benedettina dell’XI sec. era già dal ‘600  un toponimo con pittoreschi ruderi affacciati sulla sponda del Tarugo. Quel 25 maggio nacque l’Anselmo, dopo il Giovanni dell’83 insigne professore di belle Lettere, scrittore di nostalgie forsembronesi, giornalista alla Nazione di Firenze, sensibile vate del talento fraterno. Fossombron fu centro degli spirituali fraticelli dello scomunicato Angelo Clareno nel’300. Ancor prima dei benedettini, di poi dei frati minori cappuccini, questo per spruzzare nell’aria  l’aureolata religiosità del luogo, ossigeno alle radici della famiglia Bucci. Quando  si chiuderà il cerchio, nel dopoguerra, Anselmo come Sironi si volgerà anche all’arte sacra vincendo il Premio d’Arte Angelicum a Milano. Si sa le Marche son terra di migranti, così la famiglia volse, per il paterno uffizio d’ ispettore scolastico, prima vicino Ferrara poi a Este poi ancor sul Brenta a Sitadèa (Cittadella) in quel di Padova. Liceo classico Marco Foscarini a Venezia, uno dei più antichi d’Italia, ribattezzato con l’Unità al “doge letterato” e fu la prima ribellione a sedici anni. La sua vocatio era un’ altra, preminente verso il disegno e la pittura, ma lui, versatile, curioso com’era, si cimenterà con  successo  nelle lettere come nel giornalismo. Però la grafite, il carboncino coglievano l’istante che diventa lesto un fatto, metabolismo creativo passante per i sensi, processo plastico in parte fiorentino. Il segno cattura l’idea in Buonarroti, la vista copula l’intelligenza, veloce scende l’immagine nella mano, svolgimento del racconto bucciano. La lunga permanenza parigina dal 1906 all’entrata italica nella Grande Guerra segnò l’imprinting del suo narrare il quotidiano, il relativo esperienziale,  metodo deduttivo per cogliere, nella ciccia delle cose, frammenti delle ossa di Diogene. Breve fu la sua esperienza a Brera nel 1905, le Accademie sono il  diavolo per gli irrequieti artisti delle avanguardie quanto lo furono per i realisti, gli impressionisti, i nostrani macchiaioli. Però le tecniche servono eccome, sono gli arnesi  del mestiere, competenze visibili non appena il bianco della carta, della tela ben stirata prendono un nome. Perciò quelle lezioni di disegno di Francesco Salvini a Ferrara poi di Cesare Tallone e Giuseppe Montessi   gli trasferirono il bagaglio lombardo del naturalismo filtrato dall’esperienza degli scapigliati (Cremona, Ranzoni, il  Piccio) per costruirsi il suo stile, “la formula” come lo apostrofò l’indispettita Margherita Sarfatti.

La Bohème di H. Murger ha influenzato non poco lo spaccato dell’artista squattrinato, genio e sregolatezza del romanticismo; Anselmo come il Marcello pucciniano  si tuffa, con Leonardo Dudreville, dalla Monza del Coenobium, nel mito delle vigne e dei mulins di Montmartre. Uno studio in due condiviso con la fame : “Sono arrivato a Parigi nel 1906, ho mangiato per la prima volta nel 1910”. Leonardo petit bourgeois, molla tutto, torna alla sua Milan, mentre Anselmo arranca nei pasti ma respira la libertà della creazione, lo zolfo delle sperimentazioni, friggitoria di cervelli, speleologia di nuovi antri da esplorare. Ci sono le vie dei sensi dell’Impressionismo o i vicoli tortuosi dell’intelletto simbolista, il sintetismo di Gauguin. Cézanne è lì nel ‘906  sul limitare del porto, retrospettiva alla pittura dell’intelligenza di un ricercatore  morto per un temporale.

Brulichio di strade nuove per dar ragione del pennello, en plain air o retour à l’atelier, di tutto si dibatte, si scambiano esperienze,  opinioni con Severini, Picasso, Modigliani, Utrillo, Dufy, Apollinaire,  quant’altri. C’è tutto il gas del  postimpressionismo fino alle “bestie”,  les Fauves di Louis Vauxelles, selvaggi del colore, ma soprattutto, a nostro avviso, l’Utrillo dei paesaggi urbani senza la malinconia che vi si scioglie;  l’Anselmo ce li fissa punto e basta. Anche i primi ritratti sentono nel colore il principe d’ una narrazione mai violenta, tenue, avvolgente con un retrogusto amaro, ma italianamente plastica, ci s’affaccia il Renoir seconda maniera, risultanze del suo Tour nel  Bel Paese.

[caption id="attachment_26099" align="alignleft" width="229"] A. Bucci, Centro città, Acquaforte, 1915[/caption]

E’ vecchia la diatriba di mamma veneta: colore contro disegno, quell’eretica

[caption id="attachment_26098" align="alignright" width="241"] A. Bucci, La zuppa degli artisti, puntasecca, 1914[/caption]

scalata del primato fiorentino mi fa balenare  Tommie Smith e John Carlos, atleti di colore, sul podio più alto, pugno all’astrazione del disegno, contorno della razza bianca ( eravamo nel ’68, Olimpiadi del Mexico e nuvole di  Jannacci ). Nascono dalle sue dita quelle incisioni a punta secca che gli permetteranno di riempire le baguettes, poi le acqueforti, l’ acquetinte, i monotipi fino alla scoperta della litografia. Nel 1907 espone al  Salon des artistes francaises aussi au Salon d’Autumne (1909) et  à les  Indépendants. Gli bastano una lastrina di zinco da sei soldi, una panchina,  un lampione cui appoggiarsi e una lingua di gatto per filmare ciò che vede, rapido, ”allegretto” getto sul quotidiano. Ritratti, scorci della Parigi rutilante, l’esprit della Belle Epoque, i bistrot, l’ame de la Paris qu’aime la vie champagne ma anche animali, clochards, operai au travail ( il realismo di Millet più Courbet ) seguendo il ritmo di  Lautrec, Degas, Renoir, assai meno l’espressionismo  socialista di Daumier. L’être ce l’être senza mutande, però dal confine del suo giardino segreto, in volo scopriamo le mille note d’ una  lirica sottile, avvolgente che anima di sacralità unica, irripetibile,ogni epifania della vita.

Bucci però è un  italiano con lo zainetto del sapere classico, resiste allo tsunami anarchico delle avanguardie esattamente quanto il livornese Modì. Il Quattrocento di Piero della Francesca, di Masaccio, di quel D. Rosselli scultore attivo nella sua Fossombrone come il naturalismo di Claudio Ridolfi ( costui potrebbe avergli trasmesso quella giocondità di stile che fu il suo “allegretto”), sono pur sempre la sintassi  se si vuole parlare italiano nelle arti. Alcuni vedono nel suo volar d’ape, di fiore in fiore,  una forma d’ eclettico ronzare per succhiar pollini a costruirsi il miele, altri proferiscono d’ arie rarefatte, spirito inquietato da decadentismo, altri ancora di vitalismo sensuale anarco-futurista.  Bucci fu un incantato mago del vero con la dolcezza del poeta sul sottofondo del big bang del Piero di S. Sepolcro.

La Civica raccolta Achille Bertarelli di Milano con i suoi 393 pezzi acquistati dall’autore nel 1937 alla cifra forfettaria di 9.500 £, è oggi la maggiore testimonianza della sua opera d’incisore già nella stagione parigina. La Paris frenetica, frizzante ti schizza tout court davanti agli occhi tra carrozze, cavalli, borghesia rampante, l’alchimia dei Cafès, il ribollir dei boulevards ma anche con l’altra faccia di Giano, gli operai a selciar le strade, a mordere un boccone, i derelitti fuori dalle vetrine scintillanti. Non è la città che sale di Boccioni ma Inondazione a Parigi (50 incisioni), la Paris qui bouge (59 incisioni) o le petit Paris qui bouge (25 incisioni) cioè “in movimento”, sono istantanee d’ un reporter editate Devambez!

A Rouen in  Normandia l’irrequieto Anselmo s’incarta nell’amore per la focosa quanto bellissima franco algerina Juliette Maré sposata al becco Leronge. Lei lascia quel marito uggioso, vola a convivere avec l’italien, viaggiano dalla Bretagna ai Paesi Bassi fin giù alla Corsica, alla Sardegna per approdare in Marocco, in Algeria. E’ il 1912 , chissà forse laggiù spinti dalle origini de la femme fatale come dal sole caldo del Mediterraneo che aveva  già stregato Eugène Delacroix. Un viaggio a mò di Paul Gauguin, a ritroso, forse inseguendo i segni della Tradizione inviolata, l’archetipo jungheriano, prima dell’avvento del regno della quantità. Culture incontaminate, metafisiche, protostoriche, lente nel masticare il tempo come il  tabacco. C’è un “filo sottile del silenzio”, la lirica sperduta di una nota leggera che spinge a meditare sul passato, forse lì nasce il lirismo magico di un artista inquieto.

[caption id="attachment_26101" align="alignleft" width="256"] Anselmo Bucci, mercato arabo, olio su tela, 1912[/caption]

Bucci ha un nuovo stile di raccontare il mondo, raccordo di matita o di colori tra forme che chiedono di tornare in vita ma in quella moderna, resurrezione del ‘400 in abiti del ‘900. Splendido il suo Mercato arabo,  par d’annusarvi l’odore aspro delle spezie, ancor di più la barbagina Messa a Nuoro, il bisbiglio sacro avvolge il guscio sacro come gli umili zinali delle  donne velate. Un amore, quello per Juliette, pieno,  a tutto tondo, però la Guerra squilla il corno di Rolando. l’Italia è un termitaio di fermenti opposti, come sempre; nel ‘14 la Francia lo premia con la medaglia d’argento per la sua opera d ’incisore, ma nel ’15 l’interventista Bucci s’arruola volontario nello stesso Battaglione Lombardo Volontari Ciclisti e Automobilisti con Marinetti, Russolo, Boccioni, Erba, Sant’Elia, Funi, la crema del primo Futurismo. Qualcuno ci lasciò le penne per destino oppure da eroe come l’architetto comasco alla Quota 85 a Monfalcone. Anselmo dopo lo scioglimento della V.A.C. approda al 68° Reggimento fanteria poi nel battaglione S. Marco, vorrebbe essere in prima linea, pugnare da eroe però…è tutto in Spleen, attesa. Vede morire l’artista eroe Antonio Sant’Elia come scrive nel racconto Un sentiero nella nebbia. Nascono i resoconti di guerra cioè les Croquis du Front italien, schizzi nelle trincee non  quando  esplodono le granate, i moschetti ‘91 aprono il fuoco, non quando si va all’assalto o si abbraccia la terra perché colpiti. No Anselmo cattura anche là il lungo metro del minimalismo quotidiano, le stanche pause prima del ciack, si leggono le attese lettere, si scrive a matita sul diario, si mangia la brodaglia delle gavette, c’è il riposo dopo la marcia, antipasti prima dello scontro, espiro del prima o dopo come insegnava Fattori. Corrono veloci i suoi ciclisti futuristi in bave coi fucili a tracollo, ci si riposa stremati o dopo il turno di guardia, accampamenti, marce stanche, volti strappati a Dix nello schizzo l’Austriaco e l’Ungherese, qualcuno carica lo schioppo, qualcun’altro prende la mira o lancia una granata, poi c’è la pietas  sul sonno eterno dei caduti, è la vita di trincea. Anselmo anticipa la seconda stagione dell’espressionismo  ma senza corrosione ideologica. Filmare l’esserci , lui ne è il testimone.

     (A.Bucci, incisioni dall’album “Croquis du front italien”,1916    Frontespizio litografie Finis Austriae)    

Torna, dopo la guerra, nella sua Parigi più per amore che per professione, ma la bella Juliette copula co’ un altro, lui fissa il tradimento negli Amanti sorpresi.

[caption id="attachment_26104" align="aligncenter" width="600"] Anselmo Bucci, gli Amanti sorpresi,olio su tela,1919[/caption]

Ridiscesa all’Ade d’ una Euridice puttana, Orfeo si vota solo all’arte? Chi può dirlo,la solitudine è pur sempre una punta secca, ebbe a dire: ”se l’uomo è un verme,io sono un verme solitario”. All’amor perduto, eterno, Anselmo rispose col furore delle sue mani: au travail! Giura d’essere fedele solo all’arte, se la porta a letto, studiando nuove “posizioni ” con l’amante. Una è lo scrivere e scriver bene, un’altra la pittura. Ancora dodici litografie sulla Finis Austriae del ’18-’19, poi l’enclave già nel ‘20  alla Galleria Pesaro a Milano. E’ odioso dire a un persona “sei negro, ebreo”  tranne che fascista, allora sì che il global pensiero ti spalanca il cancello del recinto, ti ci ficca dentro,  basta l’ epiteto  senza processi: sei fascista! Nient’altro serve alla condanna. Bucci nel secondo dopoguerra ne saprà qualcosa.

Lino Pesaro e Margherita Sarfatti hanno conosciuto le leggi razziali del ’38, diciamolo quel delirio di subalternità italica col copia-incolla dal demone tedesco, eppure s’era detto: “Trenta secoli di storia ci permettono di guardare con sovrana pietà talune dottrine di oltr’Alpe, sostenute dalla progenie di gente che ignorava la scrittura, con la quale tramandare i documenti della propria vita, nel tempo in cui Roma aveva Cesare, Virgilio e Augusto. ecc…” ( discorso di Mussolini a Bari per la Fiera del Levante del 1934 ). Arnaldo Mussolini, grande fratello di Benito, mediatore acuto fra le posizioni interne al PNF, era morto d’infarto nel ’31. Le ali dei falchi avevano preso il volo anche nel campo delle arti, Farinacci promuoverà il Premio Cremona, Bottai il Premio Brescia. Braccio di ferro politico tra anime di un’estetica di regime per il primo, di respiro internazionale per l’altro. Pesaro e Sarfatti lasceranno l’Italia rivoltati da pigmalioni dell’arte del fascismo a scomodissimi inquilini. Tiriamo questo sasso perché l’agape sarfattiana del gruppo Novecento fu l’anima dell’arte del fascismo e molti ebrei parteciparono, non certo da comparse, a quella pan rivoluzione, inizialmente timida nel campo dell’estetica.  Nel ’23, alla prima mostra del Gruppo, Muslèn pronunciò parole di circostanza perché quelle opere da cavalletto o meglio buona parte degli artisti non coglievano il seme della rivolta proletaria e fascista. ancorati all’onanismo soggettivo ottocentesco, vanaglorioso, aristocratico. Perciò fu  un discorso di compromesso del dire e non dire, sentite: “ Non si può governare ignorando l’arte e gli artisti. L’arte è una manifestazione essenziale dello spirito umano; comincia con la storia dell’umanità e seguirà l’umanità fino agli ultimi giorni. Ed in un paese come l’Italia sarebbe deficiente un governo che si disinteressasse dell’arte e degli artisti. Dichiaro che è lungi da me l’idea di incoraggiare qualche cosa che possa assomigliare all’arte di stato. L’arte rientra nella sfera dell’individuo. Lo stato ha un solo dovere: quello di non sabotarla, di far condizioni umane agli artisti, di incoraggiarli dal punto di vista artistico e nazionale…” . Ma la nascente mistica  fascista  coglieva il we must di un’estetica che parlasse  al popolo, con linguaggio chiaro, accessibile a tutti, sintesi di una rivoluzione catartica capace di restituire alla Patria il primato che le spettava sullo scacchiere del mondo. Nel ’24 Mussolini dice testualmente: “ Per secoli l’arte fu la stessa Patria “, cioè costituì l’unica immagine unitaria del nostro Paese. Arte e Italia, gemelle monozigote, non possono procedere distanti, il Paese vive la sua rivoluzione, la creazione artistica si faccia sorella d’opere nella sua costruzione. Forse fiuta gli obiettivi della catechesi  o della pedagogia, così Anselmo cede il passo, lui che pur ha il merito d’ aver ribattezzato il Gruppo  Novecento Italiano invece del primo  I candelabri, sette artisti, sette braccia, la Menorah, troppo semita.

Ma questo Bucci fu fascista o no? Certamente sì ma non duro e puro come il mistico Sironi, non c’era a piazza S. Sepolcro con Sironi, né a Roma per la marcia del ’22 o a Giulino di Tremezzina nel ‘45,  però quando la Sarfatti suonò la campanella lui rispose presente! ( pochi giorni prima del 28 ottobre del ’22 ). Fu il teorico più acuto del Gruppo anche per la capacità di fare sintesi tra la tradizione plastica del nostro Quattrocento e le esperienze delle avanguardie postimpressioniste che lui ben conosceva. Fu nazionalista convinto, interventista, volontario camerata in armi fino al mitico Battaglione S. Marco, si tuffò come illustratore nel secondo conflitto  mondiale non potendo, per età, arruolarsi in armi ( come Marinetti ). Come dicevamo, fu il fine ragionatore  di quel retour à l’ordre di J. Cocteau, quanto  sostenitore dell’assoluto primato italiano nelle arti,  idea nazionalista alla quale resterà ancorato fino alla morte. Conobbe la damnatio memoriae del secondo dopoguerra, come Sironi. Si sentì incompreso, perseguitato, pagò dazio questo pittore soldato nella clausura stretta del convento paterno. Ma, al tempo dell’agape dei sette, non poteva rinnegare il respiro del ribelle curioso, la sua irrequieta libertà di ricercare sempre nuove strade affrontando tecniche mai prima usate in ragione di una sfida con se stesso. Questa indipendenza assoluta sposata all’insoddisfazione per il dejà vu provinciale  gli aveva, d’altronde, fatto lasciare l’Accademia a diciassette anni catapultandolo, a diciannove, nella Gallia. Un ribelle assetato di sorgenti fresche, zampillanti di contro agli stagni delle ranocchiette dell’Italia Umbertina. A modo suo fu profeta, quel che la Vergine rossa macinava era  costruire ponti dall’Italia verso le culture europee, ma non solo ancor più in  là, spingere il fuoco sacro della nostra arte oltre l’Atlantico,esportando una cultura risorta a nuova vita ma in filiera con l’immenso passato. Un’Italia non arroccata Regina ma  rombante motore del progresso mondiale, Nike sulla prua di Argo nelle arti. Artista militante della rivoluzione fu Mario Sironi, aspiranti primi della classe con il calcistico Resto del Mondo furono i Bucci, Dubreville, Oppi, Malerba & C.

Il sardo ( per caso)  Sironi espresse appieno la sintesi tra spirito classico e contemporaneità,   l’Anselmo fu meta classico se guardiamo non tanto la forma quanto i soggetti. L’assoluto in abiti nuovi di contro al relativo filtrato dal passato, scelta di merito tra oltre l’io ( Sironi ) e  l’io esperienziale ( Bucci ). Due strade per la verità: l’unico o il particolare. Bucci più vicino ad Heidegger, Sironi al Nietzsche della Nascita della tragedia. Restò un’esperienza breve quella di Novecento Italiano, l’opera più affascinante è prima del ’22,  il riscoperto In volo datato 1920 (collezione Radaelli ) mostrato alla Biennale di Venezia e venduto con orgoglio, pensate, per la cifra di 20.000 £! C’è in anticipo, l’aeropittura futurista di Depero, fotografia  d’un Icaro libero, felice fin nei pori dell’anima. E’ presente, già da dissidente, alla I Mostra di Novecento Italiano alla Permanente del ‘26. Nel ’24 a Venezia aveva esposto la pala i pittori , la scuola, la terra,composizione plastica carica di simbolismi, ma la sua adesione era già critica, non se la sentiva di partecipare alla Storia ma alle sue di storie che lo scoprono nella veste, tra l’altro, di ottimo scrittore insignito del Premio Viareggio col pittore volante nel 1930. E’ un diario autobiografico delle sue esperienze di uomo, di artista condito da aforismi, schizzi critico-letterari di personaggi conosciuti, una raccolta di pezzi già pubblicati sulla rivista Arti Plastiche. Comunque I riconoscimenti gli arrivano un po’ da ovunque: da Pittsburg (U.S.A.), al Salon di Parigi, al G.A.M. di Venezia più gli acquisti d’ opere sue da parte dei Ministeri (quello della Marina per quindici quadri sulla guerra) e dalle Gallerie d’Arte Moderna (Milano e Roma ) con la ciliegina della medaglia d’oro del Ministero della Pubblica Istruzione nel ’27 (  tale Balbini  Ministro).

