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Generazione Erasmus – Roberto Pecchioli

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La generazione Erasmus sono i giovani del presente, i millennials, coloro che si sono formati nel primo scorcio del XXI secolo. Erasmus è Erasmo da Rotterdam, l’umanista autore dell’Elogio della Follia, un testo fortunatissimo ma di scarsa profondità. La definizione riguarda il programma dell’Unione Europea che permette a molti ragazzi di studiare o soggiornare per un periodo definito in un paese diverso dal proprio. Poco tempo, pochissimo studio, scarsa formazione, poco più di una lunga vacanza. Eppure, un oggetto di desiderio per moltissimi. Ne parla un giovane intellettuale fuori dagli schemi, Paolo Borgognone in un libro, Generazione Erasmus appunto, che ogni giovane dotato di cervello pensante dovrebbe leggere e meditare.

Il quadro è sconfortante, e va sottolineato che i giovani Erasmus sono vittime. Il sistema li vuole fragili, nomadi, sottomessi alle leggi di mercato, flessibili. Per questo li educa, condiziona e indottrina a vivere in una sorta di paese delle meraviglie leggero, impalpabile, diafano, intercambiabile.

I ragazzi vengono esortati a vivere con il trolley in mano. Devono essere pronti a trasferirsi di continuo, compulsivamente. Si trovano a loro agio negli aeroporti, nei centri commerciali, negli ostelli, i nonluoghi. Imperativo è conoscere un po’ di inglese, lingua franca dei consumi, della tecnologia e di quell’universalità da quattro soldi spacciata per modernità, apertura, capacità di comprendere il mondo.

Il globalismo estirpa le radici: meglio tagliarle sin dai primi anni di vita. La Generazione Erasmus è invitata a non avere casa, patria, identità, o, se volete, a ostentare l’assenza di identità come imprinting generazionale. Stipati in bilocali arredati con tristi mobili Ikea affittati sull’apposita app di Airbnb o simili, armati di un vocabolario di poche centinaia di parole multiuso da pronunciare in un inglese approssimativo, si mischiano senza unirsi. Rimangono grumi senza forma, privati di un centro, attori non protagonisti di rapporti immediati quanto superficiali, ignari che là fuori il mondo è più vasto e complesso del campus, degli studi settoriali al termine dei quali sapranno tutto di nulla e non avranno neppure sfiorato il pensiero critico, e poi vittime dello sballo obbligato, della trasgressione programmata.

Forse non è un caso la scelta del nome di Erasmo, che si firmava Erasmus Desiderius. I millennials, infatti, sono vittime del desiderio indotto. Diseducati a riflettere, sono chiusi in un eterno presente fatto di stimoli sempre maggiori, esauriti nella soddisfazione immediata cui segue l’inevitabile vuoto da riempire con nuove aspirazioni o smanie. Nella suo Dialogo della salute, che precedette di poco il suicidio a ventitré anni, il giovane Carlo Michelstaedter scriveva, a proposito del nichilismo gaio che antivedeva: “Schiavi di ogni capriccio, legati a d ogni istante, vittime di ogni padrone, bisognosi sempre di tutto, sitibondi nel fluire dell’acqua, affamati nella sovrabbondanza”. Il giovane goriziano era, a suo modo, un millennial del secolo passato, giacché scriveva attorno al 1910, Belle Epoque e finis Austriae.

Nel presente, guai a paragonare il nomadismo degli Erasmus con un errante colto alla Bruce Chatwin. Egli era un viandante, anzi un viator alla ricerca dell’autenticità animato da una vera sete di conoscenza. Inoltre, disprezzava profondamente l’Europa sazia ed inerte, tanto che arrivò a dire che si stava “maializzando”. E animali d’ allevamento, esemplari zootecnici sono, per la cupola del potere, le generazioni che stanno formando, trasformando, sformando. Tutti di corsa in massa, perennemente in viaggio e connessi, con il dialogo ridotto agli SMS e all’esibizionismo da social media, selfie e istantanea dell’attimo fuggente.

E’ oggettivamente una generazione di vittime, a partire dal materialismo pratico, dall’indifferenza a principi stabili come a vite radicate in un luogo ed in destino. Vittime dell’istruita ignoranza in cui sono stati cresciuti, della falsa equivalenza di ogni valore, della tolleranza di tutto senza giudizio di merito, diseducati alla riflessione, inclini al disprezzo per il sacrificio, trascinano la vita in un individualismo massificato il cui esito è il cinismo, la competizione ad ogni costo, la logica dei “vincenti”, la strumentalità e fungibilità dei rapporti.

Feticismo della merce, intuiva Marx, ma anche del desiderio, del denaro, dell’attimo. La soluzione è nella convenienza, per il resto vale il libretto delle istruzioni online. Quella della generazione Erasmus è una vita puntinista senza la capacità di trarne un quadro. Vittime sorridenti, in vacanza perenne, senza radici, appese ai voli low cost, all’orario ferroviario e al miraggio di uno stage a Londra. Elogio della follia per davvero, vecchio Erasmo simbolo inconsapevole degli ultimi europei, turisti dell’esistenza, abitatori del vuoto, cittadini del nulla.


Figli di Ra, figli di Zeus: partenogenesi stellare all’origine del nostro Sole, di Giove e di Saturno – Il Poliscriba

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(la scoperta degli esopianeti la confermerebbe)

Cittadino, ho letto il vostro libro e non capisco come mai non abbiate lasciato spazio all'azione del Creatore. - Cittadino Primo Console, non ho avuto bisogno di questa ipotesi.

Il famoso scambio verbale tra Laplace e Napoleone, che ho riportato in testa a questo mio articolo, è un esempio di puro razionalismo illuminista. Siamo nel 1796, il Terrore di Robespierre si è spento lasciando cadaveri in ogni famiglia parigina e in tutte quelle province che non si sono lasciate assoggettare dal diktat totalitarista rivoluzionario (Vandea). Migliaia di teste, milioni di corpi uccisi. Ma, da quel 1796, le ipotesi relative alla genesi del nostro sistema solare non si sono discostate di molto da quella notoriamente conosciuta come: ipotesi della nebulosa solare di Kant-Laplace. In sintesi, l’ipotesi suggeriva la nascita del nostro sistema solare dalla condensazione di una nube di gas e polveri – ultima testimonianza dell’esplosione di quella che oggi viene definita una stella di tipo Wolf-Rayet, 50 volte più grande e massiva del nostro sole – che, collassando a causa della gravità, ha dato origine alla nostra stella e successivamente ai pianeti per ulteriore cocentrazione del disco di polveri ruotante intorno alla stella neonata. Su questa ipotesi la scienza ha voluto costruire un’impalcatura che nè la matematica nè le più raffinate simulazioni computerizzate sono riuscite a dimostrare.

Basti pensare che il genio matematico di Poincarè, cercando di formulare una teoria meccanica complessa per più di 3 corpi orbitanti tra di loro, ad esempio il sistema Sole-Terra-Luna, ha dovuto constatare che le curve rappresentanti tale meccanica, divenivano nel tempo   sempre più caotiche. Ciò è contrario all’evidenza osservativa della stabilità delle orbite planetarie e dei loro satelliti naturali sul lungo, lunghissimo periodo di quasi 5 miliardi di anni. Ad oggi, non c’è una soluzione al caos verso il quale andrebbero incontro le orbite planetarie matematizzate, anche solo dei pianeti interni del nostro sistema solare (Mercurio, Venere, Terra, Marte), dopo solo 5 milioni di anni di simulazione accelerata. Solo se si approssimano e si inseriscono dati a doc in sofisticati programmi di simulazione virtuale, si riesce, per un tempo comunque molto breve, ad evitare che i corpi presenti nel sistema solare non vadano a collidere.

L’ipotesi di Kant-Laplace fa parte di un corpus dottrinale illuminista che pose le basi per una divinizazzione del caso in astronomia: il controaltare alla deificazione dell’universo quale creazione di un Demiurgo. Esistono ipotesi alternative anche più interessanti e, se così si può dire, più vitaliste, se non panteiste dell’origine del sole e dei pianeti. Non so quanti lettori di Ereticamente conoscono la storia “eretica” dell’astrofisico “eretico” Halton Arp. Ve la racconto in breve. Arp ha messo in crisi l’intero establishment scientifico, quando, grazie ad osservazioni con i più potenti telescopi del mondo, ha scoperto anomalie galattiche e stellari che indicherebbero la nascita dei Quasar - gli oggetti più antichi, più distanti, più veloci e energicamente più potenti dell’universo - dal centro di galassie molto attive e sensibilmente più vicine a noi, molto più lente e meno energetiche dei Quasar medesimi. Detto in maniera semplicistica è come se, nell’albero genealogico della nostra famiglia, i   trisavoli fossero discedenti e non i nostri antenati. Arp, come giusto che sia nel meraviglioso mondo della democrazia scientifica, che in verità è estremamente politicizzata e totalitaria come la rivoluzione del 1789 da cui si è sempre abbeverata, è stato messo a tacere e gli è stato impedito fisicamente di continuare a fare ricerche su tali difformità, vietandogli l’uso di satelliti extraterrestri e telescopi terrestri. Perché? Perchè la sua ipotesi, corroborata da dati scientifici che non sono stati realmente negati, ma semplicemente ignorati, metterebbe in crisi tutto l’impianto teoretico che impone la fisica e l’astrofisica, la Relatività Generale e il Modello Standard delle particelle, come condizioni valide in tutto l’universo.

Arp ha avvvertito che, forse, queste teorie che vengono sottoposte a esperimento e verificate ogni giorno in tutti i laboratori della Terra, potrebbero essere valide soltanto a livello locale, cioè solo nella nostra galassia, la Via Lattea se non addirittura nel nostro sistema solare...Ancora di più: egli ha sostenuto che non è esistito un Big-Bang e ciò che le antenne di tutto il globo rivelano come radiazione cosmica di fondo, compreso lo sfrigolio tipico delle radio quando non ricevono nessuna stazione, sarebbe la radiazione termica media proveniente dalla stessa Via Lattea e, siccome in essa siamo immersi, è normale riceverla da ogni direzione. Inoltre, analizzando migliaia di spettri stellari e galattici, ha messo in discussione il redshift cosmologico, l’indice che misura l’espansione dell’universo, trovando ulteriori divergenze dalla teoria cosmologica comunemente accettata, indicanti un universo stazionario, quindi non espansivo, geometricamente euclideo (confermato poi dal satellite COBE) e di qualche miliardo di anni più giovane, quindi sensibilmente più piccolo.

Roba pesante che avrebbe dovuto ricevere molta attenzione, perché non proveniva da un ciarlatano qualunque o un cospirazionista in odore di complottologia mitomaniaca, ma da un esperto di fama mondiale. Bene, nel titolo ho messo tra parentesi la questione della ricerca degli esopianeti. Ad oggi sono circa 4000 quelli trovati per via indiretta e di questi, più del 90% sono giganti gassosi come i nostri Giove, Saturno, Urano e Nettuno. Questi giganti, per lo più, ruotano molto vicini alle loro stelle madri in sistemi anche più complessi, perchè formati da due o tre stelle in orbita tra di loro. Diciamo che il nostro sistema ad una stella è un caso abbastanza atipico o se vogliamo corrispondente, per ora, a una bassa statistica di osservazione astronomica (ma non è mai detto) Se diamo per buona l’ipotesi o quasi-teoria di Arp (ma dubito che gli astrofisici vogliano mettere in dubbio la cosmogenesi insegnata in tutti i gradi scolastici del mondo), l’enorme quantità di giganti gassosi che orbitano intorno alle stelle di varia grandezza, suggerirebbero una partenogenesi stellare, come quella dei Quasar dal centro delle galassie (nebulose, a spirale o a bracci). Recentissime analisi di Giove da parte della sonda Juno hanno obbligato gli astrofisici a rivedere interamente le loro ipotesi sul nostro gigante gassoso. A pochissimi di loro   è venuto in mente che all’origine del nostro sistema solare ci possa essere stata un’evoluzione diversa da quella ipotizzata da Kant e Laplace. Se Arp aveva ragione ed io credo che si sia avvicinato molto alla verità, i giganti gassosi sono le prime manifestazioni di un sistema solare complesso come il nostro. Ma andiamo con ordine.

Figli di Ra

Sembra probabile, secondo un team di ricerca dell’Università di Chicago, che il nostro sistema solare abbia avuto origine da una bolla “espulsa” da una stella gigante rossa di tipo Wolf-Rayet di cui sopra. Nicolas Dauphas, uno dei co-autori di questo studio pubblicato sulla prestigiosa rivista Astrophysical Journal, sostiene che: ”Il guscio di queste bolle stellari è un buon luogo per produrre altre stelle, perché le polveri e i gas restano intrappolati e possono così condensarsi di nuovo”. Non solo: secondo i ricercatori, oltre al nostro sole, anche altre stelle simili, dall’1 al 16% di quelle presenti nell’universo, potrebbero essersi formate in queste gigantesche culle siderali.

Figli di Zeus

Non è difficile proseguire su questo cammino tracciato da Arp che timidamente inizia a ottenere le prime conferme. Non dischi di polvere che ruotano intorno a stelle, ma bolle di stelle che creano soli e perché no? Bolle di soli che creano pianeti gassosi? La sonda Juno che sta orbitano vicinissima a Giove sta trasmettendo dati che ci restituiscono una natura straordinaria del pianeta, ma soprattutto attesterebbero le sue similitudini con il nostro astro siderale. Similitudini già evidenziate dall’analisi spettroscopica della sua atmosfera, così come quelle di Saturno, Urano e Nettuno dove esiste una preponderanza di elio e idrogeno, gli elementi che sono alla base della fisica e della struttura del sole. L’abbondanza negli esopianeti di giganti gassosi è forse l’indice che i pianeti rocciosi si formano da questi? Se così fosse, siamo di fronte a un modo di operare della natura cosmica molto simile ad una partenogenesi solare, fino ai satelliti planetari rocciosi passando attraverso i giganti gassosi? I giganti gassosi sono inospitali, ma i loro satelliti, come Europa per Giove, sono candidati ad ospitare la vita. La probabilità che vi siano altre forme di vita intelligente nell’universo, se si considerano le lune di questi titani del cosmo, cresce esponenzialmente, senza per forza dover cercare terre simili alla nostra nella cosiddetta fascia abitabile. Non affronterò qui la questione delle serie numeriche che evidenzierebbero anche uno schema ricorsivo (Serie di Fibonacci e non solo) e proporzionale nelle dimensioni che legano le stelle ai pianeti gassosi e questi ultimi ai rocciosi e ai loro rispettivi satelliti, tema che richiederebbe un approfondimento ulteriore, oggetto di un altro articolo.

Ad esempio, poichè è ormai acclarato che Plutone, per le sue dimensioni, potrebbe quasi sicuramente essere un satellite sfuggito dall’attrazione di Nettuno, nessuno ha mai inferito che anche Mercurio potrebbe essere stato l’unico satellite di Venere, quello che i numeri teorici cercano, ma non trovano. La storia dei pianeti interni, Mercurio, Venere, Terra e Marte, e dei satelliti dei giganti gassosi, non è ancora chiara. Ma se la partenogenesi per gradi successivi è una possibilità, saremmo di fronte a un modus operandi universale che ricorda le matriosche o ancora meglio le mitologie dell’universo che si rifanno alle tartarughe che si appoggiano su altre tartarughe di dimensioni sempre più grandi. O cosmogonie che ipotizzano la nascita dell’universo da un uovo cosmico che non è esploso, ma si è diviso come la morula cellulare dell’uovo biologico dei mammiferi. Mercurio e la Luna sono oggetti simili, Venere e Terra quasi gemelli in massa e dimensione, che avrebbero espulso i primi due e non è un caso se il secondo figlio di Charles Darwin, George H.Darwin ottimo e preparato astronomo, abbia proposto per l’origine della Luna una gemmazione o fissione dall’incandescente Terra dei primi milioni di anni, 100, per la quasi precisione, quelli che separano anagraficamente i due geoidi rocciosi, rendendo la Luna un po’ più giovane. George H. Darwin, studiando gli scritti del padre, avrà probabilmente considerato l’aspetto delle ramificazioni in natura, molto ricorrenti e avrà correlato le stesse con la possibilità della gemmazione planetaria.

E siccome lui non lo sapeva, ma la matrice dei superammassi galattici ricorda un gigantesco frattale, geometria studiata dal matematico Mandelbrot, nulla vieta di pensare l’universo come il gigantesco albero YGGDRASIL che sostiene il mondo, nato da un seme cosmico e dal quale, per gemmazione, si creano continuamente galassie, stelle, sistemi planetari e relative lune. Dal seme alla radice, dalla radice al tronco, dal tronco ai rami, dai rami alle foglie, dalle foglie ai frutti.

“Non c’è niente che sia superiore o separato da lui, niente che sia più grande o più piccolo. Stabile nella sua gloria, si erge come un albero dalle profonde radici, inamovibile, uno senza secondi. Questo Essere supremo pervade l’universo intero.”

(Upanishad di Parama Karuna Devi)   Il Poliscriba

Dissacrazione e riconsacrazione del Cosmo – Riccardo Scarpa

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Il millenovecento dell’êra volgare fu il secolo delle crisi e, tra queste, di crisi della sacralità. Molti intellettuali, allora, si fecero un vanto d’essere dei dissacratori. All’inizio del ventunesimo secolo non si può dire che la dissacrazione del mondo sia terminata; anzi, gli insorgenti fondamentalismi religiosi, coi loro strascichi terroristi, in fondo sono più dissacranti delle rispettive fedi di tanti altri pensieri e comportamenti, in quanto le riducono ad ideologie secolari e strumentali. L’eclisse del sacro, uscito pei tipi de’ i libri del Borghese in questo 2017 (€18,00), con una prefazione di Giuseppe Del Ninno ed una importante postfazione di Giovanni Sessa, è un dialogo su questa crisi fra Thomas Molnar ed Alain de Benoist, un cattolico conservatore ed un poligrafo il quale, a conti fatti, propone da anni la riconsacrazione del mondo col ritorno ad un politeismo che ripopoli il cielo e la terra col divino scacciatovi dai monoteismi. La difesa del sacro “cristiano” da parte di Thomas Molnar appare debole nell’impostazione e ricca di contraddizioni. Dopo aver presentato la sua conversione ad opera di madre Casey, un anziana religiosa di un collegio del Sacro Cuore a San Francisco, nel 1954, in pratica con una semplice mozione degli affetti, subito mostra una straordinaria incomprensione della sacralità non cristiana nel descrivere un suo soggiorno a Benares, illustrata come città santa dell’induismo, definita, per la miseria che vi vide e le scarse misure igieniche del vivere comune, col naso arricciato di un europeo benestante: «cloaca dell’esistenza». Una società considerata espressione di: «una religione che nega l’essere, che lo considera una cicatrice aperta nel nulla». Basterebbe un sociologo da quattro soldi per spiegare che le miserie e le indolenze degli orientali furono dovute ad una storia sociale ed economica più che spirituale e dell’anima, e che il colonialismo dei cristiani d’occidente ci mise del suo; ma qui ci preme quella svista, o quell’ignoranza, non in grado di comprendere proprio il nucleo della spiritualità vedica e vedantica, che è nell’intuizione dell’essere ben oltre la manifestazione fenomenica ed impermanente dell’esistenza. È proprio l’esistenza, che non è l’essenza delle cose ma la sua ingannevole parvenza materiale, ad essere: «una cicatrice aperta sul nulla». Del resto, questa è la prima di una serie di scivoloni che costellano il saggio di Thomas Molnar e le risposte alle domande a lui poste da Alain de Benoist. Egli ha ragione nel dire che il mito dei pagani si ripropone in un tempo sacro distinto ed altro dal tempo storico, ma da qui a dire che i precristiani non avessero una concezione della storia è dirla grossa.

