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I nemici mortali dell’Europa – Enrico Marino

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La fine dell’anno passato ha coinciso col termine della legislatura.

Una legislatura che era nata sull’onda dell’emergenza e della precarietà, ma che è stata ribaldamente tenuta in vita da una congrega di satrapi insediati nelle Istituzioni del Paese, mediante una continua successione di governi senza alcuna consultazione popolare, collezionando un’innumerevole serie di primati negativi e di realizzazioni sciagurate.

In queste condizioni di stallo politico e di ambiguità costituzionale, s’è tentato cinicamente di apportare profonde modifiche persino alla Carta istitutiva e fondamentale della Repubblica.

Ma basta fare riferimento al cosiddetto Jobs Act per richiamare alla mente tutti i guasti introdotti nella disciplina dei rapporti di lavoro, la precarizzazione degli impieghi, la cancellazione delle tutele e l’arretramento dei diritti che hanno penalizzato i lavoratori nei loro rapporti con le controparti datoriali e nelle loro condizioni di vita.

Basta ricordare la Buona Scuola per rammentare lo scempio dell’istruzione pubblica, la fatiscenza delle sue strutture, l’introduzione degli insegnamenti sul gender e il ripugnante tentativo di pervertire l’innocenza di migliaia di fanciulli.

Basta richiamare la legge Fiano per rivivere lo sporco tentativo operato dai censori democratici di criminalizzare un’intera area politica e di introdurre, accanto a ridicoli divieti, pesantissime sanzioni per colpire ogni espressione di dissenso e di ribellione.

Basta nominare lo Ius soli per ricordare l’accanimento ferino con cui fino all’ultimo giorno le sinistre hanno portato avanti il loro criminale progetto di infettare e stravolgere la nostra identità.

Un tentativo maligno e ostinato che è fallito solo per l'assenza dei numeri legali nell'aula del Senato. Perciò, questa cancrena ideologica è stata solo momentaneamente arrestata ma non definitivamente eliminata. Anzi, su questo terreno, la minaccia è tuttora gravissima e incombente, vista la volontà assoluta con cui il fronte globalista è pronto a sfruttare ogni pretesto per scatenare la propria rabbiosa propaganda immigrazionista.

La canea suscitata dalle dichiarazioni del candidato leghista alla guida della Regione Lombardia ha fornito la misura dell’isteria e della preclusione ideologica che i mondialisti manifestano ogni volta che si affrontano i temi della razza, dell’identità e delle differenze. L’imposizione del pensiero unico stravolge ogni evidenza, l’intimazione ideologica non ammette confronto né contraddittorio. Non devono esistere razze, né colori, né attitudini fisiche o psicologiche differenti. Dobbiamo essere tutti uguali, intercambiabili e omogenei. Per questo non devono esserci confini tra i popoli, per questo la sostituzione etnica è un obiettivo perseguibile e, per questo, la cittadinanza, costituita da un pezzo di carta, deve prevalere sulla natura e la stirpe di un essere umano.

Evidentemente tutto questo è falso, antiumano, invertito e volutamente elaborato per deformare tutto ciò che è naturale, acquisito, palese e tradizionale.

Evidentemente, è esattamente su queste tematiche che occorre, invece, ancorare un’opposizione irriducibile ai progetti multietnici mascherati col buonismo, l’accoglienza e anche con gli impudenti sermoni ossessivamente riproposti dal prete neomarxista insediato nel Vaticano.

L’ipocrisia dei mondialisti difronte al problema immigratorio si manifesta anche nell’atteggiamento schizofrenico adottato nel gestire gli sbarchi dei clandestini.

Pressato da un’opinione pubblica sempre più allarmata e insofferente, il sistema è corso ai ripari imbastendo una frettolosa operazione di manipolazione e falsificazione propagandistica: sono state momentaneamente normalizzate le operazioni illegali delle ONG che agivano indisturbate nell’importazione di africani; sono stati stretti accordi con le fazioni libiche per operare una stretta sulle partenze da quelle coste; sono state fornite motovedette ai libici per fermare nelle acque territoriali i gommoni. A fronte di queste iniziative, sarebbe stato logico immaginare una collaborazione tra le nostre unità navali (ed europee) con quelle libiche nel blocco e nel respingimento dei barconi pieni di irregolari. Invece, gli sbarchi sulle nostre coste sono ripresi a pieno ritmo e, cosa ancora più surreale, le nostre navi si prodigano nel “salvare” e trasportare in Italia i clandestini che sfuggono al controllo dei libici. Con ciò, l’inadeguatezza e, soprattutto, l’inconciliabilità ideologico politica dei democratici con una strategia di salvaguardia del continente europeo dalla mescolanza sono assodate. Per questo, va recuperato sul fronte identitario il senso chiave di un categorico rifiuto dell’immigrazione e, ancora di più, dell’introduzione dello Ius soli.

Dato per acquisito che già oggi, con l'ordinamento attuale, nel 2016 abbiamo naturalizzato ben 202.000 nuovi italiani e che le cifre del 2017, seppure non ancora note, visto l'andamento in crescita anno dopo anno, dovrebbero essere maggiori, il punto focale della buona battaglia dev’essere centrato sul recupero e la valorizzazione degli elementi di ereditarietà che rappresentano il valore e il senso di una concezione identitaria e razziale di un popolo e il fondamento della comunità di destino che esso può ambire a esprimere e perseguire.

Venendo meno questa unitarietà, cedendo alla contaminazione dell’individualismo liberale e alle ibridazioni del meticciato, ogni battaglia sarebbe di retroguardia e priva di una salda base valoriale. Allora la nazionalità diverrebbe solo una questione di “cittadinanza” e di timbri su dei fogli di carta, di lingua, di economia, di preferenze nazionali. Questo indirizzo così angusto, inserito nelle dinamiche storiche di denatalità e di sommovimenti demografici, perderebbe di senso e di prospettiva. Essere italiani non significherebbe niente altro che ritrovarsi per caso sullo stesso fazzoletto di terra a contendersene gli scarsi benefici. Venuti meno l’orgoglio razziale e il senso di appartenenza e accantonato il concetto di comunità, la lotta all'immigrazione diventa un semplice fattore di proprietà e di reddito. Per cui, se i limiti sono puramente materiali e monetizzabili, qualora l’economia lo consentisse, potremmo ancor più tranquillamente riempirci di immigrati e mescolarci, andando a incrementare quel turpe melting pot che costituisce il modello di riferimento del radicalismo globale.

Invece, è questo modello che dev’essere contrastato senza tregua, ma è evidente che la reazione al globalismo disumanizzante, per essere efficace, dovrà essere italiana ed europea, prendere forma e saldarsi in una rete continentale. Per questo le forze identitarie europee dovranno sviluppare una risposta radicale al progetto mondialista di ibridazione dei popoli e di sostituzione etnica, coniugando orgogliosamente le fondamenta razziali della comune appartenenza con una politica economica con direttrice eurafricana, che consenta lo sviluppo di quelle genti, differenti da noi, nella realtà dei loro territori, creando le basi per invertire la direzione dei flussi migratori. Una risposta radicale dettata dalla ferrea volontà di opporsi, con fanatica determinazione, al contagio globalista e alla peste del meticciato, cioè ai nemici mortali dei popoli europei.

Enrico Marino


666: il numero della Vita e Soratè il demone solare – Il Poliscriba

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ס ו ר ת Tav resc vav sameh T Ra O S = SORAT

Sorat è il demone solare. Secondo la Qabbalah, è l'espressione in parole del numero 666.

Tutta la vicenda della Creazione descritta nei vari miti e riportata dopo millenaria tradizione orale in Scritti Sacri, si può facilmente ricondurre, se non ridurre, alla dicotomia luce-tenebre. La successione temporale – ma il discorso del tempo, come sappiamo/intuiamo, non ha riferimento se non spaziale, ovvero la sua dimensione ricade ancora in una misura o percezione di movimento all’interno di uno spazio apparentemente vuoto, tridimensionale ma integralmente costituito da un fluido attivo conosciuto, accettato o rifiutato come Etere – è deducibile dalla trasmutazione materia-luce e luce-materia.

In fisica questa trasmutazione viene per lo più definita, DECADIMENTO. Senza entrare nei dettagli algebrici, è interessante come questo concetto di CADUTA, evidentemente eredità semantica e culturale del mito della lotta tra bene e male, trovi espressione costante nei fondamenti della scienza razionalista, materialista e atea. Quando l’uomo per mezzo della sua ragione ha scoperto l’incredibile energia atomica, ha liberato sicuramente il demone solare, il SORAT di cui parla la Qabbalah, il daimon Lucifer intrappolato nella materia oscura. È interessante ricordare che questo concetto di oscurità luminosa, è un ossimoro che trova risvolti nell’indagine astrofisica, in quella branca della cosmologia che studia appunto la COSMOGENESI (anche sul piano semantico restano afflati metafisici dei quali è improntata tutta la scienza). Oggi, per indicare ciò che non si vede nell’universo con gli strumenti conoscitivi a nostra disposizione, cioè quegli apparati tecnici sensibili a tutte le frequenze elettromagnetiche, lo si mette sotto l’ombrello di materia o energia oscura che, fondamentalmente, non assorbe e non emette luce e quindi non è un’osservabile, ma un campo conoscitivo per ora relegato a ipotesi, congetture, intuizioni non corroborate da supporti sperimentali.

Ma la materia oscura è in primo luogo l’ATOMO. L’impossibilità di immobilizzare un atomo o i suoi costituenti fondamentali per poterli osservare nella loro essenza, fa parte di quelle tenebre conoscitive che siamo obbligati ad esplorare con sonde astratte,i numeri e i simboli matematici, interpretando, indirettamente, i segni grafici che provengono dalle complesse elaborazioni informatiche integrate nei collisori di particelle. Il ritorno all’astrazione pura, quindi alla simbologia che rimanda a ciò che è INVISIBILE, è lo strumento più potente che l’uomo abbia mai partorito dalla sua mente per poter liberare il SORAT.(Atena sorta della testa di Zeus) Ciò che è materia, ha una sua controparte nel complesso di equazioni immateriali (se si prescinde dai supporti sulle quali vengono espresse; computer, carta, media) e queste equazioni non decadono nell’eterna dicotomia materia-luce, si elevano platonicamente e pitagoricamente sull’orizzonte degli eventi umani e sovraumani.

Ecco che si giunge a quel numero, 666, di cui tanto si è abusato nella storia esoterica dell’umanità. Le sue interpretazioni hanno sempre evidenziato una relazione autoritaria in senso unidirezionale tra Demiurgo e creatura (Marcione), tra divino e bestiale in attesa di un riscatto superomista (Nietzsche), trasfondendo paure pre-prometeiche, post-adamitiche laddove si doveva ravvisare una liberazione e non una coercizione.(La tentazione di essere Dio; il furto del fuoco agli Dei; il nutrirsi del Pomo d’Oro simbolo del disco solare; la cacciata dall’Eden)

In questa impasse ci soccorre nuovamente la materia bruta, il suo essere livida e inaccessibile, animale, plasmabile come creta, ma piena di stelle come il monolito immaginato da Arthur C.Clarke. E dall’incandescenza sideralenasce la storia della Tavola Periodica degli Elementi oggetto di indagine affascinante che fu alchemica e poi chimica, tanto da spingere Primo Levi a farne una fiaba, un’espressione poetica di profonde conoscenze, espediente da sempre usato per celare ciò che dovrebbeessere custodito soltanto da coloro che aspirano alla sapienza, all’amore e alla protezione della vita. Modo letterario che Giuseppe Sermonti, il genetista antievoluzionista,ha rivisitato attraverso la fiaba, riconoscendone uno status di maturità linguistica e simbolica –e non certo infantile come vogliono farci credere gli antropologi – una semiotica più positiva del positivismo, nel manifestare ciò che si nasconde agli occhi ciechi di chi fa della scienza un mero esercizio politicizzato di demitizzazione della storia dell’umanità.

Oggi si assiste ad una democratizzazione sempre più vasta del sapere, ad una sua reiterata esposizione che ne ha tolto ogni residuo metafisico, filosofico e in futuro anche ontologico ed epistemologico, rendendolo fruibile, accessibile, ma non venerabile. La desacralizzazione della sapienza ci impedisce di provare un vero stupore, ci rende turisti da CERN e non ci invoglia a sentire la conoscenza come parte integrante del sé che si apre all’Essere Cosmico, ormai percepito come un nulla potenza di tutto, al quale il tutto invariabilmente ritornerà. Eppure, in quella Tavola Periodica degli Elementi, la Bestia, l’Adamo è ben evidente e il suo marchio sulla fronte è lì ad attestarne la veracità mitologica, l’apocalisse intesa come RIVELAZIONE. E in quei numeri freddi, precisamente calcolati, esiste il demone solare, il Dioniso bruciato dalla sua stessa bramosia di ebbrezza; si palesa la caduta nel cuore della vita dell’Angelo della Luce, una vita che si manifesta perché il numero non poteva essere che una monade ripetitiva di legami potenzialmente infiniti, una reiterazione ossessiva del proprio essere, un rispecchiarsi narcisistico in catene variabili e innumerevoli, come potenzialmente infinite potrebbero essere le forme di vita nell’universo.

Un numero che dalle stelle più brillanti e massive è precipitato negli inferi del cuore dei pianeti e delle loro lune, nella polvere intergalattica, nel centro delle comete ghiacciate, ovunque i nostri spettrografi indaghino nel profondo del corpo universale. Un caso numerico che ispirò Fred Hoyle, lo scopritore di quello Stato di Hoyle che impone una riflessione, non solo scientifica, su come il carbonio venga prodotto nella nucleosintesi stellare e che, secondo lo scienziato, doveva essere interpretato alla luce di un Principio Antropico che si può riassumere così: se la vita è giunta ad osservare il cosmo e trarne conclusioni sulla sua stessa esistenza, significa che l’universo è calibrato in maniera tale che la vita si manifesti inevitabilmente in una forma organica complessa basata sul carbonio. Infatti, per l’emergere della vita occorrono proprio:6 protoni, 6 neutroni, 6 elettroni.

“Così è la vita”, benché raramente essa venga così descritta: un inserirsi, un derivare a suo vantaggio, un parassitare il cammino in giù dell’energia dalla sua nobile forma solare a quella degradata di calore a bassa temperatura. Su questo cammino all’ingiù, che conduce all’equilibrio e cioè alla morte, la vita disegna un’ansa e ci si annida (Carbonio, dal Sistema Periodico di Primo Levi).

Il Poliscriba

In memoria di Pietro Golia

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l 1° febbraio 2018 ricorre il primo anniversario della morte di Pietro Golia. Per ricordarlo ci sarà una messa di suffragio, alle ore 18, nella Chiesa di San Ferdinando a Napoli. Due giorni dopo, sabato 3 febbraio, abbiamo organizzato inoltre un evento in sua memoria: la presentazione dell'ultimo libro a cui si è dedicato Pietro per la sua casa editrice, un testo sul quale credeva molto e che abbiamo pubblicato di recente: si tratta del volume di Dominique Venner, "Il Secolo del 1914", tradotto direttamente dal francese. Nel corso dell'incontro, che avrà luogo presso l'Hotel Napolit'Amo in via Toledo a Napoli, ci saranno anche alcune testimonianze sulla straordinaria attività di Pietro Golia in ambito culturale e non solo...

Edizioni CONTROCORRENTE

       

Il Ministero della Solitudine – Roberto Pecchioli

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Il governo britannico ha istituito il ministero della solitudine. L’ orgoglioso impero che fu della regina Vittoria e della Compagnia delle Indie alza bandiera bianca. Fu proprio la vecchia Inghilterra la prima patria dell’individualismo, da Locke a Hume passando per l’utilitarismo di Bentham e l’economia degli scozzesi, Smith e Mandeville. Prima di loro, Thomas Hobbes teorizzò che homo homini lupus, dunque va tenuto a freno con le spicce da governi ferrei. Theresa May, primo ministro britannico, forse per sensibilità femminile, ha colto qualcosa di profondo: il tempo presente, in Occidente, è quello della disgregazione, della depressione, della solitudine.

Crediamo che la decisione sia la più clamorosa ammissione di sconfitta fatta da un sistema politico, economico e sociale. La solitudine, nel Regno Unito, coglie almeno dieci milioni di sudditi, un sesto della popolazione ed è certamente una delle cause principali dell’alcolismo, delle dipendenze, della depressione, dei suicidi. Sembra più diffusa tra le classi medie che tra i poverissimi, ma non è altro che l’esito naturale di un modo di vivere – l’individualismo, l’inseguimento di carriera, successo, denaro – che inevitabilmente allontana dagli altri. Se per Aristotele, l’uomo era un animale sociale, o politico, la cui realizzazione avveniva nella concretezza della polis, per l’occidentale postmoderno vale la drammatica convinzione di Max Stirner: l’Unico. Secondo il pensatore tedesco della sinistra hegeliana il solo modo di salvare l’uomo da ogni forma di schiavitù politica, culturale o religiosa consiste nell’esaltarlo come valore assoluto. Il singolo diventa l’Unico, il cui compito è appropriarsi di una sola, autentica proprietà, se stesso.

Potremmo ricordare come il protestantesimo del nord Europa e della Gran Bretagna, nella forma dell’anglicanesimo radicale dei puritani, pervenga per sentieri diversi ad uguali conclusioni, con l’uomo solo dinanzi al mistero del tutto, impegnato parossisticamente nella vita activa per dimostrare a se stesso di possedere la grazia. La conseguenza, dimenticato ogni riferimento alla trascendenza, è la solitudine successiva allo scatenamento delle passioni umane.

Theresa May, almeno, si è resa conto del problema e vuole fare qualcosa; dubitiamo tuttavia che il neonato ministero possa ribaltare la situazione. Tutt’al più, metterà in campo qualche assistente sociale con l’incarico di suonare il campanello degli inglesi in orario d’ufficio, esclusi il fine settimana e le feste comandate. L’esponente conservatrice è una distinta sessantenne sposata senza figli, una condizione condivisa con la paffuta Angela Merkel, mutti, mammina sterile dei tedeschi. Paolo Gentiloni dei conti Silverj, taciturno capo del governo italiano non sfugge alla triste regola, come il francese Emmanuel Macron, a non contare i figli di primo letto della moglie Brigitte Trogneux, di un quarto di secolo più anziana, tre volte madre e nonna di sette nipoti. Tra i maggiori leader governativi europei, solo lo spagnolo Mariano Rajoy ha due figli. Esiste indubbiamente un collegamento tra la solitudine esistenziale che si è impadronita del nostro spazio e il rifiuto della paternità/maternità e della responsabilità. Poiché Rajoy è galiziano, citiamo un detto della sua terra: todo es empeorable, tutto può peggiorare.

Luciano De Crescenzo, nel suo delizioso Così parlò Bellavista, insegnò che esistono uomini d’amore e uomini di libertà. I secondi sarebbero più inclini alla solitudine individuale, e il professore napoletano indica noi mediterranei come uomini d’amore, maggiormente portati alla comunità. De Crescenzo scriveva negli anni Ottanta e da allora il panorama è peggiorato ovunque, il clima sociale si è deteriorato anche dalle nostre parti. Gabriel Garcìa Marquez chiamò Cent’anni di solitudine la storia del villaggio di Macondo e della famiglia Buendìa, ma si trattava solo dell’isolamento geografico che preservava l’immaginaria comunità dal contatto con il mondo esterno. Un solitario della vita fu il presidente portoghese Salazar. Nella sua ultima intervista, al giornalista che lo accusava di aver tenuto la nazione fuori dalla modernità per decenni, l’anziano economista cattolico rispose: E le pare poco?

Lo scrittore spagnolo Camilo José Cela pubblicò nel 1952 la sua opera più significativa, La colmena, L’alveare, una storia neo realista ambientata in una Madrid post guerra civile povera, difficile, ma umanissima, un alveare in cui, tra mille dolori, sussisteva una certa solidarietà, un filo comune di vita. Oggi nessuno potrebbe scrivere un romanzo simile. L’alveare, i condomini cittadini e le villette suburbane sono i contenitori di tribù ostili, di individui solitari e disadattati, monumenti allo sradicamento che rende soli tra la folla. Tutti si affannano per fare qualcosa, anzi per produrre ciò che è misurabile in denaro. Ivan Illich predicò invano il ritorno alla convivialità, alla lentezza pacata della bicicletta, Serge Latouche ci invita a sgomberare, decolonizzare, il nostro immaginario da un mondo di beni e sensazioni con il cartellino del prezzo.

Fino a trenta, quarant’anni fa, la solitudine era piuttosto rara. Per qualcuno era una scelta, ma in genere le famiglie erano numerose e più generazioni convivevano sotto lo stesso tetto. Qualche volta sfuggire alla “tribù” era una conquista di libertà, ma rimaneva, da qualche parte, un’Itaca dove tornare, un luogo dell’anima dove qualcuno ci avrebbe accolto, qualcuno con la nostra stessa faccia e con ricordi, legami, esperienze comuni.

Il filo forse non è del tutto spezzato, ma si è aggrovigliato come certe matasse di lana. Enrico Montale rese splendidamente tale condizione nella Casa dei Doganieri: “un filo s'addipana. Ne tengo ancora un capo; ma s'allontana la casa e in cima al tetto la banderuola affumicata gira senza pietà. Ne tengo un capo; ma tu resti sola né qui respiri nell'oscurità.”

La solitudine nostra, che nessun ministero può alleviare, è quella delle porte sbarrate, dei nonluoghi dove ci affolliamo per le esigenze della contemporaneità: gli aeroporti tutti uguali, con percorsi prefissati e blocchi di sicurezza, gli unici dove qualcuno ci interpellerà; gli interminabili raccordi delle autostrade e delle tangenziali per raggiungere l’alveare- casa, l’alveare- lavoro e l’alveare-centro commerciale. Masse solitarie in marcia, afflitte dal nomadismo quanto infastidite dalla presenza del prossimo che fa esattamente le stesse cose. Si spiega facilmente il successo di sette e gruppi religiosi che offrono a tanti uomini e donne sradicati e soli un minimo di assistenza, una presenza cui aggrapparsi, una causa cui votarsi. Non è solo un problema degli anziani, malvisti per mille motivi riassumibili in uno: non sono produttivi.

Un numero crescente di giovani sono soli in quanto privi di fratelli con cui crescere, ma anche di genitori, famiglie sfasciate o mai nate, padri e madri troppo impegnati nella realizzazione dei propri obiettivi, spesso semplicemente costretti a tirare la carretta lontani da casa. E’ altrettanto normale che per milioni di ragazzi l’unico rifugio sia il gruppo dei coetanei, le fratrie, e la connessione continua che sostituisce il mondo reale, gli hikikomori, la parola giapponese che indica i solitari inchiodati davanti al computer, prigionieri di una nuova agorafobia. Soli, specie i giovani, anche di fronte al peso delle decisioni da prendere: nessuno ha addestrato alla responsabilità, si naviga a vista, con le istruzioni online per tutto, un immenso GPS esistenziale che sfibra e rende soli davanti alla macchina che decide, la nuova coperta di Linus.

Al supermercato si sta in fila, solitudini di prossimità che non si toccano né raggiungono; siamo diventati come le parallele della geometria, che si incontrano solo all’infinito. Su tutto, un individualismo stizzoso e competitivo, la guerra dei bottoni per un posto a sedere, la divisione delle spese condominiali, e, a salire, la lotta cinica senza esclusione di colpi per quello che definiamo successo. La solitudine dei numeri primi è il fortunato romanzo d’esordio di Paolo Giordano. I due protagonisti sfortunati, Alice e Mattia, hanno, o forse sono, numeri primi gemelli, 2.760.889.966.649 e 2.760.889.966.651. Sembra uguale il destino comune, ognuno è un numero primo. In matematica si definiscono numeri primi quelli che possono essere divisi solo per uno o per se stessi. Numeri solitari, come gli umani contemporanei, con una grande differenza: i numeri si possono moltiplicare, la solitudine si può soltanto dividere con se stessi.

Molti, purtroppo, non sono più in grado di reggere spiritualmente la solitudine, anche momentanea. Ci hanno disabituato all’introspezione, alla riflessione: stare soli diventa una tortura intollerabile. Le personalità narcisiste, tanto numerose, hanno bisogno degli altri esclusivamente per mostrarsi, l’Altro non è che pubblico da cui ci si attende applauso, invidia, approvazione. Ogni nostra stranezza personale non è più bizzarria, ma originalità indiscutibile. Pensare a se stessi non è più egoismo, ma saper vivere, nuotare nel mare del mondo.

Il rimedio è sempre più spesso il ricorso alle cure farmacologiche o alla psicoterapia,la medicalizzazione della vita contro cui si scagliò Illich. Gli esperti curano, eventualmente, gli effetti, non certo le cause. Per molti la discesa progressiva significa alcolismo, droghe, dipendenze di vario genere, l’ansia, lo stress, e innanzitutto la depressione. Sarà qualunquismo da strapaese, ma nelle generazioni passate, specialmente tra i poveri, non si conosceva la depressione. Forse mancava il tempo per deprimersi, nonostante vite più difficili. Giuseppe Berto nel romanzo Il male oscuro analizzò in profondità il male di vivere che si fa depressione. Solitudine e depressione non sono sinonimi, ovviamente, ma esiste un collegamento profondo tra le due situazioni. Sicuramente, l’individualismo è il filo che le unisce.

Le sconfitte della vita, i problemi, le difficoltà, le inadeguatezze vissute come disfatte esistenziali diventano drammi soprattutto per chi è solo. Il vero dramma è che la spinta formidabile del mondo esterno è verso modi di vita, comportamenti, attitudini legati alla solitudine. Se l’unico valore, l’unica proprietà è l’Io (Stirner), il prossimo è un problema, un ostacolo, oppure un concorrente da sconfiggere. Abbiamo inventato persino la teoria dei giochi, ovvero un modello per metà matematico e per metà psicologico atto a programmare le decisioni individuali in situazione di conflitto o in interazione strategica con altri soggetti rivali, finalizzate al massimo guadagno. Il mondo che viviamo, i nostri cent’anni di solitudine, assomigliano ad un curioso equilibrio di Nash, il sistema di strategie della teoria dei giochi in cui nessuno ha più interesse a cambiare. Quando nessuno è più in grado di migliorare il proprio comportamento, per cambiare, occorre agire insieme: dunque collaborare, uscire dalla solitudine imposta, ridare credito agli altri.

E’, giunti a questo punto, un’operazione di enorme difficoltà. Il ministero della solitudine di Sua maestà britannica almeno ha il merito di mettere il dito nella piaga, ma la ferita non può essere cucita dalla burocrazia, e, soprattutto, da un atteggiamento generale che non metta in discussione i fondamenti del nostro vivere. Il piano inclinato ha ormai due secoli, e può essere rappresentato nel paragone con l’arte figurativa. Nel tempo, essa ha cessato di rappresentare l’uomo e la natura, per rifugiarsi nell’astratto, nel surreale, nell’assurdo. Esattamente duecento anni fa, Caspar David Friedrich dipinse il Viandante su un mare di nebbia. Era ancora un uomo ben strutturato, solitario, ma vestito con cura, provvisto di bastone; sembra regnare solitario su una natura nemica, dallo scoglio da cui osserva la nebbia, le vette spigolose dei monti. Al termine del secolo XIX l’arte lanciò il segnale lancinante dell’Urlo di Munch, il grido senza volto di un essere disperato, preda del terrore, anch’egli solitario. Il XX secolo ci ha consegnato un’arte in cui l’uomo è assente, se non in forme anormali, mostruose. Un’umanità sola, turbata, disperata, nemica.

Si deve citare anche la solitudine interiore, l’esilio spirituale di alcuni, coloro che non possono, riescono o vogliono adattarsi al modo corrente di vivere. Una ulteriore classe di perdenti in quanto irriducibili al tipo umano dominante.

Chissà quali saranno le concrete azioni del nuovo ministro britannico della solitudine, speriamo di cuore che possa alleviare la vita quotidiana di qualcuno, ma nulla potrà se a Londra come in tutto l’Occidente non si lavorerà per la sconfitta politica, economica, antropologica dell’individualismo e dell’uomo-massa, i patroni della solitudine.