Artista del Rinascimento en plein air  Bucci disegna, incide, dipinge,scrive d’ arte su quotidiani e riviste (Corrierone, l’Ambrosiano,ecc..), decora e arreda, illustra libri, turbina a tutto tondo, seguendo quella visione larga e panoramica che è la sua firma in stile: il polisperimentalismo. Nel 1925 illustra con nove tavole le pagine del Libro della Giungla  di R. Kipling. Nel 1930 assume l’incarico di architetto-decoratore di tre piccoli piroscafi della Navigazione Libera Triestina: Timavo, Duchessa D’Aosta, California orgoglio della cantieristica italiana. Purtroppo tutti verranno affondati, durante la guerra, nel ’42. Sul tema ci lascia un libro di studi  “ Arte Decorativa Navale “.  Sempre nel ’30 vince la medaglia d’argento au Salon des artistes francaises. Se l’arte di Sironi vira di netto con la svolta del Manifesto della pittura murale del ‘33, quella di Bucci  banchetta sempre con il vero, narra l’estasi dell’attimo d’una farfalla   libratasi da solista di mezzo al coro, fu col pennello un anarco-fascista alla Berto Ricci. Fascismo di liberazione o fascismo di solidificazione. Il primo certamente lo affascina l’altro lo delude. L’eclettismo è la sua formula in arte quanto nella vita, anche il suo vulnus. Si cimenta con coraggio nel mare procelloso della creazione cavalcando stili diversi,  artista senza maschere, non in cerca d’autore. Bucci non diverrà mai, con suo rammarico,un artista di prima fila  “Sovrumano è resistere al piccolo successo”ebbe a dire. Forse il suo vagabondare per esperimenti non facilitò la calma monastica della riflessione, il gesto calmo, meditato che genera figure eterne, dotate d’armonie assolute, scienza dei numeri applicata alle forme. Lui non è l’Orfeo Sironi ma il cantore della Commedia dell’arte così come essa appare al suo pubblico che la rivive, stupito la riscopre, compiaciuto ci si osserva. Niente della nostra esperienza sensibile è uguale né può  essere rappresentato seguendo la stessa formula; se cambiano le sensazioni, cambiano gli stili del racconto con gli strumenti ad essi più consoni. Il creato è eclettico  tale e quale ha da essere  chi si prefigge di rappresentarlo in vero. Relativismo? “ Se per relativismo deve intendersi il dispregio per le categorie fisse, per gli uomini che si credono portatori di una realtà obiettiva immortale, per gli statici che si adagiano, invece che tormentarsi a rinnovare incessantemente…Se relativismo e mobilismo universale si equivalgono, noi fascisti…siamo veramente i relativisti per eccellenza e la nostra azione si richiama direttamente ai più attuali movimenti dello spirito europeo “. ( da un articolo di B. Mussolini sul Popolo d’Italia, n. 279 del 22 novembre 1921, VIII ). In questo Anselmo Bucci  si incarnò nel relativismo "alla vita e all'azione" di cui viene riconosciuta – come sostiene Adriano Tilgher - una supremazia assoluta sull’ intelligenza.

Così ci viene in mente il Liberty della Bigia da giovane del 1918 confrontato con  La Bigia giovane del 1922 di una statuaria plastica, quasi ingombrante. La rouche del 1907 è pointillisme, L’autoritratto con cappello e sigaretta del 1909 gratta dall’altezzoso autoritratto con cappello di Courbet, il dipinto allo specchio del ’22 è un’opera impressionista, la splendida Scuola del ’24 anticipa il neorealismo intriso d’ironia, il ritratto di Angelika Kravcenko è Art Deco  e così via. Ogni stagione ha uno stile ma soprattutto ciascun soggetto del racconto deve poter indossare l’abito di scena che gli è proprio , proprio il suo non quello di scena. Questa la verità senza ipocrisie di Anselmo, questo forse il limite che non gli avrebbe permesso di salire sul Parnaso. Gli venne meno lo scatto dello stambecco fin sulla cima? No, di coraggio n’aveva fin troppo, per assurdo la catena d’inciampo fu la sua retta indipendenza, il filo rosso che lega le stagioni della sua presenza nell’arte da Fossombrone a Monza.

Alla metà degli anni ’30 stringe amicizia col notaio Giuseppe Cesarini, hanno in progetto di  coniugare l’amore per le arti  del mecenate forsembronese con la trasformazione della sua patrizia dimora in una Quadreria d’ arte contemporanea, donata poi al Comune. Fu nel ’34 che Anselmo, ospite del Cesarini, ne dipinse l’austero ritratto ad olio “generando” nel soggetto la convinzione definitiva a seguire la vocazione di collezionista, un interesse vitale, coltivato con dedizione assoluta fino alla sua morte nel 1977.

Sarà del ’46 un nuovo ritratto de “l’amico dei fiori” ripreso di tre quarti in profilo,forse già sbircia la bellezza della perduta consorte postale in olio sulla parete opposta della stanza, premuto dall’orgoglio d’ amore.  La casa museo dispone di sessanta dipinti di Bucci oltre ai suoi disegni ed incisioni. Quasi un testamento figurativo lasciato a un suo concittadino non per niente notaio.

Resti succhiato  fuori dal tempo nel dipinto Le sorelle brianzole del ’32. L’una è di spalle ( lectio di Giotto, di Masaccio ), non la conosceremo mai, l’altra ci osserva acuta dalle fessure degli occhi, una figura arcaica, quasi bretone con il sorriso compiaciuto di chi si lascia sbirciare in mesta vanità condita d’agreste pudicizia. Sembra interrogarci:  sono ancor bella nel mio costume con in capo la spadera ? La sua mano divaricata sembra di Egon Schiele.

  [caption id="attachment_26094" align="alignleft" width="207"] Anselmo Bucci, sorelle brianzole, olio su tela, 1932[/caption]  

Risale al 1933 il suo primo breve soggiorno romano ( l’altro sarà nel ’38 ) fitto, fitto di schizzi acquarellati, quasi il blocco notes di un turista curioso, affascinato dagli scorci più suggestivi, un po’ oleografici della Città Eterna. Il tratto è sicuro, rapido, di grande sintesi espressiva, via tutto  il superfluo, se la  goda il colore. Certo non c’è, né poteva esserci il tourbillon parigino, Roma sa d’ essere oltre il tempo della Storia, disincantata matrona assopita coi suoi gioielli, lei la grande meretrice di Giovanni.

Anselmo vince il premio Fradeletto alla XX edizione della Biennale di Venezia del 1936. Annotiamo, per curiosità, che la Biennale era più contigua al programma di un’arte neoclassica sostenuto da Farinacci che alla visione di un’ arte socio-dinamica di G. Bottai. Andiamo avanti: nel 1938 Bucci si cimenta con un grande stucco lucido, compone “ La civiltà italiana libera la schiavitù abissina” per il piacentiniano Palazzo di Giustizia di Milano. Seduta in trono la giustizia al fianco sinistro ha un’enorme spada con la quale ha già spezzato le catene della schiavitù al malcapitato fringuello abissino, il tutto su fondo bianco monocromo un po’ stucchevole. Con la destra la matrona si lascia andare al saluto fascista altro che additare il liberato.

E’ del ’37 la pubblicazione da parte di Mondadori del Libro degli animali di Fabio Tombari arricchito da sedici tavole di A. Bucci. Sulla copertina un’anatra  sbatte le ali nell’atto di scalare  il cielo. Guarda verso l’ alto scansando le gabbie della terra, ci invita alla conquista della libertà assoluta lasciando i lacci degli affanni umani.

Parte la 27^ edizione del Giro d’Italia in diciassette puntate, il camerata tosco Gino Bartali arriva secondo dietro a Giovanni Valetti, ma la folla a Bologna grida viva Bartali, vincitore di tappa, sollevandolo in aria. La corsa in Rosa ha preso forma in 176 tavole, Gino è un mito popolare, l’eroe sui pedali, un uomo solo al comando in Bartali al Gran Sasso, aspettando, in duello, il ventenne Coppi del ’40. Bucci è là come cronista pittore a seguito del giornalista Orio Vergani del Corriere della Sera, una veste non insolita per lui se aveva illustrato con  Croquis la Grande Boucle del ’35 (534 fogli colorati a pastello), lui che,ricordiamolo,era stato volontario nel Battaglione della V.A.C. Splendida è la salita del Ghisallo, arrancano furenti i corridori, ondeggiano le bici sotto le pedalate dei rapporti duri, piove, il pubblico sui cigli della strada sono gli ombrelli. Anselmo non fissa solo la fatica dei ciclisti, i loro ritratti, la fuga di Bartali alla Val D’Adige, ci spiega dove siamo documentando paesaggi cangianti e architetture. L’arte di fare cronaca, altro che processo alla tappa!

    (Anselmo Bucci, disegni sul Giro d’Italia del 1939)

Nel 1942 viene pubblicato da Garzanti Il libro della Bigia-Grembiulini neri e bianchi raccolta di racconti dedicati all’amata sorella Emilia scomparsa con quel soprannome da passero padovano. Allo scoppio della Seconda Guerra parte nuovamente come cronista per conto della Marina Militare, lo troviamo a Taranto, a Messina, nel porto di La Spezia a documentare la vita marinara tra il ‘40 e il ‘41. Non più immagini leggere ma assai più spesse, plastica di incrociatori e aerei ma anche di soldati in quiete o meglio in attesa. Si legge, si gioca ad ingannare il tempo, scacciare la paura, oppur si mangia poi si riposa. Ancora la quiete dell’apparente normalità prima o dopo la tempesta. La “tradizione moderna” trasferita in Guerra,al servizio della Patria, senza retorica, scatti dell’esistenza, documenti tracciati col lapis, incisi a punta secca dove le barbe lasciate forzano i tratti dei contorni. Eppure in quella quotidianità c’è già la eco del dramma. Nell’agosto del ’43 Milano subisce l’ennesimo bombardamento alleato, città martoriata sessanta volte dal tritolo democratico, Largo Augusto viene colpito, muore tra le macerie la casa studio di Anselmo, dico muore perché uno studio d’arte non è un vano ma carne dell’anima stessa dell’artista, opera d’arte in se per se. Lui si rifugia nella grande,ormai vuota, casa paterna di Monza, è solo, ha perduto tutto, parafrasando un’amara riflessione vergata da Sironi: "Ogni giorno è lo sforzo immane di vivere, di resistere con questo cuore schiantato dalla enorme fatica di esistere… Non c'è nessuno qui vicino a me, ancora e sempre solitudine atroce…” Però le strade battute sono diverse, Sironi è un credente della prima ora, l’artista soldato no, resta uno spirito libero In volo ma i cacciatori l’ hanno colpito. Si chiude nelle sue ali ferite, prova a rialzarsi ma la quota del cielo è lontana. Nella città adottiva scrive e pubblica il Manifesto della Federazione Artisti indipendenti, siamo nel ‘45 anno della diaspora italiana. Per lui che aveva cercato di rappresentare la verità senza celarsi dietro la siepe di uno stile precotto o furbo, cercando nel reale “ l’aureolata poesia” che sempre vi si cela, per lui questo compito era stato assolto con grande rigore restando fedele alla sua indipendenza. In quel ’45 lancia un Manifesto, un guanto di sfida, mentre è iniziato il riposizionamento dei convitati alla tavolata, non solo in arte, quell’italica transumanza di artisti, intellettuali, sindacalisti, lillipuziani, da Piazza Venezia alle Botteghe Oscure. Chiamava ancora una volta all’ordine dopo la tragedia, al mestiere che coniuga la verità del presente con la tradizione, nel rispetto dell’indipendenza dell’artista. Rinnovare senza rinnegare fu anche una frase felice di Almirante. Così, dannatamente solo, continuò il suo percorso da cocciuto albatro, scoprendo anche il suono antichissimo del sacro al quale dedicò la sua ricerca. Quell’aureolata poesia del pittore volante non si spense nel ’55 ma continua.

Emanuele Casalena   Bibliografia: - A. Montrasio, M. Fossati- Anselmo Bucci. Il pittore volante. Catalogo della mostra ( Monza 21 settembre-12 novembre 2006 ), Silvana Editore, 2006. - P. Biscottini, E. Crispolti-Anselmo Bucci 1887-195. Pittore e incisore tra Parigi, Milano e Monza.   Catalogo della mostra ( Monza, 15 settembre-13 novembre 2005 , Silvana Editore, 2005. - Elena Pontiggia, Anselmo Bucci 1887-1955, Silvana Editore, 2003. - M. Lorandi, Anselmo Bucci-viaggio in Italia, Catalogo Galleria Carini, 1991. - sitoold.cultura.marche.it: Anselmo Bucci      

Profezie e Previsioni per il XXI secolo – Alfonso Piscitelli

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Il saggio Profezie e Previsioni per il XXI secolo nasce proprio dallo spunto di una serie di articoli su Ereticamente che affrontavano il tema delle profezie di Malachia e di Nostradamus.

Il libro vuole analizzare, con uno spirito laico, non credulo, l’immaginario delle profezie, con la consapevolezza che queste profezie incidono sul sentire comune e diventano forza storica.

Vedi la profezia sulla conquista islamica di Roma.

Gli Hadith di Maometto sulla conquista di Roma sono stati abbondantemente utilizzati dall’ISIS: vedi il video con la bandiera ISIS sul Colosseo che sembra riecheggiare l’antica profezia di Beda il Venerabile: "Finché esisterà il Colosseo, esisterà Roma; quando cadrà il Colosseo, cadrà anche Roma; ma quando cadrà Roma, anche il Mondo cadrà".

Anche in ambito cattolico c’è ampio utilizzo di profezie:

vedi le profezie di Fatima intrecciata al tema della lotta al comunismo

ma vedi anche l’utilizzo della profezia di Malachia con Pio XII che promosse un film celebrativo della sua figura intitolato Pastor Angelicus (il motto che Malachia attribuiva al Papa che corrispondeva a Pio XII nella successione)

L’autore ritiene che anche il modernista e intellettuale Paolo VI nel suo stemma cardinalizio e poi pontificio ammiccasse al motto di Malachia.

Attualmente le inquietanti profezie di Katharina Emmerick sulla chiesa con i due papi, caratterizzata da strani rituali e una forte protestantizzazione vengono utilizzate nella lotta tra bergogliani e antibergogliani nella chiesa cattolica…

Peraltro il Papa che si è annunciato come “venuto dalla fine del mondo” corrisponde all’ultimo della lista di Malachia.

E curiosamente corrisponde anche al papa nero (intenso nel senso di gesuita) preconizzato da Nostradamus.

Il libro si inserisce nella scia degli studi di Jung sull’inconscio collettivo dunque sulle forme dell’immaginario, di Giorgio Galli sul nesso tra politica e occulto e di Gianfranco De Turris sull’immaginario.

In riferimento all’ultimo aspetto, si sviluppa il capitolo che analizza i romanzi distopici: l’Ultimo Uomo Bianco, il Campo dei Santi che in tempi non sospetti avevano preannunciato gli effetti destabilizzanti delle migrazioni di masse e gli scontri tra gruppi etnico-religiosi in contrapposizione.

la quarta di copertina

La bandiera nera dell’ISIS sventola sul Colosseo in un video di propaganda dell’effimero Califfato: in che modo i fondamentalisti riprendono una profezia attribuita a Maometto sulla conquista di Roma? E perché in piena guerra mondiale Pio XII consentì di girare in Vaticano un film celebrativo sulla sua persona intitolato, come un motto della profezia sui Papi di Malachia, “Pastor Angelicus”? Da sempre il potere utilizza le profezie come strumenti di affermazione politica: l’America protestante ha combattuto le sue ultime guerre sfogliando le pagine dell’Apocalissi. E se da un lato si allineano profezie comicamente smentite – come i ripetuti annunci di fine del mondo da parte di qualche sette della domenica – d’altro lato stupisce come la previsione, citata dall’autore latino Censorino, sulla durata dell’Impero Romano si sia verificata con serissima puntualità. Studiare le profezie e le previsioni può diventare oggi un esercizio di razionalità, laica e per nulla credula, per comprendere quali ansie agitino il presente e (perché no) quali premonizioni emergano dall’inconscio collettivo. In questo saggio si analizzano le quartine di Nostradamus sulla conquista islamica dell’Europa e le visioni della beata Katharina Emmerick sulla “chiesa con due papi”. Si passano in rassegne opere di romanzieri come Howard e Raspail e le previsioni di grandi autori come Spengler e Soloviev. Spengler annunciò dopo il “tramonto dell’Occidente” la nascita di una nuova civiltà euroasiatica nelle sconfinate pianure russe; Soloviev nel suo “racconto” predisse che l’Anticristo sarebbe apparso sotto le mentite spoglie di filantropo, animalista, vegetariano, ecumenico: l’Anticristo sarà un  “buonista”.

3) nota sull’autore

Alfonso Piscitelli è opinionista del quotidiano “La Verità”, ha collaborato come autore alla Rai Radio Uno e a varie testate giornalistiche, tra le quali “L’Italia Settimanale”,  “L’Indipendente”, “Liberal”. È tra gli autori del volume collettivo “L’orientalista guerriero. Omaggio a Pio Filippani-Ronconi”. Cura su internet la pagina www.eurus.it dedicata all’incontro tra Oriente e Occidente e all’idea gaullista di Europa unita dall’Atlantico agli Urali.

INDICE

Introduzione.......... 7

I

LA PROFEZIA DI MALACHIA E L’ULTIMO PAPA .......... 17

II

NOSTRADAMUS, IL PAPA NERO E L’“APERTURA ALL’ISLAM” .......... 35

III

LA “CASSANDRA CATTOLICA” CHE PREVIDE I DUE PAPI .......... 49

IV

I TEMPLARI TRA LEGGENDA E PROFEZIE .......... 65

V

LA DOTTRINA DELLE QUATTRO ETÀ E LA PROFEZIA DELL’ETÀ OSCURA ........ 77

VI

ROMA, ANTIROMA, III ROMA .......... 91

VII

LA TERRA DOPO IL TRAMONTO .......... 111

VIII

IL DIAVOLO E CHI LO TRATTIENE .......... 125

L’Autore .......... 139

L’origine futura: a proposito di “Antico Futuro” – Sandro Giovannini

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L’origine orrifica e potente dell’arte procombe ormai nel polimorfo, nell’informe, nel corrotto... Come ombra del sacer c’è, inscindibilmente, un processo prevedibile, anche se ben poco previsto, che viene innescato dalle varianti civili, a seguito delle spinte entropiche. Il clic epocale è sostanzialmente scattato, forse per la stupidità compiaciuta degli uomini o per l’irriducibile invidia degli intermedi dei che corrispondono al vortice… la luce s’è affievolita fin quasi a spegnersi. E persino la fosca sorpresa del buio perturbante (le grandi anime, dall’Ottocento) è già alle nostre spalle... molto più o poco meno dall’intuizione tragica dei giganti e dal futuro restante - forse niente - per l’immaginazione derubricata dei nani...