Molti semplici ex alunni d’un buon ginnasio e liceo classico, con memoria di qualche versione da un brano di storiografia greca e latina, sanno come allora si distinguesse bene fra mito e storia, e quanto gli antichi avessero una concezione ciclica della storia, anche senza aver letto Il mito dell’eterno ritorno di Mircea Eliade (Roma, Borla editore, 1999). Che Thomas Molnar equivochi sul sacro pagano, che non gli appartiene, ancora passi; ma quando afferma che il cristianesimo, fondato sull’incarnazione del Λόγος in Gesù Cristo, abbia consacrato la storia e, perciò, sconsacrato l’eternità, mentre il mondo pagano avrebbe fatto dell’eternità il luogo sacro del mito e relegato la storia a cronaca profana, c’è da chiedersi se conosca le ragioni della condanna di Ario da parte di Atanasio, che gettò il fondamento ontologico dell’ortodossia cristiana consacrata nel simbolo, il credo di Nicea - Costantinopoli. In buona sostanza, Ario, teologo berbero del iv secolo, sostenne che siccome il Padre ha generato il Figlio lo ha creato, poiché prima verrebbe il Padre e poi, nella creazione, il Figlio. Questo, però, presuppone che vi sia un prima ed un dopo, cioè un tempo storico; ma il prologo dell’evangelo di Giovanni pone il Λόγος fuori dalla creazione, cioè dallo spazio tempo, e quindi in eterno, una dimensione senza spazio tempo, senza un prima ed un dopo, nel quale Dio si pone in eterno nelle tre ipostasi, nelle tre sussistenze fuori dal mondo fenomenico: Padre, Figlio e Spirito Santo. Come s’esprime il credo, il Figlio è: «generato e non creato». Il cristianesimo è incomprensibile proprio senza quella differenza fra eternità e storia, ed i suoi principî sono nell’eternità e non nella storia. Infondo, però, passare sotto silenzio questo serve a Thomas Molnar per rifiutare la definizione data da Friedrich Nietzsche, mai citato ma sempre presente nella sua polemica come il convitato di pietra di Don Giovanni, del cristianesimo come platonismo popolarizzato; un ponte non desiderato con la tradizione sacrale antica. La sua idea, poi, della concezione lineare e progressiva della storia, derivante dall’incarnazione in essa del Cristo è, poi, comune con quella che ne ebbe, da noi in Italia, nel secolo xix, Cesare Balbo; ma in Balbo essa coincide, più coerentemente, con la Provvidenza, come in Alessandro Manzoni, e fonda l’adesione d’entrambi, con Niccolò Tommaseo, Antonio Rosmini ed altri, al liberalismo ed, in prospettiva, alla democrazia. Tutte cose nelle quali, invece, Thomas Molnar, contraddittoriamente, vede il diavolo in agguato; agguato nel quale sarebbero caduti Paolo vi ed il Concilio Vaticano ii. Contraddittoriamente, perché o la storia è consacrata dal Cristo, ed allora và accettata come Provvidenza; o è diabolica ed allora và rigettata come regno del male. Però, in questo secondo caso, Molnar aderirebbe ad una gnosi dualista, che invece egli condanna; senza distinguerla dalla gnosi unitaria, quella benedetta dalla chiesa cattolica ed ortodossa quando definiscono il cristianesimo: «vera gnosi». Le incoerenze di Thomas Molnar sono dovute, probabilmente, solo ad una cosa: convinto che non vi sia salvezza fuori da Santa Romana Chiesa, non solo non ha approfondito le altre manifestazioni del Sacro e le giudica con una certa superficialità, ma anche del Cristianesimo non conosce i padri, l’ortodossia, ma soltanto la chiesa latina, con le sue polemiche conciliari del millenovecento e nella plurisecolare disputa antiprotestante. Rifiuta, però, la conseguenza di tutto questo, cioè l’Occidente liberale. Più coerente, almeno con sé medesimo, Alain de Benoist. Egli aderisce al distinguo della tradizione fra sacro e divino: la parola dio, dal radicale indoeuropeo dyu, indica una manifestazione celeste, un aspetto della sacralità come la luce di quel cielo; di tal che lungi, dall’essere il mondo oggetto degli dèi, sono gli dèi emanazione di quella luce e soggetti al cosmo ed alle sue leggi, Senofone di Colofone pone la Deità al di sopra degli dèi; in Aristotele essa è il motore eterno del mondo e non il suo creatore o riordinatore. Queste cose sono compito di un demiurgo diverso dal principio, dall’Uno di Plotino che emana l’irradiazione.

Con ciò de Benoist non solo e non tanto è capace di rendere ragione dei pluralismi politeisti, ma anche, a bel vedere, della natura profonda del cristianesimo. Esso, infatti, è intuizione trinitaria dell’Uno come eterne sussistenze fuori dal mondo fenomenico, che emanano questo mondo attraverso il principio eterno d’una pura vibrazione cosciente, il Λόγος riordinatore del cosmo e lo spirito vivificante dall’interno dell’atomo sino alle consapevolezze minerali vegetali umane e sovraumane. In sostanza, tale colloquio sull’eclisse del sacro, mostra l’incomprensione di Thomas Molnar per forme di sacralità diverse non dalla cristiana, ma dalla sua idea di quella cristiana, a confronto con un Alain de Benoist che intuisce il sacro nella sua universalità e comprende perfettamente le diverse forme di esso, anche se poi, si potrebbe dire per gusti personali, elegge una sua concezione politeista.

Riccardo Scarpa

Le borgate del Paradiso: il Quarticciolo. A cura di Emanuele Casalena e Mario Merlino

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Il tram 14 scorre, alla romana, in direzione Prenestina, un professorino d’arte & matita, costretto nei suoi piedi, và a prendere servizio nella succursale del liceo Francesco d’Assisi al Quarticciolo. E’ presto per entrare, una visita di cortesia al “paese” passando dal caffè di fronte, poi imbuca il quartiere celebrato solo per il “gobbo” Giuseppe Abano, partigiano di Sherwood, bandito, tradito, freddato alle spalle da sicari suoi “compagni” a 18 anni nel gennaio del ’45.

[caption id="attachment_25467" align="alignleft" width="215"] Manifesto del film di Carlo Lizzani “Il Gobbo” del 1960[/caption] [caption id="attachment_25466" align="alignright" width="200"] Scena tratta dal film di Carlo Lizzani “Il Gobbo” del 1960, tra i protagonisti P. P. Pasolini[/caption]

Piccola città d’urbanistica romana, semplice, lineare, ordinata secondo cardo e decumano, angoli retti delle vie, scatole abitative allineate in file parallele come soldati, un solo accesso a imbuto: via Castellaneta invito al “Foro” del quartiere. L’architetto è Roberto Nicolini, padre del Gandalf delle estati romane, fu progettista d’ altre borgate del ventennio come il Trullo e Torre Gaia dove si incontrano due registri che guidano il disegno, il primo è il rigore moderno del razionalismo italiano, l’altro l’umanesimo senza il quale l’astrazione partorisce un figlio morto. La sintesi porta a cavalcare una regione di mezzo dove la realtà oggettiva sposa l’immaginazione creando, con un patto condiviso senza fughe, un mondo che il figlio Renato chiama “immaginale” riferendosi ai processi ideativi paterni. Il Quarticciolo è forma di questo connubio tra ragione complessa e slancio immaginifico, guardando alla favola del nostro medioevo (altro che secoli bui!).

  [caption id="attachment_25465" align="alignnone" width="615"] Planimetria del Quarticciolo[/caption]

Rifletteva Philippe Daverio, commentando la basilica paolina, che un tempo si costruiva per l’eternità, oggi si fanno architetture del knock down and ruibild, esaurita la funzione, che ti frega abbatti e ricostruisci. Il Quarticciolo ha resistito alla guerra, alle speculazioni degli appalti, alla mancanza oggettiva di servizi, la borgata sì, assai più del gobbo di Gerace, ha fatto la sua di resistenza, partita nero è diventata rossa per incubazione sottoproletaria, vi si respira l’atmosfera dei centri sociali. C’è nato Paolo Di Canio ex-camerata del pallone, periferia juventina per vincere almeno con il calcio, pochi negozietti appesi al filo dalle grandi catene che li strozzano, sono le global Parche. C’è un giardino oltre l’ex via Lucera, intitolato a don Cadmo Biavati, salesiano, fratello di Amedeo, grande ala del Bologna, inventore del passo-doppio, campione del Mondo nel ’38. Cadmo era il Direttore nel liceo dove studiavo, trovammo un armistizio alla mia febbre d’occupare il prestigioso Istituto, c’era la tigre della contestazione globale anche nei polverosi licei di preti.

Diceva il normanno Garcia dopo una vittoria nel derby “abbiamo rimesso la chiesa al centro del paese”, ebbene è l’edificio che io visito per primo, il cuore d’ogni borgo.

Il Quarticciolo nasce nel 1938 per rispondere alla fame di case degli immigrati suddisti, ma dopo i bombardamenti Alleati su S. Lorenzo e la Prenestina, gli alloggi vengono occupati dagli sfollati. C’è la Parrocchia nel ’42, serve 20.000 anime di diseredati compreso il quartiere Alessandrino, le funzioni si svolgono nei locali al piano terra d’un condominio. La chiesa era rimasta sulla carta, l’attuale, dedicata all’Ascensione di Gesù, viene consacrata nel ’56, affidata alle cure dei padri Dehoniani. Oggi conta 3.000 animucce ma assai pochi fedeli, il cuore alla nascita non c’era, quello trapiantato soffre di rigetto, non è un semplice dettaglio per la vita del borgo.

Il virus di Roma è l’essere capitale di uno staterello, non quello della Chiesa, ben altra dimensione ha avuto nella sua Storia compreso il Rinascimento. La febbre del mattone ha creato il fenomeno anarcoide dell’inurbamento, masse di operai dalle campagne si sono trasferite nella città Eterna con un codazzo di impiegati d’ogni settore. Dalle baracche, alle casette estensive si tentava di dare risposte artigianali al bisogno di alloggi, ben 12 furono i nuovi borghi creati dal Governatorato di Roma seguendo il Piano Regolatore del ’35 firmato, indovinate da chi? Ma da Marcello Piacenti.

L’Ifacp (Istituto fascista autonomo case popolari) del duo Calza Bini-Costantini aveva restituito all’Ente il ruolo di protagonista nell’offerta di alloggi per le fasce più deboli, chiamando il gotha dei professionisti nella progettazione e selezione degli interventi.

Il Quarticciolo nasce come un borgo italico, una città di fondazione nell’agro romano, sembra ricalcare il modello del Basso Medioevo ripetuto in piano, chiuso tra due fossi e l’ex via Lucera, ha la sua torre prismatica che svetta sull’omonima piazza, accanto c’è il parco Tor tre teste che se l’attraversi arrivi dritto ad un capolavoro unico dell’architettura sacra del dopoguerra a Roma, la chiesa della Dives misericordiae di R. Meier.

La distanza da Porta Maggiore è quattro miglia da lì dicono derivi il toponimo di Quarticciolo, organismo urbano in sé concluso, la chiesa, la piazza coi negozi, la scuola elementare, la torre della casa del fascio, tre tipologie edilizie differenti per creare identità con oltre venti morfologie diverse. Razionalismo asciutto, asciutto, senza orpelli ma radicato a Roma, con bugnati, logge, volte a crociera, colombari in laterizio a schermare i vani scala, pochi balconi, un vocabolario ricco di lessico pur nelle dimensioni di un Bignami.

[caption id="attachment_25464" align="alignleft" width="305"] Foto d’archivio di Roma sparita, torre del Quarticciolo[/caption] [caption id="attachment_25463" align="alignright" width="305"] Foto d’archivio di Roma sparita, scuola elementare del Quarticciolo[/caption]

L’impianto urbanistico è simile a S. Maria del Soccorso o a Pietralata, strade ampie, piazze per il respiro sociale, verde, scatole dei servizi primari, progetti definiti di insediamenti agrurbani. Dicono i militanti del pensiero rosso che le borgate furono realizzate per confinare il proletariato ai margini del centro borghese, Sironi testimonia altro nelle sue periferie milanesi, l’eternità metafisica di questi insediamenti ben oltre il dibattito di classe dei comitati di quartiere. Certo viverci è una cosa, dare opinioni ben altra, ma noi cerchiamo il cuore, dove lo incontriamo pulsante ci fermiamo a respirare con lui, ne avvertiamo il battito magari irregolare, il calore del sangue che scorre dai scantinati alla vecchina affacciata tra persiane cadenti, è quel cuore forte l’eternità d’un quartiere sia esso nel V municipio o nell’aristocratico I.

Il Quarticciolo è vivo nonostante il degrado cui è stato condannato, assediato dall’edilizia senza senso dei palazzinari, testimonia la sua grande dignità progettuale di tessuto cucito a mano con l’aiuto della vecchia Singer per risparmiare. Voleva essere un paese giardino, uno spicchio di paradiso fatto dall’uomo per una comunità di gente venuta dalla terra, da paesi lontani perché ritrovassero quello che laggiù avevano lasciato, questa borgata è forse il migliore esempio di architettura delle periferie romane e questo è un giudizio condiviso.

Emanuele Casalena  

Il Quarticciolo di S. Francesco

L’incipit mi accoglie e mi intriga. Mi riconosco in quel ‘professorino’, ancora magro e occhialuto con capelli e barba lunghi e grigi, vestito da ‘zecca’ e il ‘cuore nero’, la Nazionale incollata alle labbra, senza filtro, come ‘l’ennesima sigaretta’ del portoghese Yanez de Gomera, amico fedele e compagno fidato di Sandokan. I primi eroi di una infanzia trasognata. Venni mandato, insieme ad altri professori (non userò mai il termine ‘colleghi’), due sezioni al completo, a prendere possesso dell’istituto per geometri, ormai in crisi di iscrizioni, sulla Palmiro Togliatti, proprio di fronte al Quarticciolo. E, fra due file d’alberi, le rotaie e il capolinea del tram 14, tra gli ultimi testimoni di una stagione quieta e ordinata, con i suoi vagoncini verdi e rumorosi. Le seggioline in legno, comode, che mi riporta ogni mattina nei pressi della stazione Termini. Una palazzina a due piani, tutta vetrate, scale in ferro e il cortile recintato da un muretto. E’ la nuova succursale del liceo scientifico Francesco d’Assisi, nato nell’anno fatidico tanto bello quanto inutile del 1968. Durante una concitata logorroica seduta del Collegio dei docenti, alla sua inaugurazione, la maggioranza democratica rossa e antifascista impose che s’eliminasse la dizione di ‘Santo’ in nome di un laicismo ‘indecente e servile’ – e sono io a scriverlo da emulo nichilista, nanetto al servizio di Stirner e Nietzsche – come se, negando il nome, il valore di uomini oggetti e storia finisse nell’ottenebramento di sperduta pietra sepolcrale.

Di prima mattina, sono in costante anticipo (nel timore di arrivare tardi e non per ansioso senso del dovere) – mi sono scelto un bar che, dall’altra parte della strada, fa da grazioso arredamento alle facciate popolari del Quarticciolo. Con le vetrine impreziosite da scatole di cioccolatini e biscotti e caramelle e bottiglie variegate, gli stemmi della Roma e della Lazio, la lupa e l’aquila che, qui, si guardano non in cagnesco ma quasi con affetto. Un po’ kitsch. Da periferia, appunto, come era ai suoi esordi. La fame abitativa ha prodotto, nel dopoguerra, l’estensione lungo la via Prenestina fino al Raccordo Anulare e ben oltre di interi agglomerati urbani. E, paradossalmente, ha reso il Quarticciolo un unicum, un’oasi di mondo altro, una sorta di forte Apache contro l’assedio dei nuovi barbari di una modernità fattasi incontrollata e perversa. In fondo, se si sanno preservare parole e immagini di quel Novecento che fu inquieto e irrequieto, qui s’esprime – senza più la fierezza e la speranza, le illusioni del Ventennio, se si vuole essere a tutti i costi amari e cinici–quell’autentica Italia ‘proletaria e fascista’. (Non è casuale che l’area più vasta, che lo circonda – il quartiere di Centocelle -, diede, nell’estremo e tragico sussulto della sconfitta, il maggior numero di iscritti al Partito Fascista Repubblicano. E, fedeli alla sconfitta, costretti ad abbandonare case e averi).Il cappuccino è buono, cremoso come piace a me; il cornetto soffice e compatta la crema. La gente ama il mondo delle chiacchiere dove il romanesco ha raccolto accenti e vocaboli soprattutto dell’Italia meridionale. Ama soffermarsi sul marciapiede o. nei giorni di sole, seduta al paio di tavolini in metallo fuori del bar. Lavora e produci e consuma per rinnovare il ciclo del lavoro – il tamburo dà il ritmo monotono e impietoso ai rematori alla catena – s’avverte meno, nei più giovani, soli e disperati. Come ovunque. E’ il costo del benessere del consumismo dell’americanismo. Mi aggiro nelle vie interne, regolarigeometriche ad incontrarsi ad angolo retto. Le costruzioni indicano l’incuria, la modestia dei materialie il disinteresse delle amministrazioni comunali. Come massaie con la sporta in vimini della spesa l’abito stazzonato e liso il fazzolettone a scacchi a raccogliere i capelli spenti. Con la loro dignità a cui si aggrappano tenaci. Quei cortili che volevano essere luogo d’incontro, panchine in pietra aiuole fontanelle arbusti striminziti. Un mondo che fu e di cui, forse, inconsapevolmente, monta il rimpianto. Poche le botteghe, negozietti minuti, ‘il Quagliaro’ dove si accede per una rampa in pietra, un’osteria dove mangi due o tre tipi di pasta una bistecca e, appunto, le quaglie. Il vino è buono e il prezzo non insegue il profitto. Ci vado sovente con qualche alunno.