 ROBERTO PECCHIOLI

Janus deus initiorum – Giuseppe Barbera

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La Tradizione Romana vuole che Giano sia una delle più arcaiche divinità. Alla sua figura sono legate moltissime leggende che ne fanno un protettore speciale di Roma e dei suoi abitanti. Il suo nome è legato alla funzione: custodiva le porte di casa (Ianua) e i passaggi (Iani), portava in mano le chiavi, come un portinaio (ianitor) e le sue due facce sono rivolte verso l’entrata e verso l’uscita. A lui è dedicato il primo mese dell’anno, Ianuarius, e gli si attribuiva un culto speciale in un tempio le cui porte erano sempre aperte in caso di guerra e sempre chiuse in tempo di pace. Si diceva che Giano avesse sposato la ninfa Giuturna e che avesse avuto da lei un figlio, Fons o Fontus, il dio delle sorgenti. (DIZIONARIO DEI MITI – Gabriella D’Anna. ed. Newton.).

Varrone tramanda che Giano è il dio degli initia e Giove il dio dei summa. Infatti l’inizio del mese è sacro al bifronte dio, che guarda avanti e dietro anche nel tempo, mentre il plenilunio, la metà del mese, è sacro a Giove Ottimo e Massimo. La leggenda vuole che Giano avesse un regno nel Lazio con sede sul colle Gianicolo. Qunado Saturno, di fuga dal figlio, giunse in queste terre, Giano gli cedette parte del suo regno, che divenne Saturnia Tellus, poi noto come Latium dal verbo latino latere: nascondere. Il latente Saturno insegnò i misteri dell’agricoltura agli abitanti di questi luoghi e da qui nacque poi il regno romano. Ovidio dice di Giano:

"Giano bifronte, inizio dell’anno che tacito scorre, tu che solo fra gli déi puoi vedere il tuo dorso, sii propizio ai duci per opera dei quali la fertile terra gode di serena pace, e così il mare; sii propizio ai senatori e al popolo di Quirino e dischiudi con un solo tuo cenno gli splendidi templi. Sorge un giorno felice: accoglietelo con animi e discorsi appropriati: in questo giorno lieto si dicano liete cose. all’orecchio non giungano liti, stiano lontane le folli contese, e tu maligna tura rinvia la tua opera. […] Ma quale divinità dirò che tu sei, o Giano bifronte? […] Allora il sacro Giano, mirabile nel duplice aspetto, si offrì d’improvviso al mio sguardo con i suoi due volti. […] E quello, tenendo un bastone nella destra ed una chiave nella sinistra, con la bocca anteriore mi disse queste parole: “Deposto il timore, apprendi, operoso poeta dei giorni, ciò che desideri sapere e tieni a mente quanto dico. Mi chiamavano Caos gli antichi, – ch’io sono antica divinità -; vedi quali remoti eventi io stia celebrando. […] Quanto vedi ovunque, il cielo, il mare, le nubi, le terre, tutto si chiude e s’apre per mia mano. Presso di me è la custodia del vasto universo, il diritto di volgerne i cardini è tutto in mio potere. Quando mi piace trarre dalla quiete del tempio la Pace, ella cammina libera per vie interrotte. Il mondo intero sarebbe lordato dal mortifero sangue se robuste sbarre non tenessero rinchiuse le guerre; insieme con le miti Ore custodisco le porte del cielo, e il fatto che Giove stesso ne esca e rientri è nelle mie mansioni. Perciò sono chiamato Giano; […] Ogni porta di qua e di là ha due facciate: di esse, l’una guarda la gente, l’altra gli déi Lari” […] (Ovidio, Fasti).

A volte Giano è rappresentato con 2 chiavi: una aurea ed una argentea; gli autori latini dicono che una fosse quella delle porte del cielo, l’altra delle porte del regno degli inferi. Altre volte (come nel caso di Ovidio) ad una delle due chiavi è sostituito un bastone. Ogni rito si apriva a Giano e il suo tempio (dice Dumèzil) era contenitore di qualcosa di terribile, come il vaso di Pandora; in qest’ultimo vi erano i mali, nel tempio di Giano pare vi fosse la potenza distruttrice e caotica della guerra. Difatti le porte di questo tempio venivano chiuse solamente in tempo di pace. In effetti Giano è un dio eccelso, è il caos ma anche il principio dell’ordine, perchè il detentore delle chiavi, egli è i quattro elementi mescolati tutt’insieme, il serpente che si morde la coda, l’orrendo bifronte, che però con un volto guarda al passato e coll’altro al futuro, il dio del passaggio da se (il caos) all’ordine. Un caos che contiene in se il principio d’ordine, praticamente ognuno di noi è un Giano, la difficoltà è prenderne coscienza…

Il primo giorno dell’anno, ogni primo del mese e ogni novilunio sono sacri a lui. L’apertura dei riti, dei sacrifici e delle offerte è sotto la sua tutela. Per qualunque azione sacra s’invoca prima Giano, il signore delle porte. Il Gianicolo prende il nome dalla sede del suo regno ed alle pendici del Gianicolo, una volta offuscato il culto degli antichi dei, regnerà Pietro, anch’egli detentore delle chiavi. Il tempo caotico e ordinato sono in lui: con un volto guarda il caos, se stesso, coll’altro l’ordine, manifestazione di se. Il Caos è il Genius Janus, l’ordine è il Numen Janus che si stabilizza poi in Juppiter, il padre delle leggi per il mantenimento dell’ordine….David Ulansey, nel suo libro “I misteri di Mitra” ed. Mediterranee paragona Aion Zevian alla Gorgone che sconfigge Perseo. La Gorgone rappresenta forze istintive che possono considerarsi anche cosmiche e difatti in alcune iconografie è rappresentata al centro dello zodiaco.

Aion viene sconfitto da Mitra che assume i suoi poteri e diviene così divinità cosmica. Mettendo a confronto Aion Zevian e Giano possiamo notare che: Aion Zevian ha le ali e dunque è una divinità del cielo, ha la chiave per far ascendere e scendere le anime e ha un aspetto mostruoso, per ricalcare la sua origine arcaica (teogonicamente parlando). Dunque l’idea di una divinità arcaica che gestisce le forze cosmiche è fortemente presente nelle tradizioni indoeuropee. I caratteri di Aion sono un pò differenti da quelli di Giano se, come dice Ulansey, rappresentano anche delle forze da combattere. Giano in realtà combatte da se il caos in lui portando l’ordine attraverso l’attimo del passaggio. Se si ritiene errato l’accostamanto di Aion Zevian alla Gorgone allora lo si può avvicinare a Giano, ma non abbiamo elementi che ci permettano di caratterizzarlo come dio degli initia: potremmo parlare altrimenti di una tradizione comune anche in questo senso. Giano è un ordinatore anteriore a tutto ciò: egli è il Caos col principio dell’ordine in se, Mitra in confronto è solo ordinatore.

Carandini in “L’origine di Roma, Dei Lari e Uomini all’alba di una civiltà” mostra che Opi (Ops in latino) è la paredra di Saturno nella religione romana e latina arcaica. In qualunque caso tutte le divinità femminili rappresentano una manifestazione specifica del ricettivo/passivo, difatti Saturno è dio della terra e dell’agricoltura (oltre che di tutte le altre cose attribuitegli) e Ops la dea della dispensa, ovvero colei che passivamente conserva ciò che attivamente ha creato Saturno colla sua operatività agricola. Importanti le divinità con tre volti, tra cui Ecate e Giano. Difatti Giano oltre ad essere bifronte è ricordato, da alcuni autori antichi, trifronte ed il suo vero volto è occultato tra i due visibili e si manifesta soltanto a pochi. Vi è una spiegazione misterica a ciò ed ha a che fare coi “passaggi”… colla visione del “mondo occulto”. E’ importante quel volto perchè sta nel mezzo, nel punto di equilibrio del tutto, tra il Disordine e l’Ordine, tra il Passato e il Futuro, tra una vita e l’altra. Sul Giano quadrifronte si può dare certezza che esista, poichè è il dio che guarda verso i quattro punti cardinali. Del resto oltre alle porte bifronti, a Giano sono consacrate anche quelle quadrifronti.

Giano è Caos, è atomo primordiale che esplode e si spande, è il passaggio da Caos a ordine e viceversa. Se è reale la teoria del “respiro cosmico” tutto tornerà in Giano e sarà un ciclo eterno… Ecate è Luna nera e caotica, ma in un’altra faccia è luna crescente e generante e in un’altra ancora è luna piena (per alcuni la terza faccia è la fase calante: la vecchia). Tre fasi per un altro ciclo, più piccolo ma a modo suo anche questo “eterno” (relativamente alla vita del nostro sistema solare). parallelamente è chiaro che Mithra sia un dio-modello per l’iniziato, che deve distruggere le forze caotiche in se per ottenere da esse l’ordine. Si consideri il Perses come Perseo, modello mitico che l’iniziato mitraico deve incarnare arrivato ad un certo grado di evoluzione spirituale. Per la cronaca Ulansey sostiene che il nome dell’eroe Perseo significhi Persiano e pensa di poter ritrovare nell’antica Persia l’origine del culto di Mithra, così come lo conobbero i romani, o per lo meno il luogo di passaggio prima di arrivare in Cilicia, da dove poi si diffuse per opera dei legionari di Pompeo. Già in alcune religioni sono presenti divinità originarie che presiedono al passaggio dal disordine all’ordine, come in Grecia lo stesso Caos. Per la sua funzione ordinatrice Giano ha in se qualcosa di solare (o viceversa il Sole ha in se qualcosa di Gianuale?), tanto che in molte raffigurazioni antiche sopra il volto di Giano è scolpito un piccolo Sole. Nel mitraismo ritroviamo la funzione teologica dell’attraversamento delle porte, che di per se sono dei “Giani”, dunque in un modo o nell’altro Giano e l’attività solare di riordino dei quattro elementi vivono in una connessione fondamentale.

Lezione per approfondire la figura di Giano:

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Giuseppe Barbera, Presidente Associazione Tradizionale Pietas

Il Kali-yuga della Poesia – Angelo Tonelli

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Una breve riflessione sulla decadenza della figura del poeta e della poesia contemporanea e una proposta di rigenerazione poetica.

Negli ultimi venti anni la poesia in Italia ha visto ridursi esponenzialmente la propria funzione di guida morale e spirituale. Mai come ora essa è stata tagliata fuori dalla comunicazione editoriale. Gli editori non la pubblicano più perché nessuno la legge, e nessuno la legge perché gli editori non la pubblicano e perché non circola più una poesia capace di offrire paradigmi di vita interiore e poeti capaci di incarnare tale funzione della poesia . Trapassati gli ultimi superstiti della poesia ideologica del Novecento, e godendo, per fortuna, di pessima salute le ideologie, al momento attuale la più interiore delle arti sembra avere perduto appeal mediatico, con l’aggiunta di una sonora beffa: vengono trattati da poeti i cantautori che, pur presentando talora carattere di poeticità, banalizzano la poíesis volgendola a ritmi orecchiabili dalle moltitudini, e si cambia il nome di Piazza Dante Alighieri in Piazza Fabrizio De André. I poeti adesso sono troppi e difficilmente riconoscibili per via di una koiné linguistica e formale che consente a molti di scrivere bene, il che è positivo, ma che occulta in questa pletora di agathoí quanti abbiano davvero la Musa “spartita nelle viscere” – per dirla con Empedocle, archetipo del poeta sciamano e sapienziale d’Occidente – e dunque siano davvero araldi dell’animamundi, interpreti dello spirito dei tempi, come li dipingeva lo Shelley di Defense of Poetry, e guida dei popoli, per attraversare la crisi ecoantropologica in atto. Accanto alla responsabilità dei poeti (quelli à la page in Italia si caratterizzano proprio per un minimalismo metropolitano depressionario, o per eccessiva sudditanza all’ideologia cattolica e vaticana, o per un cerebralismo che poco ha a che fare con la profonda dimensione intuitiva dell’ispirazione), assai più grave è quella dei critici, che salvo rarissime eccezioni sono rimasti arenati nella formazione novecentesca, e non sanno cogliere lo spirito del tempo di adesso, che richiede una profonda rivoluzione nel modo di pensare il pianeta, e quindi promuovere nuove parole e pensieri, un nuovo respiro, che solleciti una nuova spiritualità, Sapienza, consapevolezza, senso di appartenenza di ognuno al Tutto; questo nonostante in Italia e nel mondo vi siano voci poetiche ecospirituali che hanno anticipato questa nuova necessaria sensibilità, e si siano anche uniti, grazie alla comunicazione via Internet, in movimenti internazionali.

Poesia è meditazione (1)

La poesia , come la meditazione di presenza buddhista, è disciplina apollodionisiaca dello spirito. Entrambe attingono dalla sfera schopenhaueriana della volontà di vivere, o dalla zoé, o dalla vita nel suo palpitare radioso e straziante, la materia-energia del proprio páthos (Dioniso) e lo distillano con strumenti diversi (la scrittura, introversa o comunicativa, per l’una, la contemplazione interiorizzante per la seconda), ma accomunati dalla condivisa postazione di distanza inerente rispetto alla materia-energia emozionale, sensoriale, sentimentale, pulsionale del páthos. Si potrebbe obiettare che tutta l’arte è apollodionisiaca. È vero. Ma la poesia , rispetto alle altre arti, agisce una sottrazione maggiore di sensorialità, nel passaggio dal páthos all’opera realizzata: sono parole espresse in segni alfabetici intercalati a spazi bianchi (quasi mimesi dell’intermittenza vuoto-pieno che caratterizza la relazione tra parola-pensiero e sfondo vacuo da cui sorge), che passano silenziosamente alla mente-cuore del lettore, e nella forma orale attraversano non visibili l’aria per raggiungerne i precordi; la scultura e la pittura invece creano oggetti materiali e sensoriali, e un discorso a parte merita la musica per la sua capacità di cogliere l’immediatezza invisibile e trasmetterla attraverso l’invisibilità del suono. Ma rispetto alla poesia , che pure la sussume a sé, le compete un surplus di espressività e espansione energetica. Torniamo al confronto tra poesia e meditazione di presenza. Esistono varie forme di ispirazione e espressione poetica: emozionale, sentimentale, intellettuale, e la combi nazione di queste. Ma esiste anche una poesia transmentale, che definirei sostanzialmente orfica: qui la parola si inarca oltre di sé e allude all’Assoluto che dimora alla radice delle cose sensibili e riverbera in esse questo stesso Assoluto, che è pura coscienza unitaria. È una poesia che costringe la ratio a cortocircuitare e, per essere intesa, la obbliga al salto nell’intuizione: quel noûs che uno scoliasta anonimo di Platone definiva “occhio dell’anima”, e che ha radici nel sacro profondo. Ma qu anto di orfico si rintraccia nella poesia italiana – e non solo – del Novecento e del primo decennio del terzo millennio, dopo l’esperienza di Dino Campana?

  Montale, Eliot e la rimozione di Orfeo   Chi ha sepolto Orfeo?

In Italia sicuramente il montalismo, sulla scia dell’automutilazione orfica di Montale stesso (diversamente accade alla parola scolpita nell’eterno di Ungaretti). In Europa e nel mondo l’eliotismo, sulla scia del suicidio sapienziale as sisti to (dalla critica) del poeta archetipo del moderno. La poetica di Montale, all’interno di Ossi di seppia e nel confronto tra la produzione giovanile e quella posteriore, può incontrare una chiave di lettura produttiva nella tensione tra indole orfica e contro-orfica della sua parola poetica: Montale rasenta il muro della conoscenza ma resta abbarbicato all’Io letterario, non si lascia condurre al di là dei “cocci aguzzi di bottiglia” dal misticismo di Orfeo che implica totale assimilazione all’Uno-Tutto naturale. Il poeta stesso si incarica di dichiarare questo suo scacco, che gli garantisce fortuna presso la critica e il pubblico “umano troppo umano” del dopoguerra, che preferisce la depressione, ammantata di letterario, agli stati sapienziali di coscienza. Un po’ come accade oggi.

  “…dato mi fosse accordare alle tue voci il mio balbo parlare: - io che sognava rapirti le salmastre parole in cui natura ed arte si confondono, per gridar meglio la mia malinconia di fanciullo invecchiato che non doveva pensare. Ed invece non ho che le lettere fruste dei dizionari, e l’oscura voce che amore detta s’affioca, si fa lamentosa letteratura.”… (da Potessi almeno costringere)   “Dissipa tu se lo vuoi questa debole vita che si lagna, come la spugna il frego effimero di una lavagna. M’attendo di ritornare nel tuo circolo, s’adempia lo sbandato mio passare. La mia venuta era testimonianza di un ordine che in viaggio mi scordai, giurano fede queste mie parole a un evento impossibile, e lo ignorano. Ma sempre che traudii la tua dolce risacca su le prode sbigottimento mi prese quale d’uno scemato di memoria quando si risovviene del suo paese.” (da Dissipa tu se lo vuoi)  

Diverso, ma non troppo, il caso di Eliot. L’emblema della poesia moderna, colui che dopo Rimbaud diede la maggiore scossa alla relazione contenuto-forma della poesia e che concentrò la sua poetica intorno alla modernità come crisi, in età giovanile fu esoterico e sincretista, vicino come Yeats e Pound e HD alla Golden Dawn di Madame Blavatsky, e meditò di convertirsi al buddhismo (2). The Waste Land trabocca di citazioni dai Sermoni buddisti (si pensi al titolo della sezione III, Il sermone del Fuoco, che è il titolo, appunto, di un sermone buddhista) e dalle Upanishad: il mantra upanishadico DA Datta DA Dayadhvam DA Damyata. Shantih Shantih Shantih fa da refrain della sezione Ciò che il tuono disse, e costituisce l’explicit rituale del poemetto iniziatico; e i Four Quartets si configurano come uno sguardo potentemente orfico sul tempo e sulla storia, contemplati da una postazione metafisica trans-immanente e sapienziale. L’Eliot di The Waste Land – in vecchiaia, per scelta propria o suggerimento del suo entourage, rinnegherà questa fase come un periodo di “illuminata mistificazione”, guadagnandosi in cambio lo scranno di poeta ufficiale dell’anglicanesimo – ravvisa nella spiritualità mistica e sapienziale dell’Oriente (Buddha, Upanishad) e dell’Occidente (Sant’Agostino, San Giovanni della Croce, l’esoterismo del Graal a cui si ispira il poema) (3) la chiave per fuoriuscire dalla sterilità-crisi della Waste Land contemporanea, la civiltà morente che deve trovare – come il Re pescatore del mito che costella in filigrana tutto il poema – un Graal per risorgere.

Questo nucleo essenziale delle opere maggiori di Eliot è stato occultato dalla critica, in particolare italiana, che ha preferito vederlo come “poeta della crisi” tout court, senza coglierne l’aspetto, oltre che di diagnosta, anche di “chirurgo” e guaritore della medesima (4). A distanza di più o meno mezzo secolo il problema si pone con centuplicata urgenza adesso che non solo il modo vigente di pensare il mondo ma anche il sistema economico e relazionale planetario è giunto a un livello di crisi irreversibile. Compito del poietés nell’epoca contemporanea, vero e proprio kaliyuga dello spirito e della civiltà, è far vibrare di Sapienza poesia prosa e pensiero, attingendo, al di là delle ecclesie secolarizzate e colluse con il potere, dalle tradizioni spirituali viventi – tra cui il buddhismo spicca per la profonda riflessione sulla possibile creazione dell’Homo Novus – la scintilla del Risveglio, e facendola collidere e colludere con l’immaginario contemporaneo, in una sempre rinnovantesi creazione di bellezza e intensità artistica. Che sia impulso alla rigenerazione spirituale e quindi politica della civitas umana.

  Note:

1 - Questo testo è stato pubblicato in R. Bertoni (a cura di), Aspetti del rapporto tra Buddhismo e cultura in Italia, Dublin 2012;

2 - Rimando, per tuto questo, a due miei lavori, : il libro di T.S. Eliot, La terra desolata e i Quattro Quartetti, Milano, Feltrinelli 1995, p. 21 - 24; e il saggio Il misticismo di Eliot tra Oriente ed Occidente, in "Paramita" 64, p. 39 - 42; a L. Surrette - D. Tryphonopoulos, Literary Modernism and the Occult Tradition, Orono, National Poetry Foundation 1996 T. Materer, Modernist Alchemy; Poetry and the Occult, Ithaca, Cornell, UP 1995; inoltre alla ricerche di S.M. Casella;

3 - T.S. Eliot, nota entra ordinem a The Waste Land, in A. Tonelli, in T.S. Eliot, La terra desolata e i Quattro Quartetti, op. cit., p. 65; cfr M. Praz, T.S. Eliot, La terra desolata, Torino, Einaudi 1971, pp. 77 - 78;

4 - Four Quartets, East Coker in T.S. Eliot, La terra...cit., vv. 147ss.

    Angelo Tonelli

Piazzale Loreto – Emanuele Casalena

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Una spilla da balia chiuse la povera gonna di Clara Petacci, priva di mutandine strappate via come trofeo o per stupro, il suo corpo pendeva a testa in giù accanto a quello di Mussolini, sopra c’erano i loro cognomi con una freccia per indicarli, quasi crocifissi capovolti. Cinque corpi issati alle travi della pensilina di un distributore di benzina che non c’è più, era al 29 Aprile del ’45. Entriamo con mia moglie da Mc Donald’s al piano terra d’un palazzo costruito lì dov’era il vecchio distributore della Esso, la memoria è stata cancellata dagli hot dogs a stelle e strisce, ironia della storia. Non una targa per ricordare, a dire il vero, girando il piazzale, ne troviamo una alla memoria dei 15 partigiani, prelevati dal carcere di S. Vittore e fucilati in questa piazza il 10 Agosto del ’44 dalla brigata Ettore  Muti. A loro Quasimodo dedicherà, nel ’49, una poesia dal titolo “la nostra non è guardia di tristezza”, idem fece Alfonso Gatto “Per i compagni fucilati a piazzale Loreto”. Su quell’esecuzione ordinata dai nazisti Mussolini dichiarò profeticamente: “Il sangue di Piazzale Loreto lo pagheremo molto caro”. Questa è una memoria condivisa su fatti di quell’Italia precipitata nella guerra civile dopo la “fine della Patria” l’otto settembre del ’43.

[caption id="attachment_25789" align="alignright" width="206"] Foto della “macelleria italiana“[/caption] [caption id="attachment_25790" align="alignleft" width="231"] Foto dei partigiani fucilati nel ’44[/caption]

Storicamente il toponimo del piazzale deriva da una chiesa, con annesso convento, dedicata a S. Maria di Loreto, demolita sul finire del ‘700 per crearvi l’odierna piazza Argentina dalla quale partiva, un tempo, lo stradone verso Venezia, l’attuale Corso Buenos Aires. Su quel terreno di periferia sorgeva una cappella rurale del XVI sec. luogo sussidiario della parrocchia di S. Babila, a servizio del culto per gli abitanti del comune di Greco. Era campagna, ma il numero crescente dei fedeli spinse l’arcivescovo S. Carlo Borromeo ad ampliare l’edificio nel 1609, consacrato nel 1616 con dedicazione alla Madonna di Loreto. Purtroppo l’annesso convento in seguito vide il cambio di destinazione d’uso in favore di umili residenze civili, poi di accoglienza di orfani e trovatelli. Un secondo ampliamento della chiesa restò incompiuto, fino alla demolizione dell’intero isolato per ragioni urbanistiche. Un nuovo tempio fu costruito in altro sito assumendo il nome di Gesù Redentore in luogo di S. Maria di Loreto, era il 2 giugno del 1900.

[caption id="attachment_25788" align="alignleft" width="188"] M. Richini, Santuario di S. Maria di Loreto[/caption] [caption id="attachment_25787" align="alignright" width="205"] F.M. Richini progetto ampliamento Santuario[/caption]

Della storia a piazzale Loreto non c’è quasi traccia, della rotonda disegnata, nel 1820, dall’ing. Caimi su incarico del governo austriaco, che serviva da cerniera di collegamento tra il Palazzo Reale e la Reggia di Monza, non è rimasto niente. Già negli anni Trenta, a seguito di ampliamenti, i vecchi palazzi furono abbattuti sostituiti da nuove costruzioni. Nel dopoguerra la mandragola edilizia ha fatto il resto, sono cresciuti palazzoni dozzinali, senza qualità, decisamente brutti, che hanno trasformato il piazzale in un non-luogo architettonico. La sua riqualificazione è rimasto un nodo al fazzoletto di Milano, mai sciolto per ragioni di bilancio dicono ma non solo, idee, progetti anche molto recenti, rimasti negli archivi meneghini, resta la voluta indifferenza per la memoria, segno d’una mancanza di coraggio.

Potrebbe diventare lo spazio simbolico della pacificazione dei “soldati” d’entrambe le trincee, un’Ara Pacis d’accettazione di una memoria comune pur nella diversità d’ idee e schieramenti, ora che i protagonisti di quegli eventi si sono spenti tutti o quasi per ragioni anagrafiche.

Basterebbe un segno concreto per armare di pace la nostra storia, magari proprio lì in quella degradata rotonda sforacchiata dalla fermata della metro ( mi ricorda piazza Re di Roma ), ma luogo di eventi cardine del recente passato. Non la solita riqualificazione fatta di panchine, cestini e scivoli per monelli, ma un’opera forte, coraggiosa, altamente simbolica senza sfiorare la retorica, alla quale le arti potrebbero dare una forma decisa da imprimere nella memoria collettiva del Paese. Sciolte le rendite di posizione, fuoriusciti i giapponesi dalla boscaglia, liquidato l’associazionismo patetico degli inscheletriti militanti, l’unità del Paese si tramuterebbe nella fionda di David lanciata verso la storia. Ma sogniamo o siam desti? Sogniamo, sogniamo, da impenitenti figli di Dedalo, visto che ai vinti non è concesso il rispetto dei vincitori e la storia dei manualetti scolastici mastica la stessa gomma da oltre settant’anni. Così un comicucolo richiama al disprezzo per la Petacci battezzando col suo nome il suino che si nutre della monnezza romana. Il pubblico sghignazza ossequioso all’infame battuta e il compagno conduttore sogghigna. Caroselli di giusta indignazione si levano dai social, s’alza la bufera, ma il guitto non arretra e come potrebbe. La sua forma mentis è quella, fatta tutta di creta, il paravento rosso che lo copre è forte, sgovernano senza voto da anni in una democrazia sospesa. Il guitto si sente a casa propria, lui è “intelligente”, fa satira  sugli assassinati senza processo, non sa o non ricorda che sul quel piazzale Loreto c’era anche il corpo del fratello di Claretta.

I numeri però ci dicono qualcosa, la riva rossa purtroppo è popolata da milioni di stormi compresi i pirandelliani pentastellati. Il centro, tanto caro a chierici, ex democristiani, meretrici mentali, galleggia come gli str… cercando un approdo cui ormeggiare la barca per continuare comunque a governare i propri interessi. La Lega è nata antifascista per definizione, è quello il passepartout indispensabile per accedere al gran ballo della Repubblica nata dalla Resistenza (e dei brogli referendari). Sulle cime degli alberi della riva destra nidificano le cicogne, bellissime ma poche, vengono da assai lontano ma non dall’Argentina, stanche per il lungo viaggio se ne stanno appollaiate sugli alti nidi, torri di guardia al piano, alcune sono anziane si volgono incantate e nobili a osservare oltre il guado del fiume, attendono calme, sagge che il sogno di viaggiare con gli stormi un giorno s’avveri.

Emanuele Casalena  

EUROPA NOSTRA. La rivolta dei popoli europei contro il mondialismo. A cura di Alessandra Iacono

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« Bambini, cari figli miei, nella vecchia Europa capitalista i cartaginesi erano sì i più ricchi, ma  erano in definitiva schiavi del consumismo; avevano ben più del necessario e conducevano un'esistenza del tutto condizionata dal capitalismo e dal futile consumare; coloro che apparentemente erano meno fortunati, tutti quelli che come me vivevano nelle tribù, erano costretti, per sopravvivere, a cacciare, coltivare, barattare o persino rubare quando era necessario; se non li uccidevano la fame o le malattie, ci pensavano le guardie di Cartagine (…) »

Di recentissima pubblicazione, per i tipi di Ritter, Europa Nostra è il secondo episodio della trilogia “identitaria” di Riccardo Tennenini: incastonato tra due saggi, Pan è morto e noi l'abbiamo ucciso (Ritter, Luglio 2016) e Oltre il capitalismo (di prossima pubblicazione sempre per Ritter), il tassello centrale di questo mosaico è invece un racconto, un breve romanzo, neanche tanto romanzato per la verità, che colpisce nel segno proprio in virtù della sua inquietante portata realistica. Europa Nostra è l'Europa di ieri, di oggi e di domani: il passato - la storia, l'arte e tutta la grandezza di un continente e del suo popolo; il presente – la crisi dei valori tradizionali e la decadenza dell'uomo moderno e postmoderno; il futuro – la degenerazione finale, la deflagrazione ultima, il kali yuga, e la successiva rinascita, il ritorno alla forma originaria, all'archetipo: la speranza.