Ma uno mi dirà... e se ci fossero ulteriori sorprese??? Magari per il …velocior? Quindi dalla sola accelerazione esponenziale…

Sempre possibile ma non probabile, perché - tutto sommato e detratto - i processi, scontati nella meccanica già avvenuta del fato, tendono a superarci(si) sempre molti passi avanti, ma illeggibili solo dagli stolti o dagli inguaribilmente compromessi.  E gli avvitamenti accelerati hanno solo reso tutto ancora più evidente. Già di molto hanno sovrastato i giochi più o meno intelligenti, anche i nostri, seppur mai a cottimo e pagati sempre in proprio, persino le vite più incontaminate, coerenti, perfette... Quelle sulle quali le rabbie solo spiegabili massivamente, paludate o cialtrone a mostrarsi, si rivelano comunque senza scuse per quello che sono. Ma il fato è avanti tutti noi e si disinteressa proprio di quanto si possa essere artisti o eroi o, qualche rara volta, tutte e due. La quantità diabolica, la pesanteur è ovunque ed infesta il territorio, affoga ogni conato di rivolta nella melma che rilascia dappertutto, e giustifica, per vergogna, limo. I suoi portabandiera sono fantocci manovrati, patetici proprio loro che credevano di avere il vento in poppa della storia e sempre più virulenti come si conviene a servimuti (ma con la bocca aperta, vocianti e infidi e pronti a tradire, sempre, se stessi e gli altri) messi, come accantomobili, appunto, con le spalle al muro. Servimuti di forze ben oscure che non riconoscono e comunque, anche se ci sbattessero contro, non vorrebbero mai vedere.

Ed il tutto sarà tragico se non fosse già grottesco. Si potrebbe facilmente scrivere un lungo saggio sul decadimento morale che s’instaura quando le società dominanti sono in possibile vista della loro fine. Basterebbe elencare coloro che commettono crimini contro l'umanità, dei tanti loro servimuti e dei tantissimi che, schiamazzanti e felici imbarbariti (“…che non penetrano mai il loro involucro culturale, quasi fosse noto), li supportano, magari fingendo alternative varie o sempre li giustificano, autolesionisti ingozzati… ed i cosiddetti colti, sovente ancora più dei rozzi.

Questo dovrebbe dissuaderci? Lo stanco e lo sfinito hanno buona scusa - comprensione - per arrendersi. Chi contesterà loro di mettersi da parte, tra così tanti renitenti? Invece chi ha ancora residue forze per essere se stesso per un po” ed eventualmente accompagnare altri più giovani, senza illusione di vittoria e tema di sconfitta, fino ad intravedere il punto di trapasso, l’infernale imbuto che prima o poi ci convoglierà tutti nell’inevitabile, ebbene costui è abile ed arruolato. Come una volta, apparentemente, senza andar per il sottile troppo, senza molto spulciare l’età… Meglio i giovani, ma vanno anche bene gli attardati od addirittura i vecchi. Come a capire che ormai sono i grossisti che ci servono… su questo piano, arrivati a questo punto del ciclo, a fronte di una marea inarrestabile di mali. Come si diceva altrimenti, il massimo di raffinatezza ormai ci servirebbe solo (magari)… per tagliare grosso.

Anche perché una superiore saggezza antico-occidentale confina il bene (costante, presente, possibile, veniente) in una sfera eminentemente empirica (…la strategia metaforica dei frutti, in Repubblica, VI, 508), mentre la sfera noetica è sempre molto problematica, non avendo il bene né trasparenza, né stabilità, né consenso, sempre costitutivi dell’idea. E ciò ci autorizza, anche in presenza di tutte le dinamiche comparative che abbiamo confrontato sull’oriente eterno, ove tutto-azione-rappresentazione e liberazione-estinzione-nulla si confrontano sempre produttivamente, ad utilizzare quello “scetticismo autentico” (di cui parla Burckhardt nelle sue Riflessioni sulla storia universale: “…Di quello falso è, in determinati tempi, pieno il mondo…”) di cui, invece, “…non se ne ha mai abbastanza” e che ci permette anche non solo di muoverci con maggiore spregiudicatezza nel campo dell’etica sociale, ma anche di non presumere troppo dalla bellezza, come si usa fare, oggi, pur del tutto comprensibilmente, in tempi instabili. “…La bellezza, certo, potrebbe esser superiore ai tempi e al loro mutare, e costituisce addirittura un mondo a sé. Omero e Fidia sono ancora belli, mentre la verità e la bontà di quei tempi non sono più interamente quelle nostre”.

E comunque, ineliminabili, i nostri avi ci osservano da un tempo immemore, arma virumque cano (ma… ovviamente siamo più falsi noi, persino molto meno duraturi) e noi crediamo al sangue, al liquido che nel rapprendersi non mente e noi stessi poi potremmo ben essere questa pietas, su sostanze e forme. Che è proprio il contrario del pietismo dei corrotti. Oltre ogni riproposizione, persino oltre il vero tragico d’ogni eventuale riduzione in farsa (l’umana condizione sempre agente), a cui cerchiamo di sottrarci, ma che in parte persino saremmo costretti a sopportare.

Pensiamo ad esempio al corpo, al corpo d’arte, come è stato violato col numero, non salvaguardato nella sua insondabile volontà di vita ma elevato a sola potenza d’istinto… e nello stesso istinto innegabile, poi, mercificato fino a moltiplicarne le impotenze rivelatorie, a giustificarne i barocchi sadismi, ad irriderne le ineliminabili polarità ed a sopprimerne ogni ombra di sacro. Il corpo che noi amiamo. Quell’equilibrio di bellezza, che parla costantemente a tutti, di ogni grado ed epoca. Geni mediocri imbecilli. Conculcatori e conculcati. Tutte le fughe in avanti, a tal punto, erano ben giustificabili ed ovviamente sono state giustificate. Ma è come se un perfido demiurgo ci avesse offerto soma velenoso, per ridurci a ciò che siamo, ora, conoscendo la nostra “artificiale” natura. Ove la colpa, però, non può essere un metodo obbligato da una caduta lineare, ma semmai la ritornante serie di diversamente riproposti vortici e voragini… Una vacuità ed un destino, che bisogna capire fino in fondo, davvero in un sincretismo coraggioso e lucido, ove vari destrismi pretismi e sinistrismi siano dentro di noi definitivamente cancellati. Ove giustificare, al termine, l’anima, che, dagli egizi a noi ha cambiato inevitabilmente segno, non sia certo cambiato di senso. Noi stessi, che viviamo distinguendo senza albagia ma contrastandone le infinite derive, già giovani a volte troppo improvvisati, chissà… non siamo che dei riproposti e reiterati combattenti magari già andati in quiescenza forse senza neanche saperlo, od in una folle stasi, non certo imputabile a noi, già passati da qui, ora, da queste feroci dispersioni, persino in altre vite.

Ho letto con attenzione Antico Futuro, da incallito e svergognato sognatore, e direi che dentro si ripropone tutto il nostro mondo... lucidità, consapevolezza, sprezzatura. Anche il necessario lavoro quotidiano, assieme oscuro e splendente. Persino la temerarietà di chi sa di poter tranquillamente perdere, anche se i porta sfiga, i lamentosi e gli anarcoidi un tanto a twitt, li abbiamo purtroppo sempre subìti e mai amati. Chissà forse è venuto il momento di lasciar andare, liberi negli spazi interstellari, definitivamente, anche costoro…Ma in quel tragico, di cui parla chi più capisce, è meglio starci con una piega di sorriso (l’asobase kotoba di alcuni, il linguaggio-gioco di altri, prendendolo sul serio… ma non troppo) e senza lagni (…preferiamo, dal Poeta, lo schianto). Perché la rappresentazione la vivremmo gloriosa. E perché noi si sia, poi, necessariamente, nel tragico, e non, volontariamente, per il tragico (…anche se riconosciamo alla necessità ontologica tutte le potenzialità e le disavventure superumane che non concediamo facilmente alla fattuale posteriore rilettura storica).

Così, nel libro giustissimamente ma sempre umanamente in noi, ad ogni deriva si ricompone il nostro desiderio di colore/vita, non ingredienti della cosa ma energie radianti, a cui le cose reagiscono per proprietà d’assorbimento ed a cui anche noi reagiamo come identitari percettivi. Ai due estremi il bianco, se non assorbe nulla del visibile e riflette l’intero spettro ed invece il nero, se compiutamente assorbe ogni onda. Il rosso - se lo vediamo a sua volta come unico espunto dallo spettro - e che dà - per celati consensi - metafora alla ruota perpetua del karma. Il tricolore ancestrale, simbolo e logos, con la perenne empatica variante verde/azzurra, ben oltre ogni limitata riduzione al patetismo, più o meno buonista, che s’avanza ambiguamente, ora…Sono le testimonianze visive/viventi, cercate per più vie, da pagarsi sempre con profonda comprensione di ciò che, contestualmente, avviene.   La cerca di forze e mai, mai, un arrendersi felice, si farà - crediamo - sempre più evidente, dal magma sempre da noi ricomponibile, che pur ci sfida logicamente ed empaticamente ci tende una mano, fra possibili e innumerevoli, i non del tutto sommersi, i già (in parte intimamente) salvati...Si rivela l’estrema umiltà di questa nostra ricognizione spietata, ma s’accampa col massimo orgoglio di poter dire: buon lavoro ragazzi! Avete presentato la realtà così com’è e nello stesso tempo lavorate e bene per un tempo altro, fantastico, realizzabile, condivisibile sia nella distanza che nella vicinanza. E freghiamoci proprio se i volti di troppi si storcono sempre più nella rabbia dell’inevitabile comunque voluto o sùbito.

Come nell’apologo del samurai che infine mette alle spalle il suo avversario e sta per ucciderlo e si ferma e poi se ne va senza ucciderlo dopo che questi in un ultimo gesto, disperato, gli ha sputato addosso (…ma intendiamo che è troppo il capirlo per chi ormai non coltiva - per difetto, ovviamente - neanche l’ombra del parametro assoluto del Sé). Allora sappiamo che il cosiddetto punto archimedico non è fuori degli accadimenti e che l’altra sponda è proprio questa dove siamo ora (non c’è maggior onore - da conquistare - da Altre Parti). E se (dubitando) crediamo quell’altra sponda sia la preferibile (o, metafisicamente, proprio un’altra) è solo perché abbiamo perso il nostro controllo sull’agire senza agire, ch’è collegato allo scenario non-duale, più veritiero tra tanti, perdendo lucidità dopo aver cercato disperatamente di delucidare il tempo. “…Ho perso il mio centro a combattere il mondo”. E’ comprensibile, ma proprio questo non ce lo possiamo permettere. Tersi, anche nell’acme della nostra reattività più spinta, attuale e futura. Per cui non aver nessuna paura di sperimentare sempre, tagliando ogni svolazzo, qualsiasi sia la prima reazione che divarichi letture varie, sulle e delle pratiche… sappiamo che è poi la realtà dura a imporci il ritmo, ed a schiacciarci, anche noi, seppur in altro modo, magari per accelerazione gravitazionale, al muro.

Figuratevi per un attimo un’europa futura, imboscatasi sempre più nei sotterranei della storia, con la furbizia malcelata dell’impotente, che sa bene, anche nelle sue burocrazie più proterve e nelle sue alleanze di facciata, sempre infide, quanto sia fragile la tenuta di popoli diversamente sfiancati. L’animale che geneticamente rifugge nella tana e sistematicamente dal confronto, perché ormai il territorio è contestato (diciamo abbandonato… dopo infiniti scontri) sotto il rapido esterno ove occhiuti predatori svolazzano o strisciano per necessario istinto e per non ancora abitudine persa. La retorica impettita è tutta fuori dalla tana. Gli apparentemente buoni sentimenti. Quando… allora sì, vedette inquiete, più o meno ritti, si occhieggia all’alto ed alle fronde e ci si fa utile e sodale coraggio, con gli allarmi. Dentro c’è solo il vuoto caldo, l’usuale stantio e la salvezza sperata, più o meno... Quando sarà, proprio così da tutti incontestabilmente, allora le realtà e le illusioni altrimenti ben salvifiche dell’arte diverranno secondarie, (di cui sopra… Omero e Fidia) non certo per valore/disvalore intrinseco, ma per necessità, ed ogni nostro accapigliarci sulle corrispondenze arte/vita l’illusione di fanciulli (od una triste parodia dettata da incubi e tremori) in un orfanotrofio abbandonato in mezzo a schianti, torture, vilipendio.

Forse è per questo che alcuni atti estremi (cosiddetti) dell’arte rifuggono del tutto, come peste, dai veri bolliti nelle pentole, dai veri bruciati nelle gabbie, dai veri sgozzati e sollevati a trofeo pei capelli e da tutti quelli buttati nelle fosse…Mi attenderei (ma non ci credo proprio) che qualcuno seguisse (sul serio) le orme feroci del vero. Magari inorridendo come tutti. E i suicidati dell’arte sono quelli che più si sono, comunque, avvicinati… Ma è come se l’arte pretendesse proprio di non essere mai troppo reale, di dare sempre di gomito e di rappresentare solo sogni, proiezioni, contraltari, tendenzialmente evasivi, suadentemente devianti, tra i parodianti a volte pure orrifici, ma intimamente distaccata (…infatti è un’altra vita, su tutt’altro piano, chissà, forse più reale), persino se ci affascini, esalti, trasformi. Io stesso - che pure ne vivo - la considero solo una lettura, nella grande rappresentazione della vita…Così a noi artisti, poeti e variamente pensanti non residua comunque che testare che ogni ascesa voluta comporta rischi e ogni non evitata battaglia, da quelle carsiche a quelle frontali, un discutere disperatamente, ma alla fine, di tutto (senza presumere di noi, se non il giusto), decidere, partecipare, pagare…

  “ANTICO FUTURO” INDICE: Vitaldo Conte   RICHIAMI DELL’ORIGINE NELLE “APPARENZE” DELL’ARTE DI OGGI Premessa. Vita come Arte Ultima. Grecia Mediterraneo Salento: richiami rumori di arte bianca. L’Arte-Donna e la Geo-Architettura come Mediterraneo. Ambienti di arte come anima Il corpo ferito come arte e rigenerazione. Il trucco e il tatuaggio come riti dell’anima. Riflessione. Nelle “apparenze” dell’arte di oggi.   Documenti: Giovanni Sessa, Carmelo Strano,   Vitaldo Conte   MALIE PLASTICHE Scultura come poesia. Scultura nell’Arte Italiana del Novecento.     Dalmazio Frau   IL PALAZZO DELLA BELLEZZA L’Arte come Vita. La forza dell’Arte. Politica dell’Arte. L’Arte è di tutti. Arte oggi. L’Arte come piacere. L’Arte come avventura.   Documenti: Simonetta Bartolini, Angelo Crespi, Claudio Lanzi.     Dalmazio Frau   UN ANTICO FUTURO       Emanuele Ricucci   ARTE. LA STRADA DEL RITORNO PER L’ANTICO FUTURO L’Arte non è roba da pittori, ma da uomini. L’Arte bucherà il sistema come un ago incandescente. Il matrimoney dell’Arte con la contemporaneità. Tra funzione e modernità: da Photoshop alle periferie. S’incarna il presente.   © 2018, Edizioni Solfanelli. www.edizionisolfanelli.it, edizionisolfanelli@yahoo.it   Sandro Giovannini

Decima Flottiglia M.A.S.: propaganda per la riscossa (1^ parte) – Gianluca Padovan

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«Tu che taci, se davvero non puoi parlare, almeno scrivi qui ciò che mi vuoi dire e io leggendo lo verrò a sapere»

Antonio Diogene, Le incredibili avventure al di là di Thule, II sec.

      Che cos’avvenne? C’è stato un momento in cui qualcheduno non ha deposto le armi. Per quale motivo costoro hanno ritenuto di dover proseguire la guerra?

Perché il Comandante Junio Valerio Borghese ha deciso che fosse suo dovere continuare a combattere al fianco dell’alleato germanico?

Che cosa rappresentavano i nuovi “alleati” per Casa Savoia e per taluni capi del Partito Nazionale Fascista?

Che cosa rappresentavano, invece, gli Alleati tedeschi divenuti improvvisamente “nemici”? Queste domande ancora faticano a trovare una chiara risposta sull’odierna “carta stampata”.

Di contro, la testimonianza d’epoca della “carta stampata” è la prova lampante che la Xa Flottiglia M.A.S. è stata in grado di organizzarsi in una articolata macchina da combattimento in breve tempo, in accordo con il Comando germanico, e assai prima che la Repubblica Sociale Italiana riuscisse a mettere in campo le proprie forze.

Manifesti, volantini, cartoline, pubblicazioni, e altro materiale ancora, compongono lo strumento cartaceo con il quale la Xa Flottiglia M.A.S. ha fatto conoscere la propria esistenza e l’impegno assuntosi nei confronti del Popolo Italiano nel combattere ad oltranza per la difesa del suolo patrio.

Inoltre i documenti d’archivio provano in modo inequivocabile che la Xa Flottiglia M.A.S. si è trovata a dover affrontare anche gli occulti nemici interni alla nuova Repubblica, ma non è stata cancellata nemmeno da loro.

La Xa Flottiglia M.A.S. non ha mai negato quanto l’impresa fosse improba, ma le parole del suo Comandante sono sempre state chiare e la seguente frase stampata su di un volantino del 1944 in parte le sintetizza:

«Al di fuori di tutte le battaglie e di tutti i risultati di guerra, noi sappiamo che si vince quando si crea nella strada qualcosa che non è mai né dimenticato né morto. Sappiamo che si vince quando si è saputo dare, al cammino inarrestabile della civiltà, un’impronta non pallida né secondaria».(1)

      Comprimere l’acqua.

Le formazioni militari combattenti della Xa Flottiglia M.A.S. hanno costituito un vero e proprio esercito nazionale svincolato da dogmatismi, correnti politiche e partitiche. Avevano il solo compito di ribadire l’onore e il coraggio italiani, senza retorica e sul campo di battaglia.

 

D’altro canto si devono ricordare anche i numerosi Italiani arruolatisi nelle Waffen SS (SS Combattenti), nonché coloro i quali andarono a costituire la “Legione SS italiana”. Nello specifico: «Il concetto europeista delle Waffen SS, primo esempio di esercito sovranazionale europeo, non ebbe molto successo fra i volontari italiani, anche perché questi ultimi non combatterono contro il bolscevismo sul fronte orientale come fecero invece gli altri combattenti SS, sperimentando l’idea di un esercito europeo dove volontari di tutte le etnie del vecchio continente lottavano fianco a fianco contro il nemico comune. Oltre alle motivazioni simili a quelle che spinsero migliaia di giovani ad arruolarsi nelle formazioni armate della RSI, quali la ribellione al tradimento, la fedeltà a Mussolini e l’alleanza con la Germania, l’anticomunismo e altro, vi furono fra i volontari SS motivazioni peculiari, dettate da una precisa scelta ideologica (…). Il professor Pio Filippani-Ronconi, comandante del Plotone Arditi ad Anzio, dove venne decorato con la Eisernes Kreuz II. Klasse, ha indicato tre motivi principali che determinarono la propria scelta: “1) ‘l’europeicità’: di fronte a fiamminghi, tedeschi, valloni, etc., noi italiani potevamo dimostrare di essere i migliori di tutti, in ogni senso e in ogni campo; 2) l’elemento mistico: quella primordiale terribilità nell’azione unita a un’arcaicità di concezioni gerarchiche per cui al centro di queste unità combattenti esisteva un Ordine, come quello dei Cavalieri Teutonici o dei Portaspada, che attirava irresistibilmente chi aspirasse alla dedizione totale di sé al combattimento; 3) la possibilità di sperimentare in prima persona il livello addestrativo e combattivo delle Waffen-SS governate fin nei minimi gradi da quella Auftrang Taktik, per cui ognuno sapeva ciò che doveva fare senza attendere l’imbeccata dei superiori (Befehl Taktik)”. Molti volontari, spesso giovanissimi come Giuseppe Azzi o i fratelli Orlando, scelsero le Waffen SS in quanto unità d’élite dell’esercito tedesco dove avrebbero potuto dimostrare all’alleato che i soldati italiani non erano secondi a nessuno» ((Sergio Corbatti, Marco Nava, Sentire - Pensare - Volere. Storia della Legione SS italiana, Ritter Edizioni, Milano 2001, pp. 25-26).