Mi dicono che uno studio di architetti urbanisti geometri – tutti dell’estrema sinistra – s’è proposto di riqualificare il Quarticcioloe di riproporlo così come fu progettato e realizzato; mi dicono che, dall’alto, il Quarticciolo riproduce la Emme di Mussolini. Ed io mi ritrovo a pensare come, il 28 aprile del ’45, lungo la spalletta del lago di Como, Nicola Bombacci venne fucilato salutando a pugno chiuso il plotone d’esecuzione e, lanciando ad estrema sfida, ‘Viva Mussolini! Viva il Socialismo!’…

Mario Michele Marlino  

EPISTEMOLOGIA DELLA MENZOGNA – (Parte terza. La disciplina dell’occultamento) di Gianluca Padovan

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Riprendiamo a parlare della “lancetta – Italia”.

Se nel XIX secolo il “megaporto” prima e la “portaerei” poi erano oggetto d’interessi tutt’altro che italiani e quindi nazionali, vediamo che qualcun’altro s’affaccia alla tavola imbandita.

Difatti anche l’ex colonia britannica, ovvero i futuri Stati Uniti d’America pur alle prese con la Guerra Civile tra 1861 e 1865, ha interessi sull’Italia e sul Mediterraneo.

Sulla ricchezza del Regno delle Due Sicilie sono stati pubblicati numerosi lavori e qui si può utilmente ricordare che la rapina delle sue casse auree servì ai Savoia per risollevare le proprie finanze. Per sommi capi si può menzionare anche il tradimento di vari ufficiali dell’Esercito borbonico, sudditi di Francesco II di Borbone (Napoli 1836 – Arco 1894), ma affiliati alla Massoneria, nonché il genocidio perpetrato da Casa Savoia nei confronti del Popolo del Sud militarmente conquistato e non già “liberato”.

Scrive Luciano Salera: «Così, mentre dalla parte di Garibaldi c’era gente abituata ad andare all’assalto alla baionetta, dall’altra parte c’erano uno stuolo di generali vecchi, inetti, vili se non vogliamo insistere sul “traditori”, che, come per la stragrande maggioranza degli alti comandi della marina napoletana, s’erano venduti al nemico».1

Inoltre: «Il tradimento di Amilcare Anguissola, comandante della fregata Veloce della marina regia ha dell’incredibile. Passò al nemico e la sua nave partecipò alla battaglia di Milazzo, da bordo della quale Garibaldi diresse il fuoco dei cannoni sulle truppe napoletane contribuendo in maniera determinante alla vittoria delle camicie rosse».2

Dopo la conquista del Regno delle Due Sicilie molta gente proseguì la lotta e molti episodi di rivolta sono indicati nei libri di “storia” come episodi di brigantaggio: «Nel Sud si continuò ad assistere a migliaia di episodi di guerriglia; la resistenza fu molto accesa nei primi cinque anni dalla unificazione forzata e durò fino al 1872; nessun fenomeno “delinquenziale” può durare così a lungo in presenza di oltre centomila uomini deputati alla sua repressione. Furono distrutti dai piemontesi 51 paesi alcuni dei quali non sono più stati ricostruiti; simboli di tanta tragedia ricordiamo Pontelandolfo e Casalduni, due comuni del Sannio che si erano ribellati e dove erano stati uccisi alcuni “galantuomini” e 41 soldati che erano stati mandati a reprimere la rivolta. Il 14 agosto 1861 alle quattro di mattina arrivarono due colonne dei bersaglieri, partite da Benevento, al comando del colonnello Pier Eleonoro Negri e del maggiore Carlo Magno Melegari, con l’ordine di Cialdini che delle due cittadine “non rimanesse pietra su pietra”; esse circondarono i paesi per impedire ogni via di fuga e li dettero alle fiamme, cominciarono allora: il tiro al bersaglio sui civili inermi che scappavano per non essere arsi vivi, gli stupri, il saccheggio delle abitazioni, la profanazione delle chiese, mentre i responsabili della rivolta erano già al sicuro sulle montagne; solo tre case rimasero in piedi, al suolo centinaia di civili uccisi [una stima parla di circa 1000]; il colonnello Negri comunicò per telegrafo che “Ieri, all’alba, giustizia fu fatta, contro Pontelandolfo e Casalduni” e terminò la sua carriera 26 anni dopo con la Gran Croce dell’Ordine della Corona d’Italia. Le repressioni piemontesi giunsero anche all’interno delle fabbriche (…). Il bilancio totale delle vittime fu drammatico, fu un vero massacro: le cifre non sono tutte concordi, quelle ufficiali si limitano alle dichiarazioni di La Marmora alla commissione di inchiesta sul brigantaggio dove affermò che “Dal mese di maggio 1861 al mese di febbraio 1863 noi abbiamo ucciso o fucilato 7.151 briganti. Non so niente altro e non posso dire niente altro”. Egli riferisce di un arco di tempo molto piccolo rispetto ai più di 10 anni di rivolta e dobbiamo quindi ragionare complessivamente nell’ordine di decine di migliaia di “briganti” uccisi. Lo storico Roberto Martucci[490] fa un’analisi approfondita dei dati riportati dai vari ricercatori, li elabora e conclude riferendo “una cifra minima di 20.075 e una massima di 73.875 fucilati e uccisi in vario modo” (…). Quasi tutti i “briganti” erano giovani e morirono prima dei 30 anni di vita; non mancavano agguerritissime donne, ricordiamo per tutte Michelina De Cesare che fu catturata, torturata affinché rivelasse i nomi dei partigiani meridionali e, visto che ella si rifiutava di farlo, fucilata e fotografata prima e dopo il supplizio (30 agosto 1868)».3

Nel suo libro-denuncia, Carnefici, Pino Aprile scrive: «I meridionali furono sfoltiti persino con epidemie provocate togliendo l’acqua a cittadine di decine di migliaia di abitanti; a Gaeta, si attribuì quella di tifo, che fece strage, alla deliberata contaminazione dell’acquedotto da parte dei piemontesi con carcasse di animali; la cosa non è provata, ma anche altrove, al Sud, per piegare la resistenza dei meridionali, “furono capillarmente presidiate le sorgenti…, inquinati laghi e pozzi”, scrivono Guido Vignelli e Alessandro Romano, in Perché non festeggiamo l’Unità d’Italia (documenti alla busta 50, fondo Brigantaggio, Archivio storico dello Stato maggiore dell’esercito)».4

Sempre l’Autore documenta anche l’emigrazione di circa 405.000 Italiani dal Sud, a causa dell’invasione e dell’impossibilità di continuare la lotta contro i Savoia. Sarebbe ora che si contassero anche i forzati emigrati dalle terre venete a seguito della conquista militare sabauda.

Nel 1861 si costituisce il Regno d’Italia, dove controllo e gestione sono nelle mani, almeno nominalmente, del Re d’Italia appartenente alla dinastia Savoia.

È utile ricordare anche ciò che taluni hanno definito “le giornate di sangue di Torino”, la manifestazione pacifica avvenuta il 21 settembre 1864 e nella quale appositi “provocatori” hanno fatto scatenare la reazione armata. Il giorno seguente vi è una nuova manifestazione con ulteriori morti tra i civili: «Anche stavolta, “usi obbedir tacendo”, i giovani carabinieri si misero a sparare all’impazzata (…). Un carabiniere iniziò a colpire col calcio del fucile il giovane che portava la bandiera e poi gli sparò addosso, ferendolo gravemente. Alcune pallottole colpirono alle caviglie i soldati del 17° reggimento schierato sotto i portici [“fuoco amico”. N.d.A.] finché uno dei colpi vaganti ferì alla testa il loro comandante, colonnello Colombini. Vedendo l’ufficiale piegarsi in due i suoi fanti iniziarono a far fuoco all’impazzata, credendo che a sparare fossero stati i dimostranti. Ne seguì una “scena tremenda, di orrore e di sangue”, quello di ragazzi, donne, semplici curiosi e tanti popolani inermi, presi in trappola fra due fuochi contrapposti e trasformati in bersaglio dagli eccessi degli allievi carabinieri e dello spaventoso equivoco in cui erano caduti i soldati».5

Ci sarebbe molto da scrivere, o meglio da riscrivere, anche sulla conquista delle terre che furono della Serenissima Repubblica di Venezia e dello Stato Pontificio. Quest’ultimo, dopo l’annessione savoiarda della Romagna e di Bologna e successivamente delle Marche e dell’Umbria, è definitivamente conquistato con la presa di Roma avvenuta il 20 settembre 1870.

Successivamente la cosiddetta “dittatura fascista” è una creazione operata da una parte di questi poteri forti, ma rimane solo e semplicemente un nuovo strumento per il controllo degli Italiani. Non si può sottacere, infatti, come il Fascismo sia stato creato a tavolino da esponenti della Massoneria. E, questo, fermo restando che in Italia non vi è una sola loggia massonica, non vi è una sola corrente di pensiero massonica, così come nel resto nel mondo.

Occorre quindi “non fare di tutta l’erba un fascio”.

L’unico momento in cui in Italia esiste una Repubblica è tra il settembre del 1943 e l’aprile del 1945, quando si costituisce lo Stato Nazionale Repubblicano, poi denominatosi R.S.I., ovvero Repubblica Sociale Italiana. Eppure, anche in questo periodo, numerose persone che vi aderiscono pare che lo facciano con il solo intento di farla naufragare e di garantirsi un proprio potere economico e gestionale dopo il termine del conflitto.

Dall’anno 1943 i prodromi (ovvero la dissoluzione dell’Italia e del Popolo italiano), o la continuazione di uno stato di cose successivo alla cosiddetta “Unità d’Italia”, sono bene espressi nella lettera che Benedetto Croce scrive al Presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi (massone) nel 1944: «Conoscendo i patti della capitolazione, sapute le condizioni tremende alle quali ci siamo vincolati per il presente e per il futuro, viste ad una ad una le clausole spietate che il popolo tuttora sconosce e che se anche conoscesse forse non sarebbe in grado di valutare come noi che eravamo chiamati a vigilare sulle sue sorti; udito dalla Sua parola, Eccellenza, che niuno sforzo militare e veruno accorgimento diplomatico potrebbe modificare a nostro vantaggio quei patti, mi è apparsa chiara l’inutilità assoluta dell’opera nostra. Ella fu all’estero a lungo; e non ha forse come me il vivo ricordo dell’Italia del tempo di pace. Io ci ho vissuto, sebbene in disparte; e m’è giunta l’eco, durante gli anni del deprecato fascismo, di un popolo che, pur tra le spire d’un Regime a me inviso, non poteva dirsi schiavo e il cui lavoro incontrava ovunque rispetto e considerazione. Ella sa bene che, invece, i patti firmati all’atto della capitolazione non consentiranno agli italiani né di essere liberi né di lavorare liberamente, né addirittura di chiamarsi liberi».6

Oggi, analizzando la storia di quegli anni, rimane innegabile la nascita e la resistenza di una volontà tutta italiana di essere una vera Repubblica, fatta dal Popolo e per il Popolo, senza il controllo delle banche private e della Massoneria nazionale e internazionale.

Per quanto oggi si parli di “Repubblica Italiana”, possiamo vedere che dal 1943 ai nostri giorni le basi militari operative americane sul suolo italiano si sono moltiplicate fino ad essere ben 114. Ed oggi le basi militari americane operative sono la chiara affermazione che in Italia non ha mai comandato il governo eletto dal Popolo, ma il governo che militarmente occupa il suolo italiano; il resto è una mera “facciata”.

Prima comandava la finanza inglese, con la facciata del Regno dei Savoia, oggi quella degli Stati Uniti d’America, con la facciata di un “governo italiano” che oramai non si fa nemmeno più finta di eleggere.

A proposito del fatto che gli U.S.A. considerino l’Italia una loro proprietà, nonché un arsenale di testate atomiche e una discarica di materiale radioattivo, il lavoro di Gianni Lannes, Italia, USA e getta, parla chiaro e nell’introduzione afferma: «Il tema di questo libro di inchiesta è la colonizzazione forzata del nostro Paese, un ecosistema sociale fragile che non ammette di esserlo. Il totalitarismo che avanza, la standardizzazione del pensiero unico. Insomma, la storia che i libri di storia non hanno narrato: una nazione che ha creduto di essere liberata, invece è stata invasa e occupata militarmente. Un popolo che ha immaginato di guadagnare la democrazia, mentre ha perso la libertà e rischia la salute. Uno Stato abissalmente distante dal racconto apologetico che monopolizza il discorso pubblico, oramai televisivo, stravolgendo la realtà. Benvenuti nel paese a stelle e strisce, una portaerei nel Mediterraneo, dove albergano indisturbate le armi di distruzione di massa (…). Guai, però, a fiatare. Il problema non è la destra o la sinistra, come aveva intuito Giorgio Gaber. C’è dell’altro. Con le mafie che fatturano il 20% del prodotto interno lordo, è in atto una pacifica e duratura convivenza in vigore dallo sbarco degli “alleati” nel 1943. Segreti e sangue a fiumane, per nascondere traffici di armi, occultamento di rifiuti, strategie offensive. Stragi, omicidi, omissioni, insabbiamenti della verità, per celare affari nebulosi e ruberie parastatali. Allora, vi siete mai accorti di quanto sia bello vivere in un eden trasformato in un inferno? Belpaese a sovranità azzerata, almeno a partire dalle clausole, ignote perfino agli storici di professione, dell’armistizio di Cassibile. La nazione italiana occupata dagli Stati Uniti d’America, non è sovrana né indipendente, ma succube».7

Lannes argomenta con precisione il rischio atomico incombente sugli Italiani e tra le tante informazioni che rende note dice: «L’Archivio storico del Senato è una miniera d’oro poco nota, tutta da esplorare accuratamente: in particolare, le carte e i diari di Amintore Fanfani. Dalla metà degli anni Cinquanta del XX secolo, in Italia – dal nord (Friuli e Veneto) al sud (Puglia e Sicilia) – sono stati installati potenti arsenali atomici».8

Inoltre, ecco un altro punto, tra i tanti contenuti nel libro, su cui riflettere: «Pericoli? “L’Italia è un paese a sovranità assai limitata”, argomenta Franco Accame, ex presidente della Commissione difesa con un passato da ufficiale della Marina Militare italiana, “in caso di incidente, non esiste alcun piano coordinato di emergenza tra autorità militari, protezione civile, prefettura ed enti locali. È del tutto evidente che ci troviamo di fronte a una grave lesione delle prerogative democratiche del Parlamento, che rimane all’oscuro di ciò che accade nelle basi e della natura degli accordi tra Italia e USA».9

Uno dei modi migliori per mantenere “sedato” il Popolo di una nazione è mandarlo in guerra: si potranno così applicare leggi speciali, arruolamento obbligatorio, selezione degli individui, etc. L’importante è fare sì che i veterani, quelli che effettivamente hanno combattuto, non tornino in patria: ovvero il minor numero possibile di loro deve rimanere vivo. Costoro sono pericolosi in quanto sono in grado di “fare la guerra” e non sono disposti ad essere blanditi; con quanto hanno vissuto fanno generalmente fatica a reinserirsi in un normale ambito quotidiano.

La guerra, una volta conclusa, si potrà spiegare abbastanza agevolmente al Popolo dipingendola nel modo che il potere effettivo riterrà più consono. Il compito sarà agevolato dal fatto che il Popolo rimasto vorrà solo ed esclusivamente vivere in pace. Ogni eventuale ribellione e sommossa saranno facilmente sedate. L’altro sistema è palesemente coercitivo, ma raggiunge ugualmente lo scopo: punirne uno per educarne cento, oppure uno per educarne dieci. Il “miglior” risultato in questo campo è stato ottenuto dal comunista Pol Pot: è riuscito a “stendere in risaia” un terzo del Popolo cambogiano.

Complimenti, bella carriera!

Ad ogni buon conto tanto nel primo quanto nel secondo sistema il governo deve spendere soldi per promuovere e condurre la guerra; nell’altro deve mantenere coloro i quali hanno il compito di ridurre ai minimi termini la popolazione e così facendo andando incontro ad enormi mancati guadagni.

Da circa quarant’anni a questa parte, siccome gli alcolici e i superalcolici non sono bastati, s’immette nella nazione la droga. L’importante è fare finta di combatterne la diffusione. Il Popolo non si sente oppresso, crede di essere “alternativo e autoridotto” nonché “fuori dall’ottica del sistema” drogandosi e contravvenendo alle regole. Diviene un consumatore, crea un guadagno enorme di termini di denaro e quando il singolo individuo “genera fastidi” politici, partitici o sociali, lo si togli di torno perché in flagrante, essendo consumatore e/o spacciatore. Oppure facendolo passare per tale.

In ultimo si fa invadere la Nazione da una gran moltitudine di etnìe che nemmeno fanno parte del suo continente. Sono i prodromi del cancellamento dell’identità nazionale del Popolo. Il resto è solo una corsa al massacro.

In buona sostanza la conoscenza della Storia consente innanzitutto di comprendere. Poi, per il resto, che ognuno si faccia “i propri conti”.

Ma non nascondiamoci dietro il dito della menzogna, il quale indica allo stolto come deve pensare e che cosa deve dire e scrivere in pubblico e per il pubblico.

    Note   1 Luciano Salera, Garibaldi, Fauché e i Predatori del Regno del Sud. La vera storia dei piroscafi Piemonte e Lombardo nella spedizione dei Mille, Controcorrente Edizioni, Napoli 2006, p. 88.   2 Ibidem, p. 243.   3 Giuseppe Ressa, Il Sud e l’unità d’Italia, Centro Culturale e di Studi Storici “Brigantino – Il Portale del Sud”, Edizione elettronica, Napoli 2003, pp. 172-173; Sito Internet: ilportaledelsud.org. Nota [490]: «“L’invenzione dell’Italia unita”, Sansoni, 1999, pag. 314» (Ibidem, p. 173).   4 Pino Aprile, Carnefici, Piemme Edizioni, Milano 2016, p. 35.   5 Roberto Gremmo, La prima strage di Stato. Il massacro di Torino del 1864, Storia Ribelle, Biella 2012, pp. 58-59.   6 Il testo completo è presente nel volantino della Xa M.A.S. dal titolo: cosa succede nell’italia “liberata”?   7 Gianni Lannes, Italia, USA e getta. I nostri mari: discarica americana per ordigni nucleari, Arianna Editrice, Bologna 2014, p. 5.   8 Ibidem, p. 17.   9 Ibidem, p. 37.  