In cento pagine, scritte in una prosa semplice, agile, scattante, senza fronzoli, l'autore – o, meglio, il suo alter ego Friedrich (al lettore attento non sfuggirà la scelta del nome, niente affatto casuale) – ci ricorda cosa è stata la stirpe europea, col suo immenso bagaglio culturale, artistico, linguistico, filosofico, religioso... e il suo carattere fiero, e sì, bellico: “Pòlemos è padre di tutte le cose”, direbbe ancora oggi Eraclito, con un aforisma che riassume – sebbene ridotta all'osso – l'essenza della nostra stirpe, a partire (almeno) dal tempo degli antichi greci; dipinge poi un bel quadretto di cosa oggi essa è diventata: molle, sgraziata, consumista, capitalista, informe, asessuata, sterile, degenerata, iper-tecnologica, avvelenata, accanita contro se stessa... Per fortuna c'è il lieto fine. Almeno nel romanzo: nella realtà non è dato sapere se ci salveremo, dipende da noi. Certo è che, leggendo le avventure del giovane Friedrich, impavido e caparbio, sano nel corpo, nella mente e nello spirito, riflessivo e insieme impulsivo, devoto al suo popolo e all'Idea, in una parola “giusto”, dovremmo sentire un moto di orgoglio, sia pure minimo e momentaneo.

In sintesi, dentro Europa Nostra c'è senz'altro l'Europa del Tennenini, i suoi studi filosofici, la sua religio, la sua sensibilità al bello, la sua attenzione alla natura, il suo acuto spirito critico. Ma c'è anche la nostra Europa, quella dei popoli, liberi, affratellati, ciascuno con le sue specificità rispetto agli altri, dentro e – soprattutto – fuori; l'Europa della sapienza greca e dell'Impero Romano, l'Europa della bellezza, dei grandi compositori e dei grandi scultori; l'Europa degli uomini e delle donne che non hanno vergogna di essere tali, che possiedono e governano le macchine (e non viceversa),  che non sperano di vincere un quiz televisivo ma riscoprono la loro vera fortuna - nonché ricchezza – tutta nel cervello e nelle membra. L'intero racconto è costellato di citazioni, allusioni, rimandi più o meno espliciti alla nostra Tradizione: il lettore si diletterà a scovarli e ad interpretarli, come indizi in una caccia al tesoro.


PERCORSI INIZIATICI ALTERNATIVI. Parte terza: la Stella d’Italia – Gianluca Padovan

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“La Gnosi”, ha detto il T؞ Ill؞ F؞ Albert Pike, “è l’essenza e il midollo della Massoneria”» René Guenon, Studi sulla massoneria  
 

In Italia la prima Loggia, probabilmente denominata Fidelitas, parrebbe sia fondata a Girifalco (Catanzaro) nel 1723. Dieci anni dopo il duca irlandese Carlo Sackville di Meddlessex fonda una Loggia a Firenze. Da allora di logge ne sono state aperte diverse e oggi vi sono più “obbedienze”: Grande Oriente d’Italia (Palazzo Giustiniani – Roma) fondato nel 1805, Gran Loggia Regolare d’Italia, Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori (Palazzo Vitelleschi), Real Ordine A.L.A.M. (A.D. 926).

    Massoneria in Italia.

È riportato nel sito cesnur.com: «Per evitare di confondersi nell’arcipelago di nomi e di sigle che costituisce oggi la massoneria occorre anzitutto distinguere fra obbedienze e riti, due realtà che sono sovente confuse. Le obbedienze sono federazioni amministrative di logge o di gruppi nazionali di logge, che accettano la priorità di una loggia originaria o almeno accettano di sottoporsi a un certo coordinamento. I riti sono sistemi di gradi massonici, di cui prescrivono non solo le cerimonie ma anche le caratteristiche. All’interno di una stessa obbedienza possono essere praticati diversi riti, senza che questo comporti uno scisma. Per converso lo stesso rito può ritrovarsi in diverse obbedienze, anche se per i gradi superiori il rito è più di una semplice variante cerimoniale: è una via iniziatica, con caratteristiche e insegnamenti specifici che sono trasmessi nei diversi gradi. Tutto questo è chiaro in teoria: ma in pratica questioni di rito hanno spesso determinato scismi anche quanto alle obbedienze, soprattutto perché i riti hanno i loro dirigenti (distinti da quelli delle obbedienze) ed è spesso accaduto che fra i due gruppi dirigenti (che pure dovrebbero in teoria esercitare la loro giurisdizione su ambiti diversi) siano sorte rivalità e conflitti».39

Occorre ricordare che ai primi del XX secolo si staccano alcune logge dal Grande Oriente d’Italia, le quali andranno a formare nel 1910 la Gran Loggia d’Italia (allora con sede in Piazza del Gesù). Uno degli artefici della scissione è stato Raoul Vittorio Palermi (Firenze 1864 – Roma 1948).

Secondo Ferruccio Pinotti gli iscritti al Grande Oriente d’Italia risultavano essere 18.117 nel 2007 e si trattava dell’obbedienza decisamente più numerosa.40

Per quanto concerne il “Rito Scozzese Antico e Accettato” in Italia: «Il Supremo Consiglio d’Italia - la cui denominazione completa è “Supremo Consiglio del 33° ed Ultimo Grado del Rito Scozzese Antico ed Accettato per la Giurisdizione Massonica Italiana”, fu fondato ed installato ritualmente a Milano il 16 marzo 1805 dal Conte Alexandre François Auguste de Grasse Tilly, S.G.C. del S.C. di Francia (1804), debitamente assistito da Fratelli francesi ed italiani, in forza di Patenti a lui conferite dal S.C. Madre del Mondo di Charleston, per cui il S.C. d’Italia fu una diretta emanazione di detto Corpo Rituale. Nello stesso atto costitutivo del S.C. d’Italia è formalmente dichiarato che esso “crea e costituisce di sua sovrana autorità una Gran Loggia Generale in Italia sotto la denominazione di G. O. del Rito Scozzese Antico ed Accettato”. Il Grande Oriente d’Italia, così fondato, venne, quindi, installato ritualmente il 20 giugno 1805 dagli stessi fondatori del S.C. del RSAA. Il S.C. d’Italia, sedente a Milano, aveva Giurisdizione soltanto sui territori del Regno Italico e ne era Sovrano Gran Commendatore lo stesso Viceré, Eugenio Beauharnais. Successivamente, sul territorio italiano non ancora unificato, videro la luce anche altri SS.CC. tra cui, (a Napoli), un S.C., detto delle Due Sicilie (1809), un S.C. di Palermo (1860) e un S.C. di Napoli (1860). Dopo l’unificazione, dapprima si costituì, per fusione con quello di Milano, un S.C. di Torino (1862) e, più tardi, col trasferimento della Capitale a Firenze, se ne costituì ancora un altro in quella città (1864). Un ulteriore S.C. si stabilì, nel 1870, a Roma, definitiva Capitale del Regno. A seguito di numerose convenzioni, si conseguì, infine, non senza travagli, l’unificazione tra i diversi SS.CC. in un unico S.C. d’Italia, che fu quello sedente in Roma. Da uno scisma verificatosi nel 1908, nacque un secondo S.C., detto di “Piazza del Gesù”, che dal 1912 fu riconosciuto da molti SS.CC. del mondo in contrapposizione con quello detto di “Palazzo Giustiniani”. Il ventennio fascista, durante il quale ogni attività massonica in Italia fu proibita, eliminò di fatto il problema di quella atipica duplicazione tra la continuità storica e il possesso di riconoscimenti di varie Giurisdizioni. La separazione tra le Giurisdizioni del Grande Oriente d’Italia e del S.C. fu sancita nel 1922. La Conferenza di Parigi dei SS.CC. del mondo, tenutasi nel 1929, sancì questo principio per tutti i SS. CC. Alla ripresa delle attività massoniche, nel 1943, dopo il fallimento dei tentativi di riunificazione, coloro che possedevano il supremo Grado del RSAA, ricostituirono i due SS.CC. di “Palazzo Giustiniani” e di “Piazza del Gesù”. Tra il 1960 e il 1973, le residue incomprensioni tra i due tronconi storici della Massoneria Italiana, si ricomposero e da allora, nonostante altre divergenze, manifestatesi nel 1977 e ora finalmente superate grazie alla lealtà dei Fratelli Scozzesi d’Italia e alla saggezza dei SS.CC. del resto del mondo, il S.C. del Rito Scozzese Antico e Accettato per la Giurisdizione Massonica Italiana rappresenta la regolarità per 54 Supremi Consigli nel mondo».41

Per comprendere l’asse “Italia sabauda-Nord America” si vedano innanzitutto le relazioni tra i “fratelli” o compagni Giuseppe Mazzini e Albert Pike. Se del primo in Italia s’ignorano volutamente trascorsi e retroscena, del secondo s’ignora tutto o quasi. Capo della massoneria americana e generale di cavalleria sudista, Albert Pike nel 1865, unitamente al generale John Morgan, muta i “Cavalieri del Circolo d’Oro” nei “Cavalieri del Ku Klux Klan”, dal greco kuklox che significa cerchio, circolo. Durante la Guerra di Secessione è imprigionato dagli stessi Sudisti per crimini di guerra, ma viene liberato dai Nordisti a conflitto concluso.42

    Massoneria & Fascismo.

Recentemente, dopo aver accennato a Paolo Thaon di Revel, «ministro della Marina nei primi anni del governo Mussolini», quale membro della Massoneria «del Supremo Consiglio di Rito scozzese antico e accettato», Aldo Mola scrive: «Tra altri massoni iniziati o regolarizzati nelle file della Gran Loggia», di orientamento monarchico e “istituzionale”, figura il poi Maresciallo d’Italia Ugo Cavallero, di Casale Monferrato: una terra che dette molti militari, da Tancredi Saletta a Pietro Badoglio (massone secondo Dunstano Cancellieri, ma senza prova documentaria) e Angelo Gatti (iniziato alla “Propaganda massonica”). In una loggia di Torino entrò Italo Balbo, che poi passò alla “Savonarola” di Ferrara, alla quale aderì Edmondo Rossoni, massimo sindacalista mussoliniano, massone all’indomani della dichiarazione di incompatibilità tra Logge e Partito nazionale fascista».43

Dopo le cospirazioni del massone Tito Zaniboni e la decisione da parte del Gran Consiglio del Fascismo di sopprimere le Logge, tutto sembrerebbe indicare che il Fascismo possa “imperare”, almeno sui libri di testo e nella solita e oramai desueta “storia di facciata per il popolino”.

In realtà, ma “opportunamente” dimenticando che alla data del luglio 1943 i quattro quinti del Gran Consiglio del Fascismo erano massoni, così dichiara Ivano Granata: «Il fascismo aveva dunque vinto la sua battaglia contro la Massoneria, anche se nel periodo della Repubblica Sociale l’antimassone e antisemita Preziosi sosterrà, in un memoriale a Mussolini nel 1944, che “l’ebraismo e la Massoneria erano in Italia, anche in Regime Fascista, padroni della situazione”[56]».44

Ancora Granata sostiene: «C’è poi un aspetto interessante, relativo al tentativo delle due massonerie di influenzare comunque le scelte fasciste. Nello stesso anno in cui venne varata la legge sulle associazioni, “il giustinianeo Badoglio si impadronisce del potere militare. Piazza del Gesù ha puntato sul potere politico e uscirà sconfitta col fallimento di Farinacci, che si consuma nel medesimo arco di tempo. Il regime fascista si va configurando nei termini di una burocrazia tecnocratica e militare, il cui potere politico diviene necessariamente subalterno. E sono gli uomini di Palazzo Giustiniani che, avendo saputo attendere, si insediano nella stanza dei bottoni: Badoglio, Belluzzo e Beneduce. È un rilievo che forse non ha avuto la dovuta attenzione e che meriterebbe un ulteriore approfondimento».45

Scrive Roberto Festorazzi: «Alle radici dell’odio di Preziosi per i giudei, non vi era – come si sarebbe tentati di pensare – tanto il fanatismo cattolico, quanto l’avversione nei confronti del comunismo. Sia Preziosi sia Pantaleoni colsero non soltanto che la leadership del bolscevismo russo, vittorioso nella rivoluzione d’ottobre, era quasi interamente ebraica, ma che lo erano tanto i capi del socialismo tedesco e italiano, quanto la direzione strategica delle maggiori imprese bancarie e industriali su scala internazionale».46

Curioso a dirsi ma Roberto Festorazzi, nel sopracitato libro, parlando di ventisei uomini del Fascismo e in due centinaia di pagine non fa comparire le seguenti parole: Loggia, Massone e Massoneria. Eppure parla di massoni come Balbo, Bottai, De Bono, Farinacci, Grandi, Starace, etc.

Sul secondo numero del “settimanale d’attualità” L’Orizzonte, organo dei Volontari della Xa Flottiglia M.A.S. osteggiato da taluni fascisti della Repubblica Sociale, in prima pagina e con proseguimento in tutta la pagina n. 6, appare la prima parte dell’articolo: «nuove rivelazioni sulla resa / IL TAPPETO VOLANTE / e il mistero del gen. Carton De Wiart». Un passo recita: «Ritengo senz’altro inutile dire come al tradimento del 25 luglio l’ultimo re d’Italia ed il Venerabile Fratello massone Pietro Badoglio si preparassero da un pezzo e ritengo anche superfluo citare tutta la documentazione fin qui apparsa, documentazione fin troppo ampia [e] doviziosa ed anche – ove se ne tolga lo schiacciante testo della “Storia di un anno” – fin troppo pedestre».47

    Massoneria e Costituzione “italiana”.

Rimane innegabile che in Italia la Massoneria abbia avuto il suo peso politico nonché sociale e basta solo leggere, ad esempio, un articolo recentemente apparso a proposito delle celebrazioni del settantesimo anniversario della Costituzione Italiana: «La Massoneria italiana celebra l’anniversario con “Repubblica70”, una rassegna di convegni culturali che toccherà varie città, luoghi simboli dell’Italia per parlare di fatti e personaggi della nostra storia più recente e sensibilizzare gli abitanti della nazione, soprattutto i più giovani, a conoscere l’identità e i fondamenti della comunità in cui vivono. Partendo proprio dalla Costituzione, dai suoi principi e dai suoi valori inderogabili su cui si fonda la Repubblica italiana nata dal referendum del 2 giugno 1946 che è una data storica anche sul piano dei diritti perché vide le donne esprimersi per la prima volta alle urne. “La scelta di Reggio Emilia come prima tappa della rassegna culturale che porteremo in tutta Italia – spiega il Gran Maestro Stefano Bisi – è stata obbligata. Reggiani sono il Tricolore e Meuccio Ruini che ha presieduto la Commissione dei 75 incaricata dal 1947 di redigere la nostra Costituzione. La relazione di Ruini che accompagnava il progetto costituzionale è ancora oggi di grande attualità in ogni suo aspetto ed è stato interessante ascoltare dalla professoressa Marieli Ruini, profonda conoscitrice degli scritti di suo nonno, il profilo dell’uomo, del politico, del giurista e, chissà, magari anche del massone, visto che il Grande Oriente d’Italia si onora di averlo avuto al suo interno”».48

Inoltre: «Il Gran Maestro ha tenuto a citare due massoni e valdesi di grande prestigio. Il primo Paolo Paschetto, l’artista che, come pochi sanno disegnò lo stemma della Repubblica Italiana, che si appresta a festeggiare i 70 anni, il famoso “Stellone”, che compare spesso sulla bandiera ed in tutte le sedi pubbliche italiane, oltre che nella maggior parte dei documenti ufficiali che accompagnano la vita di ogni cittadino. Il secondo è Augusto Comba, storico e autore di un saggio “Valdesi e Massoneria”, che come ha tenuto a rammentare nel suo breve saluto di apertura Bernardino Fioravanti, è stato il primo libro che il Servizio Biblioteca del Grande Oriente da lui diretto ha presentato».49

Alla pagina seguente, nel box, l’argomento è così messo in evidenza: «Massone e valdese l’autore dello stemma italiano. Era un massone valdese l’artista che 70 anni fa disegnò lo stemma della Repubblica Italiana. Il disegnatore, che vinse il concorso per l’Emblema della Repubblica Italiana approvato dall’Assemblea Costituente con una votazione avvenuta il 31 gennaio 1948, si chiamava Paolo Antonio Paschetto ed era nato a Torre Pellice nel 1885. Artista, decoratore e illustratore, Paschetto nei primi anni del Novecento si trasferì a Roma dove ottenne importanti incarichi pubblici. Per il Tempio Valdese di Roma (inaugurato nel 1914), ideò le decorazioni murali e disegnò i cartoni per le vetrate, realizzate poi da Cesare Picchiarini, con il quale lavorò anche alla Casina delle Civette. Ai primissimi anni Trenta risale la sua collaborazione con la ditta “Nazareno Gabrielli”, a cui l’artista fornì disegni per la decorazione degli oggetti in cuoio. Tra il 1921 e il 1945 disegnò, inoltre, numerose serie di francobolli e l’emblema della Repubblica Italiana. Morì a Torre Pellice nel 1963».50

    La stella a cinque punte.

La descrizione dell’emblema della Repubblica Italiana è così enunciata: «Al centro una stella bianca a cinque punte bordata di rosso, sovrapposta a una ruota dentata, simbolo del lavoro. Intorno un ramo di quercia, icona di forza e dignità e un olivo a significare la volontà di pace».51

La stella a cinque punte, variamente utilizzata nel corso dei secoli, è uno dei simboli della Massoneria, seppure ben pochi autori concordino su ciò. La si trova sulle spalline dei soldati e anche nel corso delle guerre la si vede innanzitutto contrassegnare i mezzi americani (stella bianca), i mezzi sovietici (stella rossa) e quelli cinesi (stella rossa). Oggi osservate la stella che campeggia sui mezzi militari italiani.

Sempre celebrando i 70 anni della Costituzione Italiana ecco il Manifesto del Grande Oriente d’Italia pubblicato nel 2016: «settant’anni fa l’italia, uscita dalla barbarie della seconda guerra mondiale e dal fascismo, gettò le solide fondamenta del suo assetto costituzionale futuro scegliendo la forma repubblicana che, con il voto a suffragio universale allargato per la prima volta alle donne, prevalse sulla Monarchia. Questa data e questa scelta democratica del popolo italiano oggi vanno ricordate senza fare inutile retorica ma riflettendo attentamente e con grande senso di responsabilità sull’importanza che quella decisione comportò e comporta tutt’ora per tutti gli italiani di ieri, di oggi e di domani. Celebrare la Repubblica oggi, e la Massoneria del Grande Oriente d’Italia è stata fra le prime che hanno accolto l’invito del Capo dello Stato, è festeggiare la Libertà e la Bellezza di un patto, di una Costituzione scritta da uomini di idee politiche e provenienza diverse che, mettendo da parte forti divisioni, egoismi e smanie di potere, riuscirono a far sorgere dalle macerie della non Ragione e dell’odio, la grande casa della Libertà e dell’Unità, dell’Uguaglianza e della Solidarietà. Della pace e del ripudio della guerra. Viviamo un momento storico inedito. I cambiamenti in atto nella società 3.0 sono talmente veloci e frenetici che tutto si modifica e si trasforma senza che a volte l’uomo abbia il tempo necessario per rendersene conto. Nulla si può dare più per scontato e le dure leggi dell’economia hanno il potere di stabilire i processi di evoluzione di una nazione e la sua crescita o decrescita. Ma per quanto l’attuale contesto europeo e mondiale sia segnato da orizzonti in continua mutazione e da preoccupanti fenomeni legati a problemi di squilibri interni, nuove povertà e integrazione dei rifugiati, e dall’altro dalla non facile lotta al fanatismo fondamentalista, ci sono ancora delle solide certezze a cui aggrapparsi. E la nostra Repubblica, con i forti valori scolpiti nella Tavola della Costituzione dai suoi saggi padri, è un immenso patrimonio che ancora oggi permette nell’uguaglianza e nella valorizzazione delle diversità uno stare insieme coeso. Consente di guardare alla modernità con basi etiche condivise che rappresentano la forza e la speranza di un Paese che ha la Cultura e la Bellezza per farsi ammirare e partecipare alla costruzione di una Società e di un Mondo migliore. Che è lo scopo e l’essenza per la quale da secoli lavorano e si battono i Liberi Muratori. Il Gran Maestro Stefano Bisi. Roma, Il Vascello, 20 Settembre 2016».52

A questo punto si può riprendere in mano un recente articolo pubblicato su Ereticamente: Compagni di gioco, a proposito di Fascismo e Massoneria.

Se a qualcheduno sorgesse un seppur minuscolo dubbio, a conforto si possono riportare le parole scritte da Ferruccio Pinotti: «I primi passi dell’Italia unita sono guidati da un Parlamento in gran parte costituito da massoni. Francesco Crispi, Agostino Depretis e Giuseppe Zanardelli erano fratelli del 33° grado del Grande Oriente d’Italia. Del resto, l’incipit dell’inno nazionale è: “Fratelli d’Italia…”. Vorrà pur dire qualcosa».53

    Simbologia.

Sempre ai giorni nostri Claudio Bonvecchio ci parla dei simboli: «Assodato il valore straordinario che la Libera Muratoria attribuisce ai simboli e alla loro com-prensione come l’unica via possibile per giungere alla costruzione dell’Uomo Nuovo, è il caso – a titolo d’esempio e senza l’appesantimento di un apparato di note – di analizzarne alcuni. Sono quelli che forse – in quella vera e propria “foresta” simbolica che è una Loggia Massonica – sono i primi che si offrono alla vista di colui che, iniziato o non iniziato (potrebbe essere un qualsiasi visitatore) vi entra, ed entrandovi rimane colpito. E, forse anche stupito per ciò che scorge. E sono anche i primi su cui è opportuno riflettere, se si vuol – se non intraprendere – almeno capire l’essenza del Cammino Massonico».54

Tratta quindi dei seguenti simboli: Libro, Compasso, Maglietto, Pavimento a mosaico, Volta stellata.

Come ultimo appunto si può citare una frase dell’esoterista René Guenon (Blois 1886 – Il Cairo 1951), massone successivamente convertitosi all’islamismo, a proposito delle donne in seno alla Massoneria dice: «Ora, il problema che si pone è il seguente: perché tutti i mestieri inclusi nel Compagnonaggio sono esclusivamente maschili, e perché nessun mestiere femminile sembra aver dato origine ad un’iniziazione simile? La questione a dire il vero è piuttosto complessa e non pretendiamo di risolverla qui interamente; lasciando da parte la ricerca delle contingenze storiche che hanno potuto intervenire in proposito, diremo soltanto che si possono avere certe difficoltà particolari, di cui una delle principali è forse dovuta al fatto che, dal punto di vista tradizionale, i mestieri femminili devono normalmente essere esercitati all’interno della casa e non fuori come i mestieri maschili. Tuttavia una tale difficoltà non è insormontabile e potrebbe soltanto richiedere qualche modalità speciale nella costituzione di un’organizzazione iniziatica».55

      Note   39 Testo tratto dal Sito Internet: cesnur.com, Le religioni in Italia di Massimo Introvigne e Pierluigi Zoccatelli -sotto la direzione di-.   40 Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, Rizzoli, Milano 2007, p. 10 e p. 185.   41 Tratto dal Sito Internet: ritoscozzese.it/it/presentazione-rito-scozzese/rito-scozzese-in-italia.   42 Gianluca Padovan, Fuoco alle Polveri! La Guerra di Secessione americana: 1861-1865, Associazione Culturale Fonte di Connla, Ivrea 2013, p. 189.   43 Aldo A. Mola, Tre secoli. Novità storiche per il museo della Massoneria, in il Giornale del Piemonte, Domenica 8 luglio, Anno XVI – Numero 161, Editore Polo Grafico, Mondovì 2012, p. 1.   44 Ivano Granata, Fascismo e Massoneria: un rapporto ambiguo e complesso, in Massimo Rizzardini, Andrea Vento -a cura di-, All’Oriente d’Italia. Le fondamenta segrete del rapporto fra Stato e Massoneria, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2013, p. 99. Nota [56]: «Il memoriale di Preziosi è riportato in appendice da R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, Torino 1972, pp. 594-601, partic. p. 595» (Ivi).   45 Ibidem, pp. 99-100.   46 Roberto Festorazzi, Tutti gli uomini di Mussolini. I gerarchi alla corte del Duce, Cairo Publishing, Milano 2015, p. 189.   47 Giovanni F. Martelloni, Nuove rivelazioni sulla resa. Il tappeto volante e il mistero del gen. Carton De Wiart, in Decima Flottiglia M.A.S., L’Orizzonte, Anno I, N. 2, 5 febbraio, Milano 1945, pp. 1 e 6.   48 Santi Fedele, Il Goi parte da Reggio Emilia, in Erasmo. Notiziario del G.O.I., Anno I, N. 2, Associazione Grande Oriente d’Italia, Roma 2016, p. 4. pp. 4-5.   49 G.O.I., L’ascolto, regola aurea nei nostri templi, Erasmo. Notiziario del G.O.I., Anno I, N. 2, Associazione Grande Oriente d’Italia, Roma 2016, p. 7.   50 Ibidem, p. 8.   51 G.O.I., Così nacque lo stemma dell’Italia, in Erasmo. Notiziario del G.O.I., Anno I, N. 6, Associazione Grande Oriente d’Italia, Roma 2016, p. 6.   52 G.O.I., Il Grande Oriente per la Repubblica, in Erasmo. Notiziario del G.O.I., Anno I, N. 8, Associazione Grande Oriente d’Italia, Roma 2016, p. 12.   53 Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, op. cit., p. 317.   54 Claudio Bonvecchio, Il simbolismo e la Libera Muratoria, in Massimo Rizzardini, Andrea Vento -a cura di-, All’Oriente d’Italia. Le fondamenta segrete del rapporto fra Stato e Massoneria, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2013, p. 138. Dal sito Internet grandeoriente.it: «Pavese, è nato il 20 gennaio 1947 e appartiene al Grande Oriente d’Italia dal 1992, nella Loggia Gerolamo Cardano (63), della sua città, dove è stato oratore, primo sorvegliante e, per un triennio, maestro venerabile. È insignito della Giordano Bruno d’oro, classe Athena. È membro del comitato direttivo della rivista Hiram. È stato Gran Rappresentante per la Gran Loggia di Lettonia e per quella di California. Nel marzo del 2005 è stato eletto Consigliere dell’Ordine, dove ha ricoperto la carica di Oratore. Il 5 marzo 2010 è stato nominato Grande Ufficiale di Gran Loggia con l’incarico di Gran Consigliere alla Cultura (…). Claudio Bonvecchio è professore Ordinario di Filosofia delle Scienze Sociali, è stato presidente del Consiglio di Corso di Studi in Scienze della Comunicazione e coordinatore del Dottorato in Filosofia delle Scienze Sociali e Comunicazione Simbolica nell’Università degli Studi dell’Insubria di Varese. Nello stesso ateneo, è Direttore del Centro Speciale di Ricerca di Scienze e Simbolica dei Beni Culturali» (http://www.grandeoriente.it/gran-maestro-e-giunta/claudio-bonvecchio/).   55 René Guénon, Studi sulla massoneria, Basaia Editore, Roma 1983, pp. 91-92. René Guénon è «considerato uno dei più importanti e profondi esoteristi del nostro tempo. Guénon era nato a Blois (Francia) dove trascorse la giovinezza e frequentò l’Istituto cattolico fino alla maturità. Si trasferì a Parigi nel 1904 per preparare la laurea in matematica ma interruppe gli studi due anni dopo. Il 1906 fu l'anno in cui seguì i corsi della “Scuola superiore libera di scienze ermetiche” diretta da Encausse, meglio conosciuto come Papus e fu iniziato all’Ordine martinista; si fece ammettere al Rito antico e primitivo di Menphis Misraim ed al Rito Spagnolo. Nel 1908, tuttavia, venne escluso da queste associazioni; Guénon stimava di non avervi trovato l’insegnamento esoterico che andava cercando. Lo stesso si può dire della sua adesione alla “Chiesa gnostica” che affermava di derivare dalla Gnosi dei cristiani primitivi. È del 1909 la fondazione de “la Gnose, Organo della Chiesa Gnostica universale” dove Guénon condannava le dottrine occultiste e affermava che “La Gnosi deve dunque scartare tutte queste dottrine e non basarsi che sulla tradizione ortodossa contenuta nei libri sacri di tutti i popoli, tradizione che in realtà, è dovunque la stessa, malgrado le diverse forme che riveste per adattarsi ad ogni razza e ad ogni epoca”. La sua conversione all’islamismo è del 1912 (prese il nome di Abdel Wahed Yahia ovvero Servitore dell’Unico); nello stesso anno si sposò con rito cattolico. Dopo la morte della moglie ed il suo trasferimento in Egitto sposerà la figlia dello sceicco Mohammed Ibrahim dalla quale ebbe quattro figli (1934)» (Roberta Galli, René Guenon, Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori – Massoneria Universale di Rito Scozzese Antico e Accettato Obbedienza di Piazza del Gesù Palazzo Vitelleschi; dal Sito Internet: http://www.granloggia.it/page/ren%C3%A9-guenon). Sull’ammissione delle donne in Massoneria vi sono più studi, consultabili in Internet. A titolo informativo vedere ad esempio: «Iniziazione Femminile e Massoneria. La controversa tematica della presenza femminile in Massoneria è stata presentata in un Convegno organizzato dalla Gran Loggia Femminile Massonica d’Italia, con la presenza di relatori delle principali Obbedienze Massoniche Italiane. Ne è stato tratto un volume che, pur di non recente pubblicazione offre tutte le caratteristiche per un approfondimento storico, socio-culturale, esoterico» (http://www.granloggia.it/page/iniziazione-femminile-e-massoneria).      