 

La fine della guerra ha portato con sé il programma della damnatio memoriae, ovvero la cancellazione del ricordo di chi s’è battuto con valore e con onore.

Ma l’acqua non si può comprimere.     Propaganda!

La Propaganda cartacea della Xa Flottiglia M.A.S. costituisce oggi la voce che travalica il tempo e si presenta a noi per quello che è stata e per quanto ha voluto fermare, “nero su bianco”, nel Tempo stesso.

L’apparato iconografico e documentario che la Xa Flottiglia M.A.S. ha prodotto lascia chiaramente comprendere lo sforzo compiuto per presentare sé stessa, per dichiarare e diffondere il proprio scopo e chiarire le ragioni politiche, sociali e militari per le quali si è resa ulteriormente necessaria la propria presenza sul campo di battaglia.

La propaganda della Xa Flottiglia M.A.S. ricorda innanzitutto l’onore e il valore presenti nella propria eredità storica e militare. Rammenta inoltre l’onestà, lo spirito di abnegazione e di sacrificio sempre dimostrati dal combattente italiano, quello che si batte per la propria terra, per la propria patria, per un ideale che esula dalle logiche politiche e partitiche, che prende corpo da sé stesso e non da organizzazioni trasversali allo Stato.

Sono il soldato, il marinaio e l’aviatore che compiono il proprio dovere e quand’anche privi delle direttive di uno Stato Maggiore troppo spesso compromesso, rimangono fedeli all’ideale di Patria.

La propaganda della Xa Flottiglia M.A.S. fa dunque leva sulla fedeltà alla Patria e sull’onore militare.  

L’organizzazione di questo nuovo, piccolo, ma motivato Esercito Italiano modifica profondamente in meglio le tradizioni militari sabaudo-italiane con la chiamata volontaria nelle proprie schiere, equiparando soldati e ufficiali nel trattamento, con vitto e paga uguali per tutti, eliminando l’avanzamento di grado per motivi burocratici, ma applicandolo solo per meriti conseguiti sul campo di battaglia.

Inoltre si apre l’arruolamento alle persone che vanno dai 17 ai 37 anni, ma allargando poi tali limiti e chiamando in campo anche le donne nel personale militare ausiliario.

Soprattutto: il Soldato Italiano riacquista la dignità perduta con il precedente ordinamento militare sabaudo, dove il fante era considerato una merce tranquillamente spendibile per gli interessi della Massoneria. Dove, purtroppo, il fante era considerato talmente poco che lo si poteva rifornire con materiale che allo stato monarchico e fascista costava anche meno.

 

Queste mie non sono parole al vetriolo e che potrebbero suonare come una maldestra “uscita” ad effetto. Pertanto suggerisco la visione di talune riflessioni pubblicate su Ereticamente.

- Sulla “storia ufficiale”, vedere utilmente: Epistemologia della menzogna e Tradizioni: alle origini del grande Fiume, con la storia degli Arditi raccontata dal massone Baseggio. - Su Massoneria e Fascismo: Percorsi iniziatici alternativi e Compagni di Gioco. - Sul Fante Italiano: Prigionieri!     La difesa della Patria.

Nella propaganda la Xa Flottiglia M.A.S. proclama il proprio intento nel voler difendere il suolo italiano, peninsulare e insulare, e il proprio e legittimo spazio marittimo circostante.

Non nasconde quanto si presenti impari la lotta contro l’invasore e al contempo dichiara come sia necessario fermare nel tempo e nella Storia, non solo d’Italia, il valore e l’onore acquistati sul campo di battaglia e conquistati con il sacrificio personale.

Al di là del risultato della guerra in corso si laverà l’onta derivata dalla ignominiosa resa e dal tradimento nei confronti dell’alleato, rappresentato ovviamente ed esclusivamente dalla Germania. Si ricordano quindi l’importanza dei Valori personali e nazionali, nonché della Tradizione culturale e militare italiana.

Tali valori sono trasfusi e perpetuati in un momento del tutto particolare della Storia Italiana, quale la resa incondizionata del Regno d’Italia, messa in conto almeno dall’anno precedente da taluni personaggi di Casa Savoia, del Regio Esercito e da esponenti del Partito Nazionale Fascista.(2)

Resa incondizionata caricata dalla pregiudizievole e ingiustificabile fuga del Re d’Italia, capo supremo, e del suo Stato Maggiore, senza l’emanazione di precisi e circostanziati ordini a tutte le componenti delle Forze Armate regie e in ogni teatro di guerra.

Si può tranquillamente affermare che la principale preoccupazione di chi detiene l’effettivo potere è di fare giungere le navi da guerra italiane nei porti soggetti al controllo angloamericano: questo avrebbe dovuto garantire loro il totale controllo del bacino mediterraneo.

La reazione del Comandante Borghese e la pronta costituzione della nuova Xa Flottiglia M.A.S. crea seri problemi al comando angloamericano. Vista la precedente insidiosa ed efficace capacità costituita dalla specifica unità si reputeranno alquanto rischiose le operazioni navali nel mare Adriatico e nell’Alto Tirreno.

Sempre per quanto riguarda la propaganda promossa dalla Xa Flottiglia M.A.S., così scrive Marino Perissinotto: «La Decima era una formazione militare, in cui ogni manifestazione politica, sino al fregiarsi di distintivi connessi al partito fascista, era vietata» (Marino Perissinotto, Il servizio ausiliario femminile della Decima Flottiglia MAS 1944-1945, Ermanno Albertelli Editore, Parma 2003, p. 24).

Altrettanto certamente qualche accenno al Fascismo e alla Repubblica Sociale Italiana, comunque, nella propaganda non mancano. Ad esempio, il volantino «La Xa nella Storia del volontarismo italiano» contiene perplimenti richiami a temi cari alla massoneria italiana, quali i moti rivoluzionari ottocenteschi con accenni, lo si conceda, poco opportuni a Giuseppe Garibaldi, noto esponente di spicco della Massoneria internazionale e altrettanto noto mercenario.

    Pasca Piredda.

Tra le tante persone che a vario titolo contribuiscono alla predisposizione e alla diffusione della propaganda della Xa Flottiglia M.A.S. vi è Pasca Piredda (Nuoro 1917 – Roma 2009).(3)

La storia è accennata da lei stessa nel libro L’Ufficio Stampa e Propaganda della X Flottiglia MAS, di cui è utile leggere il testo.

Ricordando che dopo il “prelievo” di Benito Mussolini da Campo Imperatore sul Gran Sasso d’Italia e la lettura del proclama agli Italiani da Monaco di Baviera da parte dello stesso (18 settembre 1943), ai primi di ottobre Fernando Mezzasoma si trasferisce con Pasca Piredda prima a Venezia e poi a Salò. Fernando Mezzasoma (Roma 1907 – Dongo 1945), che precedentemente lavorava in Banca d’Italia, agli inizi del 1942 era diventato Direttore Generale della Stampa Italiana presso il Ministero della Cultura Popolare; carica mantenuta fino al 25 luglio 1943. Sostenitore nella fondazione del Partito Fascista Repubblicano e della Repubblica Sociale Italiana, a Salò è Ministro della Cultura Popolare. Ma qualcheduno gli “soffia” la preziosa collaboratrice.

A seguito dell’arruolamento nella Xa Flottiglia M.A.S. Pasca Piredda è con ogni probabilità la prima donna che entra a far parte della Marina da Guerra Italiana e da subito con il grado di Sotto Tenente di Vascello; naturalmente è confermata Capo Ufficio Stampa e Propaganda della Xa Flottiglia M.A.S.

Pasca Piredda si mette subito all’opera: «Avvalendosi delle buone conoscenze con i dirigenti dell’Eiar, riesce per un bel po’ di tempo a far trasmettere comunicati d’invito all’arruolamento nella Decima. Ma questi messaggi sono ben presto vietati per l’intervento di Renato Ricci, Capo della Guardia Nazionale Repubblicana e di Pavolini, Capo delle Brigate Nere, presso il Duce. La ragione è semplice: la Decima sottrae loro rilevanti forze di giovani che sono attratti dal suo fascino marinaro e indipendente e le cui imprese hanno destato l’ammirazione di tutto il mondo, anche quella dei nemici. Ma la vivace propaganda della X desta l’attenzione del Duce che dal suo Quartiere Generale di Gargnano incarica sia Piero Kock sia Enzo Pezzato, direttore del giornale di regime, di indagare sulla X Flottiglia M.A.S. e su Pasca Piredda» (Pasca Piredda, L’Ufficio Stampa e Propaganda della X Flottiglia MAS, Lo Scarabeo Editrice, Bologna 2003, p. 17).

A proposito della Propaganda della Xa Flottiglia M.A.S., così ha ricordato Guido Bonvicini: «Si dotò anche di un Ufficio Stampa e propaganda con sede a Milano, retto dalla dott. Piredda che era stata, in un certo senso, “rapita” all’ufficio del ministero della Cultura Popolare. Il servizio si articolava in alcune sezioni: propaganda (C.C. Cocchia), stampa (ten. Genta e ten. Zanfagna), radio (cap. Spampanato), fotografia (ten. Luxardo). Di qui uscivano le trasmissioni radio rivolte ai soldati e anche al fronte interno, i manifesti murali multicolori che inondavano le città italiane, gli opuscoli che spiegavano l’origine e gli intendimenti del corpo. Dal luglio 1944 fu pubblicato un periodico ad uso interno, “La Cambusa”» (Guido Bonvicini, Decima Marinai! Decima Comandante! La fanteria di marina 1943-1945, Ugo Mursia Editore, Milano 1988, pp. 39-40).

    Dalla Cambusa all’Orizzonte.

Con Pasca Piredda prosegue la pubblicazione de La Cambusa, giornale della Xa Flottiglia M.A.S. al quale il Comando tedesco vuole applicare la censura: «Vari sono i giochi di forza tra l’Ufficio tedesco della Propaganda Stafel, diretto dal Tenente Schaeffer, e l’Ufficio Stampa e Propaganda della X. I tedeschi pretendono di applicare la loro censura anche al piccolo giornalino La Cambusa, ma tale imposizione non è accettata: la X è un corpo libero e indipendente, riconosciuto tale anche dal trattato di collaborazione firmato il 14 settembre 1943 tra il C.V. Berninghaus per i tedeschi e il Comandante Borghese per la X; quindi niente censura. Con il Ten. Schaeffer, che è molto gentile, Pasca propone una scommessa: se fosse riuscita a far uscire La Cambusa senza la loro censura lui avrebbe pagato il pranzo, in caso contrario lo avrebbe pagato lei. Non dovette pagare Pasca. La Cambusa uscì sempre senza censura e questo anche grazie alla collaborazione del personale della tipografia che si prestava a stamparlo di notte, quando nessuno poteva intervenire a bloccarne l’uscita» (Pasca Piredda, L’Ufficio Stampa e Propaganda della X Flottiglia MAS, op. cit., p. 20).

Successivamente, nel gennaio 1945, la testata è ribattezzata L’Orizzonte e ha contenuti più politici

(Ibidem, p. 21).

Si verificano quindi alcuni “attriti”: «Il Ministero della Cultura Popolare, che aveva dato l’autorizzazione all’uscita de La Cambusa, si rifiuta di darla per L’Orizzonte poiché quest’ultimo è di sei pagine, anziché di quattro come prescriveva allora la legge a causa della carenza di materia prima, la carta. Al terzo numero la decisione di ostacolare l’uscita del periodico (inizia una vera battaglia per questo giornale tra la X e Salò, con interventi del Maresciallo Graziani prima e del Duce poi; i redattori vengono sommersi di problemi derivanti soprattutto da giochi di potere) provocò una controversia che assunse le proporzioni di un affare di stato, spinse la Decima alla formazione di tre compagnie, ognuna formata da dieci pattuglie di cinque-sei marò, per la protezione delle edicole e lo strillonaggio per le strade de L’Orizzonte, che fu ovunque comprato e commentato positivamente. La sua definitiva soppressione giunse a pochi giorni dalla fine della Repubblica Sociale Italiana, nel febbraio del 1945» (Ibidem, pp. 21-22).

L’ultimo anno di guerra il Comandante Borghese affida all’avvocato e giornalista Bruno Spampanato la direzione della Propaganda della Xa Flottiglia M.A.S.

Nell’ambito delle immagini di propaganda numerosi artisti e militari dotati di vena artistica, hanno contribuito ad arricchire l’iconografia della Xa Flottiglia M.A.S. Uno di questi, il più noto, è Gino Boccasile (Bari 1901 – Milano 1952). Illustratore e cartellonista, dopo soggiorni all’estero Boccasile fonda a Milano, con Franco Aloi, l’agenzia di pubblicità Acta. Nel 1940 diviene il migliore e più prolifico grafico della propaganda di guerra e dopo l’8 settembre 1943 aderisce alla Repubblica Sociale Italiana. Nominato tenente delle SS Italiane, prosegue nella sua opera tesa a risvegliare le sopite coscienze, lavorando per il settimanale Avanguardia Europea, poi denominato solo Avanguardia, il quale aveva sede a Milano in Viale Monte Santo n. 3. Dopo il termine del conflitto viene processato per “collaborazionismo” ed è assolto da ogni accusa mossa nei suoi confronti, ma subisce l’allontanamento dal panorama editoriale; ripresa l’attività si dedica con successo all’illustrazione e alla pubblicità.

    Raccolta di fondi per gli armamenti.

Anche in guerra ogni cosa costa denaro e nello specifico occorrono fondi per organizzare e promuovere la propaganda. Un esempio è dato dalla donazione di una cospicua cifra per poter stampare una pubblicazione a fini informativi e propagandistici. Il documento che ne parla, datato 9 giugno 1944, è conservato alla Cittadella degli Archivi di Milano e attesta che il Podestà di Milano, ing. Guido Andreoni, unitamente al Segretario Generale, ottempera alla seguente istanza: «Vista la richiesta del Riparto Todaro X^ Flottiglia Mas di un contributo del Comune per la pubblicazione di un numero unico; / Ritenuta la opportunità di fare una assegnazione di L. 10.000.=, / delibera / di assegnare al Riparto Todaro X^ Flottiglia Mas, un contributo di L. 10.000.= per la pubblicazione di un numero unico» (Cittadella degli Archivi e Archivio Civico di Milano, Fasc. n. 32, Anno 1944, Prot. n. 970003/44 – Presidenza).

La lettera di ringraziamento del 17 giugno è firmata dal Tenete di Vascello Comandante Ongarillo Ungarelli e recita: «Ho ricevuto l’assegno di L. 10.000,= (diecimila) da Voi gentilmente inviato – a nome della città di Milano – per l’Ufficio Propaganda del gruppo “Todaro” della X^ Flottiglia MAS. / Vi sono molto grato del Vostro interessamento per la divulgazione e diffusione delle eroiche gesta dei Piloti dei Mezzi d’Assalto di questo Gruppo ed a nome mio e di tutti i miei dipendenti Vi prego gradire i più sentiti ringraziamenti» (Cittadella degli Archivi e Archivio Civico di Milano, Fasc. n. 32, Anno 1944, Prot. n. 970003/44 – Presidenza).

    NOTE  
  1. 1. Fronte:

«VINCERE NEL TEMPO // Tutti coloro che combattono hanno un’ideale, un’aspirazione. E un ideale, un’aspirazione abbiamo anche noi, marinai della X Flottiglia. Esprimerla e illustrarla agli italiani non sarà né vano né assurdo oggi che gli eventi non ci sono favorevoli. Proprio anzi perché dura è l’esperienza attraverso la quale ci siamo riconosciuti e uniti, è necessario chiarire quello che noi vogliamo e quello a cui aspiriamo, e si vedrà allora che non c’è tra realtà e ideale né contrasto né lotta, si apprenderà come noi, sorti da una situazione di tristezza e di dolore, non intendiamo ad essa né attutirne in noi l’insegnamento e il ricordo. Tutto ciò da cui siamo nati e ciò che abbiamo affrontato e affronteremo è rimasto per sempre nella nostra coscienza e nell’opera nostra; intendiamo restare coerenti con tutta la nostra amarezza non meno che con il nostro entusiasmo e con le nostre speranze; e insomma l’ideale che noi vagheggiamo non si libra nelle aeree atmosfere del sogno, fuori delle dure prove della realtà, ma si amalgama e vi si perpetua, perché è nato con essa e per essa. Ma qual è il nostro ideale? Per coloro che guardano le cose alla superficie o per gli altri che credono di contemplarla a fondo solo perché hanno la mente arida e il cuore freddo, è forse impossibile comprendere questo ideale. Per essi poi combattiamo una guerra perduta, che non ammette speranze superstiti. Se l’ideale di chi combatte è la vittoria e se questa è destinata a sfuggirci, di che possiamo noi – pensano essi – sognare o parlare? Pure, non soltanto noi sogniamo e parliamo, ma operiamo e agiamo; e c’è tra noi – quel che più conta – chi è ferito e chi muore. Se così è, se giorno per giorno noi sentiamo, non allontanarsi, ma concentrarsi e attuarsi sempre di più l’idealità nostra, segno che v’ha in essa qualcosa di più profondo del contingente e di più duraturo del temporaneo; segno è che v’è nella nostra coscienza una certezza più forte di qualsiasi illusione. Diciamo subito che v’è nella nostra coscienza una certezza più forte di qualsiasi illusione. Diciamo subito che la nostra coscienza, il nostro ideale e la nostra opera hanno un nome solo: vincere. Vittoria, sì, è l’ideale di noi, nella Decima. Ma è una vittoria, la nostra, che non si limita a quella – che può esserci e non può esserci – della guerra immediata e del risultato materiale del conflitto. Anche questa vittoria, certo, entra in quella che noi vagheggiamo; ma non è – osiamo dire – parte essenziale. Non genera la vittoria che noi vogliamo, ma ne è, semmai, generata; e non è – soprattutto – così nostra come quella per cui noi combattiamo. Per noi marinai della X la vittoria è un valore più sacro e più grande. Al di fuori di tutte le battaglie e di tutti i risultati di guerra, noi sappiamo che si vince quando si crea nella strada qualcosa che non è mai né dimenticato né morto. Sappiamo che si vince quando si è saputo dare, al cammino inarrestabile della civiltà, un’impronta non pallida né secondaria. In fondo questa storia in cui gli sforzi e tutti i valori confluiscono, non è che una memoria di opere e un perpetuarsi di uomini. Solo chi può restare tra questi e porre tra quelli le sue gesta, può ben dire di aver vinto. Non si vince soltanto battendo sul campo di battaglia gli eserciti nemici e sovrapponendo le proprie alle opere dell’avversario. Chi vince in tal modo non vince veramente se non si innesta anche nella necessità e nella essenzialità della storia e non lega perciò il passato e l’avvenire alla forza e alla caratteristica della propria personalità. Ma questa vittoria – che è la sola che conta perché è la sola che rimane – può essere di chiunque abbia la forza di combattere fino all’ultimo e di rappresentare un valore e un momento nell’universalità dello spirito. Tale è la vittoria che perseguiamo noi, marinai della X. Noi viviamo oggi in un mondo che ci è già [nemico] in gran parte e in un’Italia che ci è per lo più indifferente. Forse sono proprio queste condizioni che ci hanno insegnato un senso più profondo della nostra missione e un significato più doloroso sì, ma anche più grande della nostra vittoria. Questa Vittoria noi attuiamo giorno per giorno: perché giorno per giorno la storia riceve da noi un’impronta e la cronaca un’aggiunta. La realtà odierna è dunque incompleta se si astrae dalla nostra presenza, così come lo sarà domani il passato, se si volesse fare a meno del nostro ritorno. Nelle vicende materiali del conflitto noi potremo //»