Evola in Usa ovvero effetto boomerang – Fondazione Julius Evola

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Si deve vivamente ringraziare Mr. Horowitz, capo della redazione romana del New York Times, per aver pubblicato la balla, la bufala, l’invenzione, ovvero quella che si usa definire fake new perché così fa comodo ai progressisti di tutto il mondo, riguardante il presunto interesse di Steve Bannon, allora consigliere del neo presidente Donald Trump, per Julius Evola, e di come questo interesse sarebbe di conseguenza approdato alla Casa Bianca. Titoloni sul grande quotidiano americano, e notizia ripresa addirittura sulla prima pagina di un altro giornalone italiano, La Repubblica, ovviamente in tono negativo, ma in tal modo facendo una pubblicità tanto incredibile quanto inattesa al “cattivo maestro”.

Niente di più falso: una notizia tirata per i capelli e strumentalmente usata contro Bannon e soprattutto Trump, al solo scopo di gettare l’allarme dicendo che le idee, ovviamente “razziste” e “fasciste”, del filosofo italiano avrebbero avuto udienza al massimo livello della politica statunitense. Una scemenza, come è stato documentato, ma tant’è: la falsa informazione fece a inizio 2017 il giro del mondo suscitando allarme e indignazione negli ambienti della Kultura progressista e “antifascista” europea. E, nonostante le prove che fosse una bufala strumentale, è entrata nei luoghi comuni del giornalismo italiano, al punto che all’epoca degli scontri a Charlottesville, sul Corriere della Sera si è potuto leggere l’amenità che l’ideologia dei Suprematisti americani derivava dalle teorie del Ku Klux Klan e da quelle “razziste” di Julius Evola, a palese dimostrazione che tutti questi Suprematisti conoscono e leggono l’italiano, giacché dei quattro libri che il pensatore scrisse sul problema della razza uno è stato tradotto in tedesco nel 1943 e un altro in francese nel 1985…

Però, come spesso accade, essa si è ritorta contro chi se l’è inventata ed ha prodotto l’effetto opposto, un effetto boomerang solo in apparenza paradossale. Evola non è stato affatto messo al bando negli USA, ma al contrario i suoi libri hanno avuto un incremento di vendite! La polemica ha smosso la curiosità.

Secondo i dati della Inner Traditions, suo editore americano, nei primi sei mesi del 2017 i due libri di Evola che interessano soprattutto il pubblico di lingua inglese, hanno fatto un notevole balzo rispetto allo stesso periodo del 2016: Rivolta contro il mondo moderno ha venduto 3940 copie, e Cavalcare la tigre 2053, rispettivamente il 75 e il 25 per cento in più rispetto al gennaio-giugno 2016.

La polemica, pur se artificiosa, ha suscitato negli Stati Uniti l’interesse di sapere di che cosa si stesse effettivamente parlando e ci si è voluti documentare alla fonte per rendersi conto di persona di quali fossero queste terribili idee. Il che potrebbe essere un ottimo battistrada per la imminente uscita del secondo e terzo volume di Introduzione alla magia, tradotti dal professor Joscelyn Godwin, sempre per la Inner Traditions.

Grazie Mr. Horowitz delle sue belle! Ne inventi un’altra per favore! Non tutto il male viene a nuocere, ovvero: a malo bonus.

  Fondazione Julius Evola    

Magia e Tradizione – Umberto Bianchi

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Una risposta a Luca Valentini

Ho letto tutto d’un fiato, l’altra sera, su “Ereticamente” un interessante pezzo di Luca Valentini,sulla relazione tra la Tradizione Romana e l’esperienza del Gruppo di Ur del quale, tra l’altro, mi sembra siano ricorsi quest’anno, novant’anni esatti dalla nascita. Un pezzo concepito con l’intento di dipanare le tante incertezze e confusioni che attorno a quella esperienza sono venute a crearsi, ingenerando in seguito, non poche distorsioni. L’autore sembra qui voler scoperchiare il Velo di Maia di tutta una serie di spinose questioni, che come un fiume carsico attraversano, da troppo tempo oramai, tutti quegli ambienti che amano definirsi “tradizionalisti” o che, addirittura senza troppi fronzoli verbali, si definiscono semplicemente “praticanti” o aderenti ad una qualsivoglia disciplina o gruppo a connotazione esoterica od iniziatica o paganeggiante, che dir si voglia.

Il nostro Luca Valentini, carte alla mano, ci dice che intenzione del Gruppo di Ur non era il ritorno “sic et simpliciter” ad una religiosità pagana in Occidente, intesa in un senso prettamente fideistico bensì, il rivolgere il proprio sguardo all’archetipo sacrale della romanità ( che il simbolo del fascio, in quel momento sembrava incarnare alla perfezione, sic!), senza disgiungerlo da tutto un plurisecolare correlato magico ed esoterico, che, sempre per ragioni di brevità, potremmo definire di natura “ermetica” o gnostico-cabalistica e, pertanto, afferente indifferentemente ad una molteplicità di radici e riferimenti culturali (e cultuali!). Il tutto ci vuole riportare ad una forma di archetipico universalismo dell’esperienza magica, vista come forma di “potenziamento” dell “Io”, di quell’Ego che, da Cartesio in poi, nel bene e nel male, diverrà il protagonista della scena dell’Occidente (come abbiamo già fatto notare nel nostro commento al pezzo di Paolo Pozzati su Schopenauer , da Ereticamente pubblicato in questi giorni…). Ora, se è vero che, la Magia e l’Esoterismo con l’avvento della Modernità vanno incardinandosi con tutte quelle tematiche legate all’irrazionalismo filosofico ed alla succitata riscoperta dell’ego e della sua dimensione inconscia; se è vero che la dimensione inconscia si fa ponte tra la dimensione micro e macro cosmica della realtà ( specialmente nella psicanalisi junghiana…) e, pertanto, spalanca la strada all’idea di una mente connessa ed interagente con le forze dell’Essere; se poi tutto questo viene rafforzato e riconfermato in una pratica magica/esoterica che attinge indifferentemente a qualunque forma di Tradizione, tutto questo, al giorno d’oggi, non può non divenire oggetto di una riflessione attenta. Togliamo un momento di mezzo le immagini di un rozzo e caricaturale neofascismo “evolomane” che, della Tradizione, hanno fatto un monolitico feticcio. Andiamo invece al nocciolo del problema.

Un problema che si chiama Globalizzazione, ovverosia, il costante ed inarrestabile avanzare di una forma di pensiero agglutinante, omologante, riferentesi ad un’unica ed indiscutibile realtà: quella del dominio e della supremazia Tecno Economica sull’intero mondo. Tutto questo sta stravolgendo, alienando e distruggendo quello che, dell’umanità e delle varie civiltà ad essa correlate, costituisce il sale, ovverosia la differenza, la varietà, la caleidoscopica multiformità di una Vita che, incessabilmente produce forme, colori, sensazioni e ce li mette continuamente davanti agli occhi. Un processo questo che, negli ultimi tre secoli è andato facendosi più serrato ma che, trova le proprie radici nelle plurimillenarie origini del Monoteismo. Il credere in un solo Dio, anziché in dieci o cento Dei, di per sé non può costituire né peccato, né blasfemia, né una forma di distorsione mentale, ma una modalità di credere come tante altre e basta. Il mondo antico conobbe le monolatrie, né si vedeva con particolare malocchio chi adorava il proprio personale Dio. Il problema del monoteismo, sta nelle sue ricadute ideologiche. Nel nome della supremazia di un principio di esclusivismo che tende via via ad escludere aprioristicamente qualunque altra manifestazione del divino, sino a fare di quel Dio “unico” la metafora di un modello di sviluppo culturale, politico, economico che, via via, andrà avviluppando il mondo in una alienante spirale di autodistruzione.

E siamo a quella Globalizzazione che, in base a quanto poco fa detto, trova i propri presupposti spirituali proprio in quel monoteismo, espresso da simboli e dottrine iniziatiche più o meno richiamantesi al milieu culturale ellenistico più tardo, influenzato dalla Gnosi ebraico-cristiana. Questi elementi vanno gradualmente amalgamandosi, nella tarda Rinascenza, con quella spinta all’esasperazione dell’individualismo (vi ricordate lo “scientia est potentia” della “Nuova Atlantide” di Francis Bacon?) che, nel Protestantesimo, nel Mercantilismo, ma anche nel’Utopismo, troveranno la loro più consona rappresentazione e costituiranno la base ideologica per il nascente Capitalismo. E qui assistiamo ad un fenomeno di schizofrenica bipartizione che, della storia d’Occidente sembra essere un classico, ovverosia, un filone di pensiero che si scinde nel suo opposto, con cui continua a convivere senza soluzione di continuità. E così l’antropocentrismo della Rinascenza, che fece da combustibile alla rinascita di un Neoplatonismo Paganeggiante da Marsilio Ficino a Pomponio Leto, quella Rinascenza che doveva essere la base per una radicale rinascita dell’Occidente, quasi per una mostruosa mutazione, va trasformandosi in una caricaturale esaltazione del più sordido e perdente dei modelli umani: quello del mercante…

L’Occidente che sorgerà dalla Modernità Illuminista nascerà altrettanto schizofrenico e doppio. Pensiero razionale e meccanicista e pensiero irrazionale e vitalista si fronteggeranno e si scontreranno senza soluzione di continuità. Ed anche qui, nel continuo mestarsi e rimestarsi di acque, permarrà tanta, troppa confusione di cui, ad oggi, facciamo tutti ancora le spese. Tenteranno i Romantici e poi i vari gruppi Ariosofici, sino ai gruppi Neopitagorici italiani, con esponenti come Reghini ed Evola, a spostare l’asse della riflessione esoterica su riferimenti più attinenti alle tradizioni ed agli archetipi spirituali indoeuropei, piuttosto che a quelli gnostico-cabalistici e rosacrociani. E su questo punto è doverosa una precisazione. Evola esplicita molto bene i suoi scopi, in “Imperialismo pagano”. Al pari del Caetani e di altri, egli sperava in una rinascita del Paganesimo in Italia, non senza però, l’apporto di quelle forme sapienziali dalla valenza iniziatica, di cui l’esperienza di Ur cercherà di fare tesoro, in un contesto di sperimentazione e pratica del magismo. L’intero tentativo di Ur ed altri riuscirà solo parzialmente, visto che, ad oggi, tutto il mare magnum della riflessione esoterica è, per lo più, ancora incentrato su questi parametri, ovverosia su un confuso universalismo esoterico.

A questo va aggiunto un altrettanto esiziale elemento di confusione, tutto incentrato sulla reale natura dell’azione magica. La Magia sembra esser divenuta un correlato della Modernità, di una Modernità desiderante, che deve fare del desiderio, del lontano dell’impossibile, il vicino, il possibile, il reale, il tangibile. La Magia è cosa probabilmente antica quanto l’uomo, ma anche quanto la religione, il credere ad una o più forze trascendenti da cui tutto deriva e/o che tutto compenetrano. Qualcuno ed anche più, un consistente numero di studiosi di livello, affermano essa essere, al pari dell’Astrologia, una tecnica della religione, un suo semplice correlato. Più di qualcuno afferma, invece, essa essere qualcosa di totalmente indipendente dalla “religio”, da cui, invece, attingerebbe disinvoltamente per il proprio fine principale, che è quello della potenza di un ego che, a tal fine è disposto anche a farsi possedere da entità o spiriti che dir si voglia. Diciamo che la verità sta nel mezzo. Inizialmente nata quale tecnica della religione, finisce man mano, con l’avvento della Modernità per farsi via estrema alla soddisfazione dello sviluppo egoico ed egotista della nostra attuale civiltà.

L’unico grande vantaggio che noi Moderni o Post tali abbiamo, rispetto a coloro che ci hanno preceduto, sta nella spettacolare messe di informazioni, in quel sapere specialistico che, gloria o damnatio dei nostri tempi, ci permette di sapere e, pertanto di avere coscienza di ciò che noi siamo o potremmo essere e “cosa” è accaduto…Appunto nel nome di tutte quelle belle premesse di cui abbiamo parlato, si possono ancora fare certe confusioni a livello iniziatico, confondendo Gnosi, Cabalistica, Ermetismo, Neoplatonismo, Paganesimo ed altro ancora,in un immane fritto misto? Certe vie, potevano trovare una giustificazione in un passato in cui, a seguito di certi eventi, non si era raggiunto il livello odierno di coscienza. Basti ricordare che, sino al 19° secolo, la Bibbia e le Sacre Scritture rappresentarono un ineludibile punto di riferimento per qualsiasi tipo di elaborazione di tipo intellettualistico o misterico che dir si volesse.

La stessa intuizione di un universalismo degli archetipi rinvenibile negli studi di C.G.Jung ed anche negli scritti di Renè Guenon, anche per quanto attiene la dimensione misterica, per quanto giusta possa esser considerata, oggi più che mai, deve esser soggetta ad un limite preciso, rappresentato da quanto sin qui descritto. Pertanto, il praticare discipline misteriche, evocando magari entità legate alla tradizione biblico-cabalistica o praticando arti magiche che, slegate a qualunque superiore contesto, tante volte finisce con il divenire solo una forma di puro appagamento egoico. Non è questo fare il gioco sottile del Globalismo e dei suoi scherani? L’omologazione globale finirebbe con il trionfare anche attraverso quei simboli destinati a far da veicolo a messaggi che nulla c’entrano con gli originari significati ad essi, impregnando ancor più di sé l’intero creato. Il Paganesimo dovrebbe farsi così metafora e simbolo di quell’istanza di molteplice, che è l’unica medicina al male globale che oggi rischia di distruggere il mondo. E poi. Sino a che punto una pratica iniziatica può esser a-religiosa, ovverosia distaccata da un preciso riferimento tradizionale, senza degenerare in un caciaronesco occultismo? Credo sia necessario, ora più che mai, in questa fase di avanzato Kali Yuga, un passo indietro da parte di tutti. Senza dover rinunciare al proprio Credo, qualunque esso sia, identificare chi e dove è il nemico e vivere in modo più critico ed attento i propri rispettivi riferimenti ideali. So benissimo che, quanto qui affermato suona di utopistico e quasi banale, ma credo che, mai come in questo momento, sia giunto il momento di impegnarci, anche su una tematica così spinosa come quella legata alla conoscenza esoterica, in un dibattito franco e chiarificatore. Ne va della nostra sopravvivenza, come uomini in un mondo di rovine.

Umberto Bianchi

Inno al Sol Invictus – Rita De Lillo Vignozzi 

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Nell'ombra gelida e silente, nell'antro oscuro e di tenebra, si tiene il parto occulto. Segni arcani, svelati da antichi Magi Sapienti, attendono la sacra rappresentazione. Carmi celati dal tempo pervadono l'aere immacolato, scudi di fiamma circondano i cuori dei "viventi " e, in una danza misteriosa, si rinnovano i doni del miracolo atteso. Mille diademi si accendono in cielo ed in terra, l'Eterno Splendente celebra la sua Gloria! L'oscurità tenebrosa e terrifica arretra, mentre avanza l'ora, vibrante di fulgido oro, del giorno perfetto. Oh Beatitudine infinita! Ave Sol Invictus!"
 Rita De Lillo Vignozzi Tutti i diritti sono riservati

Al convegno dei 90 anni del gruppo di Ur: un commento all’intervento di Giandomenico Casalino – Roberto Siconolfi

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Al convegno per i “90 anni del Gruppo di Ur”, tenuto al Palazzo delle Arti di Napoli lo scorso ottobre, uno degli interventi di rilievo è stato quello dell’avvocato Giandomenico Casalino. Anche attraverso una chiacchierata fatta nei corridoi, siamo riusciti ad ottenere elementi utili per lo studio, per spunti di riflessione – quelli da noi posti – e per attività finalizzate alla conoscenza del “proprio sé”.

La relazione di Casalino al convegno si era incentrata sulla “trasposizione” del rito dalla sua versione “storica”, nel mondo esterno all’Io, in chiave “interiore” e cioè utile a processi di accrescimento dell’Io. Sono le 14, è ora di pranzo. E da lì trae spunto Casalino, per esordire sul senso di appetito e sul desiderio di pennichella che, come altre tentazioni della quotidianità, sono considerate una sorta di “prova da superare”, un “rito interiore”. In sostanza al fine di terminare l’opera bisognava, a suo giudizio, “vincere” quella sensazione/tentazione. Con questo semplicissimo esempio, Casalino concretizza la trasposizione del rito in chiave interiore. Questo passaggio (rito da pratica esteriore a quella interiore, appunto) è tipico dell’Era della decadenza – KaliYuga indiano, età del ferro esiodea o età del lupo norrena.

Questa Era è la chiusura del ciclo. In breve, dal mondo originario dominato dai principi e dall’Idea, si discende alla forma ultima, più degenerata, dominata da nichilismo e materia. Nella visione degli Yuga – cicli cosmici – la storia dell’uomo è a tutti gli effetti caratterizzata dal moto sinusoidale, per cui a fasi ascendenti si succedono fasi decadenti. Molto sinteticamente il KaliYuga, dunque la nostra era, è caratterizzato dalla riduzione al minimo o dall’ “assenza” dell’azione dello Spirito nei diversi ambiti della vita (politico-statale, lavorativa, delle relazioni): esso realizza a tutti gli effetti il primato della materia sulla forma, degli istinti sul “sé pienamente cosciente”, dell’economia sulla politica, della base sul vertice, della questione economico-sociale sul mondo delle Idee. La decadenza investe anche altri campi come il mondo delle arti, del sapere e più in generale di tutto il mondo della metafisica, o meglio di ciò che membri del gruppo di Ur come Evola definiscono “Tradizione”. Proprio riguardo a quest’ultimo punto, per l’avvocato Casalino è in atto, in questa era, la “contro-tradizione”. Egli asserisce che materialismo ed ateismo non sono altro che cibo dato in pasto alle masse. Sono invece le élite, o meglio le “contro-élite”, a praticare una vera e propria “contro-tradizione”, che celebra il trionfo degli elementi più “bassi”, “degenerati” dell’individuo innalzati a “valore assoluto”.