“Resistenza” boera – tra identità e assimilazione (1815-1994) di Tommaso Indelli[1]

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I) Premessa.

I Boeri - o Afrikaer - hanno rappresentato, nel corso della loro storia, un esempio di coraggio, per lo spirito identitario e la pervicace volontà di resistenza ad ogni tipo di assimilazione etnoculturale ad opera degli Inglesi, prima, e della popolazione aborigena, poi. Boer - che, in olandese, significa “contadino” - è il nome con cui si designa una vera e propria “nazione”, contraddistinta persino da una lingua propria - Afrikaans - derivante dall’olandese, con una forte commistione, sul piano lessicale, di inglese, tedesco e portoghese[2]. L’identità etnica dei Boeri - al di là delle origini europee - si è definita e sviluppata proprio nel Sudafrica e fin dall’inizio della colonizzazione di quel territorio ad opera della Compagnia olandese delle Indie orientali. Il 6 aprile del 1652, i primi coloni olandesi, guidati dal capitano Jan van Riebeek (†1677), sbarcarono nella Baia della Tavola - dove sarebbe sorta Città del Capo - con l’obiettivo di creare un piccolo insediamento commerciale per le navi olandesi in viaggio lungo la rotta per le Indie. Ben presto l’insediamento si ingrandì per l’afflusso di nuovi coloni europei di fede calvinista, perseguitati in patria. Agli Olandesi - la componente maggioritaria - si aggiunsero ugonotti francesi e protestanti tedeschi che, progressivamente, si amalgamarono tra loro - anche biologicamente - al fine di contrastare le avversità naturali e gli attacchi delle principali tribù aborigene del luogo: Khoikhoi e San. Gli Ottentotti e i Boscimani - come li chiamavano i Boeri - erano tribù di “cacciatori-raccoglitori” tra le più primitive dell’Africa sudoccidentale che, anche sotto il profilo linguistico, costituivano un unicum nel panorama etnologico africano. Abili guerrieri, diedero filo da torcere ai Boeri fino alla seconda metà del XVII sec., quando furono sottomessi. Intanto, dopo la conquista dell’Olanda da parte delle truppe francesi (1795) e la trasformazione in regno affidato al fratello di Napoleone Bonaparte, Luigi (†1846), l’Inghilterra - nemica della Francia rivoluzionaria - occupò la colonia, che le fu ufficialmente assegnata dal congresso di Vienna col nome di “Colonia del Capo” (1815)[3]. L’afflusso sempre maggiore di immigrati inglesi, l’introduzione dell’anglicanesimo e di leggi anglosassoni, spinsero i Boeri ad emigrare verso nord, in territori ancora più selvaggi e popolati da tribù ostili. Quando, nel 1834, fu proibita la schiavitù in tutto l’impero britannico, danneggiando gli interessi degli originari abitanti di Colonia del Capo - possessori di schiavi - circa 20000 Boeri intrapresero quello che, nella loro “memoria nazionale”, è ricordato come Die Groot Trek, “La Grande Migrazione”. Un’esigua minoranza - i Cape Dutch - invece, decise di non emigrare, adattandosi a vivere con i vicini anglofoni, mentre i Boeri che andarono via, si stabilirono a nord della Colonia del Capo, nelle valli dei fiumi Orange e Vaal, fondando tre repubbliche: Natal (1838), Transvaal (1852) e Orange (1854). Ma ciò non li mise al riparo dalla minaccia inglese e infatti, nel 1842, il Natal venne occupato e annesso alla Colonia del Capo, mentre Transvaal e Orange conservarono l’indipendenza. I Boeri furono anche costretti, per circa un secolo, a respingere gli attacchi degli Xhosa e degli Zulu, aborigeni appartenenti al gruppo linguistico Bantu. Mentre i primi furono sconfitti nel 1855, gli Zulu continuarono a rappresentare una grave  minaccia perché, guidati dal re Shaka (1812-1828), avevano costituito un vero e proprio “impero”, dotandosi di un esercito di ben 30000 uomini, in gran parte armati di lunghe lance: gli “impi”. Il 16 dicembre del 1838, i Boeri ottennero la prima grande vittoria militare sugli Zulu di re Dingane (1828-1840) presso il Red River - o Blood River - guidati da Andries Pretorius (†1853)[4]. Il 16 dicembre divenne, così, il “Giorno della Promessa” - poi festa nazionale della Repubblica sudafricana - cioè la giornata in cui si sarebbe avverata la “promessa” fatta da Dio ai Boeri che, considerandosi un “nuovo Israele”, ritenevano di aver raggiunto la loro Terra di Canaan, in cui mettere radici e prosperare. Da quel momento, la vittoria del Red River e la fondazione delle repubbliche indipendenti costituirono il momento fondativo della “coscienza etnica” boera, anche se tali eventi furono interpretati e trasfigurati alla luce della lettura calvinista delle Sacre Scritture[5]. Nella valli dell’Orange e del Vaal, i Voortrekker - “Pionieri” - come i Boeri amarono definirsi, edificarono un sistema politico repubblicano, fondato sulla piccola proprietà terriera, sull’allevamento e sul commercio al minuto, destinato, però, a non conoscere pace[6]. Negli anni ’60, infatti, la scoperta di filoni auriferi ed argentiferi nelle valli dei fiumi Orange e Vaal, spinse l’impero britannico a tentare il colpo di mano ai danni delle repubbliche. Nel 1877, vi fu il primo tentativo di annettere il Transvaal alla Colonia del Capo. Il dominio inglese durò poco per la immediata ribellione boera - vittoria di Majuba (1881) - che portò alla firma della prima pace di Pretoria (1883), con cui venne nuovamente riconosciuta l’indipendenza del Transvaal.

II) L’Unione Sudafricana.

L’Inghilterra vittoriana, però, non poteva arrendersi davanti alla resistenza delle repubbliche e, così, vi fu incoraggiata l’immigrazione degli Uitlanders, avventurieri anglofoni provenienti da Colonia del Capo, ai quali i Boeri rifiutarono la concessione della cittadinanza e dei diritti politici nelle loro repubbliche. Nel 1895, il primo ministro della Colonia del Capo, Cecil Rodhes (†1902), promosse lo “Jameson raid”, un’incursione armata di coloni inglesi, guidata da Leander Jameson (†1917), che avrebbe dovuto favorire una sollevazione generale degli Uitlanders già residenti in Transvaal e Orange. Il raid fallì e Rhodes, sconfessato dalla regina Vittoria (1837-1901), dovette dimettersi, benché avesse completato la sottomissione degli Zulu e dei Xhosa e fondato un’altra colonia britannica: la Rhodesia[7]. Nel 1899, l’impero britannico decise di farla finita, scatenando una vera e propria guerra contro il Transvaal e l’Orange che, dopo la coraggiosa resistenza sotto la guida dei rispettivi presidenti, Paul Kruger (†1904) e Martinus Steyn (†1916), capitolarono nel 1902, sottoscrivendo la seconda pace di Pretoria (31 maggio). La guerra fu una vera e propria “guerra di sterminio” che costò la morte di più di 7000 Boeri, cui sono da aggiungere 20000 morti nei campi di concentramento inglesi ribattezzati, in lingua afrikaans - laager - parola che indicava il “cerchio di carri”, con cui i Boeri si proteggevano dall’assalto degli Zulu. L’Orange e il Transvaal furono allora incorporati nella Colonia del Capo e andarono a costituire una nuova entità statale, l’Unione Sudafricana[8]. Poiché l’Unione vantava un gran numero di abitanti europei e salde istituzioni amministrative, Londra le riconobbe il rango di dominion del Commonwealth britannico, cioè lo status di colonia dotata di ampia autonomia politico-amministrativa e di un proprio governo, presieduto da un primo ministro[9]. Nel frattempo, aumentava anche l’immigrazione di elementi indostani e malesi, provenienti da altre regioni dell’impero britannico e attratti dalle potenzialità economico-produttive del dominion. I Boeri, costituendo ancora la maggioranza della popolazione “bianca” dell’Unione, riuscirono ad esprimere le personalità che si alternarono al governo per gli anni a venire come Louis Botha, Jan Smuts e James Hertzog. Nonostante il paese fosse la colonia inglese più sviluppata dell’Africa grazie ai vasti giacimenti minerari, tra i Boeri continuò a serpeggiare l’odio per l’Inghilterra, com’è dimostrato dal fatto che l’ingresso nel primo e nel secondo conflitto mondiale al fianco del Regno Unito fu turbato da gravi sommosse, perché una fetta consistente degli abitanti era favorevole alla neutralità o, addirittura, ad un intervento al fianco della Germania. L’atteggiamento filotedesco dei Boeri era dettato dal senso di “comunanza di stirpe” con la Germania, unica potenza europea che, al tempo della guerra anglo-boera, fornì loro aiuti finanziari e militari contro l’Inghilterra. Nel 1915, comunque, l’esercito sudafricano riuscì ad occupare l’Africa sudoccidentale tedesca - odierna Namibia - che, annessa all’Unione ne condivise le sorti fino al 1989. Nel 1939, in occasione della guerra contro la Germania nazista, alcuni Boeri costituirono anche un movimento politico filotedesco - “La sentinella del carro dei buoi” (OB) - che, però, fu messo subito fuori legge[10]. Nell’Unione Sudafricana la vita politica si organizzò sul modello europeo con la nascita di partiti politici quali il Partito Nazionale (1914) e il Partito Comunista Sudafricano (1921) - che riunirono l’elettorato bianco - e l’African National Congress (1912), che riunì la maggioranza della popolazione di colore, diretto soprattutto dalla “borghesia nera”, ossia da quella parte minoritaria della popolazione autoctona urbanizzata e sufficientemente alfabetizzata[11]. La fondazione dell’Unione Sudafricana ebbe come effetto, col tempo, di smorzare le differenze e le aspre contrapposizioni tra i Boeri e gli anglofoni, favorendo la formazione di un vasto raggruppamento etnico e politico comprensivo di tutta la popolazione bianca che trovò, proprio nel National Party (NP), la formazione rappresentativa dei propri interessi, soprattutto nei confronti degli aborigeni.

III) La Repubblica e l’apartheid.

A partire dalle elezioni del 1948, il NP conquistò la maggioranza assoluta in parlamento, mantenendo ininterrottamente il governo del paese fino al 1994. In quegli stessi anni, con il varo di un’apposita legislazione, prendeva forma quel sistema giuridico-sociale che sarebbe stato noto come apartheid - termine afrikaans che significa “separazione” - prontamente condannato dalla comunità internazionale - ONU in testa - con il varo di misure di embargo nei confronti del Sudafrica[12]. A promuovere l’apartheid furono i primi governi del dopoguerra, guidati da Daniel Malan (1948-1954), Johannes Strijdom (1954-1958) ed Hendrik Verwoerd (1958-1966)[13]. Nel 1950, fu messo fuori legge il Partito Comunista - ostile alla politica di apartheid - mentre, nel 1960, fu sciolto l’African National Congress (ANC), in seguito ad una manifestazione non autorizzata della popolazione nera, tenuta a Sharpeville, poi degenerata in insurrezione e, con il “processo di Pretoria” (1963-1964), parte della dirigenza del partito venne condannata a severe pene detentive[14]. Il Partito Comunista Sudafricano sopravvisse in condizioni di clandestinità, continuando ad appoggiare, con la fornitura di armi e danaro provenienti dall’URSS, la guerriglia fomentata dalle formazioni paramilitari che facevano capo all’ANC[15]. Il 31 maggio del 1961, dopo tanti anni, con un plebiscito popolare, i Boeri ottennero la loro “vendetta” contro l’Inghilterra, proclamando la piena indipendenza del paese - che assunse il nome di Repubblica Sudafricana - e uscendo dal Commonwealth: la “patria boera” - Afrikanerdom - sembrò, allora, diventare realtà! Ma in cosa consisteva l’apartheid, aborrita da tutti, ma di cui pochi conoscevano la reale natura? In un periodo in cui si avviava il processo di decolonizzazione africana e gli Europei venivano estromessi da ogni funzione direttiva e i loro beni nazionalizzati, l’apartheid rappresentò - al di là di qualsiasi considerazione “ideologica” di tipo razziale - l’unico strumento con cui la minoranza di origini europee - circa il 5% della popolazione - poté sopravvivere, evitando l’estromissione totale dal governo di un paese modernissimo che, nel bene e nel male, essa aveva creato. L’apartheid, quindi, prima che una “teoria”, fu uno strumento imposto dalla necessità storica di preservare l’identità etnica e politica dei bianchi - Inglesi e Boeri - consentendo di far funzionare “all’europea” - e fino al 1994! - l’unico paese dell’Africa subsahariana non travolto dalla decolonizzazione degli anni ’50-60[16]. Alle varie etnie africane spesso conflittuali - appartenenti al gruppo Bantu[17] - fu riservato l’autogoverno di una decina di zone della Repubblica - dette Bantustan o Homelands - sotto la sovranità di capi tribali, chief ministers. Inizialmente, la superficie totale dei Bantustan corrispondeva a non più del 13 % del territorio nazionale, ma divenne, col tempo, assolutamente insufficiente a contenere la popolazione cafra, a causa del tasso esorbitante di natalità della stessa - problema ancora oggi attuale – e caratteristica peculiare di ogni cultura tribale. Ciò comportò una situazione difficilissima da gestire perché, pur non avendone l’autorizzazione, moltissimi aborigeni si trasferirono in direzione delle città “bianche”, andando ad alimentare la delinquenza e favorendo la formazione di veri e propri slums, come quello di Soweto, a Johannesburg. Il governo sudafricano avviò, comunque, alla fine degli anni ’70, il riconoscimento della piena sovranità politica dei Bantustan, affinché diventassero stati indipendenti abitati da una specifica etnia, sotto propri capi, e il confine territoriale tra essi e la Repubblica sudafricana diventasse un confine internazionale tra stati sovrani, superabile solo da chi avesse avuto un adeguato passaporto. Tra il 1976 e il 1981, furono proclamati indipendenti Transkei, Venda e Ciskei, senza che l’indipendenza fosse riconosciuta dall’ONU[18]. Era iniziato, infatti, il grande boicottaggio internazionale del paese di cui, però, data la ricchezza mineraria, nessuno poteva fare a meno. Ed è proprio a causa di tale ricchezza che USA e URSS, assistiti dal grande capitale “apolide” e internazionale, decisero di puntare sull’annientamento della Repubblica sudafricana, finanziando massicciamente il terrorismo collegato a gruppi estremisti bantu - la “Lancia della Nazione”, il “Congresso Panafricano” - che si resero responsabili di molti attentati ai danni della popolazione locale anche di colore[19]. D’altronde, un paese privo di una guida politica stabile e di una classe dirigente tecnicamente preparata, nazionalisticamente radicata nella propria identità, si prestava certamente meglio a diventare una vera e propria “colonia” di investimento e di sfruttamento per le grosse multinazionali, sul modello degli altri stati africani, nati dalla decolonizzazione. Nell’azione di sabotaggio della Repubblica - volta a saccheggiarne le preziose risorse, minandone la sovranità - si distinsero anche le chiese locali - cattolica e riformate[20] - che offrirono copertura al terrorismo e, infine, il Partito Progressista (PP), guidato dal finanziere ebreo e filantropo Henry Oppenheimer (†2000): il PP, infatti, era l’unica forza politica bianca apertamente ostile all’apartheid. I governi di Balthazar Vorster (1966-1978) e di Pieter Botha (1978-1989) rinunciarono progressivamente all’apartheid sotto pressione dei gruppi di interesse predetti, al fine di migliorare l’immagine del paese nel consesso internazionale, ma questa politica causò molte scissioni “a destra” del NP, come la formazione del Partito Nazionale Rifondato[21], nel 1969, e del Partito Conservatore[22], nel 1982, mentre, nel 1973, un singolare personaggio - l’imprenditore agricolo Eugène Terre’Blanche (†2010) - fondò l’extraparlamentare “Movimento di Resistenza Afrikaner” che, però, svolse la sua azione al di fuori dell’agone elettorale[23]. Intanto la situazione all’interno del paese assumeva aspetti preoccupanti per l’ordine pubblico, a causa di alcune sollevazioni della popolazione nera come quella del “ghetto” di Soweto, un vasto slum costituitosi nella periferia di Johannesburg (1976), promossa dal movimento Black Consciousness - “Coscienza Nera” – ideologicamente ispirato agli analoghi movimenti afroamericani degli anni ’60[24]. In quegli stessi anni, l’esercito sudafricano intervenne nelle colonie portoghesi di Angola e Mozambico, per impedire la formazione di governi filosovietici marxisti-leninisti, appoggiati finanziariamente e militarmente dall’URSS e da Cuba. Il regime castrista aveva persino inviato, a sostegno dei movimenti indipendentisti, proprie milizie di “volontari”, noti come “Barbudos”. Crollata la dittatura portoghese di Salazar, nel 1974, l’Angola e il Mozambico ottennero la piena indipendenza e le truppe sudafricane furono costrette a ritirarsi. I governi marxisti dei due paesi offrirono, da quel momento, protezione ai terroristi dell’ANC, molti dei quali si addestrarono nelle basi militari messe loro a disposizione.

IV) La fine del Boerestaat.

Al primo ministro Pieter Botha (†2006) - promotore della politica dell’“adattarsi per non perire” - si deve la promulgazione, nel 1983, di una nuova costituzione di tipo presidenziale che unificava le cariche di capo del governo e capo dello stato nella nuova carica di “presidente” eletto direttamente dal popolo, dotata di maggiori poteri e coadiuvata da un “Consiglio per la sicurezza dello stato”, composto da elementi in parte di nomina presidenziale ed in parte di nomina elettiva. Le riforme messe in atto da Botha prevedevano l’abolizione della cosiddetta petty apartheid, cioè della “separazione” delle etnie nelle infrastrutture e nei luoghi pubblici e la costituzione - accanto al parlamento ufficiale - di altre due camere consultive, rappresentative dell’elettorato indostano e meticcio, ma non Bantu. Inoltre, fu abolito il divieto di matrimoni misti, l’obbligo del pass - per spostarsi dai Bantustan in aree territoriali riservate ai bianchi -  il divieto di costituzione di sindacati per la popolazione aborigena e indostana e fu concessa autonomia amministrativa, attraverso l’istituzione di appositi consigli elettivi, ai “ghetti” che, totalmente fuori controllo, andavano sviluppandosi nei sobborghi delle città industriali. Nel 1984, Botha divenne il nuovo presidente della Repubblica e cercò, anche attraverso una politica di massicci investimenti militari - date le condizioni di disordine interno in cui versava il paese - di potenziare gli apparati bellici del Sudafrica, soprattutto il controspionaggio, mentre le formazioni paramilitari dell’ANC trovavano protezione dai governi filosovietici di Angola e Mozambico, dove i guerriglieri cercavano rifugio, dopo aver compiuto incursioni o attentati in territorio sudafricano. La situazione, nel frattempo, diventava difficile anche in Namibia - ex Africa sudoccidentale tedesca - annessa formalmente al Sudafrica nel 1966, nonostante la condanna dell’ONU, perché si sviluppava la guerriglia della SWAPO, il locale movimento di liberazione nazionale, rifornito di danaro e armi dai governi marxisti dell’Angola e del Mozambico. Milizie sudafricane e angolane si affrontarono in territorio namibiano fino agli accordi di Lusaka, nel 1984, che previdero il progressivo ritiro delle truppe sudafricane e angolane dalla Namibia entro il 1989, anno al quale ha fatto seguito la proclamazione dell’indipendenza. Dal governo Botha fu esperito anche un tentativo di scarcerazione di Mandela, dietro l’impegno a rinunciare alla violenza come strumento di sovvertimento dell’ordine costituzionale, ma l’operazione fu un fallimento. Le riforme costituzionali non fermarono il terrorismo e le manifestazioni di piazza, promosse da Fronte Democratico Unito (FDU) - unione di stampo confederale tra circa 700 organizzazioni socio-sindacali avverse all’apartheid – e dal Forum Nazionale, e Botha, nel 1985, fu costretto a decretare lo “stato d’assedio”, poi reiterato fino al 1989, quando si ritirò dalla vita pubblica. Nel 1990, il nuovo presidente, Frederik de Klerk - già alla guida del NP dal 1989 - abbandonò l’apartheid e consentì la ricostituzione del Partito Comunista e dell’African National Congress, la cui dirigenza fu scarcerata o poté far ritorno dall’esilio[25]. Nel 1993, la nuova costituzione, approvata da un plebiscito cui parteciparono tutti i gruppi etnici, riconobbe piena cittadinanza ai neri e le elezioni del 1994 - le prime su base multirazziale - consacrarono la vittoria dell’ANC e del suo leader, l’avvocato di etnia Xhosa Nelson Mandela (†2013), che divenne il nuovo presidente della Repubblica. Mandela conservò la presidenza fino alle sue dimissioni, nel 1999, quando lasciò la carica al suo delfino, Thabo Mbeki, al quale, nel 2009, è succeduto l’attuale presidente, Jacob Zuma. Dal 1994, benché repubblica multipartitica, grazie alla stragrande maggioranza della sua popolazione di colore, il Sudafrica è, de facto, un vero e proprio stato monopartitico, in cui le posizioni di potere, a tutti i livelli, sono egemonizzate dall’ANC. Il nuovo regime, però, manifestò immediatamente i suoi “lati oscuri”, con le reiterate violenze contro la minoranza bianca - parte della quale espatriò - e con i sanguinosi conflitti che esplosero tra le etnie Bantu, soprattutto gli Xhosa e gli Zulu. Lo zulu Mangosuthu Buthelezi, infatti - capo del partito Inkatha, minister chief del bantustan KwaZulu e avversario di Mandela - rivendicò subito il ruolo di alfiere della “libertà” cafra, pur avendo sempre appoggiato il regime dell’apartheid, promuovendo una guerra civile contro l’ANC, con l’ausilio di lancieri armati come gli “impi” di re Shaka, di cui si considerava un discendente. La sorte riservata ai Boeri e, più in generale, ai bianchi, nella nuova “Repubblica arcobaleno”, è molto chiara. Se si pensa ai casi frequenti di stupri o uccisioni con la diffusa pratica del necklacing - vivicombustione dopo essere stati immobilizzati con un copertone cosparso di benzina - è veramente arduo pensare alla ricostituzione di un Boerestaat sul modello ottocentesco, evitando una secessione. L’ANC, inoltre, sta portando avanti una campagna di progressivo spossessamento fondiario ai danni dei discendenti dei coloni europei, ricorrendo alla forza o facendo pressioni sul sistema bancario, attraverso la negazione dei prestiti o il pignoramento dei beni dati in garanzia degli stessi[26]. D’altronde si sa che, oggi, il “politicamente corretto” non considera storicamente e politicamente possibili - e, quindi, impone di tacere - genocidi compiuti ai danni di individui di “razza bianca” o di fede cattolica, né esistono forze politiche in grado di competere, sul piano elettorale, con l’ANC, dato che il National Party si è sciolto nel 2005 e l’uccisione di Eugène Terre’Blanche - da parte di alcuni Xhosa[27] - ha creato ulteriore disorientamento nelle fila del fronte boero. Una residua speranza per i Boeri, forse, risiede nella formazione Afrikaner Volksfront - facente capo all’ex generale Constand Viljoen - che finora, però, non è stata in grado di coagulare abbastanza consenso. Cosa sia successo realmente nella Repubblica dopo il 1994, lo si evince anche dall’analisi di alcuni dati qui di seguito citati. Il Sudafrica si è trasformato, progressivamente, in una “repubblica delle banane”, come quelle nate a seguito del processo di decolonizzazione, debitrici verso il Fondo Monetario Internazionale, ai cui prestiti è potuto accedere dopo la fine dell’apartheid e la revoca delle sanzioni. Inoltre, da stato esportatore di generi alimentari, il Sudafrica ne è diventato importatore, l’AIDS è endemico, con più di 8 milioni di malati, la povertà coinvolge circa 20 milioni di Sudafricani, tra bianchi e neri, e la delinquenza rende il paese uno dei più pericolosi del mondo[28]. Da aggiungere il collasso del sistema sanitario nazionale, l’indebitamento pubblico, l’aumento vertiginoso della corruzione, il degrado ambientale e urbano con il noto fenomeno dei plakkers, ovvero degli “occupanti abusivi” - con costruzioni improvvisate - di suolo pubblico, all’interno di quelli che, un tempo, erano considerati contesti urbani civili. In un panorama del genere, quindi, non ci si deve meravigliare di dichiarazioni come quelle rese dal presidente sudafricano - lo zulu Jacob Zuma - secondo il quale l’AIDS andrebbe curato con qualche doccia in più. Un triste scenario che, tra alcuni anni, potrebbe riproporsi anche in Europa[29].