Retro:

«soccombere, ma rimarremo in quelle eterne dello spirito e saremo sempre presenti in questa storia e rimarremo tra i costruttori dell’avvenire. A noi, marinai della Decima, questa coscienza dà forza e certezza. Chi potrà domani tracciare una storia dell’Italia senza ricordarci e senza ammirarci? Sì, ammirarci anche: giacché la storia ricorda solo coloro che ne sono degni. Tanta parte del popolo italiano oggi può sconoscerci o combatterci; eppure la storia del popolo italiano – quale che essa debba riuscire – sarà sempre anche la nostra storia; né alcuno potrà conservarne l’intima natura se vorrà privarla di noi dell’opera nostra. Parte degli italiani può esserci oggi nemica; ma la totalità di essi ci ringrazierà nel futuro, perché noi abbiamo accresciuto e migliorato la storia della Patria: in una parola, ritroveranno e riconosceranno in noi le loro stesse caratteristiche e i loro stessi valori. Tale è, per noi marinai della Decima, la coscienza storica dalla quale scaturisce il nostro “Atto di presenza” e il nostro sentimento di soldati. Perché rappresentiamo una forza, una realtà, una fede; perché siamo spietatamente decisi a combattere fino all’ultimo e a difendere fino alla morte il nostro onore di soldati; perché insomma compiremo intero il dovere che abbiamo fatto nostro e questo solo suo supremo compimento ci importa. Sorgemmo per rivendicare sino all’ultimo una coerenza e una decisione, e questa è la nostra vittoria; tanto più grande se più sanguinosa perché nella realtà del sacrificio è racchiuso l’annuncio di tutta la resurrezione. Oggi teniamo ad affermare risolutamente ed esplicitamente una cosa: che la nostra vittoria è in atto dal momento della nostra comparsa sui teatri della guerra e che essa si perpetua col perpetuarsi della nostra battaglia. Questa affermazione noi sosteniamo e sosterremo sempre contro tutti coloro che vorrebbero svalutarci e rinnegarci. Ma combatterci solo sarà possibile; rinnegarci mai. Chi ci combatte afferma la nostra realtà. Ci preme assicurare il riconoscimento dei nostri morti. Non vano sarà il nostro sacrificio: non vana la fine di quanti umili marinai caddero sulla via aspra del dovere con la coscienza della loro missione e di quanti per questa coscienza cadranno ancora lungo le strade tormentate dalla guerra. Nessuno per noi potrà insultare la memoria di coloro che morirono per la loro fede e per il loro ideale di soldati, contribuendo con la loro fine al progresso e alla storia del mondo; la vittoria renderà immortale la memoria dei caduti, cingerà di rispetto e d’ammirazione la vita dei superstiti, manterrà perciò alto e onorato il loro sacrificio. I valori di fedeltà, di eroismo e di onore per cui essi hanno offerto la vita non sono mero patrimonio di questo o di quello, ma appartengono all’umanità intera e non possono perciò perire che per lei. È per questo che noi – fuori d’ogni contingenza e da ogni destino – sentiamo di non dover più morire perché sappiamo di combattere per tutti. Ed è per questo che la Decima Flottiglia rimarrà con il suo passato e con la sua unità a perpetuarsi negli anni. I vivi resteranno sempre pronti sulla breccia e i morti gloriosi dei nostri battaglioni e dei nostri reparti non saranno dimenticati perché essi vivono tra coloro che non muoiono. // decima flottiglia mas – reparto stampa» (Pasca Piredda, L’Ufficio Stampa e Propaganda della X Flottiglia MAS, op. cit., pp. 206-208).

 
  1. 2. È interessante notare quanto scrive Giuliano Manzari: «Lo stesso giorno, nel pomeriggio, a Cassibile (Siracusa), il generale Castellano, a nome del maresciallo Badoglio capo del governo, firmava il così detto “armistizio corto”, in realtà una resa senza condizioni. Dopo la cena che fece seguito alla firma, il generale Harold Alexander, comandante del XV Gruppo d’Armate, iniziò la riunione per la messa a punto dei dettagli della partecipazione militare italiana alla fase immediatamente susseguente alla dichiarazione dell’armistizio, rivolgendo al generale Castellano le seguenti parole: “L’Italia non potrà mai essere nostra alleata dopo una lunga guerra; la vostra collaborazione deve ridursi al sabotaggio”» (Giuliano Manzari, La partecipazione della Marina alla guerra di liberazione (8 settembre 1943 – 15 settembre 1945). 1945-2015. 70° anniversario della fine della Seconda Guerra Mondiale. 1945-2015, Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, Anno XXIX, Marzo 2015, Ministero della Difesa, Roma 2016, p. 5).

Rimane perfettamente chiaro che il Regno d’Italia non è alleato degli angloamericani, ma è un semplice “collaboratore” a cui sono affidate solo azioni di “sabotaggio”, per altro condotte prevalentemente dai così detti “partigiani” mediante attentati e imboscate. Certamente i fatti bellici conseguenti vedono taluni contingenti delle Forze Armate Italiane partecipare in subordine alle forze angloamericane all’invasione dell’Italia. Andranno ad “ingrassare” la fitta schiera della “carne da cannone” costituita da una vera e propria pleiade d’etnie (Algerini, Australiani, Canadesi, Francesi, Indiani, Neozelandesi, Nepalesi, Polacchi, Senegalesi, Tunisini, etc.) tutte tranquillamente spendibili da parte di Americani e Inglesi.

 
  1. 3. Di Pasca Piredda ha scritto il necrologio Daniele Lembo, anch’egli recentemente scomparso (2013). A ricordo d’entrambi se ne riporta il testo: «Stamani, accedendo alla mia posta elettronica, mi sono ritrovato una di quelle Email che avrei preferito non ricevere mai. L’Associazione Campo Della Memoria mi comunicava che “La scorsa notte a Roma ci ha lasciati all’età di 92 anni, Pasca Piredda, Segretaria personale del Comandante e Capo ufficio stampa della Decima”. La figura di Pasca, il pezzo di storia che rappresenta, è indispensabile che vengano ricordati soprattutto alle giovani generazioni. Tra l’altro Pasca, benché novantaduenne, non era affatto anziana, era ancora una giovanissima ausiliaria della Decima Flottiglia Mas, costretta da un sortilegio malefico a vivere nel corpo di una vecchia. Non è facile parlare di lei e della Decima ai nostri giovani che tutto sanno di veline e di tronisti ma nulla conoscono della nostra storia nazionale. Ci proverò, nelle poche migliaia di battute che gli spazi giornalistici mi consentono. L’8 settembre 1943, da molti è considerata come la morte della Patria. Fu la data che segnò una resa senza condizioni, contrabbandata per armistizio, e alla quale seguì la triste vicenda di un re spaventato che saltò sul carro del vincitore. Non tutti accettarono questo gioco al massacro e il Principe Junio Valerio Borghese, Comandante della Decima Flottiglia Mas, intese continuare la guerra a fianco dello stesso Alleato con il quale aveva iniziato quel conflitto. Fu così che la Decima, da reparto d’assalto di Marina, si trasformò in una Divisione di fanteria di Marina che manteneva comunque attivi reparti di assaltatori subacquei. Per gli uomini di Borghese non fu importante vincere o perdere, ma come si vince e come si perde. Nel momento di un cambio di fronte tristissimo che avrebbe impresso alle nostre armi il marchio del voltafaccia, i marò della Decima intesero schierarsi a tutela della Patria. Sia chiaro al lettore che la Decima non difese il fascismo. La Decima non difese alcuna ideologia politica, ma fu solo un reparto militare che intese continuare a combattere a difesa della Patria invasa dagli eserciti stranieri. La Decima fu un fatto squisitamente militare. Del reparto di Borghese fece parte il S.A.F., il Servizio Ausiliario Femminile Decima, e tra le donne del S.A.F. vi fu Pasca Piredda. Era una brunetta di origini Nuoresi, laureata in Scienze coloniali che, praticamente rapita da tre ufficiali decumani dalla segreteria del Ministro Mezzasoma, divenne poi responsabile dell’ufficio stampa della Decima Flottiglia. Con la fine della guerra, con i campi di concentramento e la galera o la diaspora per i marinai di Junio Valerio Borghese, la battaglia del principe, in difesa della Patria, non ebbe termine. In questa sua lotta, in un’Italia che andava sempre più alla deriva ideologica, gli fu vicinissima Pasca Piredda. Per parlare di Pasca ai nostri giovani, bisognerebbe prima spiegare loro che cos’è la Patria, la terra dei padri, il posto dove i cuori che battono lo dovrebbero fare in sincrono, perché accomunati da una storia comune. Purtroppo, i nostri ragazzi, tutti aspiranti tronisti o veline, sono stati cresciuti senza storia, senza ricordi comuni, senza tradizioni e senza passioni che non siano quelle dell’apparire piuttosto che dell’essere. Per questo motivo la figura di Pasca Piredda è quanto mai oggi attuale, perché è la figura di una donna che ha speso la sua vita in nome di un’idea. Era questa l’idea di una Patria italiana più bella e più grande. I funerali di Pasca si svolgeranno venerdì 9 gennaio alle ore 10 nella Chiesa di S. Pancrazio, Largo S. Pancrazio, 5 in Roma. Se un solo giovane, letto questo breve articolo, vorrà essere presente a quei funerali, io non avrò perso tempo a scrivere, avendo guadagnato un italiano dal mondo dei tronisti» (Sito Internet: altervista.org).
 

La circonferenza della terra in codice numerico con l’astro-geometria solare – Gaetano Barbella

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  1. I numeri dell’invisibile segnati dal sole e dai pianeti

«Avere una predilezione per le misure esatte - spiega il Poliscriba nel suo recente articolo su Ereticamente net, 666: la Ka’ba, il Cubito Aureo e i rapporti dimensionali Sole-Terra-Luna secondo i Sumeri – o che rimandino ai solidi platonici, è cosa antica, profondamente indoeuropea e di questo non possiamo dolerci, anzi, dovrebbe esaltarci l’idea che l’iperuranico mondo della geometria dei solidi perfetti, stia sempre dietro alle forme imprecise con le quali si manifesta il visibile. L’invisibile, da parte sua, incollato alle forme come ombra lunghissima all’alba e al tramonto delle civiltà, non si darebbe pena di manifestarsi se gli umani non lo avessero invocato edificando dimore adatte o adattate al culto dell’Eternità. La Kaaba o Ka’ba, era una di queste dimore...»

E poi, dice il Poliscriba, dopo alcuni agganci alla Kaaba o Ka’ba che significa cubo, giusto per legarlo al tema numerico del suo articolo « Quello che gli antichi sapevano per via indiretta riguardo alle misurazioni astronomiche e geodetiche, noi pensiamo sia impreciso rispetto alla tecnologia di cui disponiamo. Ma è indubbio che il loro modo di ragionare e di percepire il visibile, attendeva alla perfezione della geometria sacra che non risente, essendo metafisica, delle deformazioni sensoriali, strumentali e relativistiche.». Di qui un'avvincente dissertazione di operazioni cabalistiche a partire dal numero 666 legato al cubito sacro per sfociare al diametro della Luna e successivamente a quello del Sole. Ma non basta perché si arriva, così facendo, al calcolo del diametro della Terra, della distanza Terra-Luna e Sole-Terra con valori che non si discostano tanto da quelli reali che noi conosciamo con precisione1.

Ecco è stata per me una felice coincidenza l'articolo del Poliscriba, appena letto con interesse su Ereticamente net, giusto per avere un certo abbrivio e così  indurmi a proporre la pubblicazione di un mio vecchio scritto che bene si lega agli antichi “ragionamenti” sui numeri. E così, non smentire le concezioni numeriche, che dal numero 666 si riusciva a “misurare” dimensioni e distanze planetarie che hanno dell’incredibile per la loro “esattezza” ottenuta solo per via cabalistica. Ma c’è di più se si dà seguito, oggi, ad un analogo criterio di “calcolo”, per rivalutare una vecchia scienza, l’Astro-logia, non per far valutazioni sul corso della vita umana con previsioni e via dicendo, ma per fare analoghi calcoli a quelli mostrati dal Poliscriba.

In luogo dell’Astro-logia però è l’Astro-geometria concepita da me, l'autore di questo scritto, uno studioso molto versato nell'uso del “righello e compasso”, che con questo scritto sembra che rinasca, da che era un'importante scienza antica ma poi declassata come pseudoscienza. Oggi risorge dalle ceneri come una sorprendente araba fenice, a maggior ragione perché risulta legata a un grande matematico, scienziato e astronomo, Ahmed al-Biruni, giusto un arabo vissuto nel decimo Secolo in gran parte a Ghazna (oggi Ghazni) dell'Afganistan, dove morì il 13 dicembre 1048. Al-Biruni, tra le tante altre sue ricerche che lo tennero occupato, misurò con buona precisione (per il suo tempo) il raggio della terra. Oggi si scopre, grazie alla mia Astro-geometria, che lo spirito di al-Biruni, nel lasciare questo mondo, affidò un suo “tesoro”, espresso in “codice numerico”, a certi “astri” geometrici generati dalla configurazione astronomica del sole e i relativi pianeti visti sul piano dell'eclittica in quello stesso istante. Quel favoloso “tesoro” messo così in chiara luce, con mia sorpresa, si può considerare la matrice della misura media esatta della circonferenza della terra che è 40030 chilometri.

  1. Biografia di Ahmed al-Biruni

Ahmed al-Biruni (Abū al-Rayḥān Muḥammad ibn Aḥmad al-Bīrūn) è il famoso matematico, filosofo e scienziato persiano che apportò, nel decimo Secolo, cospicui contributi nei campi della matematica, medicina, astronomia, filosofia e scienze. In relazione al tema proposto da questo scritto al-Biruni calcolò il raggio terrestre che risultò 6339,6 chilometri, migliorando la stima di 6.314,5 km compiuta da Eratostene nel 230 a.C.

Ahmed al-Biruni nacque in Corasmia, oggi Biruni (Khwarazm), il 4 settembre 973 e morì Ghazna, 13 dicembre 1048, anticamente una regione a Nord-Ovest della Persia, attualmente nota come Khiva (Uzbekistan), e morì Ghazna (oggi Ghazni), 13 dicembre 1048 (Afganistan).

Fu anche abile poliglotta: parlava infatti il persiano, l'arabo, il sanscrito, il greco e aveva una discreta conoscenza anche del siriaco, dell'ebraico e del latino, insomma nell'insieme del suo sapere una mente straordinaria.

Fra i suoi più significativi contributi è meritevole di menzione il fatto che, a soli 17 anni, calcolò la latitudine di Kath (Khwarazm/Corasmia), basandosi sull'altezza massima apparente raggiunta dal Sole, ma è anche da ricordare che, al compimento dei 22 anni, scrisse diversi brevi trattati, incluso uno intitolato Cartografia, ovvero uno studio sulle proiezioni cartografiche che comprendeva la prima descrizione della proiezione azimutale equidistante. In seguito sviluppò degli spunti che sono visti come un'anticipazione di un sistema di coordinate polari.

Prima del compimento dei 27 anni, al-Biruni scrisse un libro intitolato “Cronologia” in cui egli si riferisce a un precedente lavoro – ora perso – che includeva un lavoro sull'astrolabio, uno sul sistema decimale, quattro sull'astrologia e due di carattere storico. Sono degne di nota due fatti: il cratere Al-Biruni, situato sul Mare Marginis della Luna, è stato così chiamato in suo onore; e gli è stato anche dedicato un asteroide, 9936 Al-Biruni

  1. L'astro-geometria

L'astro-geometria solare, proposta in questo studio, riguarda il nostro sistema planetario e si affianca all'astro-logia tenendo per buone le stesse correlazioni polari dei pianeti e Sole rispetto alla Terra, ossia secondo il sistema geocentrico. In più, a differenza dell'astrologia, vengono rese attive le distanze dei pianeti proiettate sul piano equatoriale in modo da concepire possibili geometrie, tali da poter essere interpretate al pari degli aspetti e direzioni valutate astrologicamente.

L'astronomia si può considerare in qualche modo figlia dell'astrologia, dato che storicamente le prime osservazioni del cielo non erano fini a se stesse, fatte per il puro piacere della conoscenza, com'è appunto tipico dell'osservazione astronomica, ma dedicate invece a cogliere nei moti celesti il segno di quanto sarebbe potuto accadere in terra e indicazioni sul modo migliore per affrontare gli eventi. I primi osservatori del cielo erano dunque astrologi, gente concreta che guardava in alto per cercare nel cielo uno strumento atto a migliorare, e in certi casi forse anche salvare, la propria vita quaggiù. Gli astronomi, puri osservatori di un cielo supposto privo di influenze dirette sulla vita delle persone, studiosi dei moti celesti per puro progresso intellettuale, sarebbero venuti molto tempo dopo, facendo peraltro tesoro dell'immenso patrimonio di conoscenze accumulato dai loro progenitori astrologi, che avevano così a lungo studiato e approfondito le geometrie celesti. Occorre subito precisare un paio di questioni che uniscono e dividono l'astro-logia dall'astronomia: prima di tutto, è opportuno segnalare che quando l'astrologo parla di pianeti include tra questi anche il Sole e la Luna, che per l'astronomo non sarebbero ovviamente pianeti ma rispettivamente una stella e un satellite: una semplice questione di terminologia che non cambia in nulla la sostanza delle cose. Lo stesso vale naturalmente anche per Plutone, recentemente declassato dagli astronomi, che in astrologia rimane comunque un pianeta. Per quanto riguarda la posizione dei pianeti nella sfera celeste: per l'astrologo ciascuno degli astri occupa in ogni istante una precisa posizione nel cielo in un determinato segno zodiacale, mentre un astronomo non userebbe i segni zodiacali per indicare la posizione di un pianeta ma più asettiche coordinate astronomiche. I dodici segni zodiacali basati sulla linea d'Ariete costituiscono comunque un sistema di coordinate valido come qualsiasi altro, per cui anche in questo caso si tratta semplicemente di un modo diverso, rispetto alla terminologia astronomica, di denominare la stessa cosa, ossia la posizione occupata in cielo dai diversi corpi astrali in un istante dato. Peculiarmente la geometria astrologica considera lo spazio astrologico bidimensionale in quanto proiettato sull'eclittica, e Geocentrico in quanto l'origine è posta nel pianeta Terra. Le posizioni degli astri sono individuate da coordinate polari, in cui però il modulo (ossia la distanza dalla Terra) non ha interesse astrologico e può essere considerato unitario, così che lo spazio si riduce di fatto a una circonferenza (il cerchio zodiacale), dove la posizione del singolo pianeta è individuata dall'angolo formato tra la linea che lo unisce alla Terra e la linea d'Ariete2. In modo astronomico l'angolo è misurato in ascensione retta (A.R.) in termini di ore, minuti e secondi al posto di gradi sessagesimali di 30 in 30 conforme le 12 costellazioni dell'eclittica. Ma si potrebbe considerare l'astrologia quale scienza di una straordinaria efficacia avvalendosi proprio del modulo (ossia la distanza terrestre) per un'interpretazione di una geometria progredita.