Ciò procede in quel meccanismo di “inversione” tipico della nostra Era, che la teologia e la scienza “non accademica” definiscono come il passaggio al dominio della “bestia” sul divino, dell’”anti-fotone” sul “fotone”. E’ la chiusura del ciclo e la successiva apertura di un altro. Di conseguenza questo processo di “inversione” si compie del tutto e realizzandosi in tutti i campi, sia metafisico – dominio della “bestia” –, che fisico – passaggio all’anti-luce (anti-fotone). In quest’ottica, per Casalino, è importante interiorizzare i valori e l’”ordine supremo iscritto nei cieli”, proprio come indica Platone in La Repubblica, e riportare il valore della Bhagavadgītā riguardo la “battaglia interiore”. Quindi, a chi chiedeva ina maniera quasi “esagitata” il “che fare?” e “come operare?” concretamente nel mondo, Casalino risponde, calmo e lapidario, che in quest’era il principio di Roma, l’”ordine”, va fissato dentro di sé. A ciò, aggiungiamo, che solo su questa base è possibile “ricostruire” nel mondo “esterno”.

Un “ritiro”, dunque, che non è una resa, bensì è la fase che nel respiro va associata alla “contrazione” (Manvantara). “Contrarsi oggi per risorgere domani!”, un altro validissimo insegnamento di vita. Portarsi sul terreno della “battaglia interiore”, il principale raggio d’azione di evoliana memoria nell’Era della decadenza. Quest’”ordine” e questa “battaglia” dai cieli vanno riprodotti dentro di sé, come nel gioco eterno del “come sopra così sotto” indicato dagli esoteristi. Per il relatore pugliese la capacità di eseguire il rito, come sacrificio dell’Io, è essa stessa fonte di accrescimento e di consapevolezza del “sé”. E’ come se il superamento della “prova” (l’esempio del “pranzo” citato in apertura è calzante) comporti “un premio” in ciò che innovative teorie della fisica contemporanea definiscono “il gioco della vita”. Grazie a questa battaglia e a questo gioco in atto “continuo” e “permanente”, si riesce a “creare” anche quel quid che, se da un lato è assente nella teorizzazione di molti intellettuali contemporanei, è avvertito in forma di bisogno da moltitudini non indifferenti. Questo qualcosa è la “felicità”.

Da queste riflessioni, si evince che è possibile rompere quella opposizione “duale” tra discipline scientifiche e saperi ancestrali. Casalino, infatti, rileva nella figura dell’”alchimista”, chimico e mago allo stesso tempo, quell’anello di congiunzione tra questi due campi che invece nella modernità si dispongono in maniera contrapposta. Questa “congiunzione” rimanda al principio della non-dualità, un altro terreno di disputa dei saperi esoterici. In breve la non-dualità afferma la realtà “olistica” dell’Universo, concepito come un tutt’uno senza “scissione” tra soggetto e oggetto, tra Io e non-Io, tra colui che fa l’esperienza e l’esperienza stessa, tra micro e macro.  Proprio su quest’ultimo aspetto, micro e macro, decisiva è la svolta della fisica quantistica odierna. Recuperando il concetto di frattale e scendendo nella sua analisi profonda, infatti, si riescono a ricavare delle leggi universali e omnicomprensive.  In sostanza le teorie di David Bohm sull’universo olografico, frattale e non-locale coincidono con quelle di Plotino e del neoplatonismo, o con la teoria dei cicli cosmici di Guénon – parte su Kalpa. E questo è un dato di rilievo utile, oltre che alla conoscenza personale, anche alla creazione di paradigmi metafisici e politico-comunitari “nuovi” ma allo stesso tempo “antichi”, “occidentali”, in senso classico, e “orientali”, nel senso delle antiche dottrine sapienziali – questo a proposito del “che fare?” sopraccennato.

Del resto anche la filosofia moderna, prima dell’avvento del positivismo era già consapevole della non scindibilità dei vari piani della realtà e del sapere stesso. Quindi per Casalino la figura di Hegel, ad esempio va riletta in modo scevro dall’impostazione razionalista e marxista, ma addirittura a tratti “esoterici”. Sempre sul principio di “dualità”, Casalino porta l’esempio dell’assenza di separazione tra il relatore e lo spettatore e asserisce che tale assenza, appunto, esista anche tra Io e non Io. Nel suffragare questo concetto si concentra sul rapporto tra Uomo e Dio. Un esempio interessante è quello riguardante la funzione del magistrato romano, a tutti gli effetti parte organica del popolo, quindi senza scissione della “parte” col “tutto”. Elemento, quest’ultimo, riproposto anche dalla struttura politica bolscevica (con il Consiglio dei commissari del popolo). Infine, l’avvocato arriva a disquisire dell’opposizione tra Tradizione e Modernità, affermando che tale contrasto si riproduce nel corso della storia: la New York di oggi sarebbe la Cartagine passata, in lotta contro Roma. Anche a quel tempo, infatti, si violavano le leggi non scritte ma iscritte nei cieli. Tra cui, ad esempio, la punica fides, ovvero la violazione del patto di lealtà, “dote negativa” che connotava i cartaginesi ed Annibale.

Roberto Siconolfi

Lupo Solitario, Aon e il Magnamund: l’immaginario magico-identitario di Joe Dever – Giovanni Pucci

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Gli ultimi anni hanno visto una vera e propria librogame-reinassance: complice il fascino del vintage e l'eterna fanciullezza dei trentenni/quarantenni d'oggi, almeno in Italia tale fenomeno ha dato vita a piccoli casi editoriali. Le ristampe da parte di più di una casa editrice dei librigioco si fanno più frequenti e le vecchie copie edite da EL negli anni 80' e 90' hanno raggiunto per alcuni dei pezzi più rari prezzi a 3 cifre. Ma andiamo con ordine: cosa sono i librigame? Un librogame (neologismo tutto italiano che mischia il nostro idioma con l'inglese) è un'opera narrativa non lineare che tramite l'uso di paragrafi numerati permette al lettore di effettuare scelte diverse. Due lettori con lo stesso librogame potranno quindi leggere due storie differenti (ma non obbligatoriamente). Il genere nasce nel Regno Unito negli anni 80' (gli anni della genesi dei giochi di ruolo dai quali i librogame in qualche modo discendono) e si diffonde in Europa ed in Nord America, avendo in quegli anni un discreto successo nel nostro Paese (la già citata EL arrivò a pubblicare 186 volumi ripartiti per 36 serie). Tra le molteplici serie proposte una stacca le altre per fortuna, ampiezza del mondo narrato e longevità (tanto che è tuttora in corso e che nel 2018 ne uscirà postumo il 30° volume!); stiamo parlando di Lupo Solitario di Joe Dever (Lone Wolf nell'edizione originale).

Sconosciuta al di fuori degli amanti di questo genere a metà tra letteratura e intrattenimento ludico l'opera di Dever (morto nel 2016 a 60 anni) può per complessità, arco narrativo e tematiche 'tenere botta' con universi fantastici ben più mainstream come quello del Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien. Il protagonista, impersonato dal lettore, è Lupo Solitario, ultimo appartenente all'ordine dei Ramas (Kai nell'originale), guerrieri spirituali devoti appunto al dio Ramas (che nella lingua antica vuol dire Sole), dopo che tutti i suoi confratelli sono stati sterminati da un attacco a sorpresa ordinato dall'Arcisignore delle Tenebre, Zagarna. Lupo Solitario, unico depositario superstite dell'infinita sapienza dei Ramas inizia così una serie di missioni e di avventure nel Magnamund che lo porteranno a vendicare i suoi compagni massacrati, ricostituire un Secondo Ordine Ramas e a divenire il primo Maestro Supremo della storia, narrate dal primo al ventesimo libro della serie visto che da quello successivo impersoneremo invece uno dei 5 nuovi Maestri Ramas appena ordinati; per il resto, come detto in precedenza, l'opera è ancora in corso postuma.

Ma perchè tali libri dovrebbero esser interessanti per chi ha una sensibilità identitaria? Innanzitutto Dever immagina Aon, come un universo nettamente manicheo, dove si confrontano le forze del Male e quelle del Bene, assolutizzate da una parte da Naar, agente da polo negativo, e dall'altra da Ramas e Ishir, rappresentanti del polo positivo. Queste entità combattono incessantemente per interposta persona dalla notte dei tempi per estendere la loro egemonia su tutto l'esistente. Si scoprirà poi che l'eterna lotta sarà decisa dal possesso dell'ultimo mondo libero rimasto, il Magnamund appunto, lo scenario dove siamo chiamati a muoverci. L'allegorie presenti sono molteplici e chiare: il popolo al quale appartiene Lupo Solitario è quello dei Sommerliani, guerrieri alti e biondi arrivati su navi di legno di quercia e insediatisi nel Nord arrestando così l'espansione dei Signori delle Tenebre, campioni di Naar inviati dal dio del Male per la conquista definitiva del Magnamund, e liberando la prima porzione del continente settentrionale. Nasceva così Sommerlund, la 'terra del Sole', i cui abitanti manterranno sempre la virtù inestinguibile della libertà e che anche se governati dai re residenti a Holmguard conserveranno gelosamente l'autonomia e le forme di autogoverno nelle loro baronie, secondo uno schema che ricorda quello in uso nell'Europa centrale durante l'evo di mezzo. I riferimenti poi si fanno espliciti per quanto riguarda l'Ordine dei Ramas, sodalizio di 'monaci-guerrieri' devoti all'adorazione del dio del Sole, votati alle arti spirituali Ramas e all'esercizio delle armi, in un perfetto connubio di abilità mentali e fisiche. Il Sole (emblema per eccellenza delle forze olimpiche e celesti), la sua luce e suoi raggi sono onnipresenti in tutta la simbologia Ramas: dal nome stesso, alla bandiera di guerra, ai gradi e ai titoli ottenibili come quello di Cavaliere del Sole, Signore del Sole o Principe del Sole, fino all'arma forgiata dal dio Ramas in persona ovvero la Spada del Sole (Sommerswerd nell'originale), simbolo ieratico della regalità, strumento in grado di porre fine all'esistenza terrena di un Signore delle Tenebre con la sola estrazione.

Anche i nemici e le entità malvagie non sfuggono a determinate categorizzazioni. Il Regno delle Tenebre si situa ad ovest, dove letteralmente muore il Sole, e la sua massa si estende dall'oceano sino a una catena montuosa che lo separa dalla piccola e libera Sommerlund, similmente a quanto accadeva fino al 1991 tra un'unione di 'repubbliche' euroasiatiche governate da un'ideologia materialista e quello che rimaneva della piccola Europa, non totalmente assoggetata. Lo scenario di tale regno vede poche città-fortezze isolate une dalle altre fortemente inquinate e industrializzate, con fucine che lavorano notte e giorno dedite alla produzione di armi per l'invasione sempre prossima delle Terre Libere. Il paesaggio rupestre al di fuori di tali concentramenti urbani è brullo ed inospitale così come il clima, perenemente freddo e ostile. Persino i toponimi, come ad esempio Aarnak, Dajdokritzaga, Naogizaga, Nadgazad, Argazad o Kaag, richiamano ad un orecchio esperto località caucasiche e centroasiatiche.

Si potrebbe continuare con l'elenco del bestiario delle creature presenti, quasi tutte desunte dal folklore europeo, o citare le sette Pietre della Sapienza, artefatti creati dal dragone ancestrale Nyxator per preservare lo scibile del dio Ramas per le generazioni future, la cui ricerca impegnerà i primi volumi della serie nonchè le imitazioni empie delle stesse forgiate da Agarash il Dannato, il più potente dei campioni di Naar, le Pietre della Dannazione, che ricordano la massima tradizionale che dice che "Satana non è altro che la scimmia di Dio". Ovvero che la massima negazione è la parodia. Certamente bisogna ricordarsi che si parla di letteratura (se tale definizione è applicabile ai librogame) fantastica, financo 'per ragazzi', come si usava dire una volta. Forse nella mente di Joe Dever le considerazioni sulla sua opera non erano le stesse che ha dedotto lo scrivente di questo articolo. In entrambi i casi comunque questo non avrebbe nessuna importanza. Serve davvero ricordare che la caratteristica propria dell'arte è quella di essere soggetta a molteplici interpretazioni e che essa una volta compiuta è indipendente dall'artista che l'ha creata? Per cui se anche uno soltato vi legge un determinato messaggio allora essa è per tanto portatrice anche di quel messaggio, anzi per quell'unico fruitore è portatrice di quello specifico messaggio tout court. Se la saga di Lupo Solitario avesse fatto immaginare anche ad un solo bambino di intraprendere un pericoloso viaggio con la sua fidata Spada del Sole in una remota landa per contedere un arcano manufatto agli agenti del Male in vista della preservazione della libertà e dell'identità dei popoli del Magnamund contro chi li voleva uguali nella schiavitù allora l'opera di Joe Dever si merita di buon diritto il suo posto nel mondo.

  Giovanni Pucci

PERCORSI INIZIATICI ALTERNATIVI. Parte prima: le due colonne – Gianluca Padovan

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«Due certezze esistono. La prima è l’esistenza di un segreto massonico (e del Giuramento, suo corollario) che la Libera Muratorìa ha sempre affermato. La seconda è che il motivo primordiale della condanna inflitta dalla Chiesa deriva proprio da ciò. Dal 1738 questo motivo è stato affermato solennemente da Clemente III»

Alec Mellor, I nostri fratelli separati, i liberi muratori
   

Utilizzando la Lingua Italiana come mezzo di comunicazione è sempre bene intendersi sul significato delle parole, pertanto il dedicato Vocabolario della Lingua Italiana è un buon punto di partenza. Certamente lo scioglimento di ogni termine potrà non essere esaustivo, oppure presenterà delle imperfezioni, ma soprattutto delle differenze tra testo e testo. Ciò non toglie che ogni Vocabolario sia e rimanga un punto fermo da cui principiare. Magari si potrà scoprire che è curato da Massoni.

    Frammassoneria.

Vediamo che cosa viene proposto per la parola “massoneria”, abbreviazione di “frammassoneria”. Derivata dal francese franc-maçonnerie e da cui franc-maçon (frammassone), si tratterebbe della: «associazione segreta dei cosiddetti liberi muratori, costituitasi a Londra nel 1717 col fine di realizzare la mutua assistenza e l’elevazione morale e intellettuale dei suoi aderenti, diffusasi rapidamente nel resto d’Europa e altrove (soprattutto negli Stati Uniti d’America) con aspetti particolari a seconda dei vari paesi e dei diversi riti nei quali presto si suddivise, ma sempre caratterizzata dall’organizzazione in logge riservate ai soli uomini e ordinate secondo una rigida gerarchia, nonché dall’uso di simbolismi complessi e di procedure iniziatiche ed esoteriche; espressione delle classi dominanti (nobiltà e borghesia), ha inizialmente fatto proprie le ideologie illuministiche della fratellanza universale, della libertà di pensiero, della democrazia, assumendo allo stesso tempo connotazioni religiose di tipo deistico (anticlericale nei paesi latini e cattolici, raccoglie invece numerosi aderenti tra i protestanti nei paesi anglosassoni e nordeuropei), ed è stata in grado di influire variamente sugli eventi politici in vari stati, spesso in senso progressista, radicale, laicistico (in Francia appoggiò la Rivoluzione, in Italia il Risorgimento), talvolta invece in senso conservatore e legalista (per esempio in Germania), giungendo comunque ad avere nelle proprie file numerosi rappresentanti del potere politico, economico e militare fino a costituire talora un gruppo occulto di pressione».1

 

Quando “nascono” Frammassoneria e/o Massoneria? Difficile dirlo con esattezza. Più che di “nascita” si potrebbe parlare di uno “sviluppo” derivabile dalle corporazioni dei muratori-costruttori. Oppure, meglio ancora, si può scorgere un “trarre spunto” da organizzazioni già esistenti per crearne una propria e comunque anch’essa indubbiamente trasformatasi e architettatasi in vari e differenti modi nel corso degli ultimi quattro secoli.

La Massoneria, secondo la propria tradizione, è fatta risalire a tremila anni fa con la costruzione del Tempio di Gerusalemme. Il Tempio è richiesto dal denominato “dio” al re d’Israele David. Alla costruzione del Tempio partecipa l’architetto Hiram, anche e soprattutto con la progettazione e costruzione di due particolari colonne.

    “Dio” e l’Arca dell’Alleanza.

Sul significato della parola “dio”, utilizzata per indicare il personaggio che dagli Israeliti è conosciuto come “dio degli eserciti” e con definizioni similari, ci sarebbe assai da dire e di cui discutere. Ma non è questo il tema del presente scritto.

Ad ogni buon conto si può ricordare brevemente che il “dio degli eserciti” dona al “popolo d’Israele” l’Arca per sigillare il patto di sudditanza (Libro I dei Re [Samuele]). Occorre ricordare che l’arca di cui si parla è uno strumento bellico e non un simbolo di pace. Nel Libro I dei Re possiamo leggere che l’arma letale costituita dall’Arca dell’Alleanza non renda invulnerabili e gli Ebrei perdono la battaglia. Si tratta del tangibile e lampante segno che questo “dio degli eserciti” non sia invincibile e quindi non sia Dio:

  «4. Il popolo adunque spedì gente a Silo, e di là portaron l’arca del testamento del Signore degli eserciti, il quale siede sopra i Cherubini; e i due figlioli di Heli, Ophni e Phinees, seguivano l’arca del testamento di Dio.
  1. E allorché arrivò l’arca del testamento del Signore negli alloggiamenti, esclamò tutto Israele con alte grida e ne rimbombò la terra.
  2. E i Filistei udirono le alte grida, e dissero: Qual rumore e schiamazzo grande è quel che si sente nel campo degli Ebrei? E intesero come era arrivata l’arca del Signore negli alloggiamenti.
  3. E i Filistei s’impaurirono, e dicevano: È venuto Dio ne’ loro alloggiamenti. E sospiravano dicendo:
  4. Guai a noi; perocché coloro non erano tanto allegri ieri, nè ieri l’altro; guai a noi. Chi ci salverà dalle mani di questi dei eccelsi? questi sono gli dei che fiaccaron l’Egitto con ogni sorta di sciagura presso al deserto.
  5. Fatevi cuore, o Filistei, e siate uomini per non essere servi degli Ebrei, come questi sono stati servi vostri; fatevi cuore e pugnate.
  6. Combatterono pertanto i Filistei; e Israele fu sconfitto e se ne fuggì ciascuno alla sua tenda, e la rotta fu grande e formisura; e perirono degl’Israeliti trenta mila pedoni.
  7. E fu presa l’arca di Dio; e anche i due figlioli di Heli, Ophni e Phinees furono uccisi».2
  In buona sostanza i Filistei battono gli Ebrei e s’impossessano dell’Arca dell’Alleanza.     “Dio” e la dimora per eccellenza.