  NOTE [1] Assegnista di Storia Medievale, Università degli Studi di Salerno. [2] Sui Boeri si veda anche, T. Indelli, Europa e immigrazione. Osservazioni necessarie, Salerno 2017. [3] Sul punto, F. Fiorani-M. Flore, Grandi Imperi coloniali, Firenze-Milano 2005. [4] Al quale fu dedicata la fondazione della città di Pretoria, attuale capitale governativa del Sudafrica, sede ufficiale dell’esecutivo. Gli Zulu furono sconfitti definitivamente dagli Inglesi nella guerra del 1879-1881. Il loro re, Cetswayo (1858-1881), fu deportato a Londra. Rientrato in Africa, morì in circostanze misteriose. Per gli eventi descritti nel testo, B. Lugan, Histoire de l’Afrique du Sud, Paris 1986. [5] E’ possibile vedere, in questi fatti, e nella loro elaborazione culturale successiva, un’affinità con analoghe esperienze pioneristiche, pur se collocate in differenti contesti etnoculturali. Il riferimento immediato è al Far West americano. [6] P. Pretorius, Volksverraad, Mosselbaii (Sud Africa) 1996. [7] Nel 1923, la Rhodesia fu divisa in due colonie distinte: Rhodesia del Nord e Rhodesia del Sud. La seconda, più della prima, fu destinata al ruolo di colonia di popolamento attraverso una massiccia immigrazione di bianchi anglofoni. Sul punto, F. Fiorani-M. Flore, op. cit. [8] Con un’estensione superiore a un milione e trecentomila kmq e con tre nuove capitali: Città del Capo, sede del parlamento, Pretoria, sede dell’esecutivo, Bloemfontein, sede del potere giudiziario. [9] Il primo dominion fu il Canada (1867), il secondo l’Australia (1900), il terzo la Nuova Zelanda (1907). In ordine di tempo, l’Unione Sudafricana fu il quarto dominion del Commonwealth britannico, di cui fece parte - come si vedrà - fino al 1961. [10] E di cui fece parte Balthazar Vorster (†1983), futuro primo ministro. Nella seconda guerra mondiale le truppe sudafricane operarono in Kenya e in Africa settentrionale contro gli Italiani e i Tedeschi. Sul punto, M. Emiliani, Sudafrica. Storia dell’oggi. Paesi, protagonisti, questioni, 4, Roma 1991. [11] Dall’ANC si distaccò, nel 1960, il Congresso Panafricano (PAC), su posizioni molto più estremiste dell’ANC. [12] Nonostante il discredito internazionale e l’embargo d’armi, il paese era ricchissimo di minerali e nessuna nazione poteva fare a meno di intrattenere con esso relazioni commerciali. Oltre all’oro e all’argento, il Sudafrica è ricco di stagno, rame, piombo, zinco, alluminio, ferro, carbone, cromo, platino. Per non parlare dei diamanti. [13] Verwoerd fu ucciso nel corso di una seduta parlamentare, nel 1966, da un inserviente della camera - Dimitri Tsafendas (†1999) - poi definito, ufficialmente, uno “squilibrato”. In tal modo, Tsafendas riuscì ad evitare la condanna a morte e fu incarcerato a vita. Tuttavia, non mancò chi vide, in quell’assassinio, l’esito naturale di un complotto ai danni della Repubblica. Sul punto, C. Berentemfel, The conspiracy against South Africa, Link Hills 1989. [14] Tra i dirigenti condannati è da ricordare l’avvocato di etnia Xhosa, Nelson Mandela, e il suo sodale, Walter Sisulu. La piattaforma programmatica dell’ANC era la Freedom Charter, elaborata nel 1955, formalmente favorevole ad un Sudafrica multirazziale con gli esiti che, però, si vedranno più avanti. Molti dei dirigenti dell’ANC, sfuggiti alla cattura, ripararono all’estero e si formarono, ideologicamente, a Mosca, a Londra o a Washington. [15] Tra i massimi dirigenti comunisti sudafricani - in gran parte di origine “ebraica” - si ricordi Joe Slovo - ebreo di origini lituane - morto nel 1995. [16] Sul processo di decolonizzazione in generale, C. Coquery-Vidrovitch - H. Moniot, L’Africa nera dal 1800 ai nostri giorni, Milano 1977. [17] Gli altri raggruppamenti etnico-linguistici sono il Nilota, il Sahariano e il Sudanese. [18] Sul punto, S. Waldner, Stati Uniti, Iberoamerica, Sud Africa: tre messe a punto, Dueville (Vicenza) 2001. [19] G. Grazer, South Africa, American’s newest colony, Pretoria 1985. [20] Esclusa la “Chiesa Riformata Olandese”, schierata col fronte boero. Nell’opera di demolizione dell’apartheid si distinse, tra i tanti, il vescovo anglicano di Città del Capo, Desmond Tutu (1986-1996), ovviamente premiato, nel 1984, con il Nobel per la pace. [21] Tra i Leaders della nuova formazione, Jaap Marais (†2000) e Albert Hertzog (†1982). [22] Leader ne fu Andries Treurnicht (†1993) [23] J. Marais, Afrikanernasionalisme en die nuwe Suid Afrika, Pretoria 1990. [24] La rivolta, ufficialmente, esplose dopo la decisione del governo di Pretoria di imporre, nelle scuole del ghetto, l’insegnamento dell’afrikaans, lingua ufficiale della Repubblica. Il leader della rivolta, Steve Biko, morì in carcere, nel 1977. [25] Ovviamente, De Klerk fu subito insignito del Premio Nobel per la pace (1993). [26] G. Grazer, op. cit. [27] A quanto pare si trattava di alcuni dipendenti della sua fattoria che lamentavano arretrati nello stipendio. Ma sulla vicenda permane poca chiarezza. [28] La diffusione dell’AIDS - patologia “africana” per eccellenza - che affliggerebbe circa il 40% della popolazione del continente africano, con punte altissime in Sudafrica, è da collegare - a quanto sembra - agli usi tribali delle tribù bantu della regione del lago Vittoria e, precisamente, all’usanza di iniettare e ingerire sangue infetto della “scimmia azzurra”, ritenuto afrodisiaco secondo i riti locali. S. Waldner, op. cit. [29] Per una descrizione esauriente, B. De Rachewiltz, Sesso magico nell’Africa nera, Milano 1983, S. Waldner, La deformazione della natura, Padova 1997.

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Wilhelm Gustloff, la tragedia dimenticata – Franz Camillo Bertagnolli Ravazzi

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"Noi non diciamo più buongiorno o buonasera ma unicamente uccidete i tedeschi ! La mattina uccidete i tedeschi.............. e la sera uccidete i tedeschi !!!"

(Ilya Ehrenburg)

Verso la fine del 1944 l'Armata Rossa era ormai arrivata ai confini tedeschi e i bolscevichi aizzati dalla propaganda anti tedesca russa da parte di giornalisti di regime come Ilya Ehrenburg assetati di sangue tedesco. Il massacro di Nemmersdorf avvenuto nell'ottobre 1944 fu un chiaro segnale di quello che sarebbe capitato a civili tedeschi caduti in mani sovietiche . L'avvicinarsi delle orde rosse provocò un'enorme ondata di fuggitivi dalla Prussia ,dalla Pomerania e dalla Slesia verso la Germania centrale ancora sicura.  Molti profughi fuggirono con mezzi di fortuna via terra come carri trainati da buoi e cavalli ma spesso furono sterminati dall'aviazione e dall'artiglieria sovietica. Altri fuggirono via mare nel corso della cosiddetta Operazione Hannibal che comportava l'evacuazione via mare di civili e militari tedeschi verso porti ancora sicuri nel cuore della Germania e verso la Danimarca. Furono destinate a quest'imponente operazione tutte le più grandi navi della Kraft Durch Freude . Nei porti di Danzica, Gotenhafen e Pilau partirono cariche di tedeschi in fuga le navi Capitano Arcona (t. 27.561), Robert Ley (t. 27.288), Hamburg (t. 22.117), Deutschland (t. 21.046), Potsdam (t. 17.528), Pretoria (t. 16.662), Berlin (t. 15.286), Goya e altre ancora. Fu la più imponente evacuazione della storia, con oltre due milioni di persone trasferite.

Tra queste vi era la Wilhelm Gustloff. La Wilhelm Gustloff era il gioiello della tedesca KdF (Kraft durch Freude), costruita dalla Blohm und Voss di Amburgo e varata nel 1937. Lunga oltre 200 metri, aveva una stazza di 25.893 tonnellate. Prese il nome da Wilhelm Gustloff, fondatore, e capo della sezione elvetica del partito nazionalsocialista, assassinato il 4 febbraio del 1936 a Davos dallo studente ebreo David Frankfurter. La Gustloff era la nave di bandiera dell'intera flotta della KdF, che poteva contare anche su numerosi altri vascelli, altrettanto grandi e famosi. Ma la Gustloff era unica in quanto a lusso e sfarzo. E prima dello scoppio del conflitto ospitò la ricca borghesia tedesca in diverse crociere nell'Oceano Atlantico, nel Mar Mediterraneo e nei mari del Nord.  Nel maggio del 1939, quattro mesi prima dell'inizio della seconda guerra mondiale, la Gustloff si affiancò ad altre quattro navi della KdF, la Robert Ley, la Der Deutsche, la Stuttgart e la Sierra Cordoba. Queste navi avevano il compito di ricondurre la Legione Condor dalla Spagna alla Germania. Arrivata nel porto di Vigo, scaricò materiale medico per le organizzazioni di volontariato e sanitarie spagnole. Poi caricò i 1.400 uomini della Legione e il 30 maggio del 1939 fece ritorno nelle acque tedesche. Una parata di navi la scortò sino al porto d'Amburgo, dove fu accolta da grandi manifestazioni di giubilo.

All'inizio del conflitto mondiale le forze armate tedesche trasformano la Gustloff in nave ospedale, a disposizione della Kriegsmarine. Fu classificata come Lazarettschiff D. L'uso di questo tipo di nave era strettamente monitorato ed era sottoposto a un rigido protocollo di procedure internazionali. Completamente riverniciata di bianco, sfoggiava su entrambi i lati una banda verde lungo tutta la carena, oltre a numerose croci rosse sul ponte, sul fumaiolo e sui lati. Su queste navi era proibito trasportare materiale bellico.  Il primo impiego della nave ospedale fu nella zona di Danzica, durante le operazioni contro la Polonia, dove la Gustloff rimase alla fonda nella baia per molte settimane accogliendo i soldati tedeschi feriti. Da maggio a luglio 1940 prese servizio come ospedale galleggiante durante la campagna di Norvegia, stazionando nei pressi di Oslo; quando levò l'ancora aveva a bordo 560 persone, tra feriti ed equipaggio. Prima dell'autunno del 1940 alla Gustloff fu ordinato di prepararsi per le operazioni in vista dell'invasione dell'Inghilterra, ma come sappiamo tale operazione non fu mai portata a termine. Dopo un successivo viaggio a Oslo, per recuperare altri 414 feriti, terminò il servizio di nave ospedale e puntò quindi in direzione di Gotenhafen, dove, sempre al servizio della Kriegsmarine, fu tramutata in nave caserma per gli U-boot tedeschi. La Gustloff iniziò questa nuova attività prima sotto la 1° Divisione Unterseeboots e poi sotto la 2° Divisione Unterseeboots, rimanendo all'ancora a Gotenhafen per quattro anni.

Quando la Gustloff lasciò la protezione del porto di Gotenhafen il 30 gennaio 1945, con destinazione Kiel, le condizioni climatiche erano pessime: soffiava un vento forte, nevicava, la temperatura era di dieci gradi sotto lo zero e numerosi blocchi di ghiaccio galleggiavano nel mar Baltico. Le possibilità di sopravvivenza di un naufrago in un mare cosi freddo, e in condizioni atmosferiche simili, erano pressoché nulle. La lista dei passeggeri era formata da 918 ufficiali, 173 membri dell'equipaggio, 373 membri delle Unità Navali Ausiliarie (formata esclusivamente da donne), 162 feriti, e 4.424 rifugiati. Un totale di 6.050 persone. Ma questa lista non teneva conto delle centinaia di persone che all'ultimo momento avevano preso posto sul ponte della Gustloff. Secondo le più recenti stime il numero totale di persone a bordo era di 10.582, che Heinz Schon, attento studioso della vicenda, ha così suddiviso: rifugiati 8.956, ufficiali e membri della 2° Unterseeboot-Lehrdivision 918, donne delle Unità Ausiliari 373, uomini delle forze navali 173, soldati feriti 162. Mentre la Gustloff puntava verso Kiel, il sommergibile sovietico S-13 comandato da Alexander Marinesko individuò la nave. Dopo averla seguita brevemente, alle 21,08 di quel 30 gennaio 1945 la colpì con tre siluri. Il primo raggiunse la nave a prua, direttamente sotto la linea di galleggiamento, nei compartimenti 2 e 3. Il secondo l'area della piscina e il terzo la sala motori, devastando l'intero scafo. Immediatamente la Gustloff piegò a dritta e lanciò i razzi di segnalazione e SOS. Il castello di prua fu quasi sommerso mentre la poppa si alzò sopra il livello del mare. In meno di cinquanta minuti si consumò la più grande tragedia navale tedesca. La Gustloff affondò nelle gelide acque del mar Baltico portando con se 9.343 persone (7.700 secondo le stime ufficiali). I sopravvissuti furono solo 300. L'affondamento della Gustloff è ricordato oggi come il più grave e tragico evento di tutta la storia navale. Ma allora quella tragedia non ebbe la risonanza internazionale che avrebbe meritato. Trattandosi di una nave nemica il fatto passò come un semplice evento bellico, cioè il siluramento di una nave tedesca da 25.000 tonnellate.

Nel maggio 1945, al momento della capitolazione del Terzo Reich, circa otto milioni di abitanti della Prussia orientale, della Pomerania, della Marca di Brandeburgo e della Slesia erano stati spinti a ovest dall'avanzata sovietica. Altri tre milioni di tedeschi saranno espulsi da queste terre negli anni immediatamente successivi, tra il 1945 e il 1950, in uno dei più drammatici e imponenti trasferimenti di popolazioni che la storia ricordi. Nel 1990 a Marinesko fu conferita in maniera postuma la decorazione di Eroe dell'Unione Sovietica  Gli fu intitolato il Museo di Sottomarini di San Pietroburgo e gli furono dedicati monumenti a Odessa , Königsberg e Kronshstad .

In Memoria delle vittime del Genocidio Tedesco in Europa Orientale, Perdonare ma Non Dimenticare. Franz Camillo Bertagnolli Ravazzi

La democrazia dei creduloni – Roberto Pecchioli

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Carl Schmitt insegnò che l’essenza del politico è la distinzione tra amico e nemico. Nemico è il neoliberismo nella forma della globalizzazione, del dominio della finanza, del controllo tecnologico e del materialismo radicale. Identificato il nemico, occorrono armi dialettiche, culturali, civili per contrastarlo. Il primo terreno di lotta riguarda l’individuazione delle sue menzogne per fare opera di verità. Un punto di forza della “narrazione” avversa riguarda il concetto di democrazia. Totem e tabù della modernità, credenza indiscutibile, criticare o revocare in dubbio Sua Maestà la Democrazia pone fuori dallo spazio civile ed espone alla giustizia penale. Nondimeno, è urgente condurre una critica della ragione democratica, a partire dal significato delle parole. Democrazia significa potere del popolo: nessuno può ragionevolmente sostenere che nel regime vigente il popolo detenga quote significative di potere. Ristabilire tale elementare verità è il primo atto rivoluzionario.

[caption id="attachment_25882" align="alignright" width="202"] Carl Schmitt[/caption]

La democrazia dei creduloni è il titolo di un saggio del sociologo Gérald Bronner che si propone di mettere in guardia dalle verità preconfezionate, dalla pigrizia mentale, dall’adesione acritica alle idee dominanti. La soluzione più facile è quella più rassicurante, credere è sempre più comodo che ragionare. Il problema è la riconquista della verità, nella certezza che chi accresce la conoscenza accresce il dolore (Ecclesiaste). I padroni del mondo lo sanno bene e lavorano per plasmare una “personalità democratica” superficiale, triviale e credulona. Poiché possiedono la schiacciante maggioranza delle fonti di informazione, chiamano false notizie tutte le idee non in linea con la narrazione ufficiale. Si sente il bisogno di una ideale rifondazione di quella società degli àpoti (quelli che non se la bevono…) di cui parlò Giuseppe Prezzolini.

La dogmatica democratica, per quanto il termine sembri un ossimoro, è diventata apologetica, vera e propria santificazione, liturgia obbligatoria, fine della storia nel senso teorizzato da Francis Fukuyama. Il pesce puzza dalla testa, quindi la democrazia ad uso dei creduloni va demistificata a partire dall’origine, ovvero dal più indiscutibile dei suoi dogmi: se infatti essa è il governo del popolo, noi non viviamo affatto in una democrazia. Nella realtà, infatti, vince sempre la minoranza, e quella minoranza è formata dai detentori del potere economico. I loro interessi hanno prodotto leggi, costituzioni, procedure volte a determinare e perpetuarne il dominio. Il potere del denaro svuota la democrazia sino a trasformarla nel suo opposto. Partiamo dall’Unione Europa. Il cosiddetto europarlamento non ha funzione legislativa, ed è quindi inutile, un rifugio ben pagato per politici in disarmo. Le normative, in forma di regolamento, vengono emesse da organi non elettivi e rese immediatamente esecutive in tutti i paesi, scavalcando il diritto nazionale, governi e parlamenti. Quanto agli Stati, i loro governi sono espressione di maggioranze parlamentari costruite a tavolino attraverso l’ingegneria elettorale. Con sistemi di elezione che costituiscono vere e proprie manomissioni della sovranità popolare, partiti votati da minoranze controllano i parlamenti e diventano governi in nome della “stabilità”, ovvero dell’immobilità, architrave della nuova dogmatica democratica.

Ciò vale per tutti i grandi Paesi. In Gran Bretagna, con il sistema maggioritario secco in alcune occasioni è andato al governo non il partito più votato, ma quello che è arrivato primo nel maggior numero di collegi. Rarissimo è il caso che conservatori o laburisti ottengano la maggioranza dei voti popolari. In Spagna, con un metodo proporzionale corretto (d’Hondt) è possibile conseguire la maggioranza alle Cortes con meno del 40 per cento dei suffragi. Peraltro, l’attuale governo è di netta minoranza e si regge sull’astensione di alcune opposizioni. In Francia, con il doppio turno, le maggioranze governative sono frutto della forzatura elettorale e non del consenso dei cittadini. Il caso tedesco vede due grandi partiti, democristiano e socialdemocratico, costretti dalla continua erosione dei consensi a formare governi di coalizione invisi ai rispettivi elettori ma sponsorizzati dal potere industriale e finanziario. Negli Usa, il metodo è quello britannico, con in più l’elemento federale, tanto che Donald Trump è stato eletto presidente con meno voti di Hillary Clinton. In Italia, dove l’orrendo Porcellum dichiarato incostituzionale ha permesso cinque anni di governo al centrosinistra con meno del 30 per cento dei voti, il nuovo Rosatellum promette esiti simili.

Tutto ciò è frutto di un disegno preciso che viene dall’alto, diventando la normalità invertita della democrazia reale, in cui vige ormai il principio di minoranza fondato sulla manipolazione di procedure e regole. Vi è poi la tendenza, ampiamente incoraggiata dal sistema, alla depoliticizzazione di massa, la cui conseguenza, insieme con il tramonto del pensiero critico, è l’indifferenza per il dibattito pubblico e l’assenza di partecipazione alle decisioni, a partire dalle elezioni. In molti casi, a dire il vero, non di depoliticizzazione si tratta, ma del voluto deficit progettuale delle forze politiche, la sovrapponibilità dei programmi, la percezione diffusa che la politica, ogni politica, sia un problema anziché una soluzione. Per il resto, generazioni indifferenti alla partecipazione pubblica sono assai gradite al potere, che può portare al massimo livello il suo governo della minoranza. Minore è la partecipazione, più comodamente decidono lorsignori, con il consenso dei gruppi e dei ceti clientelari, mentre tutti gli altri subiscono le scelte di pochi, restando senza rappresentanza. Democrazia apparente, neutralizzata, ridotta a rito, procedura dall’esito precostituito, una corsa truccata decisa in anticipo, come sanno gli allibratori, ma ancora creduta tale da molti: la democrazia dei creduloni, appunto.

    ROBERTO PECCHIOLI

Etruschi a Tavolara – Massimo Pittau

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A proposito della recente notizia del ritrovamento di un centro abitato degli Etruschi nell’isola sarda di Tavolara, mi permetto di intervenire per fare una importante precisazione, riportando un capitolo della mia opera “Storia dei Sardi Nuragici 8 Selargius, CA, 2007).

64. L'"Orientalizzante" nella civiltà etrusca e nella civiltà nuragica

Che l'etnia etrusca non sia affatto autoctona nella penisola italiana, ma sia al contrario venuta dal di fuori è chiaramente dimostrato da due elementi che caratterizzano la sua civiltà al suo primo apparire: la repentinità e la maturità. In termini archeologici la civiltà etrusca si presenta innanzi tutto in maniera repentina od improvvisa nelle coste tirreniche dell'Italia centrale, senza alcun precedente adeguato nei luoghi e nelle città in cui essa si è affermata storicamente; in secondo luogo essa si presenta fornita di tutti i caratteri di una civiltà già matura, cioè già molto avanzata in termini di sviluppo civile e per di più enormemente ricca.

Per il vero questi due fattori della repentinità e della maturità sono stati messi in discussione e respinti dagli studiosi moderni appartenenti alla corrente autoctonista (§ 11). Questi infatti hanno tentato di dimostrare che fra la precedente «cultura villanoviana» dell'età del bronzo e degli inizi di quella del ferro affermatasi in Italia da un lato e quella etrusca dall'altro non sarebbe esistita alcuna soluzione di continuità, non sarebbe mai esistito alcun "salto" né quantitativo né qualitativo e che quindi la «civiltà etrusca» non sarebbe altro che il progressivo e lento sviluppo della precedente «cultura villanoviana», la sua naturale e progressiva "maturazione". Senonché questo tentativo degli autoctonisti è fallito, come doveva fallire, completamente, posto che nessuno studioso che non abbia idee fisse e preconcette da difendere, potrà sostenere con serietà e soprattutto con prove oggettive che esiste una esatta continuità di sviluppo e di maturazione, ad esempio, fra le modestissime tombe villanoviane costituite da due scodelle coperchiate l'una sull'altra e le tombe monumentali a pseudocupola dei primordi della civiltà etrusca. La circostanza poi - sottolineata ed enfatizzata dagli studiosi autoctonisti - della presenza di reperti villanoviani nei medesimi siti in cui si è poi sviluppata la civiltà etrusca non costituisce affatto una prova contraria alla tesi dell'origine anatolica o microasiatica degli Etruschi, ma anzi si staglia perfettamente nelle notizie storiche che ci sono state tramandate, quale quella di Plinio il Vecchio, che parla di 300 città strappate dai Tirreni od Etruschi agli Umbri, e quali quelle che conservano il ricordo della conquista da parte dei Tirreni/Etruschi di parecchie città dell'Italia centrale, come Cere, Pisa, Saturnia, Alsium ed anche Roma\1\.

Dunque i Tirreni/Etruschi invasori che venivano da terre d'oltre mare, cioè sia i Tirreni/Nuragici della Sardegna sia i Tirreni/Lidi dell'Asia Minore, non hanno in linea generale "fondato" propriamente le loro città, bensì si sono limitati a conquistare i precedenti centri di «cultura villanoviana» abitati dagli Umbri. E proprio così si può spiegare la circostanza che di alcune di quelle città si conoscevano due nomi, evidentemente quello originario dato dagli Umbri o dalle popolazioni italiche e quello successivo imposto dagli Etruschi: Agylla/Caere, Anxur/Tarracina, (A)Urina/Saturnia, Camaris/Clusium, Teuta/Pisa, Volturnum/Capua, ecc.\2\.

«La civiltà etrusca dell'età storica - ha scritto l'autorevole storico francese Jean Bérard, nella sua geniale opera La colonisation grecque de l'Italie méridionale et de la Sicilie dans l'antiquité - si afferma in opposizione a quella villanoviana nel cui seno si sviluppa; e nulla è più diverso e contrastante dalle povere tombe a incinerazione del periodo villanoviano delle ricche camere funerarie del periodo etrusco vero e proprio»\3\.

Lo ripeto e ribadisco: di fronte e di contro alle modestissime manifestazioni della precedente «cultura villanoviana», la «civiltà etrusca» si presenta in maniera repentina od improvvisa come una civiltà del tutto matura in termini civili ed inoltre caratterizzata da una ricchezza straordinaria.

Non solo, ma questa civiltà etrusca presenta una precisa e inconfondibile connotazione: quella di essere permeata e sostanziata da innumerevoli e chiarissimi elementi che rimandano all'Oriente mediterraneo: usanze, credenze religiose, vasi, armi, vestiario, moduli architettonici, plastici e figurativi, ecc. ecc. L'insieme di tutti questi elementi appartiene già alla più sicura e ormai indubitabile storiografia etrusca ed è entrato nel vocabolario degli studiosi col termine di «Orientalizzante».

Anche per l'«Orientalizzante» i moderni studiosi della corrente autoctonista hanno tentato una operazione disperata: i numerosissimi e vistosi elementi orientali che si trovano ai primordi della civiltà etrusca non sarebbero affatto il risultato dell'arrivo di folti gruppi di uomini dall'Oriente mediterraneo in Italia, ma sarebbero semplicemente il risultato di intensi scambi intercorsi - anche per il tramite dei soliti Fenici! - fra gli eredi della «cultura villanoviana» e le varie popolazioni del Mediterraneo orientale. Senonché ha giustamente fatto notare Jacques Heurgon, uno dei più acuti studiosi della civiltà etrusca, che gli elementi dell'Orientalizzante sono tanti e tali, che è difficile che siano il frutto di semplici scambi commerciali, mentre è assai più ovvio ritenere che siano il frutto di un massiccio arrivo di uomini orientali in terra d'Etruria (§ 11 e note).

Però è molto importante aggiungere e precisare che un fonemeno di «Orientalizzante» esiste sicuramente anche nella «civiltà nuragica»: come abbiamo visto ampiamente nelle pagine precedenti, pure usanze, credenze religiose, vasi, armi, vestiario, moduli architettonici, plastici e figurativi, ecc. dei Nuragici rimandano sicuramente e chiaramente all'Oriente mediterraneo.

Democrazia versus Liberalismo – Roberto Pecchioli

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Uno degli inganni più creduti del presente è che democrazia e liberalismo siano sinonimi. Il punto di intersezione sarebbe il parlamentarismo, luogo d’elezione dell’ideologia liberale, prova invincibile della relazione tra la democrazia (governo del popolo) e la libertà economica, totem della dogmatica liberale. Il nesso, costruito a partire dalle due grandi rivoluzioni borghesi del Settecento, americana e francese, saldato sino alla fusione al termine del Novecento, compimento della storia per vittoria del mercato, è facilmente confutabile. Sistemi sociali basati sulla proprietà privata hanno convissuto per secoli con i più diversi regimi politici, sino al caso della Cina del XXI secolo, capitalistica, poco liberale e per nulla democratica. Già a un’analisi superficiale, risulta chiaro che il potere del popolo è incompatibile con un regime economico fondato sulla prevalenza programmatica degli interessi privati. Tocqueville comprese per primo che il successo della democrazia liberale è legato alla continua espansione della sua base borghese, continuata per quasi due secoli sino a divenire classe dominante. Abbattuti dopo il 1968 i residui valori tradizionali della vecchia borghesia, sconfitta nel 1989 l’alternativa comunista, l’egemonia è passata alla classe dei grandi azionisti e dei dirigenti delle sempre più gigantesche entità industriali e finanziarie private, estranee al metodo e al principio democratico. “I voti non si contano, si pesano” (Giovanni Agnelli), è il credo degli alfieri di un capitalismo il cui modello è il consiglio di amministrazione e il cui obiettivo è il dominio attraverso la privatizzazione del mondo e il possesso della tecnologia.

Suoi nemici politici restano la democrazia e lo Stato; avversari culturali le identità collettive: religioni, popoli, nazioni, comunità. Il liberalismo non è che l’involucro, la maschera benevola del liberismo globalista. Il tarlo della modernità non è la democrazia, bensì la prevalenza al suo interno della ragione liberale, liberista in economia, formalista nel diritto, parlamentarista in politica. Questo è il nucleo del nostro “pensiero forte”. Al riguardo, è interessante riassumere l’opinione di due grandi critici della democrazia parlamentare, Oswald Spengler e Carl Schmitt. Spengler osteggiò la democrazia in quanto regime falso, orientato attraverso la manipolazione dei mezzi di informazione, con cui il popolo scambia per libertà la propria mutevole opinione eterodiretta. Un secolo dopo, l’analisi dell’autore del Tramonto dell’Occidente conserva la sua pregnanza.

La critica di Schmitt è più sottile e insieme più radicale. Secondo il grande giurista, la democrazia si risolve e dissolve nella pratica del parlamentarismo, assai diversa dalla sovranità popolare. Nel mirino dell’autore delle Categorie del Politico entra il più munito dei santuari del pensiero liberale, la separazione dei poteri, quei meccanismi impersonali check and balance che finiscono per innestare un “pilota automatico” nella democrazia ridotta a periodico spettacolo elettorale e sterilizzare ogni processo di decisione svuotando il potere dello Stato, secondo teoria e prassi liberale. Schmitt, con un parziale debito verso Rousseau, afferma che il cuore del principio democratico è l’inesistenza della distinzione teorica tra governati e governanti. La separazione dei poteri deve pertanto essere assorbita da un principio superiore, l’esercizio diretto della sovranità da parte del popolo, la cui espressione fondamentale è lo Stato, nemico principale dei liberali. Si può dissentire dalla generalizzazione schmittiana, ma non si può negare che sia stata costruita ad arte una grande confusione tra il potere esecutivo- braccio secolare di oligarchie estranee – e quello legislativo, ossia il parlamento derubricato a luogo di contrattazione di interessi opachi dei gruppi di potere e di pressione (le lobby). Sullo sfondo, il potere giudiziario, zona grigia di finta indipendenza, sottratto al controllo popolare, luogo di identificazione tra verità e legalità, nonché di legale proscrizione delle idee ribelli. Seguendo le piste di Schmitt, occorre prendere atto che, al di là delle volontà individuali, si è scelti da qualcuno come nemici. A costoro non si può rispondere con profferte di dialogo, sterili sottigliezze giuridiche o interminabili discussioni (la clasa discutidora borghese tanto invisa a Donoso Cortés).