Il modulo in questione non era noto agli antichi astrologi perché solo con le nuove scoperte di Keplero, Galilei e Newton, è stato possibile concepire. E allora si completi il quadro astrologico con la visione di possibili configurazioni geometriche derivante dall'introduzione del suddetto modulo. Non è forse la geometria la migliore scienza per approssimarci ad una previsione oroscopica senza per questo corrompere tutto il risultato delle tradizionali previsione astrologiche? In quanto alla geometria dell'astro-geometria solare, Pitagora ne avrebbe avuto gran vantaggio per i suoi studi e ricerche, amante com'era delle configurazioni geometriche, fra triangoli equilateri, quadrati e poligoni regolari in generale, perché sono proprio queste figure che si rivelano meravigliosamente. Ed ora entro nel merito del caso in esame, ossia il momento presumibile in cui il sistema solare si configura nel tempo preciso della morte di Ahmed al-Biruni per dar luogo a peculiari configurazioni geometriche in grado di permettere un particolare calcolo numerico, per ottenere la misura della promessa circonferenza terrestre.

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Le borgate del paradiso – Primavalle. A cura di Emanuele Casalena

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[caption id="attachment_26273" align="alignright" width="300"] Virgilio Mattei[/caption]

Alberto Rossi, nome e cognome comuni, di certo non lui, fu una leggenda  della destra in barricata negli anni ’60-’70. Non ricordo se lo conobbi alla scuola di partito a via Alessandria o in occasione dei comizi tirati in fretta sopra un camioncino scalcinato bardato di bandiere a mo’ di carretto siciliano. So che mi arruolò tra i Volontari Nazionali con tanto di V sulla fascia al braccio, difensori del castello crociato di Toron come la sede del Secolo d’Italia a via Milano. Proprio lì, asserragliati nei locali, durante un tentativo d’ aggressione dei “compagni”, vi conobbi Virgilio Mattei, quasi la stessa età, lui alto, organizzato, deciso quanto affabile,  un ragazzo con stile, il nostro di stile. Di quella sera conservo gelosa, muta memoria, il Secolo salvò la sede, si passò ad altri impegni. Servizio d’ordine ai cortei da piazza Esedra ( preferisco chiamarla così ) a Piazza SS Apostoli tra celerini in assetto di battaglia, gruppettari in agguato con eskimo, kefiah, bottiglie non di Coca Cola. Virgilio era di Primavalle, casa popolare in via Bernardo da Bibbiena, terzo piano, suo padre Mario era operaio, segretario della sezione MSI Giarabub di Primavalle, ripeto un operaio non uno stronzo borghese come gli assassini di quella notte del 16 aprile 1973. In casa sono in otto, sei figli più i genitori, alle tre di notte la benzina scivola sotto la porta di casa, in un attimo è l’inferno, si salvano in sei dalla strage, non Virgilio né il  fratellino Stefano, soli 8 anni, aggrappato alle gambe del maggiore che s’ affaccia bruciato alla finestra. Questo è l’anno del cinquantenario della farsa rivoluzionaria del ’68, Mario Capanna s’è affrettato a pubblicare un’apologia su quegli anni, mi limito a citare Pasolini sul tema e per me chiudiamola qui: “La rivolta del ’68 è stata una falsa rivoluzione, che si è presentata come marxista, ma in realtà non era altro che una forma di autocritica della borghesia, che si è servita dei giovani per distruggere i suoi vecchi miti divenuti obsoleti.” E ancora: Non si accorgono della valanga di delitti che sommerge l'Italia: relegano questo fenomeno nella cronaca e ne rimuovono ogni valore”. ( tratti da… il ’68 di Pasolini di Roberto Carnero ). C’è uno stereotipo pecoreccio sul Bel Paese, un abitino fuorviante cucito, in malafede ed ignoranza, dal qualunquismo interessato franco-tedesco, Italia di sole, pizza e ammore. C’è invece un’altra Italia che non ha più lacrime né sangue per bagnare il tavolo della storia e soprattutto che non conosce la giustizia neppure quella sociale.

Primavalle fu una borgata ufficiale del fascismo, ma assai diversa per genesi dei primi residenti tutti immigrati in quella verde campagna compresa tra via Boccea a sud e via Trionfale a Nord, quadrante ovest-nord-ovest di Roma. L’ampia tenuta di proprietà dell’ex Capitolato di S. Pietro fu venduta, nel ’23, alla Società privata Alba (Anonima laziale bonifiche agrarie) dalla quale il Governatorato acquistò 25.000 mq al prezzo di 5£/mq per realizzarvi casette-ette rurali sul modello della borgata Prenestina. Ci sono tante Primavalle  a partire dai villini estensivi dei primi del ‘900, a seguire quella dei numerosi baraccati del primo dopoguerra che inducono il Governatorato a costruire microabitazioni rapide monopiano più qualche dormitorio, fino a metà degli anni trenta con il progetto pilota di un  quartiere finalmente affidato all’Ifacp. Nel secondo dopoguerra nuovi interventi a partire dagli anni ’50, c’è la febbre alta del mattone, l’Icp convive con l’edilizia privata dei palazzinari sciogliendo la storia della borgata in una brodaglia di costruzioni sradicate dal progetto madre di crearvi una “borgata giardino”. Questo è il percorso a ostacoli da intraprendere, dove gli ostacoli sono anche nella lettura partigiana dell’urbanistica e architettura del ventennio attraverso l’analisi marxiana sulla genesi delle periferie. C’è un fatto incontrovertibile, il fascismo sperimentò, non solo a Roma, modelli razionalisti di pianificazione delle nascenti borgate o attraverso la riproposizione ancestrale del borgo rurale medioevale o con l’insediamento di organismi più intensivi, avanguardie dello sviluppo progressivo della città. Pur nelle indubbie ristrettezze economiche degli interventi, le borgate erano comunità morfologicamente ben definite, organismi autonomi dentro spazi delimitati dalla natura dei luoghi (strade, fossati, topografia ) provviste di una loro precisa carta d’identità. Nel secondo dopoguerra le loro generalità si sono perse per sempre sostituite dal global building dell’edilizia romana, diventando un po’ tutte figlie di N.N., le radici vengono soffocate da un campo di grigia gramigna.

[caption id="attachment_26272" align="aligncenter" width="640"] Planimetria di Primavalle - anno 1934[/caption] “Tra poco sorgerà una graziosa borgata costituita da villini ornati di orti e giardini, servita da ampie strade,dove troveranno abitazione centinaia di famiglie”.(articolo del Popolo di Roma).

L’idea era appunto la creazione  di una “borgata giardino” a carattere semirurale superando di gran lunga il modello di Acilia la prima in assoluto del Governatorato ( era del ‘24 ). in linea con la filosofia di pianificazione urbanistica del fascismo nei suoi interventi in aree rurali o di bonifica. Casa semplice ma dignitosa, terra, servizi pubblici, limpido decoro, autentici borghi autosufficienti espressione secolare della tradizione comunitaria italiana. Riavvolgiamo il nastro,siamo nel ‘23 quando sorse “ l’Oasi di Primavalle ”, ristrutturazione del vecchio casale omonimo ormai in disarmo acquisito dalla Congregazione delle Figlie Povere di S. Giuseppe Calasanzio (fondatore, nel ‘600, delle Scuole Pie per  bambini  poveri), vi si  ospitano orfane o figlie di detenuti, di età compresa tra i 3 ed i 10 anni, offrendo loro un ricovero e l’istruzione di base. A seguire nel 1928 vi si insediò l’Istituto delle suore Orsoline anch’esso vocato all’educazione dei minori, nel ’32 l’Opera don Calabria che assume la cura pastorale di Primavalle viste le gravi problematiche sociali emerse in quest’area periferica e poi ancora nascerà il “Collegino” delle suore Sacramentine, ecc….

Perché questa concentrazione d’ opere pie se non a ragione di una presenza demografica consistente di diseredati che già abitavano, in modo spontaneo autarchico, quell’area già dai tempi del mitico sindaco massone Ernesto Nathan quando alle Ferratelle e a Porta Metronia furono permessi nuclei di baracche provvisorie per sedare la fame di case. Primavalle  perciò non era solo praterie dell’Agro per le esercitazioni militari della cavalleria, o il pascolo di armenti, ma luogo di prairie houses abusive, non di farmers americani, ma di braccianti giornalieri, di senza lavoro aggrappati alla città per un tozzo di pane. Partiamo dal 1931 quando nasce “ufficialmente” la borgata Primavalle come testimonia in cronaca il Giornale d’Italia del 21 gennaio del ’31: “ La nuova borgata di Primavalle “ titola il quotidiano. “ Questo nuovo villaggio suburbano di Primavalle, sorto in due mesi e occupato dieci giorni fa da trecento ex baraccati, è stato…ufficialmente inaugurato domenica scorsa, quando il Segretario Federale Nino d’Aroma vi si recò per distribuire la Befana…” Come erano queste casette fatte realizzare dal Governatorato di Boncompagni Ludovisi ce lo riferisce “ Roma Fascista” dell’otto febbraio dello stesso anno: ““Sono case senza pretese, costruite alla buona e divise in alloggi di due o tre stanze … dove i principi igienici sono rigidamente rispettati … Le nuove casette bianche, sorte in una quadruplice fila e divise fra loro da strade abbastanza ampie, hanno infatti sostituito per quella gente la baracca. Erano, questi che oggi vivono nella serenità di Primavalle, tutti abitanti di un superstite villaggio abissino pullulante nella valle delle Fornaci … dall’illuminazione elettrica all’acqua delle fontane, dagli ampi lavatoi ad un asilo per i bimbi, da una comoda strada carrozzabile, che allaccia Primavalle alla via della Pineta Sacchetti, alla fognatura”.

  [caption id="attachment_26274" align="aligncenter" width="1000"] Planimetria generale delle casette di Primavalle[/caption]

Attenti, Roma Fascista critica l’intervento ( case senza pretese dice ) e infila il dito nella piaga dei servizi, quell’architettura del Governatorato è elemosina verso gli ultimi che si vuole restino tali. Ben altra è la filosofia sociale del fascismo, in due parole dignità per l’integrazione. Quei primi pionieri della borgata non provengono dagli sventramenti dei Borghi ma sono gli abitanti appunto di un “villaggio abissino”  costruito abusivamente con tavole di legno fracide e latte di petrolio, una favela romana come all’Acqua Bullicante, popolo di reietti da affidare alle forze dell’ordine. La spina nel fianco del Governatorato spinge perché la nuova borgata sia dotata dei servizi primari e ancor prima di un allacciamento alla linea tramviaria di Forte Braschi, come sottolinea l’articolista del Giornale. A luglio dello stesso anno vennero costruite anche due camerate dormitorio per accogliere sfrattati e senza casa. Dal ’31 al ’35 è un susseguirsi di delibere per la realizzazione di opere, nuove casette (di tipo A e B, uno, max due vani), altri due dormitori, l’elettropompa per la distribuzione dell’acqua che scarseggia, l’illuminazione solo per la caserma dei Carabinieri (!), la costruzione di una scuola ( nel ’32), di un ambulatorio con condotta medica e la sistemazione delle strade (’35). Resta in mente Dei l’arteria di collegamento diretto con la città di Roma che salti l’Aurelia. Diciamo questo per sfatare la leggenda che Primavalle vede la luce in seguito alla demolizione della Spina di Borgo per realizzare via della Conciliazione con deportazione forzata degli sfrattati nel ghetto della periferia. La seconda Primavalle, quella inaugurata nel ’38, quella sì vide circa un terzo dei residenti provenire dagli sventramenti di Borgo Pio, non la prima.

La grande sfida per l’architettura del ventennio fu giocata tra l’avanguardia del razionalismo e il neoclassicismo, tra il MIAR dei Terragni, Libera, Persico, Pagano contro il duo Piacentini-Giovannone, a questi però fu affidato di redigere il PRG di Roma del ‘31, mentre alla ricerca dei razionalisti il compito di realizzare i “ sogni architettonici”, come li definì G. Pagano, cioè la casa popolare delle nuove borgate con oggettive problematiche di lima tra costi/benefici.  Febbre alta da studio sul come ottenere il massimo con i minimi di bilancio, partogenesi dell’uovo di colombo d’ una casa dignitosa per tutti, un certamen sociale di altissimo impegno con evidenti ricadute sul consenso politico. Mussolini era geneticamente contrario all’urbanizzazione del territorio, coltivava la cultura ancestrale, l’archetipo del villaggio autosufficiente dove la madre terra mantenesse il suo ruolo. Il “villaggio fascista” perseguiva questa filosofia agreste in antitesi con i modelli europei ed americani di grande concentrazione demografica e residenziale nelle città. Il Governatorato di Roma aveva gestito in proprio l’offerta di case popolari a partire da Acilia, ma quegli interventi rapidissimi avevano ghettizzato i poveri come fossero lebbrosi da internare in casette che per spazi e materiali erano poco più delle lasciate baracche. Calza Bini dalla metà degli anni ’30 riscattò in pieno il ruolo dell’Ifacp avocando all’istituto la piena competenza degli interventi di edilizia pubblica, progettati da un gotha di professionisti. Giuseppe Bottai, il modernista, l’uomo che guardava oltre la siepe italica, fu essenziale in quest’opera di creazione di nuovi ed efficienti interventi d’ edilizia popolare. Primavalle prevedeva l’insediamento di una comunità di 8.000 residenti distribuiti su tre tipologie edilizie, case estensive, edifici a schiera, residenze a ballatoio ( l’idea dell’ing. Nicolosi ), grandi distacchi tra i fabbricati per favorire il massimo soleggiamento.  Realizzati i primi 5 lotti del piano d’intervento, la neonata nuova borgata assistette alla solenne inaugurazione/assegnazione avvenuta il 1 giugno del 1938 documentata dall’Istituto Luce. Un Sabato di festa come testimoniano le riprese con discorso di Mussolini ai presenti dalla torre della casa del Fascio, si vedono anche il Maresciallo d’Italia Emilio De Bono e l’artefice di quel  complesso firmato Ifacp l’arch. Giorgio Calza Bini.

[caption id="attachment_26269" align="aligncenter" width="744"] Plastico, Pianta planovolumetrica ed inaugurazione della nuova borgata Primavalle, in ultimo foto prospettica attuale della stessa inquadratura.[/caption]

Sono palazzine a  tre piani fuori terra, gli appartamenti sono piccini ma assai decorosi provvisti, ciascuno, di servizi igienici. La struttura portante è in blocchi di tufo con solai in laterizio e ferro. Gli esterni sono finiti con intonaco verniciato di giallo ocra. Le strade interne sono ampie per soleggiare le case e mantenere la privacy, soprattutto ci sono grandi spazi verdi piantumati e predisposti per il gioco dei bambini, ciascun complesso è dotato di un portierato. Il progetto della nuova Primavalle fu realizzato dall’arch. Giorgio Guidi già protagonista, con l’ing. Costantini, del lotto IX Ifacp alla Garbatella ( una palazzina convessa ) e prevedeva l’edificazione semi intensiva su complessivi 27 lotti ma con tipologie diverse per evitare una noiosa uniformità degli interventi.

[caption id="attachment_26268" align="aligncenter" width="517"] Planimetria generale della Nuova Borgata di Primavalle-1936[/caption]

“Fra casermoni grattacielo ove alberghi il proletariato urbano, ed abituri isolati nei campi dei lavoratori rurali. in mezzo all’uno e all’altro tipo c’è qualcosa di intermedio, rappresentato dalle città giardino, dalle borgate rurali, dallo sforzo, per quanto è possibile, di individualizzare le case per gli umili anche in città (…) questa la sfida dell’Istituto fascista autonomo (dal ’35) case popolari diretto da un grande architetto manager ante litteram il già citato Alberto Calza Bini. A lui si deve l’input razionalista nella pianificazione urbanistica non solo delle borgate romane ma anche delle città di neofondazione, suo figlio Giorgio ci ha consegnato la città dell’aria, Guidonia. Primavalle è in quell’intermedio tra il villaggio estensivo agreste e la domanda di casa della popolazione aggrappata con unghie e denti alla città. Siamo ideologicamente lontani dalle soluzioni contemporanee europee, dall’Olanda, all’Austria, alla Francia. Ripeto perché sia chiaro, il fascismo era contrario all’urbanesimo capitalista che sostanzialmente sfruttava con usura il territorio attraverso insediamenti fortemente intensivi. L’uomo, la sua famiglia, la natura, la salubrità dell’ambiente compresa la casa, erano i fattori preminenti della politica urbanistica del regime tesa a promuovere condizioni di vita dignitose per tutti senza strappi  delle radici dalla nostra storia. La scuola elementare Cerboni, le palestre, la casa del fascio con la sua torre italica, il verde curato dei giardini comuni, il progetto di una strada di collegamento con via Boccea, scarso rimase invece il pubblico trasporto, c’era  solo il mitico tram 34 che arrancava sull’Aurelia fino al capolinea a Forte Braschi, da lì c’era un autobus bus, credo il 236, che portava a Piazza Clemente XI a Primavalle.  Nel ’39 terminano altri 7 lotti le cosiddette case “de corsa” esteticamente migliori rispetto alle precedenti ma un tantino inferiori dal punto di vista abitativo. Anche qui solenne ne fu l’inaugurazione presenziata dalla principessa del Piemonte Maria José sposa del re di maggio Umberto II. Negli anni ’40-‘43 vengono completati altri lotti nonostante la guerra che porterà  molti sfollati a rifugiarsi nel quartiere. Nel dopoguerra sarà ancora l’arch. Guidi a completare la lottizzazione con gli ultimi edifici popolari che affacciano su piazza Alfonso Capecelatro ( Cardinale napoletano) più la chiesa di S. Maria della Salute a chiudere il foro nel cui ombelico gorgheggia la fontana. Un’autentica lezione di architettura metafisica, una piazza d’Italia alla  Giorgio de Chirico con i portici ad archi che si inseguono come le ombre fluttuanti nel tempo. Ci sono le radici profonde del concetto di piazza italiana mutuata dalla splendida sistemazione fiorentina della SS Annunziata dove il porticato dello Spedale degli Innocenti  del Brunelleschi detta morfologia e assetto dello spazio.

  [caption id="attachment_26266" align="alignleft" width="315"] Inquadratura d’epoca di Piazza A. Capecelatro riprese da Roma sparita[/caption] [caption id="attachment_26265" align="alignright" width="315"] Inquadratura d’epoca di Piazza A. Capecelatro riprese da Roma sparita[/caption]

Dagli anni ’50 l’usura prende le redini della borgata, si alzano fabbricati avulsi totalmente dal contesto urbano primitivo, lo soffocano, ne ingrassano oltre modo i fianchi trasformandolo in quartiere del caos scolorendo velocemente la sua identità. La nuova pianta ha il virus maligno della globalizzazione, volutamente crea disagio e confinamento, anzi meglio dire proprio la marxiana “alienazione” dove proprio la sinistra inzuppa il proprio pane. Ma Primavalle ha uno scatto d’orgoglio, di resilienza al degrado e l’ affida all’arte. Oggi è la regina della street art, una immensa, articolata, pinacoteca all’aperto forse unica in Europa, con i turisti meravigliati ad immortalare con scatti quei murales. Tanti gli artisti anche di chiara fama internazionale chiamati a dare forme e colori alle pareti morte o cieche.

  [caption id="attachment_26264" align="aligncenter" width="1153"] Wonder Woman, murales di Flavio Solo in via Francesco Borromeo[/caption] L’ ex borgata si racconta, mette sui muri la propria memoria con orgoglio, coinvolgendo tutti i suoi strati sociali. Nessun murales ricorda però quel rogo, un’operazione di rimozione ideologica che lascia un profondo gusto d’amaro. Ps: Un pensiero ad un mio caro amico/camerata di Primavalle Pio A., chissà se leggerà queste mie righe. Emanuele Casalena

Bibliografia

Luciano Villani, Le borgate del fascismo, Ledizioni, Milano-2012 Primavalle, Storia di una borgata, You Tube www.uffingtonpost.it: la tragica morte dei fratelli Mattei, un altro pezzo di storia finito nell’oblio Rerum Romanarum, Quartiere Primavalle, 2015 Wikipedia, Borgate ufficiali di Roma.  