Nel Vecchio Testamento si può leggere che il «Signore» (“dio degli eserciti”) parlò al profeta Nathan: «Va, e dì al mio servo David: Queste cose dice il Signore: Sarai tu forse che mi edificherai una casa per mia abitazione? Perocchè io non ho abitato in una casa da quel dì, in cui trassi i figlioli d’Israele dalla terra d’Egitto, insino a questo giorno; ma sono stato sotto un padiglione e sotto una tenda».3

David intraprende invece una serie di guerre, distogliendosi da tale costruzione, ulteriormente procrastinata da una pestilenza mandata dal “Signore” stesso per punirlo della sua negligenza, fino a quando David «eresse in quel luogo un altare al Signore e offerse olocausti e ostie pacifiche: e il Signore si placò verso il paese, e fu posto fine alla mortalità, che straziava Israele».4

A David succede il figlio avuto da Bethsabea: Shelomoh, ovvero il «Pacifico», a noi noto come Salomone. Egli si rammarica del fatto che il padre non abbia potuto realizzare il tempio e così decide di chiedere aiuto per la sua costruzione al re di Tiro Hiram I: «io ho in animo di fabbricare un tempio al nome del Signore Dio mio; conforme il Signore ordinò a David mio padre, dicendo: Il tuo figliuolo, cui io surrogherò a te nel mio trono, egli fabbricherà la casa al nome mio. Ordina adunque che i tuoi servi taglino per me dei cedri del Libano, e i miei servi saranno insieme co’ tuoi servi, e ti pagherò per salario de’ tuoi servi tutto quello che domanderai».5

Tiro è l’antica Tyros, città fenicia situata originariamente su due isole, ad un’ottantina di chilometri a sud di Beirut. Hiram I fornisce a Salomone il legno di cedro e quello d’abete per la costruzione del tempio, il quale viene fabbricato anche utilizzando pietre squadrate. Sempre nel Vecchio Testamento sono indicate le dimensioni del tempio, la sua architettura e l’esistenza di una stanza particolare destinata all’oracolo definito «Santo de’ Santi», in cui è collocata «l’arca del testamento del Signore», meglio conosciuta come “Arca dell’Alleanza”.6

Successivamente re Salomone si avvale di un artigiano di Tiro per la costruzione di due colonne in bronzo, poi divenute care alla tradizione della Massoneria speculativa. L’artigiano si chiamava Hiram, come il re di Tiro, ed «era un lavoratore di bronzi pieno di sapienza, di capacità e di industria per fare qualunque opera in bronzo».7

Le due colonne bronzee con ornamenti e capitelli, una chiamata Jachin e l’altra Booz, vengono collocate nel porticato del Tempio. Ecco la descrizione delle colonne e dei capitelli: «15. Ed egli fece due colonne di bronzo, ogni colonna alta diciotto cubiti; e una corda di dodici cubiti abbracciava ciascuna colonna. 16. Fece ancora i due capitelli di getto in bronzo sulla cima delle colonne: un capitello avea cinque cubiti di altezza e l’altro capitello cinque cubiti di altezza. 17. Ed eravi come una rete e una catena conteste insieme tra di loro con mirabile artifizio. L’uno e l’altro capitello delle colonne era di getto; sette filari di maglie erano nell’uno, e sette filari di maglie nell’altro capitello. 18. E per compimento delle colonne fece due ordini di maglie, che circondavano e coprivano i capitelli, le quali posavano in cima de’ meligranati; fece la stessa cosa al secondo e al primo capitello. 19. I capitelli, che erano in cima delle colonne del portico, erano fatti a maniera di giglio, ed eran di quattro cubiti. 20. E di più eranvi altri capitelli in cima alle colonne al di sopra della rete, proporzionati alla misura della colonna; e intorno al secondo (e al primo) capitello vi erano dugento meligranati posti per ordine. 21. E le due colonne le collocò nel portico del tempio; e quando ebbe alata la colonna destra, le diede il nome di Jachin; ed eretta parimente la seconda, le pose nome Booz. 22. E sulle cime delle colonne pose quel lavoro fatto a maniera di giglio; e fu compiuta l’opera delle colonne».8

Oltre a questi fuse in bronzo numerosi altri oggetti, come riportato nell’Antico Testamento. Successivamente Salomone eresse anche altre costruzioni, ma per differenti divinità: «Ma Salomone rendea culto ad Astarte, dea de’ Sidonii, e a Moloch, idolo degli Ammoniti. 6. E fece Salomone quello che non piaceva al Signore, e non perseverò in seguire il Signore, come fece David suo padre. 7. Allora fu che Salomone eresse un adoratorio a Chamos idolo di Moab, sul monte che sta dirimpetto a Gerusalemme, e a Moloch idolo dei figliuoli di Ammon».9

    Fenici & sacrifici umani.

Parlando della fenicia Tiro il pensiero non può che correre all’antica contrapposizione tra Fenici (tra cui Cartaginesi o Puni) e Romani. Anche su tale argomento si sono spesi fiumi di parole, ma il tutto non si esaurisce nella semplice motivazione del controllo del Mediterraneo, dove abbiamo uno stato posizionato a sud, l’altro posizionato a nord e come primo teatro di battaglia il mare.

Si tratta invece e soprattutto delle differenti concezioni della funzione dell’essere umano sulla Terra: tra mondo fenicio e mondo romano sono l’impostazione della vita di ognuno e dell’intera societas che discordano.

Ecco alcune brevi note su Cartagine, città un tempo situata sulle coste dell’odierna Tunisia. Secondo la tradizione i Fenici la fondano nell’814 a. ed è chiamata Charthago dai Romani. Nei secoli successivi Cartagine predomina sugli altri empori fenici e impone la propria presenza nell’intero Mare Mediterraneo, entrando in conflitto con i Greci, gli Etruschi e successivamente con Roma. Per quanto concerne il suo ordinamento: «Poco incline alla speculazione e mediocre nel campo della creazione artistica, la società cartaginese dedicò le sue forze soprattutto alle attività pratiche e commerciali. La politica dello Stato cartaginese era interamente subordinata alla conquista del monopolio dei commerci, che poggiavano soprattutto sul traffico delle merci rare di paesi lontani (oro dal Marocco, argento dalla Spagna, stagno dalla Cornovaglia, ambra dal Baltico, avorio e schiavi dall’Africa). Nel V sec. due spedizioni (peripli) fecero conoscere mercati lontani, al di là dello stretto di Gibilterra».10

Un aspetto della religione fenicia era in netto contrasto con quella greca e romana. Si tratta del sacrifico, pare abbastanza usuale, di vite umane e soprattutto di bambini e bambine, alla divinità principale: Baal o Baal Hammon. Non che Greci e Romani non abbiano praticato l’omicidio rituale, ma si è trattato di casi assolutamente rari.

Torniamo a Baal: tale divinità «il cui nome ricorre sovente sulle stele votive associato a quello di Tanit, era onorato con sacrifici di fanciulli».11

Baal è assimilabile a Moloch, o Molok: «in ebraico Molek (da melek, re), presunta divinità cananea, il cui nome è nella Bibbia associato al sacrificio dei bambini che venivano bruciati nel Tophet, il bruciatoio, nella valle di Hinnon (Geenna), presso Gerusalemme».12

Baal o Ba’al ovvero “il Signore”, era «presso i semiti occidentali, appellativo di Hadad, dio dell’atmosfera che porta la pioggia feconda e la folgore distruttrice, il “signore” per eccellenza, la figura principale del pantheon cananeo, al quale corrisponde un ciclo di divinità».13

A Megitto, in Palestina, è stata rinvenuta una statuetta in bronzo dorato raffigurante il dio Baal, inquadrabile al XII secolo a.

    Da Vecchio e Nuovo Testamento.

Scrive Enzo Fassitelli: «Cartagine, il Tophet. Qui non è questione di acqua, ma di sangue. Di ideologie, di civiltà. Qui, i Puni, per seicento anni, hanno sgozzato i loro bambini e ne hanno bruciato i corpi per offrirli alla divinità».14

A spiegazione dell’immagine che presenta e che si ripropone a corredo del presente articolo, Fassitelli scrive: «A noi sembra che questo sacerdote, bello, diritto, imponente autorevole e sereno, lui, il sacerdote, porti amorevolmente il bimbo a chissà quale festa, a chissà quale incontro, a chissà quale rito di umanità e di bellezza. E invece lo porta “amorevolmente” a sgozzarlo per il “suo dio” (suo, del prete, s’intende)».15

Prendendo in mano il Vecchio Testamento possiamo vedere che nella Genesi è scritto: «8. E Abramo disse: Iddio ci provvederà la vittima per l’olocausto, figliol mio. Andavano dunque innanzi di conserva: 9. E giunsero al luogo mostrato a lui da Dio, in cui egli edificò un altare, e sopra vi accomodò le legna; e avendo legato Isacco suo figlio, lo collocò sull’altare sopra il mucchio della legna. 10. E stese la mano, e diè piglio al coltello per immolare il suo figliolo».16

Nel Levitico vi è invece un chiaro ammonimento contro i sacrifici umani utilizzando i bambini: «Non darai de’ tuoi figlioli ad essere consacrati all’idolo Moloch», segno che comunque questi erano pratica usuale.17

Nel Nuovo Testamento, in Geremia, leggiamo: «E alzarono a Baal gli altari, che son nella valle del figliuolo di Ennom, per consacrarvi a Moloch i suoi figli e le sue figlie, cosa che io non comandai loro giammai, nè mi cadde in pensiero ch’ei facessero simile abbominazione, e Giuda precipitassero nel peccato».18

Anche questo passo non necessita di alcun commento.

Negli Atti degli Apostoli (Nuovo Testamento) possiamo leggere inoltre: «Ma voi avete portato il padiglione di Moloch, e l’astro del vostro dio Rempham, figure fatte da voi per adorarle. E io vi trasporterò di là da Babilonia».19

Sempre negli Atti degli Apostoli, ma in una differente versione della Bibbia, leggiamo invece: «Mi avete forse offerto vittime e sacrifici per quarant’anni nel deserto, o casa d’Israele? Avete preso con voi la tenda di Mòloch, e la stella del dio Refàn, simulacri che vi siete fabbricati per adorarli! Perciò vi deporterò al di là di Babilonia».20

Le menzioni a Baal e a Moloch sono diverse, non solamente quelle qui citate. Attenzione: non tutte le versioni della Bibbia riportano le stesse identiche parole, come letto nel testo. A questo proposito ben cinque versioni della Bibbia possono essere consultate e raffrontate al seguente sito Internet: laparola.net.

    Le due colonne.

Tornando alla rappresentazione delle due colonne, tanto per concludere, taluni vogliono assimilarle a quelle di Gibilterra. Come curiosità si può ricordare che il nome deriva da Jabal al-Tariq (Monte di Tariq), poi Gibraltar in lingua spagnola.

Tariq ibn Ziyad al-Laythi (ibn vuol dire ‘figlio di’) è il condottiero berbero di religione islamica che nel 711 avvia la conquista del Regno Visigoto di Spagna.

Un nota di Hermann Schreiber riporta le parole di Lévy-Provençal sul fatto che i cronisti arabi sono concordi nel riconoscere l’aiuto fornito dagli ebrei ai mussulmani nella conquista della Spagna: «“Pare che in numerosi casi gli ebrei abbiano avuto l’incarico di controllare le città conquistate, in modo da consentire alle armate arabe di dedicare tutte le forze alla guerra senza disperderle in presidi. Comunità ebraiche esistevano infatti in tutte le città più importanti”».21

In ricordo del capace artefice di Tiro una rivista del Grande Oriente d’Italia è stata chiama Hiram. Si potrebbe affermare che i massoni siano, in un certo senso, seguaci delle tradizioni ebraiche poi trasfuse anche nel cristianesimo, ma detta così la formula è decisamente riduttiva.

Puntualizza Alec Mellor: «Se si vuol vedere nella celebre leggenda d’Hiram un segreto massonico, è dalla fine del XVII, noi pensiamo, e non dal primo quarto del secolo XVIII, come generalmente si ammette, che questa leggenda progressivamente si costituisce in tema iniziatico».22

Questo Autore parla in primo luogo della “Libera Muratoria operativa” inquadrandola nella seconda metà del Medioevo, di un successivo periodo di “transizione” e della “Libera Muratoria speculativa” sviluppatasi ai primi del XVIII secolo: «L’era della Libera Muratoria speculativa si apre nel 1717, data della fondazione della Gran Loggia di Londra, “madre” di tutte le logge del mondo».23

Tratta inoltre dell’esoterismo, di alchimia, magia, simbolismo, Templari e Compagnonaggio.       Note   1 Istituto della Enciclopedia Italiana, Vocabolario della Lingua Italiana, Vol. III*, Roma 1989, pp. 106-107.   2 Antonio Martini -traduzione secondo vulgata di-, La Sacra Bibbia, Vol. I, Garzanti Editore, Milano 1954, p. 354, Libro i dei Re, Iv, 4-11.   3 Ibidem, p. 406, Libro ii dei Re, vii, 5-6.   4 Ibidem, p. 436, Libro ii dei Re, xxiv, 25.   5 Ibidem, p. 445, Libro iIi dei Re, v, 5-6.   6 Ibidem, p. 445, Libro iIi dei Re, vI, 16-19.   7 Ibidem, p. 448, Libro iIi dei Re, vII, 14.   8 Ibidem, pp. 448-450, Libro iIi dei Re, vII, 15-22.   9 Ibidem, p. 458, Libro iIi dei Re, IX, 5-7.   10 Rizzoli Larousse, Enciclopedia, Vol. 4, Bologna 2003, p. 442.   11 Ivi.   12 Rizzoli Larousse, Enciclopedia, Vol. 14, Bologna 2003, p. 157.   13 Rizzoli Larousse, Enciclopedia, Vol. 2, Bologna 2003, p. 628.   14 Enzo Fassitelli, Pipelines degli acquedotti di Roma antica, 18a Edizione, Petrolieri d’Italia, Milano 2002, p. 98.   15 Ivi.   16 Antonio Martini -traduzione secondo vulgata di-, La Sacra Bibbia, Vol. I, op. cit., p. 29, XXII,8-10.   17 Ibidem, p. 149, XVIII,21.   18 Antonio Martini -traduzione secondo vulgata di-, La Sacra Bibbia, Vol. II, p. 256, XXII,35.   19 Ibidem, p. 629, VII,43.   20 Tratto dal Sito Internet: laparola.net, versione C.E.I.   21 Hermann Schreiber, I Goti, Garzanti, Milano 1981, p. 269.   22 Alec Mellor, I nostri fratelli separati, i liberi muratori, Edizioni Dott. Giovanni Bolla, Milano 1963, p. 47.   23 Ibidem, p. 11.

L’Erasmus, “arma” mediatica di persuasione di massa – Piervittorio Formichetti

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In numerosi interventi sui social network e in alcune apparizioni televisive, il giovane filosofo Diego Fusaro ha sovente espresso la sua contrarietà all'Erasmus, il noto programma di studi universitari che consente agli studenti di frequentare un'università estera in uno dei Paesi dell'Unione Europea, anziché una della propria patria (termine desueto o troppo carico ideologicamente soltanto per chi non guarda alla sua etimologia) e laurearsi attraverso questo percorso. Esso, infatti, è additato da Fusaro come una delle concause della mentalità globalizzata, senza radici, «apolide», «nomade», «delocalizzata», che l'élite politico-finanziaria global-europeista vorrebbe si sviluppasse nei giovani degli Stati europei.

Quest'accusa va ridimensionata, perché la “rete” universitaria europea, con lo scambio reciproco di studenti e docenti tra i vari atenei non è un'invenzione postmoderna, architettata in modo machiavellico da qualche presunto lobbista: essa esiste dalla seconda metà del Medioevo, e ne sono espressioni la storia della filosofia medievale, con le sue dispute di teologia e metafisica (caratterizzate anche dall'attenzione al pensiero musulmano, scoperto attraverso la Spagna islamizzata) tra studiosi di ogni parte d'Europa, e, a livello studentesco, dai «clerici vagantes», a parte dei quali la cultura deve i famosi Carmina Burana, riscoperti all’inizio dell'Ottocento e relativamente conosciuti nella versione musicata da Carl Orff (1895-1982). Il suo stesso nome, Erasmus, richiama volutamente quello dell'umanista cristiano Erasmo da Rotterdam (1466?-1536), che "girò" molte università europee, laureandosi in teologia nell'ateneo di Torino, di passaggio verso quello più rinomato di Bologna.

Il j'accuse fusariano è quindi utile a condizione che - citando il famoso proverbio cinese - lo si guardi come il dito e non come la Luna: in questo caso la Luna sono i mass media che parlano dell'Erasmus. Infatti, in occasione del suo trentesimo “compleanno” nel 2017 (ma in realtà già da qualche anno), i telegiornali italiani si sono occupati dell’Erasmus con frequenza sempre maggiore. Non ci sarebbe niente di particolarmente inquietante in questo, se non si tenesse conto del contesto, «il famoso contesto», come aveva detto in un’intervista televisiva l'insegnante-scrittore-opinionista Marco Lodoli, come evocando una presenza sempre circoscrivente, e talvolta permeante e opprimente, nei confronti dell'ambito scuola-istruzione-cultura. In Italia il contesto è rappresentato da due categorie di persone che fanno riferimento all’Erasmus, ciascuna con propri intenti e progetti, non raramente in reciproco contrasto, ma unite, loro malgrado, nel formare appunto tale contesto. Da un lato gli studenti stessi, che oltre a voler fare, del tutto legittimamente, un’esperienza formativa all'estero, in buona parte dei casi, se non nella maggioranza di essi, scelgono l'Erasmus perché svolgere l'università all'estero dà più lustro sociale, può permettere di vantarsene con amici e parenti (magari dimenticando, o rimuovendo nel senso freudiano, che sovente, dell'università, la maggior parte della parentela più anziana conosce soltanto il vocabolo e quindi non ha un termine di paragone per valutare l'esperienza del proprio figlio/nipote/cugino), può rendere più appetibile il curriculum vitaeai datori di lavoro, può elevare l'autostima in una società colpita dalla più grave crisi economica degli ultimi 90 anni e nella quale ognuno, avendo un sottile e malcelato terrore di decadere a un livello sociale inferiore, si impone di accampare infime, piccole e grandi dimostrazioni del proprio valore... di mercato (del lavoro), in modo da scongiurare in tempo utile l'incubo di scoprirsi inferiori a chicchessia. Tutti questi elementi, quindi, inficiano abbastanza la «scelta» di seguire l'Erasmus.