Vale la Teoria del Partigiano: amica è la democrazia partecipativa, amico è lo Stato, la comunità nazionale, locale e spirituale, la morale, l’identità. Nemico, irrevocabilmente, è il liberalismo/liberismo della finta democrazia fatta di conciliaboli parlamentari, ove si legittimano e legalizzano la privatizzazione del mondo, la nuova schiavitù, la dittatura del denaro, la fine della sovranità, l’omicidio dei popoli.

Roberto PECCHIOLI

Le borgate del paradiso: Tiburtino III – Emanuele Casalena

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  [caption id="attachment_25894" align="aligncenter" width="850"] Prima foto aerea della Borgata Tiburtino III ( ex Pietralata II  ) – 1940
La strada che costeggia la borgata è via Grotte di Gregna che sfocia in alto sulla Tiburtina[/caption] Antefatto

Tommaso L. viveva in via Leopardi, casa popolare. madre nata vecchia, lui accartocciato dalla poliomelite, una gamba rigida, rimasto un po’ piccino, fronte alta, occhi trasparenti come i santi, era lì seduto accanto alla finestra nella sezione della sua camera da pranzo. Non aspettava la visita delle pie donne ma dei suoi giovani camerati con cui parlare di storia e strategie del presente, fumando lento mezza nazionale. Calabrese fiero, aristocratico,  acuto d’intelletto, s’era costruito da solo la cultura, leggendo, leggendo come l’omonimo della sua strada. Il Secolo d’Italia gli pubblicò un articolo sull’eroe indipendentista corso Pasquale Paoli, ma dei suoi scritti, appunti presi su fogli o nelle agende non c’è rimasto niente. Camerata sì ma cattolico fervente Tommaso ci chiedeva di accompagnarlo alla scoperta di nuove epifanie del sacro, così a giro si partiva da  Padre Pio a madre Speranza, fino a sbarcare nel porto dei pentecostali vicino a S. Croce in Gerusalemme a Roma. A farla breve, per chi scrive, fu uno scendere dalla nave della militanza dura e pura,  fermarsi per un poco in quel gruppo di matti dello Spirito Santo. Così mi capitò di ritrovarmi missionario laico del Vangelo a Tiburtino III mandato a bussare per le case dal parroco di S. Maria del Soccorso. A mente una sola porta mi fu chiusa in faccia, le altre si aprivano per l’ accoglienza, storie personali messe sul tavolo tra racconti, bisogni, interrogativi e tanto ma proprio tanto caffè. Dopo molti anni ci sono ritornato per le noiose puntate d’un corso di formazione per docenti, poi ancora per sostenervi il concorso a cattedre di Storia dell’Arte, il tutto si svolgeva nelle aule dell’Istituto Statale d’Arte via del Frantoio, complesso affascinante compreso il piccolo bar e la sua giovane barista. Negli anni ho avuto poi tanti studenti che sbarcavano dalla Metro B S. Maria del Soccorso al liceo scientifico dove ho avuto la fortuna d’insegnare. Queste le radici che mi legano a questa borgata romana vilipesa, come le altre, dal drago della speculazione edilizia nel secondo dopoguerra.

C’è una leggenda “partigiana” che attribuisce agli sventramenti del centro storico la nefasta ghettizzazione sociale degli sfrattati nelle borgate periferiche di Roma. Un confinamento classista dei non abbienti espulsi dalla cuore della Capitale dell’Impero in virtù d’ un progetto d’immagine non coniugabile con la presenza dei diseredati, quasi una pulizia sociale. I fatti non avallano questa tesi strumentale, se non per una piccola percentuale, mediamente tra il 5-6% legata all’attuazione del Piano Regolatore di Roma del 1931 a firma Marcello Piacentini e Gustavo Giovannoni, l’uno architetto l’altro ingegnere. Dopo la supervisione di Benito Mussolini e relativo assenso, il Piano fu adottato dal Governatorato e finanziato, con legge, nel 1932, da lì si passò alla stesura dei Piani Particolareggiati per ciascun intervento programmato. La prima “borgata” romana era stata Acilia, ante PRG. una tipologia d’insediamento rurale, le sue casette Pater a un solo piano con tetto a padiglioni erano dotate mediamente di 1000 mq di terreno orticolo. S. Basilio aveva recepito la stessa filosofia seppure gli orti, per ragioni anche d’uso maggiore dello spazio, erano scesi alla metà 500 mq. Questa filosofia di dare luogo a borghi ben definiti, autonomi, mantenendo le radici della sua popolazione nel solco dell’agricoltura, orgoglio dell’economia nazionale come testimoniavano le bonifiche pontine, nei fatti si rivelò un intervento ingenuo. I “paesi giardino” tradirono purtroppo le aspettative di progetto perché le comunità di insediamento tali non erano, non possedevano un humus che fungesse da collante, erano variegate per cultura quanto per esigenze di lavoro. Questa constatazione guidò la mano nel progetto di Tiburtino III e Pietralata, non più insediamenti rurali ma un’edilizia più intensiva anche per ragioni del rapporto costi/benefici. Le nuove borgate  erano nel solco del Quarticciolo, avamposti urbanizzati della futura espansione della città eterna che dai 937.177 ab. del ’31 doveva sfiorare i due milioni nell’arco di venticinque anni.

[caption id="attachment_25893" align="aligncenter" width="600"] Piano Regolatore Generale di Roma-1931[/caption]

Certo è che le borgate furono la risposta alla domanda di case della fascia meno abbiente della popolazione romana, quella che aveva cinto di baraccopoli la città appena fuori il perimetro delle mura aureliane. Vi dico che la percentuale maggiore degli abitanti di Tiburtino III veniva dalla bonifica delle baracche di Porta Metronia ( quella di F. Totti!), rappresentava il 26,50% cui aggiungere un altro 12% provenienti da altri insediamenti “spontanei” sorti dall’Ostiense fino a Piazza Mancini ( dove ora c’è il MAXXI), poi c’erano gli sfollati dai vari dormitori o struttura d’accoglienza provvisoria (12.50%) e a seguire per sanare situazioni di emergenza abitativa, solo uno scarso 10%, nel nostro caso, veniva dagli sventramenti del centro, compresi però alcuni interventi di riqualificazione e risanamento effettuati a Trastevere. Riportiamo un breve stralcio dell’ing. Giuseppe Nicolosi relativo alle scelte progettuali seguite sia per Pietralata I che per Pietralata II (poi Tiburtino III). Leggiamo cosa scrive sulla rivista  L’Ingegnere del settembre 1936 a proposito di “Abitazioni provvisorie ed abitazioni definitive nelle borgate periferiche”:  “La concezione di queste borgate si riconnette ad una visione realistica…che corrisponde alle esigenze attuali dell’edilizia popolare a Roma. L’essere le aree prossime alla città, come è richiesto per essere la popolazione polarizzata sul centro di lavoro cittadino, impedisce una concezione ultra estensiva; come pure lo impedisce il costo dei servizi generali. Tenuto conto di ciò…viene a cadere la possibilità di una impostazione agricola; in conseguenza di questo si è preferito non assegnare aree individuali,che…non consentirebbero uno sfruttamento orticolo.” Si passa dal villaggio rurale al paese urbanizzato, frontiera dell’espansione cittadina ma anche prova di quartieri operai in previsione dello sviluppo industriale di Roma a nord-est. Nel 1936 avvennero le prime assegnazioni di alloggi a Tiburtino III, 488, il progettista per conto dell’Ifacp era l’ing. G. Nicolosi al quale si affiancherà poi l’arch. Roberto Nicolini che abbiamo già incontrato al Quarticciolo. La neoborgata insisteva su un’area rettangolare confinante a N con la consolare Tiburtina, a est con via Grotte di Gregna e a sud-ovest col Forte Tiburtino ( inaugurato nel 1884) compresa la caserma dei Granatieri di Sardegna, complessi oggi in disarmo.  L’Ifacp scelse per questi insediamenti periferici soprattutto le case a schiera con altezza massima prevista di due piani  comprensive di sei alloggi, ma  in realtà le tipologie abitative realizzate furono diversificate, come vedremo, anche per spezzare la monotonia dell’intervento. Le condizioni ambientali del terreno, di proprietà del Governatorato, erano ottimali per una progettazione ex novo, non condizionata da quelle presenze storiche che a Roma sono i dissuasori dell’ ossigeno creativo. Lì, come al borgo d’ispirazione medioevale del Quarticciolo, era possibile sperimentare il modello di insediamento residenziale, non più agreste, di un quartiere di edilizia sì popolarissima ma comunque virtuosa per concezione urbanistica, un modello di “paese urbano” non dissimile, per concezione, da quelli assai diffusi nelle metropoli europee, la dove la città vecchia funge da polo privilegiato per il lavoro, mentre le aree residenziali sono periferiche, non di rado a debita distanza. E questo presuppone l’efficacia dei collegamenti che nel PRG del ’31 doveva privilegiare quello ferroviario con un anello e cerniere strategiche di penetrazione verso il centro compresa la metropolitana. Dicevamo del terreno aperto e sgombero da fetazioni archeologiche, era adatto a studiare attentamente il giusto orientamento dei fabbricati per conseguire la migliore resa termica, propria dell’antica architettura romana, il raggiungimento di un coefficiente energetico ottimale ante litteram.  Nell’area d’intervento si dovettero però eseguire gravosi movimenti di terra per livellare il piano di campagna, questo richiese opere maggiori di fondazione, anche perché il terreno rivelava presenza di acqua, data la vicinanza dell’Aniene, impedendo di “appoggiare” le case su fondazioni in superficie. Queste le tipologie di abitazioni previste dal progetto: tipo A un solo piano, quattro abitazioni ciascuna di due vani più servizi, il lotto era diviso orizzontalmente in due abitazioni ciascuna con un solo fronte espositivo. Casetta B, monopiano, quattro alloggi di due vani più due di un solo vano più servizi, prevedeva un allungamento tale che, ciascuna residenza si affacciasse su  entrambi i fronti. Cambiava anche l’orientamento per ottimizzare il soleggiamento: N-S per il mod. A, E-W per il Mod. B. Queste abitazioni prevedevano uno o due vani più W.C. con un ingresso detto anditino che schermava per privacy la/le stanze e dal quale, per risparmio di superficie, si accedeva al gabinetto. Erano dette a padiglione perché modulari per forma e dimensioni nonché leggere per i materiali posti in opera, sprovviste di tetto ma con copertura piana a lastrico solare.

[caption id="attachment_25892" align="aligncenter" width="517"] Tiburtino III 1936-37 case a padiglione[/caption]

I fabbricati ad un solo piano vennero lasciati presto da parte per quelli a due piani di tipo M ed N clonazione verticale del tipo A e B e le varianti M1 ed N1, passando da un primo insediamento estensivo ad uno intensivo per le ragioni esposte dallo stesso Nicolosi, ma diversificato per tipologie così da evitare la noia grigia dell’uniformità della borgata. Nessuno disconosce il carattere molto popolare delle case per superfici utili, n. di vani e servizi, si andava dalla monocamera (B) alle bicamere (A), con tramezzature a solo paravento, gabinetto provvisto solo di tazza, piccolo angolo cottura aperto. Idem per l’autarchia dei materiali prescelti, data l’austerità, là dove si fece uso del conglomerato cementizio con la pomice che assicurava pesi minori e maggiore coibentazione e per risparmiare i solai di copertura erano appunto lastrici solari protezionati da una lingua di asfalto bitumato spalmata su un’orditura di travetti in ferro collegati da tavelloni in pomice senza cretonato sovrastante.

[caption id="attachment_25891" align="aligncenter" width="1122"] Nicolosi-R.Nicolini Planimetria generale di Tiburtino III[/caption]

Allora perché titoliamo borgata del Paradiso?  Beh sapete gli unici bambini che sapevano nuotare a Roma erano del Tiburtino III, la loro scuola elementare Renzo Bertoni (un legionario) era provvista di piscina natatoria più servizi. Aveva dinanzi una vasta area giardino con sei padiglioni in legno riscaldati  per lezioni all’aperto, laboratori e palestra. La pinetina del quartiere si deve anche alla piantumazione annuale di arbusti da parte degli scolari per la “festa dell’albero”. Ma oltre la scuola elementare, c’era il nido comunale gestito ONMI e poi a salire la scuola secondaria di avviamento industriale maschile sempre attiva nella partecipazione alle “Giornate della Tecnica” promosse dal ministro  G. Bottai. Nelle palazzine tipo N1 Nicolosi ripropose le case a ballatoio già utilizzate a Littoria, cioè gli accessi alle singole abitazioni avveniva da balconi continui che al Piano terra formavano un porticato, il tutto sostenuto da un allineamento di pilastri in c.a., case «esemplari per armonia tra involucro e contenuto», finite nei manuali dell’architettura razionalista.

[caption id="attachment_25890" align="aligncenter" width="780"] Foto d’archivio di una casa a ballatoio a Tiburtino III[/caption]

Tutte le residenze erano provviste di lavatoi e nei cortili aperti di stenditoi comuni, c’erano anche i forni comuni per cuocere il pane della settimana. Le casette a padiglione o le palazzine, alcune a C, avevano ampi spazi aperti sul davanti per favorire il gioco dei bambini e la socializzazione tra gli adulti, con platani e panchine. Un’abitazione monocamera, servizi compresi, sfiorava in tutto 20 mq di superficie utile, circa 35 per quelle di due vani. Sull’area insistevano poi padiglioni comuni utilizzati come magazzini o spazi di aggregazione collettiva compresa la casa del fascio poi trasformata in caserma dei carabinieri. Tra il 1936 ed il 1940 erano stati realizzati ed assegnati 1.433 alloggi su complessivi 16 lotti. Nel 1938 fu consacrata la chiesa di S. Maria del Soccorso nata dalla matita dell’arch. Tullio Rossi, la facciata a salienti ti dice che ha tre navate, ricorda il nostro meraviglioso romanico per la semplicità, la luce interna filtrata, le capriate in legno a sorreggere il tetto della navata centrale. Dentro conserva esposta l’immagine della Madonna del soccorso, un’effige dipinta nell’Ottocento già conservata nella cappella privata della famiglia Pasquali e donata alla neonata comunità parrocchiale che preservò dai bombardamenti alleati.

[caption id="attachment_25889" align="alignleft" width="204"] Chiesa parrocchiale di S. Maria del Soccorso[/caption] [caption id="attachment_25888" align="alignright" width="184"] riproduzione effige Madonna del soccorso[/caption]

Mussolini in persona fece visita alla borgata nel 1936 anno delle prime 488 assegnazioni, complimentandosi per i risultati conseguiti e favorendo col suo giudizio “ sono felicemente impressionato” gli interventi dell’Ifacp per le opere di urbanizzazione primaria, fogne e strade e successivo complesso scolastico. La locale sede del PNF, dipendente da quella di Pietralata, era intitolata al camerata Alessandro Parisi e  contava ben 2000 aderenti molto attivi non solo dal punto di vista politico ma nel comunicare le esigenze della borgata come avvenne dopo l’alluvione dell’Aniene nel ’37, in pratica fungeva da voce del quartiere per chiedere la soluzione dei problemi emersi compresi i trasporti. Quando ci fu il razionamento dei viveri, durante l’occupazione tedesca, i bambini di Tiburtino III avevano ancora la mensa scolastica, certamente povera vista la crisi bellica, però c’era.

Nel dopoguerra la borgata implode nel degrado, le vecchie abitazioni fatiscenti vengono rase al suolo, ne restano in piedi solo sei, ai razionalisti Nicolosi-Nicolini, succede un gruppo organicista (APAO) guidato da Bruno Zevi coadiuvato da L. Quaroni e P.M. Lugli, i caratteristici lotti giallini che erano il logo del quartiere, scompaiono nella Roma sparita. Si va in verticale dai 4-5 piani fino ai classici 7 piani della palazzina romana, scheletri in cemento armato tamponati da pannelli prefabbricati in gesso, tipologia uniforme, colore logicamente grigio come l’intervento. Tiburtino si scioglie come una scamorza nella padella circostante, non ha più un’identità riconoscibile al contrario delle altre borgate. Forse è anche per questa voglia di riconquistarsi un’identità precisa, una dignità di quartiere che la borgata sale alle cronache astiose dei pennivendoli per manifestazioni politicamente scorrette  contro il centro di accoglienza degli immigrati gestito dalla CRI.  Tiburtino III al Collatino, nel dopoguerra, era una mini Stalingrado del P.C.I.,  oggi  sente la voce della destra radicale, seguendo una lezione di politica nelle periferie che fu del coraggioso Teodoro Bontempo.

Emanuele Casalena Bibliografia Luciano Villani, Le borgate del fascismo.Storia urbana, politica e sociale della periferia romana, Editore:Ledizioni,2012. Borgate ufficiali di Roma, wikipedia. Archivi degli Architetti, Giuseppe Nicolosi, Roma. Quartieri di residenza popolarissima, Pietralata II ( Tiburtino III, S. Maria del Soccorso), I.C.P., Giuseppe Nicolosi 1935-37.  

Fato ed Estinzione – Sandro Giovannini

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… I veri rappresentanti d'uno spirito scientifico erano dunque loro, gli arcaici; non noi che crediamo di poterci servire delle forze naturali a nostro piacimento, e dunque partecipiamo d'una mentalità più vicina alla magia. Il coincidere col ritmo dell'universo era il segreto dell'armonia, "musica" pitagorica che ancora in Platone regola l'astronomia come la poesia e l'etica. Ma è anche il senso della necessità, quello che risorgerà in mutata forma con Keplero, Galileo, Bruno, ‘in cui l'intelletto si apre a fini che non son più limitatamente umani, e si sente di abbracciare e complèttere il tutto in uno splendido amor Fati’”.

Da: “Il cielo sono io” di Italo Calvino (recensione di: Fato antico e fato moderno, Giorgio de Santillana, Adelphi)

Di fronte all’ineluttabile Calvino richiama la sostanziale dialettica in De Santillana: il tragico senso di colpa e l’armonia classica risolta come accettazione (certamente in origine né quieta né serena), come i due poli di una rappresentazione anch’essa dinamica, che valgono per il macrocosmo ed il microcosmo. Sappiamo poi bene come lo stesso Fato antico sia passato attraverso interpretazioni anche molto diverse (una per tutte, problematica, quella di Enea/Virgilio). I giudizi causticamente penetranti allora si giustificano non per sola opposizione ma per una ricerca di verità che è sempre pronta a negarsi nel momento stesso in cui si afferma, oltre la logica di non contraddizione. Oltre, perché non si esclude mai la consequenzialità insuperabile in uno storico della scienza, ma la si ricomprende diversamente, non in una meccanica dialettica ma in una armonia dei contrari, necessari entrambi su diversi piani spaziotemporali (civiltà, epocalità, socialità…) e differenziati stati dell’essere (relativismo, individualismo, narcisismo…). L’ironia non potrebbe/dovrebbe distruggere mai il quadro epocale, come il complessivo stato dell’arte (ottimo, mediocre, pessimo) non mai permettere d’esaltarci oltre il livello di guardia. (Che non siamo poi noi mai, realmente, a porre, ma ci è posto) Ogni illusione arcadica o monoveritativa si rivolge freddamente contro il formulatore, che sia rivolto al passato od al futuro o più prosaicamente al solo presente, senza doverci necessariamente privare delle evocazioni pure, dei piaceri transitabili e delle utopie necessarie. Sarebbe come dire, oltre ogni desiderata, che potrebbe essere un continuum spazio-temporale a donarci il congruo ritmo riducendoci (senza nulla toglierci) all’essenziale, che sia per cortesia o per più profonda consapevolezza delle ‘personae’, “sul teatro del mondo ammascherate”.

Tra tragico senso di colpa su varie esegesi e con relative apparecchiature consequenziali ed autoserenamento, ambedue con relativi quadri ontologici e/o filosofici, lineari o ciclici e con coerenti pratiche operative e meditative, l’uomo sempre si dibatte, nelle ulteriori implicanze di spazio e tempo e può anche scegliere definitivamente, sapendo però di compiere comunque un’amputazione. La ferocia e lo stupro sono quindi dentro di noi, non ipostasi del tutto allontanabili se non per gradi e per qualità, più leggero il discrimine della piuma Maat, che giudica - sulla bilancia - le anime…

E detto tutto questo, come una risibile premessa al qui e ora, ed ammesso che noi si sia fatta una scelta sostanzialmente definitiva per non annegare nel mare dell’indifferenziato… noi, appunto, non sappiamo che tipo di risposta si può dare, però, esclusa la colpa come metodo (e non forse come contesto, come voragine o come sfida) ed accettata la dimensione originaria dei contrari implicante comunque conseguenze di non poco conto, alla via dell’estinzione.

Infatti, se accettiamo il mondo dell’armonia cosmico-matematica risolta in una ineluttabilità (il vecchio e nuovo Fato) sostanzialmente insuperabile, ove vengano ricomprese tutte le dinamiche (personali ed impersonali), pure rimane impregiudicata la nostra personale risposta. Che non è e non può essere solamente individuale ma che spartisce comunque ciò di cui noi siamo insuperabilmente responsabili. Ed a livello singolo si pone infatti ogni processo di autodeterminazione, autoperfezione, autotrascendimento, che non può mai trovare sponda in apparati derubricanti o delegittimanti l’insopprimibile qualità individuata. Un libero arbitrio che in tal senso agisce subordinatamente, posteriormente, limitatamente. Ma in tale processo, chi ha già solo orecchiato tutte le pratiche perfezionanti, d’occidente e d’oriente, del passato e del presente, sa che maggiormente si staglia quella che va… verso l’estinzione. Perché?

Perché, sia in occidente che in oriente, sia nel passato che nel presente e sempre facendo la tara di ogni letteralismo o cascame di genere, chi rappresenta meglio l’armonia dei contrari è ciò che rappresenta Essere / Nulla, Apollo / Dioniso, Yin / Yang, Sostanza / Forma, etc…

Ma essendo noi l’Esserci, (dell’Ente, dell’Essere) è ovvio che l’altro polo è l’Estinzione, (nel Nondesiderante, nel Nulla).

Tutti hanno pensato e scritto intorno ai due poli, fin dalla notte dei tempi ed io non posso che aggiungere la mia sommessa domanda che non ne scalfisce affatto la rilevanza ineluttabile, ma sognerebbe d’inquadrarla in una logica minimamente comprensibile. Perché se tutto il processo comunque come sommo vero (ed andare dal sommo vero… al sommo bene comportava già ab antiquo una deriva possibile dell’autorappresentazione del Fato, proprio perché in una non più del tutto impersonale meccanicità cosmica s’insinuava una richiedibile umana corrispondenza, essendo il bene un valore eminentemente etico-sociale), va verso l’estinzione, questa estinzione a noi piacerebbe (non certo per verità ineluttabile ma per - anch’essa insopprimibile - umana ricerca d’empatia), che non rimanesse del tutto impregiudicata ed indifferenziata, ma qualificata e rappresentabile. Cosa che - al livello di rarefazione a cui si pone o si dovrebbe porre la domanda - non solo non ha mai trovato risposta (se non appunto nelle Rivelazioni, Personalizzazioni o Devozionalità), ma probabilmente non può trovarne alcuna…

  Sandro Giovannini

Falce e Maglietto – Gianluca Padovan

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«Le migliaia di isole del fatato Arcipelago sono disseminate dallo stretto di Bering fino quasi al Bosforo. Sono invisibili, ma esistono, e occorre trasferire altrettanto invisibilmente, ma di continuo, da isola a isola, invisibili schiavi che hanno un corpo, un volume e un peso»

Aleksandr Solženicyn, Arcipelago GULag, 1973
    Prologo o similare.

Dacché sono al mondo ho sentito la gente discutere su destra e sinistra. La destra è praticamente automatica, perché è destra, ergo è la parte femminile di destro che il vocabolario così scioglie: «Pronto di mano e d’ingegno, abile, accorto, sagace».1

La sinistra, perché sottacerlo, è sinistra nel senso che si tratta della parte femminile di sinistro, che ancora il vocabolario così spiega: «Infausto, sfavorevole, avverso (per il prevalere, nelle antiche tradizioni popolari, nella credenza che gli auspici provenienti da sinistra fossero di cattivo augurio)»; inoltre: «incidente grave, disastro, sciagura».2

Abbiamo poi altre parole quali sinistralità, sinistrare, sinistrato, sinistrese, sinistrismo e sinistramente: tutti vocaboli che sanno di “malasorte”.

    Centro et sinistra.

Il centro, di contro, è laddove si dice stia la virtù, ma troppo spesso anche la noia nel “bel mezzo del fiume”, laddove tutto scorre anche quando pare che il tutto e il consequenziale debbano rimanere immobili. È un po’ il centro del globalizzato dove albergano anche gli apolidi e i coatti. Il centro è quel qualche cosa che, volenti o nolenti, nettiamo. Utile, sicuramente, perché espelle, ma defilato tra due ali rosee e, magari, anche un po’ pelose.

Torniamo agli estremi.

La sinistra è quella saga paesana dove tutto si fa andare bene perché vi diguazzano il caos e una pulizia sommaria, che talvolta fa arricciare il naso all’approccio con l’ascella non lavata. La destra parrebbe poter essere tutt’altro che sinistra, ma se guardiamo bene in fondo in fondo, sollevando il tappetone del salotto, vediamo ch’è insozzata pur’ella, perché qualcheduno ha camuffato la sinistra facendola passare per sorella quando, i due estremi, parenti non dovrebbero essere affatto.

Pertanto, c’è qualche cosa che ci sfugge!

A tal proposito rimando le lungaggini e la noia alla lettura di “Compagni di gioco”, che sa quasi di presa in giro, ma non è tale (articoletto birbantello pubblicato su Ereticamente).

    Intermezzo veloce.

Detto questo, mi volgo attorno e guardo il panorama di questi ultimi due millenni e penso… se ci riesco ancora. Dove sono capitato? Forse in un deserto o in un bosco desertificato? Procedo piano piano e vedo di non cadere in inganno alcuno, se me la sento.

Il genere umano si potrebbe suddividere in quattro: i coscienti, gli agitabili (generalmente ignoranti in quanto non conoscono), gli agitati (con critici fattori relazionali) e gli agitatori (che sommuovono per poter campare sulla pelle degli altri).

    Comune al luogo, comune a quel che non sa di tutto.

Curioso a dirsi, ogni essere materiale che vive sulla Madre Terra ha bisogno della sua cubatura d’aria per vivere e procreare. Compreso ciò, perché agitarsi? Assodato il fatto, che bisogno c’è d’ingrassare taluni “interpretatori del reale”? Ovvero gli agitatori del sociale?

Curioso a dirsi, tanto il Cristianesimo quanto il Comunismo sono fenomeni culturali ebrei, nonostante le apparenze e talune dichiarazioni (per celare le evidenze) d’incompatibilità.

Principiamo dal principio vero: Paolo (Tarso 5-15 a. – Roma 67), dichiarato santo e noto anche come Paolo di Tarso, benché in realtà si chiami Saulo, è detto «Apostolo delle genti o dei gentili (cioè dei pagani) a motivo della sua attività apostolica (…). La sua famiglia, ebrea, si era stabilita a Tarso dove il padre aveva acquisito il diritto di cittadinanza romana. Chiamato col nome di Saulo, crebbe in un ambiente imbevuto di cultura greca (…). Fervente osservante della Legge secondo la rigida tradizione farisaica, fu presente al martirio di santo Stefano, verso il 36. Durante questa prima persecuzione anticristiana chiese e ottenne dal sinedrio il mandato, da far valere presso le comunità giudaiche di Damasco, di ricercare e portare in giudizio a Gerusalemme i correligionari seguaci di Gesù. Sulla via di Damasco, giunto nei pressi della città, venne colpito da una forza soprannaturale, cadde a terra e Gesù gli apparve rivolgendogli le parole: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?” L’esperienza soprannaturale di questo incontro cambiò totalmente Saulo».3

E, pare, fino a qui ci siamo: costui si sente di dover essere qualcheduno e s’inventa o s’appropria di qualche cosa che non ha pensato. Ma intanto agita.

    Gli “aficionados”.

Certamente elementi non ebrei hanno contribuito nel tempo a fornire il loro supporto al Cristianesimo e a svilupparne l’affermazione, continuando fino ad oggi in tale opera, ma l’impronta ebraica rimane indelebile. L’effetto più evidente provocato in ogni continente da questi fenomeni culturali sono le violente lotte scaturite per la loro affermazione. È bene ricordare e precisare che nascono, o meglio si formano e si sviluppano, sulle basi di precedenti pensieri e culture.