Thorstein Veblen: i beni di lusso, ieri ed oggi – Flavia Corso

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L'economista e sociologo americano Thorstein Veblen (1857-1929) scrisse nel 1899 la sua più importante opera nell'ambito delle scienze economico-sociali: “La teoria della classe agiata”. A differenza di Marx, l'approccio di Veblen ha la pretesa di fornire una spiegazione meccanicistica e darwinista dei processi sociali, mantenendo tuttavia un'impostazione multidisciplinare: economia, sociologia, antropologia e filosofia dialogano nella sua opera senza mai abbandonare l'atteggiamento critico e scientifico che la contraddistingue. La genialità di Veblen si manifesta soprattutto nell'aver individuato nella cosiddetta “emulazione finanziaria” il motore socioeconomico della dinamica capitalista. Alla base dell'accumulo di ricchezze, del concetto stesso di proprietà, vi è un'ancestrale propensione psicologica alla ricerca dell'ammirazione, della stima, del prestigio sociale. Per questa ragione, la ricchezza non viene solamente cercata, ma va altresì ostentata al fine di affermare la propria condizione di superiorità nei confronti dei membri delle classi inferiori. Si tratta di quello che Veblen chiama “consumo vistoso di beni”; beni perlopiù superflui e palesemente costosi, nei confronti dei quali la volontà di acquisto – contrariamente alla legge della domanda e dell'offerta – cresce all'aumentare del prezzo.

In principio fu la lotta

In uno stadio primitivo della società umana, l'essere umano, per poter sopravvivere, doveva predare. Il bottino di guerra (donne, nemico, ricchezza) da mero mezzo per il sostentamento assunse sempre di più un significato intrinsecamente onorifico, perché legato all'affermazione della superiorità fisica sugli altri esseri umani. Chi aveva di più, era un abile cacciatore, guerriero, era migliore degli altri. I beni divennero sempre più dei fini in sé, da ottenere a tutti i costi. Possedere un bene ambìto significava essere onorati e presto, per le classi superiori, il lavoro produttivo divenne sempre più inutile e pertanto spregevole. Veblen, dunque, enfatizza la natura sociale dell'essere umano: l'uomo è portato a relazionarsi e a paragonarsi agli altri uomini attraverso forme di emulazione ed antagonismo. Al tempo stesso, tuttavia, l'uomo è anche un essere teleologico, che tende sempre ad un fine e con un senso innato dell'efficienza. L'uomo è naturalmente incline a considerare degna l'attività efficiente e indegna quella inefficiente. Ne consegue che più un individuo esprime e mette in mostra la propria efficienza o capacità, più guadagna stima sociale. E' inevitabile, a questo punto, che soggetti naturalmente meno efficienti saranno sempre più inclini ad emulare quelli più efficienti, onde conquistarne i medesimi onori. In principio fu la lotta, perché è proprio a partire da una mentalità guerriera e predatoria (caratteristica che secondo Veblen si riscontra nel modo più eclatante nell'europeo dolicocefalo biondo) che – per via dell'idea di base che il possesso di beni fosse strettamente correlato alla stima sociale – poté lentamente farsi strada il bisogno di consumare in maniera vistosa i beni di lusso.

Consumo vistoso e stratificazione sociale

In tempi remoti, prima ancora di quella che Veblen chiama “civiltà barbarica”, si trovano le basi per l'istituzione di una classe agiata. Questa, in particolare, diede i primi segnali di determinazione e differenziazione funzionale all'interno delle tribù nomadi di cacciatori. Sarà proprio a partire da questa differenziazione funzionale che emergerà gradualmente la distinzione tra classi. La prima grande storica distinzione funzionale fu quella fra uomini e donne; mentre gli uomini si dedicavano ad attività come la caccia, lo sport, la guerra o le pratiche religiose, alle donne erano riservati i lavori più prettamente manuali. La dicotomia tra attività maschili e femminili accentuò parallelamente la separazione della classe agiata da quella lavoratrice, laddove i settori industriali costituivano il naturale prolungamento dei lavori “da donna”, a differenza dei settori bellici e religiosi. E' interessante notare come per Veblen l'emulazione finanziaria non conduca mai ad un vero e proprio livellamento sociale. Nel momento in cui la classe inferiore riesce a raggiungere il livello di ricchezza di quella superiore, quest'ultima, sempre in virtù di una dinamica antagonistica, si inventerà e procurerà nuovi beni di lusso per ristabilire il divario economico e, dunque, la supremazia sociale.

Evoluzione dei beni Veblen

Nell'era che stiamo vivendo, i beni Veblen non esistono più nel senso tradizionale del termine. Quelli che un tempo erano considerati oggetti di lusso, oggi sono perlopiù accessibili su larga scala. L'acquisto a rate e il leasing hanno consentito alle classi inferiori di appropriarsi di beni un tempo riservati alla classe agiata. Per questa ragione, le élite del nostro tempo hanno deciso di impadronirsi di beni strutturati in modo tale da non poter essere facilmente riprodotti, se non da una stretta rete di addetti ai lavori. I tratti predatori della civiltà occidentale sono oggi portati all'esasperazione, al punto da rendere intangibili, finché sarà possibile, i nuovi beni di lusso. Per le élite finanziarie, il mondo digitale sembra essere il terreno fertile per enfatizzare ancora di più il divario creatosi fra predatori e “prede”. In questo senso, un esempio significativo è il bitcoin; la famosa criptovaluta oggi assume sempre più i connotati di una nuova forma di lusso digitale. Trattandosi di una nicchia di mercato, che necessita del possesso di particolari conoscenze e capacità in ambito finanziario, solo in pochi riescono ad accedervi. Secondo uno studio condotto dalla Bernstein Research, l'acquisto di bitcoin denota prestigio sociale non tanto per i benefici che apporterebbe la criptovaluta in sé, ma per la semplice ragione che ve ne è una disponibilità limitata. I primi che arriveranno ad aggiudicarsi l'oro digitale, i più abili a destreggiarsi nella complicata trama dell'alta finanza, saranno i vincitori di una competizione che si protrae fin dai tempi più remoti. Il bitcoin assume le stesse caratteristiche del trofeo di guerra di migliaia di anni fa e, pur cambiando le epoche, rimane inalterata – e anzi si inasprisce – quella dinamica antagonistica che Veblen aveva magistralmente descritto.

Flavia Corso

Maarten J. Vermaseren, Mithra, Il dio dei Misteri – Ezio Albrile

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Dopo lo splendido libro sulla teurgia e magia antiche di Giuseppe Muscolino, le Edizioni Ester mettono a segno un altro bel colpo con la traduzione italiana di un classico della letteratura storico-religiosa, il Mithra di Maarten Jozef Vermaseren, una grande opera di sintesi dedicata al più famoso dio indo-iranico, la cui fama misterica spopolò nel tardo ellenismo. Nell’esodo persiano seguito alla dissoluzione dell’impero achemenide a causa dell’impresa di Alessandro Magno, il culto dell’iranico Mithra, trapiantato in Asia Minore, assunse i lineamenti di una religione misterica, una religione di salvezza che prometteva un destino migliore nell’altra vita, dando all’uomo la speranza di poter ascendere, dopo la morte, attraverso le sfere celesti. Una devozione misterica, che tra il I ed il III sec. d.C. si diffuse capillarmente nell’impero romano. Quale propaggine occidentale di un arcaico culto indo-iranico, il mithraismo subì una trasformazione formale, smarrendo l’originaria fisionomia per assumere i modi e gli stili tipici dell’ellenismo.  Il libro è arricchito da un lungo e prezioso saggio introduttivo del prof. Giancarlo Mantovani – che dello stesso Vermaseren fu discepolo – nel quale l’opera del maestro è aggiornata con approfondimenti riguardanti le origini e gli sviluppi del culto di Mithra. La fisionomia misterica del dio è infatti definita in relazione ai culti e dottrine che contribuirono alla sua diffusione (orfismo, ermetismo, gnosticismo, teurgia) da Oriente a Occidente.

Le origini del culto mithraico si ritrovano nei Veda induisti (Mitra) e nei testi dell’antica religione iranica, lo zoroastrismo (Mithra), in particolare nel decimo Yašt dell’Avesta cosiddetto recenziore (seconda metà del V sec. a.C.). Nella religiosità iranica Mithra è il dio dei contratti, e in quanto tale, si accerta che i contratti vengano rispettati, mappando il territorio e punendo chi non li rispetta. Tali caratteri sono affini a quelli del dio Varuṇa, col quale in India Mithra fa coppia (Mitravaruna). Questi tratti di Mithra appartengono alla tradizione vedica più antica. Di conseguenza Mithra, aggirandosi attorno alla terra per sorvegliare gli impegni contrattuali, si trasforma in un dio celeste e quindi in un dio solare. Inoltre, la missione di punire gli inadempienti lo muta in un dio giustiziere e guerriero; mentre la funzione condivisa con Varuṇa di apportatore di pioggia, lo trasforma in un dio creatore di vita, e quindi in un demiurgo. I tratti fondamentali che lo renderanno famoso come dio misterico. In Iran, nei rilievi sasanidi di Tāq-i Bustān (IV d.C.) Mithra è nimbato da un’aureola di raggi solari, col berretto frigio ricoperto di stelle, e i suoi piedi poggiano su di un fiore di loto, simbolo del Sole e della vita. E benché questo motivo iconografico sia caratteristico più dell’arte egizia e di quella indiana che di quella iranica, il suo significato legato al rinnovamento e alla cosmogonia sembra abbastanza chiaro.

Il Mithra che conosciamo dai Misteri è un dio che sgozza un toro, la cosiddetta tauroctonia, un atto molto violento spiegabile secondo il mito vedico del sacrificio della vacca primordiale. Mitra lega la vacca per i piedi, poi, anche se riluttante, la uccide insieme agli altri dèi. La stessa riluttanza fa sì che nell’iconografia dei Misteri il dio distolga lo sguardo mentre il suo pugnale fende la gola del toro. Qualcosa di simile si poteva vedere nella rappresentazione del sacrificio di Ifigenia attribuita a Timante, dove Agamennone, per non assistere all’uccisione della figlia, di cui era cosciente, si copriva il capo. Il soma in India – l’haoma in Iran – è, insieme, il latte della vacca primordiale e il liquido seminale del toro primordiale, in quanto entrambi lo hanno assimilato mangiando la pianta. Così il sacrificio si conferma come un atto cosmogonico, tanto più che il toro è assimilabile alla Luna, astro fecondante.

Nella parte finale del Bundahišn iranico (cap. 34 [Anklesaria, p. 226, 3-6]) assistiamo a un episodio simile, il sacrificio del toro Hatāyōš da parte del Sōšyans, il Nama Sebesio dei Misteri. L’haoma (> medio-persiano hōm) – il cui corrispondente indico è il soma, materia del sacrificio vedico – non è solo una pianta misteriosa dalle virtù palingenetiche, ma anche una divinità, uno yazata celeste al quale è dedicato l’omonimo Yašt. Nel tempo molti studiosi o semplici appassionati hanno identificato la mitica pianta con svariati tipi di piante psicoattive e non, tra cui l’Amanita muscaria e il Peganum harmala, oggetto di due famosi e discussi libri. L’haoma nel quadro cosmologico zoroastriano è il cibo escatologico preparato dall’ultimo «Redentore futuro», l’ultimo Saošyant- (> medio-persiano Sōšyans), la libagione perenne che fa risorgere i morti e rende immortali i viventi. Sempre da un’area di influenza iranica, l’Armenia, deriva un racconto epico su di un personaggio, anche linguisticamente, affine a Mithra, cioè Mher, un eroe gigantesco che, dopo aver combattuto tutti i nemici si trova a combattere anche contro il proprio padre. Maledetto dai genitori, si reca sulla loro tomba per implorare perdono e consiglio. Essi lo invitano a dirigersi verso una roccia nella pianura di Van. Lì giunto a cavallo, colpisce con la freccia un corvo, costringendolo a rivelargli l’entrata. La roccia si apre, e all’interno vi trova due fiaccole eternamente accese (i dadofori dei Misteri). Il racconto prosegue dicendo che l’eroe esce dalla grotta solo una volta l’anno, la notte dell’Ascensione, per cibarsi della manna che cade dal cielo, che nutrirà lui e il suo cavallo per l’intero anno. La missione di Mehr è quella di sorvegliare ininterrottamente la sfera del destino, roteante all’interno della grotta. Quando essa cesserà di girare, Mher uscirà dalla roccia per distruggere il mondo. Parecchi elementi – difficile da confutare – appartengono alla mitologia del Mithra dei Misteri.

È credo diffuso che Mithra giunse a Roma assieme ai pirati cilici fatti prigionieri. Alcuni di essi, a quanto pare, diventarono coloni, integrandosi perfettamente col resto della popolazione romana e ciò dovette contribuire notevolmente alla diffusione del nuovo culto. D’altra parte la nuova religione non poteva essere accettata a Roma prima di subire nuove trasformazioni e integrazioni. Dal momento che Plutarco (Pompeo, 24) parla esplicitamente di teletai = «misteri» a proposito delle cerimonie mithriache dei pirati cilici, si può dedurre che il mithraismo arrivò a Roma già sotto questa forma. Ma non si può escludere che Plutarco reinterpreti e retrodati il mithraismo dei pirati.

Esiste infine l’enigma dei legami tra il mithraismo e gli Oracoli caldaici, sorta di Bibbia magica dei neoplatonici di cui ha parlato il Muscolino nel citato libro sulla teurgia. Secondo Giorgio Gemisto Pletone, cui si deve l’unica testimonianza in questo senso, gli autori degli Oracoli avrebbero adottato Mithra collocandolo al posto del secondo intelletto. Giorgio Gemisto (1355 ca.-1452) cultore di Platone al punto di voler assumere il nome di Pletone, che ricorda quello dell’antico filosofo, è una figura ancora oggi persa nelle nebbie del mito; egli ascriveva agli Oracoli una grande autorità, attribuendone la composizione al profeta della più antica religione iranica, Zoroastro (Zarathuštra), e interpretandoli come fondamento di una filosofia e di una religione future, universali, che sostituiranno ogni altra fede nell’ecumene.

Ezio Albrile   Maarten J. Vermaseren, Mithra. Il dio dei misteri, prefazione di Giancarlo Mantovani, traduzione dal francese di Barbara de Munari, Edizioni Ester, Bussoleno (Torino) 2017, pagine 343, 22.00 Euro.

Decima Flottiglia M.A.S.: propaganda per la riscossa (seconda parte) – Gianluca Padovan

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«Vai subito, padrona, dalla nutrice e leggile il resto, perché anche lei apprenda le sue disgrazie e non se ne stia beata nella sua ignoranza per sempre»

Antonio Diogene, Le incredibili avventure al di là di Thule; II sec.
    La realtà dei fatti.

I manifesti sono messaggi diretti a tutti, che si voglia o meno guardarli, e la maggior parte di quelli fatti stampare dall’Ufficio Propaganda della Decima dichiarano che la Xa Flottiglia M.A.S. esiste e combatte.

Seppure siano passati così tanti decenni dacché vennero pensati e affissi sono d’attualità perché la guerra non si è conclusa né con la resa incondizionata né con la cessazione delle ostilità nel 1945. Difatti, come ben dimostrano i fatti di cronaca, l’Italia è ancora adesso un paese a sovranità più che limitata e costantemente invaso da genti che qui non devono stare e che manteniamo a nostre spese.

L’Italiana e l’Italiano devono essere cancellati e solo allora la guerra si concluderà. È questo quello che vogliamo?

L’invasione ha il fine di creare la sostituzione del Popolo Italiano con le masse invadenti soprattutto asiatiche e africane, le quali già oggi costituiscono comunità assolutamente chiuse e regolarizzate al loro interno dalla loro malavita. Smettiamola di lavarci la bocca e il cervello con la parola “integrazione”, perché costoro sono solo dei predatori del nostro territorio che non hanno affatto intenzione di integrarsi.

D’altra parte coloro che non gradiscono sottostare all’invasione sono tacciati di “fascismo”, la oramai desueta e consunta “parola-spauracchio” usata innanzitutto dalla sinistra, ovvero da coloro che un tempo erano inquadrati sotto la massonica bandiera rossa sovietica e che oggi sono semplicemente pagati o plagiati per tenere la bocca chiusa e avvallare l’invasione. Ma tale parola è ampiamente usata anche nei così detti ambienti “democratici” e in quelli legati allo Stato Vaticano, il possessore del più grande patrimonio immobiliare storico del mondo. Dal momento che l’Italiano e l’Italiana disertano sempre più palesemente le chiese, è chiaro che chi le possiede debba trovare nuovi fedeli per potersi mantenere.

In taluni ambienti della “destra” non si usa, ovviamente, la “parola-spauracchio”, ma vi è comunque un tacito avvallo dell’invasione. In primo luogo perché chi tiene le redini di certi “gruppi” è massone, pertanto prende ordini da ben altre parrocchie. In secondo luogo varie persone, nella realtà dei fatti, sono solo dei qualunquisti, traditori degli ideali di Patria e di Nazione, troppo spesso solo innamorati degli oggetti del passato. Difatti taluni di loro collezionano quello che non avrebbero mai potuto ottenere sul campo di battaglia, perché idioti, infingardi e vigliacchi, ma che purtroppo in pubblico si spacciano per ciò che non sono.

Assai indicativamente ecco un paio di manifesti usciti attorno al 1944, che ben denunciano un preciso programma ancora oggi, ma soprattutto oggi, in piena attuazione.

Fatti stampare dallo Stato Repubblicano e in piena guerra, il manifesto domanda: «Vogliamo essere comandati dai negri? // No! Giammai!». Non si tratta di un manifesto denigratorio, perché esso denuncia semplicemente ma chiaramente il ben preciso programma, esemplificato nel secondo manifesto che si propone ad utile riflessione.

Sempre prodotto e affisso nel periodo di guerra è intitolato «La nuova Italia». Vi compaiono foto di rappresentanti d’etnìe asiatiche e africane, provviste delle seguenti didascalie: «il potere supremo», «l’aristocrazia», «il popolo degli elettori» e «le organizzazioni giovanili».

Perché ciò?

Risponde al quesito la frase finale del manifesto: «nella concezione di Bonomi, Togliatti & C.».

D’Ivanoe Bonomi, massone, s’è accennato in Epistemologia della menzogna (Parte terza. La disciplina dell’occultamento), mentre del comunista Palmiro Togliatti s’è parlato in Prigionieri!; entrambi gli articoli sono stati pubblicati da Ereticamente.

      Dal tradimento dei Savoia alla difesa della Patria.

A dispetto di quanti ad oggi cerchino di sminuire l’operato di chi non volle piegare la testa a seguito della prima firma della resa, avvenuta a Cassibile il 3 settembre 1943, la Decima si è battuta in campo aperto accanto all’alleato germanico.

Anche in questo caso vediamo che cosa dicono e testimoniano i fatti.

La Xa Flottiglia M.A.S. oppone le proprie poche ma determinate forze all’avanzata del nemico. Le azioni sono presentate e ricordate alla popolazione civile anche mediante l’affissione di un particolare manifesto (70 x 100 cm).

Esso reca scritto: «NETTUNO // il “barbarigo è in linea„ // il “barbarigo„ a nettuno testimonia il valore della patria risorta».