Dall'altro lato - dalla padella alla brace - i rappresentanti del Governo, che, anziché incoraggiare con decisioni e fatti concreti - e non tramite proclami, slide e annunci colorati 2.0 come è loro consuetudine - le università italiane a fruttificare nel proprio campo, dando maggiori opportunità di studio, ricerca, assunzione, aggiornamento formativo ai propri studenti, dottorandi e ricercatori, viceversa incoraggiano tutti costoro a recarsi allegramente all'estero, attutendo poi tale calcio nel posteriore... a posteriori, con dichiarazioni di orgoglio e di commozione per le «eccellenze del nostro Paese» che dànno eco al prestigio dell'Italia nel mondo; talvolta senza neanche preoccuparsi di attutire quel calcio, come nel caso delle parole dell’attuale ministro del Lavoro e del Welfare(che alla Festa dell’”Unità”, storico evento di sinistra in una storica provincia di sinistra, Modena, che è anche la sua, è stato ascoltato da non più di 18 persone): «Certo, ci sono i cervelloni, ma se alcuni degli altri se ne andassero fuori dai piedi non sarebbe una gran perdita».

Rebus sic stantibus, il fatto che proprio dai mesi d’inizio crisi economica in poi i mass media enco di numeri, percentuali, infinite quantificazioni che dovrebbero dimostrare, a seconda dei casi, l'indiscutibile esattezza nel riferirsi alla fonte statistica (sempre a sua volta indiscutibile?) o la grandezza di risultati raggiunti, per i quali dovremmo (nell’aspettativa di chi evidentemente controlla tutta l’enorme macchina mediatico-politica) ringraziare commossi il Governo illuminato, e che invece un'altra cultura come quella tradizionale indo-buddhista definirebbe avidyā, «ignoranza», cioè ossessione di quantificare numericamente tutto l'esistente, «uno stato di turbamento mentale che va superato» (1) - appare tutto, fuorché semplice e disinteressata volontà di approfondire le conoscenze del pubblico o del popolo (le due categorie sociali sono sovente sovrapponibili, nell’epoca della politica-spettacolo) riguardo l'àmbito della vita universitaria. Il tutto, in un macrocontesto condizionante quale l'Unione Europea, alle prese con le realtà del passato (tempo) tra incuria e rivalutazione, e con le realtà del mondo extraeuropeo (spazio) tra aperture e chiusure a esso, nella confusione iniziale tipica delle realtà appena nate (2) .

In un'epoca in cui, in parte per "automatica" diffidenza verso il nuovo che sorge, in parte a causa delle politiche ideologico-economiche attuate proprio da questo "nuovo", nei singoli Stati europei riappaiono movimenti e partiti che hanno un peso determinante sulla politica internazionale nel rivendicare (con più o meno ragioni) l'esigenza di riconsiderare l'identità nazional-popolare, il ruolo dell'entità-nazione con i suoi confini, il diritto a misure che regolino l'accoglienza dei migranti e dei profughi (i quali, se soltanto potessero, resterebbero di propria volontà «a casa loro»), non è affatto paranoide arguire che l’“informazione”, obtorto collo o consenziente, si serva dell'immagine degli studenti che aderiscono all'Erasmus come di un'arma con cui contrastare gli impulsi antieuropeisti e sovranisti, additando questi ultimi come velleità populistiche e nazionalistiche (cose da cui invece il sovranismo si può distinguere benissimo, altrimenti la stessa Costituzione della Repubblica non parlerebbe di «sovranità»), e quindi presentare come inevitabili, necessarie e illuminate tuttele attuali politiche della UE, affinché la libertà degli studenti di spostarsi da una Università d'Europa all'altra sia garantita e anzi incentivata. Omettendo bene, naturalmente, di ricordare al pubblico-popolo che molti ricercatori sono costretti a candidarsi e a lavorare presso Università estere perché in Italia nessuna Università offre loro uncontratto di assunzione o un'opportunità di ricerca degni di questi nomi, fino a quando non venga il momento opportuno per parlare, in modo altrettanto stereotipato, della «fuga dei cervelli».

Da questo punto di vista, si potrebbe dire che il potere mediatico-politico filo-europeista agisca paradossalmente come il Daesh, meglio conosciuto come Isis o, molto impropriamente, Califfato: cioè facendo leva sul fatto che singoli individui, con motivazioni personali in realtà le più diverse, ma presentati come un’intera classe sociale unanime, e delocalizzati come pedine umane in modo relativamente facile, si muovono su tutto il territorio europeo; nel caso dell'Isis per indurre la popolazione europea al terrore, all'insicurezza cronica e all’accettazione dello stato di guerra permanente, nel caso dell'Erasmus per indurre la popolazione italiana a considerare come un grave attentato alla «libertà di movimento» e alle «opportunità dei giovani», qualsiasi istanza che dia anche soltanto la vaga impressione di poter ridimensionare il grande progetto dell'Europa senza confini: non tanto confini geografici quanto soprattutto quelli, più importanti, culturali ed etici. Questi ultimi, infatti, a differenza di quelli territoriali, esistono trasversalmente alle singole nazioni, così comela disapprovazione verso coloro che con disinvoltura vorrebbero alterarli.

Note:

1 - Fritjof Capra, Il Tao della fisica, Milano, Adelphi, 1982, p. 25.

2 - Si confronti la situazione con l'esagramman. 3 - La Difficoltà iniziale - dell'I Ching, libro antico ed extraeuropeo, ma in grado di insegnare moltissimo a molti attuali Europei, che del Taoismo conoscono solo il noto simbolo bicolore ridotto a ciondolo o a tatuaggio (I Ching. Il Libro dei Mutamenti, a cura di R. Wilhelm, trad. it. Milano, Adelphi, 1991).

Piervittorio Formichetti    

Tradizione e Scienza dell’Io – Daniele Laganà

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Per comprendere che cos’è la Tradizione, il suo significato profondo, dobbiamo imparare, come ci suggerisce la Tavola di Smeraldo a separare il sottile dallo spesso e cioè l’essenza, ciò che è eterno, dalla forma attraverso cui questa si manifesta in un determinato tempo e in un determinato luogo. Quando si parla di Tradizione occorre distinguere tra ciò che viene trasmesso, il contenuto della trasmissione, e l’atto stesso del trasmettere e cioè la scintilla rivelatrice dello Spirito. La trasmissione tradizionale non riguarda tanto un piano orizzontale, nel tempo, ma piuttosto un piano verticale che si sviluppa attraverso i diversi stati dell’Essere. Questo livello più profondo che mette in collegamento l’immanente con il trascendente, l’umano con il divino, corrisponde a un particolare stato di coscienza per mezzo del quale la mente umana si apre all’intuizione, cioè alla esperienza diretta, dello Spirito.

La Tradizione, dunque, è un “luogo interiore” e, in quanto tale, può sempre, in ogni tempo, essere raggiunto e sperimentato. Esso non può essere perduto (ciò significherebbe la perdita di ogni aspirazione al Sacro), ma piuttosto si occulta, cioè muta la via attraverso cui l’uomo può raggiungerlo. Come ci suggerisce il simbolismo delle stagioni, la ruota dell’anno, nell’oscura e fredda notte invernale il Sole non splende più all’esterno, ma nella profondità della terra dove, come calore, prepara la vita che sboccerà in primavera.

Se un tempo il contatto con la dimensione spirituale poteva essere stabilito mediante la contemplazione interiore delle forze vive della natura (l’anima era come uno specchio in cui si rifletteva la perfezione macrocosmica), oggi, nel tempo in cui ci troviamo a vivere, bisogna elaborare dentro di sé le forze mediante le quali restaurare la percezione vivente della natura e penetrare nella vastità degli spazi cosmici. L’uomo non è sempre lo stesso, la sua costituzione interiore muta con il mutare del tempo. Certi canali percettivi si chiudono, mentre si sviluppa la consapevolezza come individuo. Si pone, allora, il problema di rintracciare la chiave di un altro tipo di conoscenza (1).

La differente condizione interiore tra l’uomo antico e quello contemporaneo è posta in evidenza anche nelle pagine del fascicolo riservato “La via romana agli dèi”, con particolare riferimento alla “rarefazione” della facoltà immaginativa. Nel tempo in cui ci troviamo a vivere, nel nostro tempo, si tratta proprio di padroneggiare e sviluppare quella coscienza individuale che, lasciata a sé stessa, degenera nell’individualismo.

Riconoscere e separare nella fredda logica matematica quella impersonalità olimpica che un tempo fu la forza di Roma, così come nella scienza quello spirito di concreta praticità che, liberata dalla palude del materialismo, può divenire il filo d’Arianna di una nuova e più profonda conoscenza metafisica. Questo vuol dire “cavalcare la tigre” e trasmutare il veleno in farmaco come insegnano gli alchimisti. Ogni tempo ha la sua via che noi dobbiamo saper riconoscere; altrimenti si corre il rischio, per restare all’esempio delle stagioni, di uscire con le maniche corte in pieno inverno e il risultato non può che essere un bel raffreddore. L’antichissimo simbolo della spirale ci ricorda che vita e morte, luce e oscurità sono le due fasi necessarie di un movimento unico per mezzo del quale bisogna tornare indietro, all’origine, solo per salire più in alto, per acquisire un livello di consapevolezza più alto.

Non esiste una modernità contrapposta alla tradizione: tutto è tradizione, anche la modernità. Come saturno rappresenta l’occultamento del sole, così la modernità è l’occultamento della tradizione, dello Spirito: a noi spetta il compito di “liberare” l’essenza spirituale celata nelle forme della nostra civiltà. Questo è il compito, eroico, che ci attende.C’è una immagine che mi ha sempre colpito molto e con la quale voglio concludere queste brevi note. Ci fermiamo a osservare i rami di un albero mossi dal vento, siamo rapiti dal loro movimento e dalle immagini che essi disegnano. Riconosciamo la profonda saggezza celata in quei movimenti, apparentemente casuali. Lo spettacolo ci cattura, ma mentre osserviamo non ci rendiamo conto che il vento che li muoveva è già passato oltre, ora muove altri rami altri alberi e poi altri ancora. Ecco, lo Spirito, la Tradizione, è come quel vento che sempre ci sfugge tutte le volte in cui ci perdiamo, restando ancorati, nella contemplazione della forma che ha animato in un particolare momento del suo viaggio infinito. Non è la forma che conta, ma la Forza che le dà vita ciò che conta e che noi dobbiamo, ciascuno a suo grado, afferrare.

Ogni tempo ha la sua forma che, per il cercatore, deve essere solo il pretesto per elevarsi alla Forza che si cela dietro di essa. Innamorarsi della bellezza delle forme è il grande inganno che occorre superare. E come si può divenire in grado di ciò? Non certo volgendosi al passato, ma trasmutando noi stessi, propiziando lo sviluppo della facoltà dimenticate della nostra coscienza. Ciascuno, ripeto, secondo il suo grado di consapevolezza. Il contatto restaurato con la Tradizione, con la “presenza” spirituale, può portare Luce nella vita di ogni uomo oppure può, in chi ne riconosce l’esigenza interiore, propiziare l’accesso alla vera Iniziazione quale trascendimento della condizione umana.

Oggi, nel tempo in cui la spiritualità è finita a buon mercato negli scaffali dei supermercati, l’unica regolare trasmissione iniziatica è quella che ciascuno deve conquistarsi realizzando, mediante ascesi interiore, quello stato di coscienza di cui scrivevo sopra e che un certo linguaggio mistico ha indicato nella traslazione del senso di sé dal centro della testa nella rossa caverna del cuore. Qui è possibile, di là da formali cerimonie esteriori e fuorvianti imposizioni magistrali, l’incontro con la vivente presenza dello Spirito che consacra. Il compito che il nostro tempo ci chiede di realizzare, infatti, è ritrovare autonomamente il contatto con il trascendente. È necessario che il sole tramonti affinché le stelle possano apparire nel cielo; è necessaria, cioè, l’eclissi del sacro affinché l’uomo possa divenire cosciente della propria luce spirituale. Fuor dalle sdolcinatezze new age, concludo queste brevi riflessioni citando l’insegnamento di Giordano Bruno che nelle sue opere ammoniva l’uomo a prendere coscienza della sua reale natura. Benedetto l’uomo che giungerà a sollevare il velo che gli nasconde il mistero di sé stesso, dell’origine della sua Anima che è la chiave di infiniti mondi. L’Uomo, nella sua essenza, è un pellegrino in cammino da sempre, dall’Infinito verso l’Infinito. L’esperienza terrestre è una tappa, fondamentale, dell’eterno viaggio cosmico che conduce al superamento della dualità tra Io e Universo.

Note:

1 - Questo è ciò che ci suggeriscono molti cercatori dello spirito contemporanei tra i quali Rudolf Steiner, ma anche Julius Evola come ho cercato di mettere in evidenza citando, nel mio intervento durante il convegno evoliano organizzato nel 2014 da Ereticamente e IlCervoBianco,vari passi delle opere del Barone tra cui l’appendice ai Saggi sull’idealismo magico dedicata all’arte modernissima.

Daniele Laganà

Reghini / Spadini: racconto minore su una Firenze di metà Ottocento – Lidia Reghini di Pontremoli

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Parole che nascono dal desiderio di raccontare una storia ambientata nella Firenze di metà Ottocento. Tutto parte da una casa in via dei Federighi 10 dove allora vivevano i fratelli Reghini: Arturo, Maria, Ugo, Gino (mio nonno).  In quel luogo nasce la storia di un antico amore tra Maria, una delle prime donne laureate in Storia dell’Arte e un giovane artista sconosciuto, Armando Spadini.

[caption id="attachment_25634" align="alignright" width="160"] Arturo Reghini[/caption]

I racconti delle vite sono tutti esemplari, restano chiusi nei cuori, incisi nel ricordo o dissimulati in una nostalgia nebbiosa. Questa storia fiorentina mi coinvolge, ora che tutti hanno dimenticato, nessuno sembra interessarsi al racconto di una narrazione minore. Solo io ricordo, i miei occhi hanno rincorso quelle scale buie e polverose, ascoltato lo scorrere delle parole che narravano i fatti, le vie di una Firenze trascorsa. Avrò avuto cinque anni. Restano ancora in me gli odori, i racconti; solo io ricordo, conservo e riesco a ricucire quei frammenti dispersi di vite.

E’ la Firenze tra il 1890 e il 1900, sono gli anni de ‘Il Leonardo’ nella sede di Palazzo Davanzati, di Giovanni Papini, di ritrovi come il Caffè delle Giubbe Rosse. Affacciava su Lungarno Acciaioli la casa avita dei Reghini, mi ricordo, le finestre aprivano su Ponte Vecchio; per fare la spesa bastava calare un cestino in vimini. L’odore acre d’urina di gatto trapassava le mura di stanza in stanza. I trentatré gatti di Ugo erano i padroni assoluti della casa salendo e scendendo dall’altana fino al piano inferiore della casa.

Alla fine dell’Ottocento, a pochi passi dalla casa di via dei Federighi, in via delle Terme abitava il giovane pittore Armando Spadini abituale frequentatore di casa Reghini in virtù del forte legame d’amicizia con Arturo e con la sorella Maria a cui era legato da un amore platonico ed inesaudito. Resta oggi un carteggio inedito databile 1890-1909 fatto di lettere, disegni tuttora inediti in stile Jugend, realizzati su materiali poveri come sacchetti del pane, con inchiostri naturali ottenuti da erbe e fiori che il giovane Spadini reperiva nella campagne attorno a Firenze.

Gente strana, fuori dalle righe quei Reghini, ognuno rapito dalle proprie ossessioni, come Arturo, fratello di mio nonno. Non feci a tempo a conoscerlo ma negli anni ho raccolto dalla voce di chi gli fu vicino, racconti e testimonianze. Nel tempo ho ricucito una trama di avvenimenti, frequentazioni che hanno confermato la tenuta di quel che poteva apparire la leggenda un po’ tronfia d’un’intima esegesi familiare fatalmente affidata all’inattendibilità di un racconto orale. Ambienti e situazioni fiorentine dove la casa di via dei Federighi abitata da Arturo diveniva tutt’uno con gli ambienti e i personaggi che ruotavano attorno al ‘Leonardo’, “rivista d’idee” nella sua storica sede di Palazzo Davanzati o del Caffè delle Giubbe Rosse: l’amico Papini ricorda l’”appassionato giocatore di scacchi sui tavolini delle Giubbe Rosse, il più grande mago che Firenze abbia mai conosciuto”. Le parole di Papini confermano il racconto familiare di come Arturo, all’interno del Caffè delle Giubbe Rosse, si divertisse con la forza del pensiero a far saltare i cappelli degli astanti. Anche uno studioso come Augusto Hermet che lo frequentò attorno al 1903 nella Biblioteca Teosofica, ricorda “la presenza di un giovane matematico, mistico e mago. Era Arturo Reghini”.

[caption id="attachment_25632" align="alignleft" width="197"] Il Crepuscolo dei Filosofi[/caption]

Arturo e il suo dono dell’ubiquità. Sicuramente non mentiva il fratello di mio padre, generale, uomo d’armi notoriamente tutto d’un pezzo, che ricordava quando, da bambino, vide Arturo sia in giardino che nello studio; e chiedendo il perché Arturo gli rispose che ancora quelle cose non poteva capirle, ma che un giorno le avrebbe comprese.  Poi i racconti di mia nonna paterna, cognata di Arturo, che l’aveva frequentato a lungo: ne parlava come di un essere dalle sembianze anomale, costretto a farsi abiti e scarpe su misura per via della sua eccessiva altezza che sfiorava quasi i due metri; raccontava di come dovesse chinarsi ogni volta per oltrepassare una porta. Arturo totalmente glabro, come conferma anche Augusto Hermet: ”il candido gigante (…) sopravanzava di molto in statura ogni altro, con la sua breve testa dalla fronte ben costruita (…) bianche erano le sue guance, ancora assai dopo l’adolescenza non conoscevano rasoio”.