Ma tanto per comprenderne la bontà intrinseca, quindi non palesata, si può coinvolgere e condensare in pochi versi almeno la metà del genere umano (quella femminile) riportando utilmente alcuni passi dell’Ecclesiaste, contenuto nel Vecchio Testamento, dove si parla della Donna: «26. Mi volsi a considerare coll’animo mio tutte le cose per apparare, e conoscere, e cercare la sapienza e la ragione, e per ravvisare l’empietà dello stolto, e l’errore degli imprudenti: / 27. E riconobbi come amara più della morte ell’è la donna, la quale è un laccio di cacciatore, e il suo cuore è una rete, e le sue mani sono catene. Colui, che è caro a Dio, fuggirà da lei, ma il peccatore vi sarà preso».4

    Maglietto e non Martello.

Nel XV secolo esce il trattato Malleus maleficarum, ovvero il «Martello dei malefici», meglio noto come «Martello delle streghe». Si tratta di un vero e proprio manuale per coloro i quali desiderino affrontare con efficacia e senza rischi i processi innanzitutto contro gli eretici, ma anche nei confronti di streghe, stregoni, negromanti e chiunque pratichi la cosiddetta “magia”. Gli autori sono Heinrich Krämer (latinizzato in Henricus Institor) e Jakob Sprenger. Krämer è tedesco, domenicano e teologo; nel 1479 papa Sisto IV lo nomina inquisitore su tutta la Germania Superiore, mentre nel 1500 papa Alessandro VI lo assurge a nunzio e inquisitore in Boemia e Moravia. Nella Città di Colonia Sprenger è priore del convento domenicano nonché professore universitario; nel 1484 diviene inquisitore generale per le diocesi di Colonia, Magonza e Treviri. Conoscitori di vari testi, tra cui spiccano quelli scritti dai Padri e dai Dottori della chiesa, i due inquisitori affermano: «C’è da notare che un tempo le streghe erano colpite da una duplice pena: la pena capitale e il laceramento di tutto il corpo per mezzo di unghie ferrate, oppure venivano gettate in pasto alle belve. Oggi vengono bruciate, forse per il loro sesso femminile».5

Padre Saverio Xeres, della Diocesi di Como, nei primi anni del terzo millennio scrive a proposito del percorso della Chiesa: «L’eresia, innanzitutto, è una cancrena che corrode il corpo sociale ed ecclesiale; come tale, non ammette interventi lenitivi o correttivi, ma soltanto di eliminazione chirurgica – dunque violenti – efficaci proprio nella misura in cui sono tempestivi e risoluti. L’intero corpo sociale deve essere, al riguardo, compatto e inflessibile. La scomunica è il primo fondamentale passo, in quanto bandisce dalla convivenza sociale gli eretici. La loro eventuale ostinazione non potrà che condurli alla morte: essendo infatti la convivenza attorno ai principi cristiani l’elemento connettivo unico e totalizzante la società del tempo, chi si pone fuori dalla Chiesa si pone fuori non solo dalla società, ma in qualche modo dalla vita stessa».6

    Sciogliamo, in senso lato, qualche concetto.

- Eresia: «Dottrina che si oppone a una verità rivelata e proposta come tale dalla Chiesa cattolica e, per estensione, alla teologia di qualsiasi chiesa o sistema religioso, considerati come ortodossi».7

- Eretico: «Chi, pur facendo parte di una chiesa o confessione religiosa, si fa promotore, sostenitore o seguace di un’eresia; in particolare, chi, essendo membro della Chiesa cattolica, nega pertinacemente o anche soltanto mette in dubbio qualcuna delle verità rivelate o dei dogmi di fede».8

Inoltre: «uno che non avesse mai fatto professione di fede cristiana non sarebbe propriamente eretico, ma semplicemente infedele, come gli Ebrei e i Gentili che sono al di fuori».9

- Da Ebraismo e Cristianesimo sono a loro volta derivate molteplici espressioni culturali, religiose e sociali: basta qui ricordare l’Islamismo e le sue derivazioni. Sono più o meno noti i rivoli in cui s’è diramato un impulso di potenza andando a costituire dalla metà dell’Ottocento ad oggi una pleiade di correnti e di partiti politici. Così come sempre dall’Ebraismo e quindi dal Cristianesimo ne sono derivati numerosi altri, tra cui figura il Comunismo.

    Dal deserto con furore.

Tra dottrine e sette religiose cristiane o d’influsso cristiano abbiamo, ad esempio: Adamiti, Adozianisti, Albigesi, Anglicani, Apollinaristi, Apostolici, Ariani, Arnaldisti, Begardi, Beghine e Beghini, Bogomili, Caldei, Calvinisti, Catari, Cattolici, Circoncellioni, Dolciniani, Donatisti, Eutichiani, Fotiniani, Fraticelli, Gallicani, Giansenisti, Gioachimiti, Giurisdavidici, Gnosticisti, Lollardi, Luciferiani, Manichei, Marcioniti, Modalisti, Modernisti, Monarchiani, Monofisiti, Monotelisti, Montanisti, Nestoriani, Nicolaiti, Novaziani, Ortodossi, Patarini, Pelagiani, Poveri lombardi, Prisciallianisti, Protestanti, Quietisti, Sabelliani, Spirituali, Taboriti, Ugonotti, Umiliati, Ussiti, Utraquisti, Valdesi, Valentiniani, Vecchi cattolici.

Buona parte di queste sono state bollate come eretiche.

E veniamo dunque al “dulcis in fundo”: il tema caro ai comunisti che ci stanno riempiendo il continente di “islamisti”.

- Islām: è la religione monoteistica fondata da Maometto (Muhammad) in Arabia agli inizi del VII secolo. Nell’islamismo confluiscono elementi tratti dal paganesimo arabo, dall’ebraismo, dal cristianesimo ed è basato sulla credenza in Allah (Dio) e nel suo profeta Maometto, a cui il verbo divino viene comunicato in più momenti dall’arcangelo Gabriele (Giabrā’īl), personificazione dello spirito divino. Sostanzialmente completa, tale religione raccoglie la parola dei precedenti profeti: Abramo, Mosè e Gesù; il sistema religioso, con aspetti culturali, sociali e politici è codificato nel Corano.

- Corano: è il libro sacro dell’islamismo: «scritto in lingua araba, è composto in prosa rimata e si divide in 114 capitoli (detti sure) i quali a loro volta si dividono in versetti (detti āyāt); talvolta il capitolo ha il titolo che si riferisce a qualche argomento significativo contenuto nella sura stessa. Il contenuto del libro è assai vario, comprendendo parti giuridiche e normative, esortazioni ai fedeli, leggende, parti di tono lirico ed immaginoso, e anche commenti alla cronaca spicciola quotidiana».10

Se l’ortodossia islamica proibisce la traduzione del Corano in altre lingue, taluni gruppi religiosi di vedute, diciamo, più morbide, invece lo consentono.

- Sure: all’inizio della Sura II, La Vacca, si comincia parlando del libro, ovvero del «libro guida sicura» come messaggio di Dio agli esseri umani. I versetti n. 6 e n. 7 così poi recitano: «E i kāfirūna? È loro del tutto indifferente che tu li metta in guardia: puoi anche tacere, non si persuaderanno mai. Pose il Dio un marchio sui loro cuori, pose un sigillo sulle loro orecchie, e sui loro occhi c’è una benda. Li aspetta un castigo terribile».11

Occorre ricordare, ancora, che il termine «kāfirūna» indica l’incredulo, meglio indicato come “infedele”. Più avanti si apprendono le seguenti esortazioni: «Ammazzateli ovunque essi si incontrino! fateli uscire da dove essi vi han cacciato! La persecuzione è più forte della strage. Non combatteteli presso la moschea harām, a meno che essi vi diano battaglia in quei paraggi: ché se in verità vi attaccano, uccideteli! Questa è la fine dei kāfirūna!».12

    La conclusione della libagione.

Veniamo quindi al Comunismo: «Dottrina che, sulla base delle formulazioni teoriche di Marx e Engels, propugna un sistema sociale nel quale sia i mezzi di produzione sia i beni di consumo siano sottratti dalla proprietà privata e trasformati in proprietà comune, e la gestione e distribuzione di essi venga esercitata collettivamente dall’intera società nell’interesse e con la piena partecipazione di tutti i suoi membri».13

Una forma embrionale di Comunismo, o meglio di vetero-comunismo, la si può cogliere ad esempio nei Lollardi.

Rimane comunque accettata l’architettura del Comunismo ad opera di Marx ed Engels, ebrei tedeschi, come sono quasi tutti ebrei i promotori delle varie forme di Comunismo nel mondo. Curiosamente i Comunisti di spicco generalmente si presentavano e si presentano al pubblico utilizzando pseudonimi, ovvero sotto falso nome, e così la stampa e la storia ce li riportano ancor’oggi: mascherati.

    Il capitale è la pena al maschile.

Un bel giorno vide la luce il prode Kissel Mordekai (Treviri 1818 – Londra 1883), alias Karl Heinrich Marx, di famiglia israelita, definito a posteriori (forse) il “padre” del comunismo. Laureatosi in filosofia, Kissel si dedica al giornalismo politico e a Parigi pubblica in collaborazione con Friedrich Engels il primo e unico numero della rivista Deutsche Französische Jahrbücher. Questa contiene due articoli: La questione ebraica e La critica della filosofia hegeliana. Successivamente Marx ed Engels aderiscono alla Lega dei Comunisti e nel 1848 scrivono il Manifesto del Partito Comunista. In pratica fanno “cappotto” perché s’aggiudicano innanzi alla “storia” la partita e pure la vittoria.

Sinonimo di Comunismo è il Bolscevismo e la dottrina bolscevica russa anima il movimento politico professato dalla sinistra del partito socialdemocratico russo, schieratosi con Lenin, dove tale partito si è costituito all’interno del “Bund” ebraico. Il fatto curioso è che anche gli stessi ebrei ne subirono le conseguenze, travolti in guerre, deportazioni ed eccidi. Tra i personaggi di spicco del Comunismo si hanno quindi parecchi ebrei, dei quali taluni autori affermano l’appartenenza alla Massoneria.

La cortina sovietica “di ferro” impedisce anche mediante il suo cirillico che gli estranei colgano ciò che celato deve rimanere. Assieme al “golem”, il segreto su chi predilige il maglietto e non già il martello deve permanere.

    Nelle terre centrali fioriscono maglietti.

Da quel 1818 passano parecchi annetti e un giorno giunge sulla Madre Terra un altro adepto di partito: si chiama Eduard Bernstein (Berlino 1850 – Berlino 1932) e sarà scrittore d’opere di dottrina socialista-comunista, nonché uno che farà carriera divenendo Ministro della Proprietà dello Stato Socialista Tedesco nel 1918. In pratica a “grande guerra” finita sale finalmente sul podio assieme agli altri suoi compagni. Uno di questi sarà Karl Kautsky (Praga 1854 – Amsterdam 1938), alias Karl Kaus, di professione ideologo marxista ed esponente della socialdemocrazia tedesca, il quale diverrà uno dei maggiori interpreti del pensiero politico di Marx, per finire niente popò di meno che Ministro dell’Agricoltura nel primo Gabinetto tedesco del 1918. Ministro che mirò in alto per fuggire l’adagio: “la terra è bassa”, nel senso che per trarci sostentamento in modo onesto ci si deve spezzare sopra la schiena.

    Rus.

Guadiamo i grandi fiumi e giungiamo laddove i Vikinghi fondarono un regno, spodestati poi dagli Slavi. Vi nasce tra le bambagie Vladimir Il’ic Uljanov (Simbirsk 1870 – Gorki, Mosca 1924), che detto così nessun si “filerebbe”, perché bisogna ricordarlo con lo pseudonimo, quasi fosse un grande attore: Nikolaj Lenin. È stato uno dei fautori della rivoluzione ebrea comunista russa dei primi del Novecento e della trasformazione dell’impero russo in Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (U.R.S.S.). Così nel 1920 ha scritto il grande vate (Vladimir Il’ic Uljanov alias Lenin, ovviamente): «Lo ripeto, l’esperienza della dittatura del proletariato che ha vinto in Russia ha mostrato chiaramente a chi non sa pensare e a chi non ha mai dovuto riflettere su questo problema che la centralizzazione assoluta e la più severa disciplina del proletariato sono una delle condizioni fondamentali per la vittoria sulla borghesia».14

A ben vedere, sia in Russia, sia altrove, il proletariato non è mai riuscito a governare, soprattutto se vigeva un governo comunista o, per dirla tutta, se comandava la Grande Loggia paludata nella bandiera rossa comunista.

    Da uno Spartaco prendono il nome.

Un bel giorno Rozalia Luksemburg (Zamosć, Rutenia 1870 – Berlino 1919), alias Rosa Luxemburg, di famiglia ebreo-polacca, sposò il compatriota «naturalizzato tedesco Gustav Lübeck allo scopo di acquistare la cittadinanza tedesca e di poter così lavorare indisturbata in Germania all’organizzazione del partito socialdemocratico».15

Ella, irrequieta e indomita, facente parte del movimento rivoluzionario polacco, divenne successivamente rivoluzionaria tedesca e aderente al movimento Spartachista. I fumi s’incrociano e fluiscono poi assieme come i fiumi e così fu per Karl Liebknecht (Lipsia 1871 – Berlino 1919), ebreo marxista, schierato nell’estrema sinistra del Partito Socialdemocratico tedesco, che divenne l’organizzatore del movimento operaio tedesco, nonché il compagno della Rozalia. Lo si ricorda tra i fondatori della “Lega di Spartaco” o Spartakusbund, a cui aderirono i così detti Spartachisti.

    Il maglietto sul capo di chi non si piega.

Il fondatore e primo direttore della Čeka è Feliks Ėdmundovič Derzhin (Ivjanec 1877 – Mosca 1926), alias Dzeržinskij, di famiglia ebrea aristocratica polacca. La Čeka, detto a beneficio di noi tutti profani, era la Črezvyčajnaja Kommissija (Commissione Straordinaria), ovvero la polizia segreta russa del governo bolscevico del primo periodo; a questa succedono più avanti la G.P.U., la N.K.D.V. e il K.G.B.

Due anni dopo Feliks, dallo spazio più profondo, si manda sulla Madre Terra l’irrequieto Lew Davidovic Bronstein (Ivanovka, Ucraina 1879 – Coyocán, Città del Messico 1940), alias Leon Trotzkij. Diviene uno dei fautori della rivoluzione comunista russa dei primi del Novecento, poi cacciato e successivamente fatto uccidere da Stalin, suo correligionario. Sul dizionario leggiamo che era «figlio di un agiato coltivatore israelita, studente a Odessa (1897), si legò ai circoli rivoluzionari locali, avvicinandosi alle teorie marxiste».16

Ed ecco il grande “baffone” concomitante al compagno di giochi precedente: Iosif Vissarionovic Dzugasvili-Kocha (Gori, Georgia 1879 – Mosca 1953), alias Stalin. Si è trattato innanzitutto di un rivoluzionario, grande secondino della Lubianka, nonché principale dittatore russo del XX secolo. Possiamo, ma i personaggi sarebbero molti, tagliarla corta ricordando ancora solo Grigorij Evseevič Apfelbaum (Elizavetgrad -Kirovograd- 1883 – Mosca 1936), alias Grigorij Zinov’ev, il dirigente del Soviet di Pietrogrado e presidente dell’Internazionale Comunista. Nonostante fosse pur’egli ebreo i suoi correligionari lo fecero fucilare.

Ci si è chiesti per quale motivo la terra di Siberia conti così tanti ebrei? Non certo perché a costoro piaccia il freddo algido! Si tratta dei discendenti dei sopravvissuti stoccati nei campi di concentramento-sterminio istituiti dai loro stessi correligionari.

    Fuori dalla Russia, tutta un’altra steppa.

Sul finir dell’Ottocento nacque anche l’inventore di un mezzo di locomozione nuovo: il “treno della morte”. Abel Cohen o Kohn (Szilágycseh 1886 – Mosca 1938), alias Béla Kun, da rivoluzionario e animatore-agitatore del movimento comunista ungherese è ricordato in patria per eccidi, rapine e il famigerato, già citato, trenino biricchino.

Nella terra slava che sa di Adriatico, il mitico mare degli Adrii, qualcheduno traduce in serbo-croato il libro Il Capitale. Costui è Moša Pijade (Belgrado 1890 – Parigi 1957), alias Čiča Janko, da taluni indicato come sefardita d’origini spagnole, stretto collaboratore di “Tito”.

Il tempo scorre sempre e l’anno seguente ecco che nasce Antonio Gramsci (Ales, Cagliari 1891 – Roma 1937), uomo politico ebreo che fonda il Partito Comunista Italiano assieme ad Amedeo Bordiga (costui ne verrà espulso nel 1930 in quanto accusato di trotzkismo). Era, poveretto, inviso ai potenti e difatti non apparteneva a Loggia alcuna (o così pare).

Ma torniamo in terra slava perché l’anno dopo ancora vi nasce Josif Weiss (Kumrovec, Croazia 1892 – Lubiana 1980): da taluni è indicato col nome Josip Broz, alias Tito, fondatore del partito comunista jugoslavo; rimarrà il dittatore a capo della Jugoslavia fino alla morte. Sull’argomento si legga utilmente il libro dello storico William Klinger (recentemente ammazzato con un colpo alla nuca a New York): Ozna. Il terrore del popolo. Storia della polizia politica di Tito, Luglio Editore, San Dorligo della Valle 2015.

    Predicare bene e razzolare male

Il XIX secolo ancora non è ancora finito e la cicogna regala altri puttini michelangioleschi. Mátyás Rosenfeld (Ada -o a Subotica- 1892 – Gorky 1971), alias Mátyás Rákosi, diverrà Segretario Generale del Partito Comunista Ungherese e Presidente del Consiglio dei Ministri d’Ungheria. Lo seguirà a ruota Boleslaw Bierut (Lublino 1892 – Mosca 1956), che diverrà Segretario Generale del Partito Operaio Unificato Polacco e Presidente della Polonia. Un anno dopo ecco che compare Hannah Rabinsohn (Codăești 1893 – Bucarest 1960), alias Ana Pauker, che con piglio generalesco diverrà esponente del Partito Comunista Rumeno, Ministro degli Affari Esteri e Vice Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica Popolare di Romania. E l’anno dopo ancora la cicogna porta sulla Madre Terra un “pezzo da novanta”: Nikola Salomon Chruščëv (Kalinovka 1894 – Mosca 1971), alias Nikita Sergeevič Chruščëv, che diverrà niente popò di meno che Presidente del Consiglio dei Ministri dell’U.R.S.S. e Segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica.

Prima di chiudere con le nascite notevoli pensiamo un poco anche a Klement Gottwald (Vyškov 1896 – Praga 1953), capo del Partito Comunista di Cecoslovacchia che diviene Presidente della Cecoslovacchia a seguito del colpo di stato promosso dalla Russia, nonché a un secondino d’eccellenza: Lavrentij Pavlovic (Mercheuli, Georgia 1899 – Mosca 1953), alis Berija. Costui diverrà parte del Partito Comunista Sovietico e dirigerà la Čeka, la G.P.U. e la N.K.D.V., ma finirà ucciso senza processo dai suoi stessi “compagni” e correligionari. Così di lui s’è scritto: «ingegnere, entrò giovanissimo nel partito comunista e dal 1921 al 1931 diresse in Georgia la Čeka e poi la GPU. Divenuto primo segretario del partito comunista di Georgia (1931) e poi membro del comitato centrale del partito comunista (1934), grazie all’appoggio del compatriota Stalin, represse energicamente le tendenze nazionaliste e le resistenze alla collettivizzazione delle popolazioni caucasiche».17

    L’ambiente fa tendenza.

Comincia il nuovo secolo, il Ventesimo, e vediamo sulla pizza Georgij Maksimilianovič Malenk (Orenburg 1902 – Mosca 1988), alias Malenkov: sarà non solo collaboratore di Stalin, ma pure capo del Partito Comunista dell’Unione Sovietica e premier dal 1953 al 1955.

Non si può dunque sottacere che inizialmente il 90% del Soviet Supremo, organo federale legislativo dell’U.R.S.S., fosse costituito da persone di confessione ebraica. Ciò nonostante, poche decine di anni più tardi, quando la Russia attacca e invade la Polonia nel settembre del 1939, Stalin fa deportare in Siberia un numero enorme di ebrei polacchi e si parla di circa un milione di persone, ma la cifra è chiaramente da confermare. E taluni la ritengono “sottostimata”.

Per quanto riguarda i Bolscevichi, costoro «sono soliti presentare il terrore come conseguenza della collera delle masse popolari: i bolscevichi sarebbero stati costretti a ricorrere al terrore per le pressioni della classe operaia. Non solo, ma il terrore istituzionalizzato si è limitato a ricondurre a determinate forme giuridiche l’inevitabile ricorso alla giustizia sommaria invocata dal popolo. È difficile immaginarsi un punto di vista più farisaico di questo e si può agevolmente dimostrare, fatti alla mano, quanto simili affermazioni siano lontane dalla realtà».18

Ma leggiamo amabilmente un altro passo: «“La nostra guerra non è contro le singole persone”, scriveva Lacis sul “Krasnyj Terror” il 1° novembre 1918. “Noi sterminiamo la borghesia come classe. Nell’istruttoria non cercate documenti o prove su ciò che l’accusato ha commesso, nei fatti o con parole, contro il potere sovietico. La prima domanda che dovete porgli è a quale classe appartiene, quali sono le sue origini, l’educazione, l’istruzione, la professione. Sta in questo senso e l’essenza del terrore rosso”. Lacis non diceva niente di originale, si limitava a scopiazzare le parole di Robespierre alla Convenzione a proposito della legge del 22 pratile del 1794 sul “Grande Terrore”: “Per fare giustizia dei nemici della patria, basta stabilire la loro personalità. Non si tratta di punirli, bensì di distruggerli».19

La citazione è riportata anche in Storie di uomini giusti nel Gulag.20

Inoltre, ecco un’altra “perla di saggezza”: «Grigorij Zinov’ev, massimo dirigente bolscevico, nel settembre 1918 diceva: “Per distruggere i nostri nemici dobbiamo avere il nostro proprio terrore socialista. Dobbiamo tirare dalla nostra parte, diciamo, novanta dei cento milioni degli abitanti della Russia sovietica. Quanto agli altri, non abbiamo nulla da dirgli. Devono essere annientati”. (“Severnaja kommuna”, n. 109, 19 settembre 1918, citato da N. Werth in “Uno Stato contro il suo popolo”, Parte prima di Aa. Vv. Il libro nero del comunismo, Mondadori, Milano 1998, p. 71)».21

    Campi da gioco dell’Eurasia.

Parlando di Comunismo si possono utilmente ricordare i GULag, acronimo di Glavnoye Upravlenye Lagerei (Direzione principale dei campi, ovvero dei così detti “campi di lavoro” o lager). Istituiti nel 1926 in Russia, sono rimasti attivi fino agli anni Novanta, ospitando milioni di prigionieri, dei quali molti usciti solo da morti. A costoro si possono unire i milioni di cinesi rieducati nei campi di lavoro denominati Laogai, istituiti dal presidente del Partito Comunista cinese Mao Zedong (Shaoshan 1893 – Pechino 1976), noto con lo pseudonimo Mao Tse-tung, ispirato da quelli sovietici.

Dagli anni Sessanta ad oggi i Laogai hanno accolto circa cinquanta milioni di persone; molti milioni, anche in questo caso, vi sono usciti solamente tenendo “i piedi in avanti”.

Secondo stime non ufficiali e non confermate i Laogai sarebbero oggi un migliaio, per qualche milione di “rieducandi”.

Questi due esempi non sono gli unici.

Un vero e proprio genocidio è stato operato sotto il dittatore comunista cambogiano Salot Sar (Prek Sbauv 1925 – Anlong Veng 1998), meglio noto con lo pseudonimo di Pol Pot, operante per un certo periodo sotto l’ala protettrice degli Stati Uniti d’America. Negli anni Settanta del XX secolo lo si sarebbe tranquillamente potuto inserire nel “Guinnes dei Primati”: riuscì a fare uccidere un terzo del suo popolo, ovvero dei Cambogiani.

    Il “caduto nel dimenticatoio”: Aleksandr Solženicyn.

Oggi non abbastanza si ricorda dello scrittore sovietico ebreo Aleksandr Isaevič Solženicyn (Kislovodsk 1918 – Mosca 2008), Premio Nobel per la Letteratura nel 1970. Tra il 1973 e il 1975 scrive i tre volumi Archipelag Gulag sui lager sovietici, dove lui stesso è stato incarcerato: «La nuova linea di Stalin, per cui dopo la vittoria sul fascismo bisognava metter dentro più energicamente che mai, in gran numero e per lunghi anni, si rifletté subito, beninteso, anche sui politici. Gli anni 1948-49, caratterizzati da una generale intensificazione delle persecuzioni e dalla vigilanza, furono contrassegnati dalla tipica commedia dei “ripetenti”, inaudita anche per la non-giustizia staliniana. Così furono chiamati, nella lingua del gulag, gli sventurati non finiti di sterminare l’anno 1937, che erano riusciti a sopravvivere agli impossibili, insostenibili dieci anni e adesso, negli anni 1947-48, a fare i primi timidi passi sulla terra libera, estenuati e con la salute rovinata, nella speranza di finire in pace i pochi anni di vita che rimanevano loro. Ma una efferata fantasia (o malvagità tenace, o insaziabile desiderio di vendetta) indusse il Generalissimo-Vincitore a emanare un ordine: tutti quegli esseri storpiati dovevano essere condannati nuovamente, senza alcuna colpa!».22

In un libro curato da Giuseppe Averardi compare una informazioncina curiosa: «la prima documentata, autentica e completa carta dei campi di lavoro forzato in urss / Pubblicata nel 1974 dall’editore di Plain Talk con il seguente commento: Gulag – il trust del lavoro forzato sovietico – è un’abbreviazione di Glavnoye Upravlenye Lagerei o ufficio dei campi di lavoro forzato, una sezione del MVD, il ministero dell’interno (già noto come NKVD, l’equivalente russo della Gestapo). Nel Gulag ci sono più di 14 milioni di condannati ai lavori forzati, sparsi in decine di colonie penali, ciascuna delle quali è un’isola del Diavolo o anche peggio. Vivono in uno stato di miseria indicibile, sempre sull’orlo della morte per fame o per malattia, e lavorano come schiavi per dodici ore al giorno, agli ordini di padroni dittatoriali».23

    Conclusio conclusionis.

La grande massa dei comunisti italiani tutto sopra scritto lo ignorano. Difatti tali comunisti sono quelli che si scrivono con la “ci” minuscola, perché in seno al partito possono anche contare, nel senso che le quattro operazioni le conoscono, ma contano come il due di briscola nella Loggia (ammesso e non concesso che i “comuni comunisti” vi siano ammessi).

Un po’ come i cosiddetti e proclamati “cristiani”: si dicono tali, ma nemmeno uno su cento di loro ha letto più di un versetto della Bibbia. In questa ignoranza quasi desertica e totale, come fanno a proclamarsi tali? Ovvero “cristiani”?

Difatti, in seno alla Chiesa di Roma costoro contano nemmeno quanto la confezione delle carte nel gioco del rubamazzetto.

E qui sta il magheggio del gioco sinistro: meno si sa e più si controlla, meglio si controlla e meno questi sanno e sapranno.

Porgo quindi a Voi sinistri il tristo motteggio: “lasciate ogni speranza voi ch’ignorate”!

… e mi perdoni l’Inarrivabile Maestro (Dante, non il capo-maglietto) per la presa a prestito del passaggio.