Il grande foglio si compone di una serie di foto che montate assieme vogliono testimoniare la presenza e l’impegno nella lotta del Battaglione Barbarigo sul fronte di Nettuno nel 1944.

Presenta caratteri bianchi e neri su fondo nero e rosso, con dodici immagini di cui un fante con l’equipaggiamento è in primo piano, due fanno da sfondo (un fante con il basco e un soldato alla mitragliatrice) e nove sono riquadrate. Queste ultime recano le seguenti didascalie, in caratteri bianchi, partendo da sinistra in alto: Il Comandante Borghese tiene a rapporto i suoi ufficiali // Cerimonia religiosa di Battesimo // Postazione di mitragliatrici al fronte // Cameratismo cordiale // Feriti curati al posto di pronto soccorso // Doni di Pasqua agli uomini del Btg. Barbarigo // Un ufficiale del Btg. Barbarigo // Il gagliardetto // Il comandante Borghese s’intrattiene con un comandante germanico.

Altri manifesti semplicemente attestano l’esistenza della Xa Flottiglia M.A.S. e il suo impegno nel difendere il suolo italiano dall’invasore angloamericano. Il testo del seguente manifesto è chiarissimo:

«X / flottiglia / MAS // Nel nome d’Italia. // I volontari dei battaglioni “S. Marco„ hanno ripreso il loro posto di combattimento stretti intorno alla loro bandiera, mai ammainata. Sono questi combattenti la cui fierezza e il cui valore sono tradizioni purissime mai smentite che ci indicano oggi la giusta unica via da seguire: combattere. // Marinai / Arditi / Guastatori / Paracadutisti / e soldati di tutte le armi / il reggimento “S. Marco„ raccoglie sotto l’egida della Xa Flottiglia Mas il fiore dell’arditismo Italiano. Le sue gloriose insegna non conoscono macchia: / Arruolatevi».

Il foglio stampato, di 70 x 100 cm, con caratteri azzurri su fondo originariamente nocciola chiaro, presenta in testa due leoni alati rossi contrapposti e sorreggenti lo stemma della Xa Flottiglia M.A.S.; sul loro basamento vi è la scritta: iterum - rudit – leo -.

Si hanno poi manifesti con disegni e tra i più belli e accattivanti dal punto di vista grafico vi sono quelli firmati da Gino Boccasile, come già accennato nella precedente parte di questo contributo storico. Il più famoso, il MAS solcante il mare e che venne esposto in gigantografia in piazza del Duomo a Milano, reca scritto:

«tra gli arditi del mare / per l’onore, per l’italia // ARRUOLATEVI»

A commento di questo manifesto così ha scritto Roberto Guerri nel suo lavoro dei primi anni Ottanta dal chiaro sapore revisionista e riguardante la propaganda:

«Dopo l’8 settembre 1943, il comandante della X flottiglia Mezzi Antisommergibile della marina militare di stanza tra Lerici e La Spezia annunciò la costituzione di una unità operativa autonoma sia dai tedeschi sia da Salò. Nacque così la Decima M.A.S. che arruolò circa 4.000 effettivi. Nonostante le proclamate ambizioni del comandante Junio Valerio Borghese, la Decima non combatté contro gli anglo-americani se non per breve tempo: l’unico impiego concesso da Kesserling [Kesselring. N.d.A.] ai marò di Borghese fu la guerra antipartigiana, condotta con spietata ferocia e crudeltà. Nell’aprile del 1945 la Decima M.A.S. “pronta a tutti gli ardimenti” si arrese, con alla testa il suo comandante, senza sparare un colpo» (Roberto Guerri, Manifesti italiani nella Seconda Guerra Mondiale, Rusconi Libri, Milano 1982, p. 100).

Quello che Guerri ha scritto è una sorta di “propaganda” in negativo, con chiaro intento revisionista. Ovvero costui ha propalato per mera ignoranza dei fatti, oppure per “partito preso”, una certa visione distorta e tendenziosa degli accadimenti storici. D’altra parte, di questi antistorici e quindi revisionisti “esempi denigratori”, in Italia se ne sono visti parecchi e non nel solo dopoguerra, ma praticamente fino ai giorni nostri.

Nei fatti concreti la Xa Flottiglia M.A.S. è andata a costituire un piccolo esercito autonomo, perché è questo che riuscì ad essere, di gran lunga superiore alle quattromila unità dichiarate da Guerri. Era alle dirette dipendenze del Comando germanico, ma doveva comunque rendere conto e cooperare con l’Esercito Repubblicano. Oltre al fronte di Anzio-Nettuno s’impegnò per tutta la durata della guerra in altri settori italiani, chiaramente considerando Italia anche le terre oggi in mani slave. L’ultimo impegno di rilievo contro gli angloamericani è stato sul fronte del Senio.

Oggi sul web “girano” alcune immagini di manifesti della Decima, che probabilmente sono stati dei prototipi. Uno di questi, con la scritta in caratteri bianchi e neri, raffigura un redivivo ufficiale romano con teschio e rosa “lunga” in bocca che impugna il gladio. Alle sue spalle si scorgono Marò italiani con elmetto e sulla cui divisa le mostrine della Xa M.A.S. sono perfettamente riconoscibili.

«LA Xa TI CHIAMA! // marina da guerra repubblicana». Questo è quanto recita un altro probabile prototipo in cui è raffigurato un soldato che per metà rappresenta un centurione d’epoca imperiale, con lorica segmentata, che regge l’insegna della x legio, con aquila. L’altra metà rappresenta un Marò della Xa M.A.S. in assetto da combattimento; alle sue spalle vi è l’insegna con l’aquila della Repubblica Sociale Italiana a cui è fissato il noto gagliardetto della Xa Flottiglia M.A.S.

Un altro probabile prototipo reca in testa la scritta a caratteri neri «Xa FLOTTIGLIA MAS» e in basso «marina da guerra repubblicana». Mostra un leone alato, richiamante quello di San Marco, che regge i lacerti del libro su cui è stata sovraincisa la frase: «per l’onore dell’italia». Con la zampa anteriore sinistra ghermisce un fante dell’Armata Rossa, calzante il berretto fregiato di stella rossa con falce e martello, armato con quello che parrebbe essere un moschetto automatico PPSh 1941.

Gino Boccasile ha disegnato un particolare e suggestivo manifesto, anch’esso probabilmente rimasto alla fase di “prototipo”. Due teste di alpini, uno con il cappello e l’altro con l’elmetto, emergono tra gli spruzzi di neve, o meglio resistono scultorei nella tormenta. I caratteri bianchi recitano: «Xa flottiglia MAS // VALANGA». All’angolo inferiore sinistro c’è la firma in nero: Boccasile.

    Contro gli attentati dei “parteggianti”.

Alcuni manifesti denunciano gli attentati terroristici e gli assassinii condotti dai così detti “partigiani”, tranquillamente indicabili come “parteggianti”. (1)

Ad esempio, un manifesto di 50x70 cm è di particolare interesse perché parla di ex prigionieri russi nelle file dei “parteggianti”.

Una nota per tutte: «Tra i partigiani è invece quasi certo che combatterono almeno 5.000 ex prigionieri sovietici, cioè ex militari dell’esercito sovietico liberati dai campi di prigionia italiani» (Adriana Cantamutto, Nico Sgarlato, La guerra in Italia. Da Roma al 25 aprile, Delta Editrice, Parma 2010, p. 132).

Ciò che deve innanzitutto fare riflettere studiando la Storia è un dato di fatto troppo spesso ignorato: tra i “partigiani-parteggianti” combatterono con funzioni dirigenziali numerosi stranieri, tra cui figurano taluni francesi. Sarebbe utile condurre indagini, ad esempio, sul cambio della guardia avvenuto nelle dirigenze parteggianti delle terre bresciane: chi sono stati quegli stranieri che d’autorità andarono a sostituire gli “italiani” nella direzione degli attentati, delle “epurazioni” e delle varie piccole stragi passate forzatamente nel dimenticatoio?

Ecco il testo di un manifesto il cui messaggio è chiaro e inequivocabile, anche per noi oggi:

«Xa FLOTTIGLIA M.A.S. / SAN MARCO // Cittadini, / Due Ufficiali del San Marco sono stati barbaramente trucidati alla Stazione ferroviaria di Valmozzola da una banda di cosidetti “Partigiani„ perché rei di indossare la gloriosa divisa della Marina Italiana. / La pronta reazione della X. Flottmas, ha portato alla morte di 11 banditi caduti in combattimento ed alla cattura di altri 9 dei quali 8 iermattina in Valmozzola sono stati fucilati. / Eccovi i nomi: / parenti gino fu Amedeo - da Spezia cl. 1923 // trogu angelo di Salvatore - da S. Terenzo cl. 1924 // gerini nino fu Ugo - da Lerici cl. 1926 // cheirasco ubaldo di Augusto - da Spezia cl. 1922 // mosti domenico di Oreste da Spezia cl. 1924 // tendola giuseppe fu Isidoro - da Sarzana cl. 1922 // oltre due sudditi russi ex prigionieri // Uno è stato graziato, galeazzi mario, fu Battista da Comano perché in base alle testimonianze dei compagni in punto di morte è stato riconosciuto coercito all’arruolamento nella banda. / La Xa non lascia invendicati i suoi caduti. / Per mare e per terra, nella rada di Anzio e sul fronte di Nettuno i nostri mezzi d’assalto e il Battaglione “Barbarigo„ stanno combattendo contro l’odiato nemico anglo-americano. / Noi non vogliamo lo spargimento di sangue Italiano, nostra unica meta, nostro unico scopo sono di batterci per l’onore, per la vittoria. / Siamo decisi a difenderci e a punire chiunque tenti di turbarci nel nostro compito // la xa non si tocca // Posta da Campo 781 - 18 marzo 1944-XXII // il comandante di fregata / J. Valerio Borghese».

Sugli ex-militari sovietici dell’Armata Rossa, poi ex-detenuti dei campi di prigionia in Italia, poco si dice a ancor meno si scrive. Scappati dall’internamento a seguito dell’8 settembre, si diedero alla macchia e costituirono unità “partigiane” in cui affluirono anche italiani. A guerra finita calò su di loro la damnatio memoriae, perpetuata fino ad oggi dai “presunti parteggianti”. Uno di coloro che ha condotto tali unità è stato Nicola Pankov, fatto uccidere dal commissario parteggiante comunista italiano Leonardo Speziale, detto “lo zolfataro”: «Nella vicenda Pankov, il Pci bresciano è messo sotto pressione dal centro del partito e dalla Delegazione “Garibaldi”» (Mirco Dondi, La Resistenza tra unità e conflitto: vicende parallele tra dimensione nazionale e realtà piacentina, Bruno Mondadori Editore, Milano 2004, p. 119).

Ma questi non erano i soli parteggianti stranieri e significativa è anche la vicenda di James Danskin Veitch detto “Giacomino l’inglese” che ha combattuto in Valtrompia.

      Attentatori & terroristi.

Detto questo, Sergio Nesi così ricorda l’insorgere delle attività parteggianti: «I comunisti furono i primi ad organizzare i G.A.P. (Gruppi Azione Partigiana), squadre organizzate sul modello del “mordi e fuggi” per colpi di mano con mitra e bombe. Il 13 dicembre [1943. N.d.A.] si ebbe così il primo attentato a Sarzana. Altri gruppi, composti in maggioranza da ex prigionieri o inglesi o slavi (tra i quali i russi) fuggiti da campi di concentramento si assemblarono sugli Appennini tra La Spezia e Parma e tra La Spezia e Genova e Massa Carrara. Sulle alture attorno alla città e alle caserme della Decima si vennero a creare nuclei di resistenza, come ad Arcola e Sant’Anna, ma da essi non fu mai portato un attacco diretto né al Muggiano, né a san Bartolomeo, né al Varignano. Un rischio troppo forte. Erano preferibili altri metodi, utili specialmente per terrorizzare la popolazione: il 23 gennaio 1944 fu inaugurata dalla resistenza la stagione degli attentati. In quel giorno il partigiano gappista Ottorino Schiassolani attaccò eroicamente un tram in città, lanciandovi contro due bombe anticarro da un chilo ciascuna, uccidendo tre marò della Decima, due donne e un bambino e ferendo tutti gli altri passeggeri. Dal Tribunale della attuale Repubblica Italiana il partigiano fu assolto, perché quel massacro fu considerato “atto di guerra”» (Sergio Nesi, Junio Valerio Borghese un Principe un Comandante un Italiano, Editrice Lo Scarabeo, Bologna 2004. p. 291). (2)

Mario Spataro ha scritto a memoria odierna e futura: «Scandalo e ira ha suscitato negli ambienti resistenziali il fatto che da più parti (Marco Pannella, Vittorio Feltri e altri) si siano definiti “terroristi” i gappisti comunisti. Che si tratti invece di una corretta definizione è dimostrato, fra l’altro, dalla motivazione della medaglia di bronzo concessa il 13 marzo 1950 dal presidente del consiglio Alcide De Gasperi al gappista Franco Calamandrei: “Calamandrei Franco… Attaccava con bombe a mano la sede del comando germanico in Roma alloggiato all’albergo Flora. Con azione terroristica, che ebbe larga eco, deprimeva lo spirito nemico… Roma, via Veneto, 19 marzo 1943”» (Mario Spataro, Rappresaglia. Via Rasella e le Ardeatine alla luce del caso Priebke, Edizioni Settimo Sigillo, Europa Libreria Editrice, Roma 1996, p. 223).

Per quanto riguarda l’attentato di Via Rasella commesso a Roma il 23 marzo 1944: «Come reagì, nel suo animo, la popolazione romana? Il disgusto per l’attentato fu unanime. Altrettanto unanime era l’opinione che se i terroristi si fossero presentati la rappresaglia non ci sarebbe stata» (Ibidem, p. 81). (3)

    La difesa del suolo patrio.

Sul medesimo tema del banditismo un altro manifesto, dai caratteri neri su fondo nocciola chiaro (50 x 70 cm), recita:

«Marina da Guerra Naz. Repubblicana / DIVISIONE Xa / comando battaglione “fulmine„ // alle popolazioni di carre’ / chiuppano e caltrano // Il delitto recentemente compiuto in persona del Sergente tommasi Carlo di questo Battaglione è stato pagato con la vita di 5 elementi appartenenti a bande ribelli. Dimostri ciò che la Decima non tollera offese ai propri componenti e quando esse si verificano le ritorce in modo definitivo ed esemplare. / Non da noi, venuti in queste contrade con compiti di addestramento, è partita l’iniziativa per lo spargimento di sangue fraterno. Sono i soliti elementi camuffati da italiani che operano alle spalle di coloro che, a rischio della vita, hanno preferito continuare ad impugnare le armi per la difesa della Patria comune e che continuano a colpire, insidiando fra l’altro la tranquillità di inermi popolazioni. Voi sapete tutti che la Decima non ha dato alcuna molestia alle popolazioni civili con le quali ha stabilito rapporti cordiali come si conviene a truppe italiane che in Patria operano per la difesa di Essa. / È unicamente per cercare di ottenere che si ponga la parola fine agli atti di violenza che disonorano ed umiliano la Patria nostra e che pongono a repentaglio la vita di molti innocenti, che questo Battaglione è stato costretto, come misura precauzionale, a prelevare un certo numero di ostaggi che risponderanno con la propria vita della incolumità di ogni militare in queste contrade. /Ad essi non sarà fatto alcun male se nessun atto di sabotaggio, attentato alla vita o delitti in genere saranno compiuti nella zona a carico di uomini e cose appartenenti alla Divisione X. / È dovere preciso di ogni cittadino prevenire i delitti, contribuendo a smascherare e consegnare alla giustizia punitiva i delinquenti che, operando al soldo di coloro che dall’aria distruggono i vostri focolari ed uccidono indiscrinatamente [indiscriminatamente. N.d.A.] donne e bambini, si macchiano di delitti ben superiori perché provenienti da mano appartenente a individui nati in territorio italiano. // il comandante del battaglione / tenente di vascello f. m. / (orru giuseppe)»

Per concludere questa seconda parte del lavoro dedicato alla Propaganda della Xa Flottiglia M.A.S. si riportano le parole di Luigi del Bono:

«“Perché non ti arruoli?”. Una frazione di secondo. La guerra è perduta. L’onore della Marina italiana deve essere difeso. I miei dubbi, i miei scrupoli, la mia depressione spirituale spariscono. Mi sento sollevato, lo spirito libero come se avessi risolto un pesante problema. Firmo la mia adesione alla X Flottiglia Mas della Repubblica Sociale Italiana. Siamo circa trecento. Vado alle armi quando tutti se ne tornano a casa» (Luigi Del Bono, I giorni del furore. X Flottiglia M.A.S. 1943-45, Editrice Liguria, Savona 1986, p. 18).

      Note  
  1. «(…) male si difende la libertà di un popolo diviso e parteggiante» (Carlo Botta, Storia d’Italia, Tomo Ottavo, Parigi 1832, p. 161).
 
  1. È utile ricordare, ad esempio, quanto definiscono i sotto riportati ed evidenziati articoli n. 25, 27, 28 e 29 della Legge di Guerra del 1938:

«Supplemento ordinario alla “Gazzetta Ufficiale„ n. 211 del 15 settembre 1938-XVI. Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, parte prima, Direzione e redazione presso il Ministero di Grazia e Giustizia. Regio Decreto 8 luglio 1938-XVI, n. 1415. Approvazione dei testi della legge di guerra e della legge di neutralità. allegato a, LEGGE DI GUERRA. titolo ii. Delle operazioni belliche. capo i. Dei belligeranti. Sezione 1a. Dei legittimi belligeranti.

Art. 25. (Legittimi belligeranti).

Sono legittimi belligeranti coloro che appartengono alle forze armate di uno Stato, ivi comprese le milizie e i corpi volontari, che le costituiscono o ne fanno parte. Sono legittimi belligeranti anche gli appartenenti a milizie o corpi volontari diversi da quelli indicati nel comma precedente, purchè operino a favore di uno dei belligeranti, siano sottoposti a un capo per essi responsabile, indossino una uniforme, o siano muniti di un distintivo fisso comune a tutti e riconoscibile a distanza, portino apertamente le armi, e si attengano alle leggi e agli usi della guerra.

Art. 27. (Popolazione dei territori non occupati: leva in massa).

La popolazione di un territorio non occupato che, allo avvicinarsi del nemico, prende spontaneamente le armi per combattere le forze d’invasione, senza aver avuto il tempo di organizzarsi nel modo indicato nell’articolo 25, è considerata come legittimo belligerante, purchè porti apertamente le armi e rispetti le leggi e gli usi della guerra.

Art. 28. (Protezione dei privati).

In quanto la legge non disponga diversamente, i privati che non compiano atti di ostilità, ancorchè si trovino al seguito delle forze armate, delle milizie o dei corpi indicati nell’articolo 25, devono essere protetti per quanto concerne la sicurezza della persona, l’inviolabilità, della proprietà e il godimento e l’esercizio di ogni altro loro diritto.

Art. 29. (Illegittimi belligeranti).

Le persone non considerate legittimi belligeranti a norma degli articoli 25 e 27, che compiono atti di ostilità, sono puniti a termini della legge penale di guerra» (Supplemento ordinario alla “Gazzetta Ufficiale„ n. 211 del 15 settembre 1938-XVI, Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, parte prima, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1938, p. 5).

 
  1. Sul più che controverso “diritto di rappresaglia” vedere utilmente quanto riportato nel sito della Difesa: http://www.difesa.it/Giustizia_Militare/rassegna/Processi/Pagine/Mackensen_Maelzer.aspx
Nel corso della II Guerra Mondiale il “diritto di rappresaglia” è stato applicato da tutti gli eserciti in armi.
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