    P.S.: Maglietto: «Il maglietto (o martello) è l’insegna sia del Maestro Venerabile che dei due Sorveglianti che insieme a lui guidano la Loggia» (Claudio Bonvecchio, Il simbolismo e la Libera Muratoria, in Massimo Rizzardini, Andrea Vento -a cura di-, All’Oriente d’Italia, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2013, p. 141).   NOTE   1 Istituto della Enciclopedia Italiana, Vocabolario della Lingua Italiana, Vol. II, Roma 1987, p. 63.   2 Istituto della Enciclopedia Italiana, Vocabolario della Lingua Italiana, Vol. IV, Roma 1994, p. 349.   3 Rizzoli Larousse, Enciclopedia, Vol. 15, Bologna 2003, p. 734.   4 Antonio Martini -traduzione secondo vulgata di-, La Sacra Bibbia. Antico e Nuovo Testamento, Vol. II, Garzanti Editore, Milano 1954, p. 67, L’Ecclesiaste, VII, 26-27.   5 Heinrich Krämer, Jakob Sprenger, Il martello delle streghe, Fabrizio Buia, Elena Caetani, Renato Castelli, Valeria La Via, Franco Mori, Ettore Perrella -traduzione dal latino di-, Marsilio Editori, Venezia 1977, p. 36, I, I.   6 Saverio Xeres, La Chiesa, Corpo inquieto. Duemila anni di storia sotto il segno della riforma, Àncora Editrice, Milano 2003, pp. 91-92.   7 Istituto della Enciclopedia Italiana, Vocabolario della Lingua Italiana, Vol. II, op. cit., p. 296.   8 Ibidem, p. 297.   9 Heinrich Krämer, Jakob Sprenger, Il martello delle streghe, op. cit., p. 348, III, I.   10 Istituto della Enciclopedia Italiana, Vocabolario della Lingua Italiana, Vol. I, op. cit., pp. 948-949.   11 Federico Peirone -traduzione e comento-, Il Corano, Vol. I, Mondadori Editore, Milano 1980, p. 86, I, II, 6-7.   12 Ibidem, p. 105, I, II, 05.   13 Istituto della Enciclopedia Italiana, Vocabolario della Lingua Italiana, Vol. I, op. cit., p. 869.   14 Lenin, L’estremismo malattia infantile del comunismo, A.C. Editoriale Coop, Milano 2003, p. 23.   15 Rizzoli Larousse, Enciclopedia, Vol. 12, Bologna 2003, p. 661.   16 Rizzoli Larousse, Enciclopedia, Vol. 21, Bologna 2003, p. 705.   17 Rizzoli Larousse, Enciclopedia, Vol. 3, Bologna 2003, p. 208.   18 Segej P. Mel’gunov, Il terrore rosso in Russia (1918-1923), Sergio Rapetti, Paolo Sensini -a cura di-, Editoriale Jaca Book, Milano 2010, p. 81.   19 Ibidem, p. 93.   20 AA. VV., Storie di uomini giusti nel Gulag, Paravia Bruno - Mondatori Editori, Milano 2004, p. 56.   21 Ibidem, p. 57.   22 Aleksandr Solženicyn, Arcipelago Gulag, Club degli Editori, Milano 1974, p. 104.   23 Giuseppe Averardi -a cura di-, I grandi processi di Mosca 1936 - 37 - 38, precedenti storici e verbali stenografici, Rusconi Editore, Milano 1977, tavola fuori testo [p. 16].  

Flat Tax, la tassa piatta: opportunità o illusione? – Roberto Pecchioli

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In campagna elettorale le promesse abbondano. La gara è tra chi offre di più al perplesso elettore, un voto messo all’incanto, in entrambi i sensi della parola. Una commedia teatrale di grande successo di Pietro Garinei del 1986 aveva un titolo adatto alla cronaca di queste settimane: Se devi dire una bugia, dilla grossa. Nei panni di Johnny Dorelli, miglior attore protagonista l’immortale Silvio Berlusconi, ma i suoi avversari non sono da meno, da Giggino Di Maio a Pietro Grasso fino a Matteo Renzi. Tutti promettono molto, ma la certezza è che, chiunque finirà al governo, manterranno assai poco. Le tasse, naturalmente, la fanno da padrone nella riffa elettorale. Più che giusto, milioni di italiani votano con il portafogli e il fisco nazionale è contemporaneamente vorace, potentissimo, sclerotizzato e inefficiente, epperò fortissimo con i deboli, mite e incline al compromesso al ribasso con i potenti. La proposta più importante viene dal centrodestra, e, come tutte le novità, ha un nome anglofono: flat tax, cioè tassa piatta e consiste nell’applicare un’unica aliquota a tutti i redditi. L’obiettivo finale è quello di tassare in maniera uniforme sia i redditi delle persone fisiche sia quelli delle persone giuridiche.

Secondo i sostenitori della proposta, nata in ambito leghista attraverso l’azione dell’economista Armando Siri, autore del libro Flat Tax la rivoluzione fiscale in Italia è possibile, successivamente accolta con distinzioni importanti da Forza Italia, l’impianto tributario così ridisegnato, oltre a diminuire il carico fiscale dei cittadini e delle imprese, consentirebbe un decisivo rilancio di tutte le attività economiche, trasformandosi nel medio termine in un beneficio per le casse erariali. I detrattori sottolineano tre aspetti: sarebbe un regalo per i ricchi senza grossi vantaggi per i poveri; provocherebbe un buco drammatico di bilancio; avrebbe profili di incostituzionalità, giacché il criterio generale cui si ispira il sistema tributario è quello di progressività, stabilito dall’art. 53 c. 2 della vigente costituzione. Proviamo a orientarci in un dibattito molto serio che incide in modo immediato sulla nostra vita quotidiana, anticipando onestamente al lettore le nostre personali convinzioni, di cittadini ma anche di funzionari di lungo corso del Ministero delle Finanze, contrarie alla tassa piatta. La questione, tuttavia, è assai complessa e necessita una riflessione che non può esaurirsi in un semplice no.

Gli argomenti a sostegno o contro il nuovo sistema tributario, innanzitutto, trascurano senza affrontarla una questione di fondo: l’Italia si è spogliata della sovranità economica e di quella monetaria. Ogni politica fiscale si scontra pertanto con l’impossibilità dei governi di attuare misure non coincidenti con i meccanismi che abbiamo improvvidamente accettato. Il primo è quello del pareggio di bilancio previsto dalla riforma dell’art. 81 della costituzione, la cui revisione, invocata da alcune forze politiche (Lega, Fratelli d’Italia, sinistra radicale) è però scomparsa dai programmi elettorali. Un secondo problema è il vincolo del rapporto del 3 per cento tra debito sovrano e deficit di bilancio statale, un cappio cui ci siamo impiccati con la complicità comune delle maggiori forze politiche e l’entusiastico assenso dei poteri forti. Silvio Berlusconi ne ha garantito il rispetto ai suoi patroni del Partito Popolare Europeo (si legge Angela Merkel) e al suo amicone Juncker, superburocrate dell’Unione Europa. Come non si possono servire insieme Dio e Mammona, non si possono diminuire drasticamente le tasse senza mettere in discussione il tragico dogma del 3 per cento. L’Italia non ha margini di sovranità economica, tanto è vero che le leggi di bilancio vengono trattate in sede europea, o, per dirla chiara, sono scritte sotto dettatura della Troika. Secondo il sito ufficiale dell’UE, è chiamata troika” l’insieme dei “creditori ufficiali durante le negoziazioni con i paesi membri, costituito dalla Commissione Europea, dalla Banca Centrale Europea e dal Fondo Monetario Internazionale”. Wikipedia, pur devotissima al politicamente (e finanziariamente) corretto ammette che si tratta di un vero e proprio “organismo di controllo informale”. Guarda un po’, milioni di europei erano pervenuti alla stessa conclusione! L’ enciclopedia digitale informa che ai membri della Commissione UE, formata da un rappresentante per ogni Stato membro, è prescritta “la massima indipendenza dal governo nazionale che lo ha indicato”. Tombola.

La sovranità monetaria è in capo alla Banca Centrale Europea, un organismo estraneo agli Stati che decide quanto denaro creato dal nulla (!!!) prestarci, stabilendo insindacabilmente anche l’interesse, l’ex tasso di sconto. La BCE, che non ha alcun obbligo di sostenere o acquistare i titoli di Stato emessi nell’Eurozona, ha sempre rifiutato, spalleggiata soprattutto dall’ordoliberalismo tedesco, l’emissione dei cosiddetti Eurobond, ovvero buoni comuni dell’eurozona. Ciò significa che una politica fiscale sgradita alle centrali finanziarie – non solo europee- metterebbe nel mirino i nostri titoli di Stato. Si riattiverebbe il ricatto dello spread, il differenziale tra gli interessi sui BOT/CCT e i titoli di altri Paesi. Berlusconi dovrebbe ricordare la losca operazione del 2011 che lo estromise dal governo innescata dalla vendita di titoli di debito italiano da parte di Deutsche Bank. Non scordiamo che nel 1981, anno del vergognoso divorzio Tesoro- Banca d’Italia organizzato da Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi, con cui venimmo posti alla mercé del sistema usuraio, il debito pubblico era il 56 per cento del PIL ed era posseduto in massima parte dai risparmiatori italiani: una partita di giro tra residenti, e che oggi, al tempo del dominio dei banchieri è al 133 per cento, è posseduto dall’arcana entità chiamata mercato finanziario e paghiamo più o meno 50 miliardi annui di interessi, qualcosa come il 12/13 per cento dell’intero gettato tributario della Stato. La spesa per interessi, da allora, secondo il sito specializzato Scenari Economici, è stata, al valore attuale, di tremila miliardi di euro, quasi sei milioni di miliardi delle vecchie lirette.

Secondo l’Osservatorio di Carlo Cottarelli il debito potrebbe caricarsi nei prossimi anni di ulteriori 55 miliardi legati all’acquisto, da parte del Tesoro, di prodotti finanziari derivati. L’economista bocconiano tacque accuratamente durante il suo incarico di commissario alla spesa dei governi PD, ma, se le sue rivelazioni fossero confermati, sarebbe un guaio in più; il giudizio sui comportamenti governativi sfiorerebbe la categoria dell’alto tradimento. Berlusconi rilancia ora l’ipotesi di svendita del patrimonio pubblico – un’operazione che per avere successo dovrebbe attestarsi su almeno 400 miliardi di euro – finalizzata a sostenere una politica di abbattimento del debito sovrano. A chi giovi un’operazione di tale portata, che non esitiamo a definire tradimento storico del popolo italiano, è fin troppo chiaro. Dunque, nessun intervento fiscale di ampia portata è possibile senza il recupero della sovranità perduta.

Comunque, il carico fiscale italiano resta intollerabile. E’ pressoché raddoppiato in mezzo secolo sino ad arrivare al 43 per cento del 2015. Il lieve calo dell’ultimo biennio sembra più un’alchimia matematica che una realtà. Le entrate tributarie italiane hanno superato i 408 miliardi. Di questa cifra, 225 miliardi sono di imposte dirette. Stiamo quindi parlando di somme enormi, tenuto conto che l’insieme di tutte le dichiarazioni IRPEF (reddito delle persone fisiche) relative all’anno d’imposta 2015, l’ultimo di cui il MEF abbia diffuso un’analisi completa, assomma all’imponibile di 833 miliardi di euro. L’imposta media effettivamente corrisposta, al netto di deduzioni, detrazioni, bonus è stata del 19,64 per cento. La proposta di Forza Italia di Flat Tax al 23 per cento rischia di essere un’autorete, poiché prevede un’area di non tassazione fissata a 12 mila euro , che realizzerebbe forse la progressività ( elemento non eludibile in quanto costituzionalmente prescritto) ma ridurrebbe la base imponibile a 444 miliardi , con un’entrata di 102 miliardi ed un buco di 53, poiché, il gettito IRPEF assomma a 155 miliardi, il 70 per cento delle imposte dirette ( un’altra stortura italiana a danno dei piccoli e medi contribuenti !). In più, il meccanismo della no tax area così congegnato renderebbe pressoché nullo il vantaggio fiscale per milioni di contribuenti con redditi medio bassi. Autogol alla Comunardo Niccolai. Dunque, la tassa piatta versione in salsa berlusconiana presenta difetti e difficoltà pratiche. Più organica è la proposta leghista, che prevede un’aliquota choc del 15 per cento, ma ha il merito di operare alcune profonde distinzioni tra i contribuenti. La prima prevede una deduzione fissa di 3.000 volta a garantire la progressività dell’imposta sulla base del reddito e dei membri del nucleo familiare, sino a 50.000 euro. L’altro elemento che rende interessante l’ipotesi ideata da Armando Siri è che non si tasserebbe più il singolo contribuente, ma il nucleo familiare, privilegiando quindi, finalmente, la famiglia. Concretamente, non capiterebbe più che un contribuente celibe paghi, a parità di reddito, quanto un padre o una madre di famiglia. E’ un vecchio cavallo di battaglia cattolico e della destra sociale che diventerebbe legge.

Tuttavia, anche tale ipotesi resta assai debole su due versanti: la copertura innanzitutto e la capacità di provocare il rientro in Italia di chi ha delocalizzato all’estero. L’obiettivo è infatti quello di unificare al 15 per cento anche la tassazione delle imprese. Qui, probabilmente, cade l’intero castello della flat tax. Se infatti la tassazione italiana globale sulle imprese è spaventosamente alta, sino ad inghiottire variamente quasi i due terzi dei ricavi, contro il 35,5 per cento britannico, è tuttavia vero che in questo campo i veri eroi sono i piccoli e medi imprenditori, giacché il sistema delle elusioni fiscali ammesse è impressionante, tutto a favore dei grandi. Lo stesso Antonio Martino, liberale inflessibile e primo sostenitore, già vent’anni or sono, della tassa piatta, riconosce che la grande impresa, in Italia, paga soprattutto studi professionali specializzati che riescono a ridurre enormemente il peso delle imposte. Dunque, è più urgente una semplificazione e un abbattimento della giungla di bonus, eccezioni, detrazioni ed altre opportunità sfruttate da chi può permettersele. Martino attribuisce a Giulio Tremonti un’affermazione relativa al suo studio di consulente tributario, secondo la quale l’ex ministro, nell’ambito della privata attività professionale, avrebbe fatto scomparire in legalissime elusioni 600 miliardi di lire di imponibile dei propri clienti. Un altro osservatore non ostile al centrodestra, il professor Alberto Quadrio Curzio, nega la possibilità di applicazione della tassa piatta per carenza di copertura certa, suggerendo piuttosto di unificare le troppe tasse “sparpagliate”.

Effettivamente, in Italia si pagano, IRPEF a parte, l’IRES e l’IRAP sulle imprese, e poi TARI, TASI, IMU, ICI e mille altri balzelli , tra i quali segnaliamo per odiosità in un mondo fondato sulla mobilità, i 73,50 euro per i passaporti , il bollo auto di oltre 500 euro , rispetto alla media UE di 291, ma dal quale sono esentati i residenti della provincia autonoma di Bolzano, oltre alla tassa sui passaggi di proprietà degli autoveicoli , calcolati in maniera tale che in taluni casi si arriva a importi più onerosi del valore del mezzo. Insomma, un labirinto da cui non si esce senza impugnare la scure di interventi davvero innovativi. Peccato che, senza fuoruscire dai vincoli europei e recuperare la sovranità nazionale, ogni misura, per quante buone intenzioni abbia il legislatore, non potrà funzionare e dovrà essere accantonata. In più, resta il nodo formidabile della tassazione indiretta, che grava indistintamente su tutti senza riguardo per il reddito. Si tratta di oltre 183 miliardi di euro: parliamo soprattutto dell’IVA, di cui non è affatto scongiurato un devastante aumento al 25 per cento, nonché delle accise, che valgono oltre 30 miliardi nel solo comparto dei prodotti energetici e dell’energia elettrica, oltre al 22 per cento dell’IVA relativa. Sì, perché, nonostante i principi generali del diritto tributario vietino la tassazione di altre tasse, l’IVA sfugge alla regola, talché su un litro di benzina corrispondiamo circa 73 centesimi di accisa e 16 di IVA sull’accisa, oltre all’imposta sul valore del prodotto. Uguale principio vale per l’IVA all’importazione, il cui calcolo è gravato dai dazi doganali, i quali peraltro sono incassati a nome dell’UE, che riconosce agli Stati esattori solo un aggio, come ai tabaccai o ai rivenditori dei bolli.

Qui sorge un altro serio dilemma tributario, giacché l’erario nazionale, tanto inflessibile con i piccoli e medi contribuenti, quelli che non si possono permettere consulenti alla Tremonti né lunghe battaglie legali in Commissione Tributaria o davanti all’autorità giudiziaria, non riesce a raggiungere i grandi contribuenti transnazionali. Protetti da società schermo e dal prevalente carattere internazionale dei beni e dei servizi trattati, finiscono infatti per pagare solo dove più conviene, o addirittura evadere totalmente il fisco. Sappiamo della lunga battaglia dell’UE contro Apple, dell’immensa elusione realizzata da Facebook, Microsoft. Google, dalle piattaforme come Amazon, Uber, Airbnb, oltre alla difficoltà di tassare il commercio elettronico (e-commerce) ma il conto fiscale alla fine lo pagano il signor Rossi, le piccole imprese, i consumatori. La stessa mitissima web tax a carico dei giganti tecnologici è un’imposta europea, farà parte, come i dazi, delle cosiddette risorse proprie dell’Unione, di cui siamo semplici esattori e, ahimè, garanti, poiché a Bruxelles i soldi li vogliono subito e non fanno distinzione tra riscosso e accertato. Abbiamo scoperto, nell’Europa, un mostro fiscale più esoso e rapace dello Stato italiano! Il centrodestra, specie nella sua componente liberale, insiste altresì per la totale abolizione delle imposte di successione. Aléxis Tocqueville sosteneva che la libertà di uno Stato si giudica dal sistema di tassazione delle eredità, ma non poteva conoscere i sofisticati meccanismi giuridici con cui vengono trasmessi beni, titoli, azioni, patrimoni restando sostanzialmente indenni da tributi; tuttavia anche su questo tema è lecita qualche perplessità. Qualcosa va fatto, è immorale colpire chi eredita una casa, un campo, un fondo o somme modeste, ma non si possono trattare con i guanti i grandi patrimoni. Sarebbe ingiusto non solo da un punto di vista morale, ma anche in un’ottica liberale, che dovrebbe privilegiare il merito, la capacità personale sulla fortuna e la casualità dell’appartenenza a famiglie abbienti o dell’indicazione di un testatore.

Nella flat tax, dunque, sono più le ombre che le luci, e non ha torto Matteo Renzi nell’affermare che se cinque aliquote Irpef sono troppe, una è troppo poca. Non possiamo, al di là di congegni più o meno intelligenti di deduzione, detrazione, quozienti familiari, trattare allo stesso modo la vedova pensionata di reversibilità, i precari a vita e Gonzalo Higuaìn, Valentino Rossi, Fabio Fazio. Del pari, IRES e IRAP, insieme con studi di settore, redditometro e spesometro e ogni altro infernale meccanismo inventato dal redivivo conte Dracula, non devono considerare allo stesso modo le piccole imprese, i professionisti, gli artigiani, Finmeccanica, le entità finanziarie e le multinazionali. Probabilmente, l’obiettivo più realistico, poiché nessuna forza politica intende affrontare il nodo essenziale, ossia il debito, gli interessi passivi e la dipendenza da centrali di potere che hanno azzerato la sovranità sottraendola al popolo, è quello di semplificare, disboscare, e spostare con prudenza quote di tassazione dalle imposte dirette a quelle indirette. E poi sottrarre alla macchina impersonale del fisco una parte degli enormi poteri che ha, a cominciare da Equitalia, dal dedalo di interessi, indennità, sovrattasse, automatismi che moltiplicano le somme dovute, e rivedere il sistema che pone immediatamente a ruolo tutte le somme pretese, con l’impatto economico, psicologico ed esistenziale che produce sulla vita dei cittadini (e la morte, attenzione al dato allarmante dei suicidi per motivi economici e tributari).

L’alternativa, a voler davvero applicare la tassa piatta, è, un sicuro squilibrio di bilancio nel breve periodo che produrrebbe le pesanti reazioni del “pilota automatico “chiamato troika– l’espressione pilota automatico è di uno che sa, Mario Draghi – l’esplosione comandata dell’arma letale spread, con il risultato di consegnare anche gli ultimi spiccioli a chi sta espropriando il nostro popolo, il sistema produttivo, la nazione intera. Non a caso, si parla di nuove privatizzazioni (ma si legge svendita) che impoverirebbero ulteriormente la nostra disgraziata nazione, con il trasferimento ai soliti noti, gli strozzini globali, di quanto faticosamente costruito con il sudore e il lavoro di generazioni. Resta da stabilire se sia vera la convinzione dei sostenitori della tassa piatta secondo la quale essa abbatterebbe l’evasione e, a regime, per il grande incremento previsto delle attività economiche, risulterebbe addirittura benefica per le casse erariali. Il caso americano, con la celebre reagonomics degli anni 80, basata sulla curva di Laffer (oltre un certo livello di tassazione diminuisce il gettito per disinteresse a creare ricchezza) dimostrerebbe il contrario, poiché l’ampio programma di tagli fiscali, di cui beneficiarono soprattutto i più ricchi e la grande impresa, ha moltiplicato il debito. Negli Usa, la potenza complessiva del dollaro, il dominio globale, politico, tecnologico e militare a stelle e strisce ha evitato disastri sociali, ma la povertà di decine di milioni di americani prova che la rivoluzione liberale è radicalmente ingiusta.

Altri esempi presentati non sono persuasivi. I buoni esiti della flat tax in area baltica celano il fatto, assai grave, che la previdenza è stata privatizzata, talché i pensionati dipendono dai risultati a breve termine dei mercati finanziari su cui è piazzato il denaro dei fondi, mentre l’esempio russo risente di troppe differenze. Si può tuttavia affermare che un risparmio fiscale mal bilanciato inevitabilmente diminuirebbe la copertura sociale, previdenziale e sanitaria, con esiti infausti per il sistema Italia che spende oltre il 16,5 per cento del PIL per pensioni e destina alla sanità circa un quarto della spesa pubblica, peraltro con squilibri clamorosi nella qualità dei servizi tra le varie regioni. Un proverbio dei contadini pugliesi spiega “se non paghi a lino, paghi a lana”. Un’ultima osservazione riguarda le evidenze statistiche. La lotta di classe c’è stata, dopo la caduta del comunismo. L’hanno vinta gli straricchi, come ha tranquillamente ammesso uno di loro, Warren Buffet. Per limitarci all’Italia, meno del 20 per cento della popolazione possiede oltre due terzi della ricchezza; i protagonisti del Ceo capitalismo, ovvero il dominio dei manager alleati con i grandi possessori di azioni, guadagnano in un giorno quanto i loro subordinati in un anno. Se il panorama è questo, è fin troppo evidente che, pur con diverse intenzioni, la tassazione ad aliquota unica beneficerà in modo straordinario la fascia di contribuenti che può pagare, cambiando marginalmente la condizione dei più. Si può forse lavorare sulla progressività finale dell’imposizione, ma non verrà rispettato il principio del sacrificio proporzionale dei contribuenti.

Resta drammatica ed inevasa la richiesta di un sistema tributario più equo, più leggero, meno pervasivo e occhiuto, caratterizzato da un numero di regole, norme, interpretazioni, meccanismi che non riempiano manuali e massimari di migliaia di pagine come accade oggi. Un venerato maestro del modello liberale, Adam Smith, scriveva che le leggi, in particolare quelle tributarie, devono essere poche e scritte in linguaggio accessibile ai più. Una riforma orientata in tale direzione sarebbe un regalo immenso al popolo italiano, ma non accadrà. Tutti preferiscono le promesse, le acrobazie aritmetiche, il marketing elettorale teso alla cattura dei contribuenti maltrattati. Senza uscire dal circolo vizioso del debito, del dominio della finanza, dei poteri transnazionali, qualunque soluzione sarà illusione, pannicello caldo, rinvio della resa dei conti, mera sopravvivenza per continuare a lavorare per falsi creditori e autentici mentitori.

  ROBERTO PECCHIOLI

666: la Ka’ba, il Cubito Aureo e i rapporti dimensionali Sole-Terra-Luna secondo i Sumeri – Il Poliscriba

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Avere una predilezione per le misure esatte o che rimandino ai solidi platonici, è cosa antica, profondamente indoeuropea e di questo non possiamo dolerci, anzi, dovrebbe esaltarci l’idea che l’iperuranico mondo della geometria dei solidi perfetti, stia sempre dietro alle forme imprecise con le quali si manifesta il visibile. L’invisibile, da parte sua, incollato alle forme come ombra lunghissima all’alba e al tramonto delle civiltà, non si darebbe pena di manifestarsi se gli umani non lo avessero invocato edificando dimore adatte o adattate al culto dell’Eternità.

La Kaaba o Ka’ba, era una di queste dimore. Significa cubo, e il cubo è un solido che ha un suo magnetismo a dir poco sovrannaturale, lo stesso tipo di attrazione che si può misurare in chi è sensibile alle forme che incutono stupore, timore e rispetto. La grandezza, la maestosità delle montagne, ad esempio, sono state maestre di forme da imitare; lo attestano le piramidi visibili e invisibili costruite nei millenni passati e in epoca recente (Astana), in quanto relazione geometrica indissolubile tra terra, cielo e inconscio. Il cubo è la materializzazione del numero 6 e della sua costante magica, 111, che si ottiene dalla formula (n³+n)/2, dove n è la misura del lato del quadrato magico, nel nostro caso, n= 6.

Per motivi esoterici, i matematici antichi associavano a questa relazione 6-111, il sole e da quanto abbiamo visto nel mio articolo precedente “666: il numero della vita e Sorat è il demone solare”, non è difficile ravvisare un’ origine ancestrale di un culto geometrico-solare. La Ka’ba al centro della Mecca era stata originariamente edificata secondo misure segrete risalenti a un corpus matematico abramitico, verosimilmente ereditato per vie iniziatiche fin dai Sumeri, passando per Accadici e Babilonesi.

Non ci sono notizie certe sulla struttura originale che non è opera di Maometto ma, si narra, di Ismaele figlio di Abramo. È sicuramente un’eredità sapienziale alla quale, per fasi successive, sono stati attribuiti altri valori, altri messaggi, altre simbologie. Si dice fosse più piccola delle misure odierne (11,3X12,86X13,1m) dovute ad interventi progressivi durante tutto l’arco della storia islamica privandola della perfetta forma cubica. L’ ipotesi è che la prima Ka’ba da cui discendono le altre, dovesse rispettare il numero 666, e i costruttori, per rendere tangibile tale numero, imposero al lato del cubo originale il valore di 11 metri.

Infatti, 666x2=1332 e 11x11x11=1331.

Quello che gli antichi sapevano per via indiretta riguardo alle misurazioni astronomiche e geodetiche, noi pensiamo sia impreciso rispetto alla tecnologia di cui disponiamo. Ma è indubbio che il loro modo di ragionare e di percepire il visibile, attendeva alla perfezione della geometria sacra che non risente, essendo metafisica, delle deformazioni sensoriali, strumentali e relativistiche. Quel legame tra i numeri 6 e 111, che gli astronomi-sacerdoti dall’alto delle Ziqqurat avevano scoperto, si riferiva al rapporto tra i diametri del Sole, della Terra e della Luna Per loro il Sole aveva verosimilmente un diametro 111 volte più grande del diametro della Terra che, stando ad alcune ricerche interessanti sul Cubito Aureo proposte da Vasile Droj (autore discusso e discutibile per certi versi, ma da non sottovalutare integralmente), rappresenterebbe la dimensione cubica del valore del cubitino(2,286) che si ottiene dalla radice quadrata del valore del cubito aureo (0,52286m), il vero cubito usato dai costruttori antichi per erigere i monumenti solari e lunari, che rispetto a quello “storicamente accettato” presenterebbe proprietà matematiche del tutto affini al Φ della sezione aurea.

Il caso che tutto spiega, ci edifica a considerare ogni relazione matematica tra oggetti, mere coincidenze, e le speculazioni astronomiche degli antichi frutto di un’infanzia scientifica ormai superata. Ora, prendendo in considerazione l’adimensionalità dei numeri che ci interessano, il 6 e il 111 della Ka’ba e il cubito aureo di Vasile Droj avremo:

666x5,2286 = 3.482 (diametro Luna)

questo valore adimensionale, che gli antichi conoscevano, è molto attendibile e corrisponde ai 3474km del valore attuale, perché le osservazioni delle eclissi erano precise e ponevano domande relative alle dimensioni apparenti del disco solare rispetto a quello lunare che risultavano misteriosamente coincidenti durante quelle totali; si noti anche che il mese siderale lunare è calcolabile in;

5,2286² = 27,34

contro i 27,32 giorni teorici;

666x400x5,2286 = 1.392.899 (diametro Sole)

 

molto vicino al valore attuale 1.391.400km, ma si può considerare esatto vista l’oscillazione periodica delle dimensioni del sole in eccesso o in difetto dai dati osservativi, dovute alla sua attività nucleare e magnetica;

(666x100)/5,2286 = 12.737 (diametro Terra)

 

il diametro della Terra oggi è quantificato in 12.742km;

666x110x5.2286 = 383.047 (distanza Terra-Luna)

il cui valore odierno è 384.400km;

666x11x5,2286⁶ = 149.685.394 (distanza Sole-Terra)

 

che molto si avvicina ai 149.600.000km adottati dagli astronomi come unità di misura standard codificata come u.a..

Il Poliscriba

 
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