Arturo, grande matematico, suoi soni i calcoli fatti a mente sulla geometria post-euclidea. Oggi dei giovani matematici hanno controllato al computer i calcoli fatti da Arturo scoprendo che i risultati sono esatti. Arturo solitario profeta poliglotta vicino negli ultimi anni ad una signorina inglese, forse un’adepta della Golden Dawn. Arturo eremita segregato dal regime a Budrio, dove insegnava in una scuola media. Arturo che prima di morire, allungando una mano su un mobiletto vicino al letto lasciò, al momento del trapasso, marchiata sul legno l’impronta combusta della sua mano. Esistono racconti sulla sua morte come quelli dell’amico Giulio Parise: “Il segno era apparso. Arturo Reghini si volse al Sole declinante per l’ultimo saluto, per l’ultimo rito; poi si appoggiò con la mano destra al vicino scaffale, piegò la Gigantesca statura verso la Grande Madre, eretto il busto e fu libero”.

Di quest’antica famiglia fiorentina, è rimasto ben poco: ho conservati lo scaffaletto di cui parla Parise, la poltrona dove riposava Arturo e anche un libro che ho rapito alle casse, ai vecchi archivi destinati ai robivecchi. L’ho rubato certa dell’approvazione di quei Reghini che non erano più su questa Terra. D’altra parte chi si sarebbe ricordato di quel vecchio libro? Chi avrebbe saputo dargli il giusto valore? Soltanto mio padre sapeva e riconosceva l’importanza simbolica di quel libro, Il Crepuscolo dei Filosofi regalato dal suo autore, Giovanni Papini all’amico Arturo al suo ingresso nella Loggia fiorentina ‘Lucifero’ nel 1907. Mi piace pensare provenga da quello “scaffaletto di libri” ricordato dal Parise. Nel frontespizio una dedica ad inchiostro, scolorito dal tempo, “Al nuovo fratello Arturo Reghini il suo G Papini”.

Lidia Reghini di Pontremoli

Il Paganesimo magico del Gruppo di Ur – Umberto Bianchi

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Sto seguendo con una certa attenzione, il recente riaccendersi di una, mai completamente, sopita polemica riguardante un po’ tutto il milieu “esoterico” e tradizionalista italiano ed avente per oggetto, guarda un po’, l’interpretazione dell’esperienza del cosiddetto Gruppo di Ur e del suo lascito spirituale ed “operativo” in tutte quelle esperienze che, dal dopoguerra in poi, hanno in qualche modo tentato di rifarsi alla cosiddetta “Via romano – italica agli Dei”. Occasione per rinfocolare polemiche e dibattiti, il novantennale della nascita del Gruppo di Ur e i due recenti, interessanti articoli di Luca Valentini su “Ereticamente” che, del convegno tenutosi in quel di Napoli il 14 di Ottobre, costituiscono, a parere di chi scrive, un po’ la continuazione e la “summa” ideale. Evola fu o no influenzato dall’antroposofia di Colazza? E poi la scuola kremmerziana lasciò o meno il segno in quell’esperienza? E poi. Volevano costoro realmente restaurare la religione pagana in Italia o cosa? O si trattò di un’esperienza unicamente mirante a realizzare, anzitutto, una forma di magica introspezione? E quella successiva dei Dioscuri? Ed allora, in quale senso e direzione può essere intesa, al giorno d’oggi, una “Via Romana agli Dei”? E via dicendo, con tutta una serie di interrogativi che sembrano, invece, voler prepotentemente riproporre un’altra domanda, antica quanto l’uomo ed il suo rapporto con l’Assoluto: adesione ad una ritualità formale potente, ma legata a gesti, ritmi cicli e scadenze determinati o ad un qualcosa di più atemporalmente profondo che, delle immagini sacre, fa un semplice simbolo di riflessione, volto al potenziamento dell’ “Ego”?....Religiosità essoterica od esoterica? E poi. Un approccio multiculturale ed esperienziale al rito, tramite gli apporti delle più e più forme di religiosità in un’ottica di “guenoniano” universalismo o un apporto rigorosamente “etnicista” in un’ottica di esclusivismo culturale ( e cultuale), legato ad antiche radici? Domande che, lì per lì, sembrano esser senza senso, quasi sterili ed intellettualistici interrogativi senza alcuna attinenza con la realtà di quella vita che, invece, di certezze e risposte chiare ha bisogno, per non ricadere nel caotico vortice dell’insensatezza offerto dalla Post Modernità. E questi sono interrogativi le cui soluzioni, invece, portano molto lontano…Cominciamo con il dire che, quando si tratta di scuole di pensiero “esoterico” o misterico che dir si voglia, o di autori ad esse legati, la cautela è d’obbligo. E’ vero. Il Valentini ci riporta frasi di Evola e di altri autori, da cui si può tranquillamente evincere l’intento di un lavoro “sub specie interioritatis” volto a far promanare l’elemento numinoso dai profondi recessi dell’Io. Altrettanto vero è, però, l’intento manifestato dallo stesso Evola in “Imperialismo Pagano” ed in altri autori quali Reghini (in ottima compagnia del pitagorico Amedeo Armentano, poi emigrato in Brasile, sic!), Caetani/Ekatlos ed altri, in favore di un ritorno della Paganitas in Roma, grazie all’avvento del Fascismo, il cui simbolo, il Fascio Littorio, sembrava rappresentare il miglior viatico in tal senso. Sì, è vero. Evola in “Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo” si mostra molto critico verso tutte le varie derive settarie ed occultiste e verso la stessa Antroposofia steineriana. Ma resta il fatto che in Ur aderì di tutto e di più, neopagani, massoni, steineriani, teosofi, cattolici (Guido De Giorgio), psicanalisti alla Emilio Servadio, oltre agli esoteristi “sciolti”, alla Evola. Ora, affermare che tutte queste persone non partecipassero alle attività più “operative” del gruppo, mi sembra quanto meno azzardato. Già il trattare in modo approfondito certi argomenti, non nel ruolo di semplice studioso, ma bensì in quello di vero e proprio “miste”, sia pure per iscritto, costituisce un’attività in grado di innestare un vortice, un’interazione energetica tra menti e realtà differenti. Anche perché, e questo andrebbe costantemente ripetuto, trattandosi qui di un gruppo esoterico o magico che dir si voglia, non bisognerebbe assolutamente fermarsi alle apparenze, foss’anche basate sulle dichiarazioni degli stessi protagonisti, visto che in questo contesto, più che altrove, vige sovrano l’annullamento ed il superamento del principio di non contraddizione, per cui si arriva al paradosso ontologico di un “tutto che è il proprio contrario”.

Qualcuno ha recentemente criticato e messo in dubbio i contributi del pensiero kremmerziano e di quello antroposofico, all’esperienza di Ur e ad altre similari, perché apportatrici di elementi estranei alla matrice indoeuropea della tradizione italica. Ora però, senza voler entrare nel puntiglio di una polemica dai contorni, ad oggi, ancora sfumati, se qualcuno volesse andarsi a leggere i “Dialoghi” di Kremmerz, (ma anche altri scritti dello stesso autore), vi troverebbe più e più volte ribadita la impellente necessità di doversi rifare a riferimenti sacrali Romano Italici ed Ellenici, anziché a tradizioni estranee, quali quelle “orientali” ed altre similari. Che poi, un autore come il succitato Kremmerz o lo stesso Reghini ed altri ancora, abbiano agito in contesti immersi in una simbolistica che richiama le più classiche radici dell’esoterismo occidentale, espresse da elementi gnostici, rosacrociani o cabalistici, questo non comporta l’automatica adesione di costoro, al “background” espresso da tali simboli, che, comunque sia, erano parte costituente di un determinato contesto culturale ed epocale. Alla stessa maniera, bisognerebbe andarci piano quando, con decisione, si rigetta l’ipotesi di una qualsivoglia influenza dell’antroposofia di Colazza ed altri, su Evola. Il Pensiero, ed in particolar modo quello di tipo esoterico, non può esser considerato qualcosa di fisso ed immutabile, bensì una forma di fluido che interagisce adattandosi di continuo alle contingenze di quel momento. Lo stesso pensiero teosofico o antroposofico steineriano, non si mantiene fisso su certi parametri, ma subisce una vera e propria mutazione in autori come Massimo Scaligero che, nei suoi trattati posteriori, ci parla di un vero e proprio “Pensiero Vivente” espressione di quel lavoro incentrato sull’Io, che sempre più, sfugge ai classici parametri fantasticheggianti dello steinerismo prima maniera. Julius Evola critica sia il cristianesimo che certo “paganesimo dilettantesco” ma, stranamente, non perderà mai completamente i contatti con un certo mondo i cui epigoni post bellici, sono proprio rappresentati da quel misterioso Gruppo dei Dioscuri, che non mancherà di informarlo puntualmente sulle proprie attività. Quell’Evola che, al pari di altri suoi omologhi, legato ad un modo di pensare “Tradizionale”, si fa simbolo vivente dell’irrompere della Modernità anche nell’ambito del pensiero “magico”, grazie proprio a quella nuova visione prospettica, incentrata su un “Io” ora in grado di interagire con la realtà, arrivando anche a modificarne i parametri sul piano metafisico. Se andiamo a ben vedere, molti degli aderenti al Gruppo di Ur, provenivano dalla frequentazione di riviste quali “Lacerba” e di personaggi alla Prezzolini o alla Papini e dal milieu Futurista e d’Avanguardia. Quell’Avanguardia che, tra fine Ottocento ed inizio Novecento, fonderà insieme Futuro e Tradizione, Magia e Tecnica, all’insegna di un “Ego”, pericolosamente proteso tra le suggestioni superomistiche e le emergenti forze dell’inconscio e dell’occulto. Una spinta all’irrazionale, che la preponderanza della Tecno Economia non riuscirà mai completamente, né a sopire né a domare…

La seconda grande questione che non si può assolutamente tralasciare, è quella dell’attuale contesto storico, da cui le polemiche a cui abbiamo poc’anzi accennato, prendono corpo. Senza entrare nel puntiglio di una esatta genealogia storica, possiamo affermare che, sul solco degli storici gruppi di riferimento del moderno paganesimo di matrice romana, si è andato innestando un filone ed un’interpretazione sino a poco tempo prima, relegati ad ambiti più specialistici e cioè quella più “esoterica”, a cui abbiamo già accennato. Al di fuori dell’esperienza del Gruppo dei Dioscuri, la “Via Romana agli Dei”, pur oscillando tra un’interpretazione “prisca” della religiosità romana ed una più impostata al Neoplatonismo ed agli scritti di Macrobio, Plotino, Giamblico, ha dato di quest’ultima un’interpretazione più formalista. In questo, l’apporto “esoterico”, anche se talvolta caratterizzato da qualche umanissima forzatura o inesattezza, non può che costituire un sano antidoto alla stasi, alla marmorea rigidità di certi sterili apologeti della Tradizione. Due visioni, due modalità di intendere un qualcosa che, invece, nonostante l’apparente dissidio, costituiscono le due facce complementari di una medesima realtà. Quella del mistero rappresenta una delle necessità primarie dell’animo umano. Il sottile velo che adombra e ricopre aree che a noi permangono precluse , rappresenta un potente stimolo alla fantasia ed alla creatività, ad un continuo porsi domande ed a cercare risposte. L’importante qui non è il disvelamento del mistero, ma la ricerca, il percorso “si et si” che, dell’umana esistenza, costituiscono il sale. E nella spasmodica ricerca di risposte, nel mare magnum del mistero, l’individuo potenzia il proprio Ego, sino a far di sé stesso un Dio…ma, d’altra parte, esiste da tempo immemorabile la necessità di dar un ordine al mondo tramite una serie di formule, di parole, di movenze, che nel ricalcare le principali coordinate della realtà, mettono l’intera comunità degli oranti in connessione con le dimensioni superne; questo insieme di procedure è “rtah/rito” ovverosia dar ordine al mondo evocando e collaborando con ciò-che-sta-di sopra. Quel “sopra” spesso disvelato e conservato da quelle antiche radici, che la lingua dei padri assieme a simboli atemporali, ci trasmettono e ci ripropongono attraverso lo scandire del tempo, in giorni, stagioni, Ere, Eoni…

Due momenti, due modalità si direbbe quasi opposte. Fede e ricerca, estasi ed iniziazione, pur con le loro differenze, ruotano attorno allo stesso Samsara, alla stessa grande ruota dell’Essere. Ambedue sono, sia pur con tutti i loro eccessi e le loro (apparenti) incongruenze, romanamente parlando, quelle membra che hanno bisogno l’una dell’altra. Momenti, percorsi, personalità differenti che si incrociano, si intersecano, talvolta si scontrano ma che, proprio in questo momento, proprio di fronte all’epocale tragedia della perdita del Sacro, del magico, dell’immaginifico, dinnanzi al vuoto di un mondo incentrato sull’apparenza e sull’arida concezione Tecno-Economica, dovrebbero finalmente comprendere dove sta il nemico, quello vero, ed affilare le armi per una battaglia epocale. Una battaglia incentrata sulla capacità di arrivare all’elaborazione di una nuova sintesi che sappia essere Pensiero-Azione, Essere-Divenire, Immanenza-Trascendenza e che sappia, pertanto, rispondere colpo su colpo a tutte le tremende sollecitazioni della Tecno-Economia. Stavolta a perdere non sarà questa o quell’altra tendenza culturale, questo o quell’altro gruppo, ma l’intero patrimonio spirituale di un genere umano, appiattito, immiserito e subordinato ai diktat del Pensiero Unico.

  Umberto Bianchi

Il colosso dell’Arengario – Emanuele Casalena

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Credo pochissimi addetti ai lavori conoscano la breve storia del colosso del Littorio, molto scarsa la documentazione d’archivio sulla più grande opera di architettura-scultura del fascismo, fu retorica di regime o anche qualcos’altro? Per cercare di capire partiamo dalla psicanalisi.

Berlino settembre 1937, C. G. Jung si guadagna un posto privilegiato poco distante da Mussolini e Hitler alla Porta di Brandeburgo. E’ in pieno svolgimento la parata militare in onore del Duce, i soldati  marciano al passo dell’oca, lui appare divertito, sorride (forse sghignazza), saluta la folla, non riesce a star fermo, il Führer al contrario è un rigido manichino teutonico. Su quell’esperienza, nel ’39, lo psichiatra rilascerà alla rivista Cosmopolitan un’intervista molto articolata sui due personaggi, includendovi Stalin come terza gamba del confronto.

“Orbene, - egli dirà - Mussolini è l’uomo della forza “fisica”. Lo si avverte immediatamente appena lo si guarda. La sua corporatura dà un’idea di muscoli robusti. È il capo in ragione del fatto che individualmente è più forte di ciascuno dei suoi avversari.(…) Tra Hitler e Mussolini non potrebbe esistere differenza più grande! Io non ho potuto fare a meno di provare simpatia per Mussolini. L’energia scattante del suo fisico ha un che di caldo, di umano e di contagioso: con Mussolini hai la confortevole sensazione di trovarti davanti a un essere umano. Con Hitler, ti viene paura: sai che non riuscirai mai a rivolgere la parola a quell’uomo, perché non c’è nessun uomo là sotto. Hitler non è un uomo, è qualcosa di collettivo. Non è un individuo, è una nazione intera”…

Hitler è la Germania, Mussolini è Cesare, differenza enorme di profilo storico oltre che di stile che l’austriaco non possedeva affatto. Sciamano il primo, capo villaggio il secondo, astratto contro concreto, androide l’uno passione sanguigna l’altro: una forbice ad angolo piatto. Pochi sanno o non ricordano che l’uomo di Dova di Predappio, oltre ad essere stato maestro in cattedra, sindacalista rivoluzionario, giornalista, Direttore dell’Avanti!, irredentista, bersagliere ferito in guerra, ecc… con un corollario di interessi sportivi e culturali coltivati in prima persona (suonava il violino ad es.), parlava tedesco e un pochettino l’inglese meglio di Renzi. Poi da buon romagnolo amava le donne eccome, antesignano della convivenza (sposò donna Rachele con rito civile solo nel 1915 dopo un lustro di concubinato). Hitler era stato solo un aspirante pittore bocciato agli esami d’ammissione all’Accademia di Belle Arti di Vienna, grande suo cruccio come racconta nel Mein Kampf.

Quegli anni ’30 segnavano il convinto consenso del popolo italiano alla politica del fascismo, è l’alba chiara di una nuova epoca: a.f. e d.f. segnata coi numeri romani. Cesare Ottaviano Augusto è un ex anarchico, ex socialista, neutralista poi interventista anarco-nazionalista, pietra di fondazione del movimento fascista nel ’19. Dal ’22 in poi l’Italia riconquisterà le tre cime di Lavaredo,  la testa della corsa nella storia, non solo europea, pedalando non da gregaria ma indossando la maglia della rivoluzione. Ci si prepara a ricostruire un Impero contro le plutocrazie finanziarie che governano l’immensa torta del colonialismo. l’Etiopia viene conquistata, il nostro Paese ha in pugno il corno d’Africa vitale anche per il controllo sul Mar Rosso e i traffici nel canale di Suez.

Roma è un immenso cantiere, già nel ’32 era stato inaugurato il Foro Mussolini progettato dall’arch. Enrico Del Debbio tra i cui partner c’è un giovane di gran talento Luigi Walter Moretti classe 1906 progettista della splendida casa delle Armi (poi Accademia della scherma) sul lato sud del complesso (oggi in degrado antifascista).

L’idea nel ’33 venne a Renato Ricci Presidente, dal ’26, dell’Opera Nazionale Balilla, spostare l’Arengario da Piazza Venezia alle pendici di monte Mario per una capienza calcolata in 500.000 persone, uno spazio immenso guardato dall’alto, alle pendici del Monte, da un colosso in bronzo di Ercole. Il mito italico di Eracle e Caco è fondante della civiltà romana in continuità con quella greca, al semidio era dedicato il primo tempio arcaico della nuova città di Romolo alle pendici del colle Palatino. Ma non sarà una statua anonima, volto e corporatura avranno i connotati di Benito Mussolini, personificazione del “Genio del fascismo”.  Altezza del colosso, escluso il basamento, 87 m, assai di più della massonica statua della libertà, donata agli States dalla Francia nel 1883, che misura 93 m compreso però l’alto piedistallo di 47 m; in pratica l’Ercole - Mussolini dell’Arengario sarebbe stato il doppio con un peso complessivo di 5000 tonnellate (!).

[caption id="attachment_25653" align="alignleft" width="175"] Immagine d’archivio presa dal sito apuorazionalismo[/caption]

Un’opera gigantesca disse Ricci “da far impallidire il ricordo del leggendario Colosso di Rodi” quello dedicato al dio Helios, alto 32 m, una delle sette meraviglie del mondo.

Il progetto partì nel ’36 affidato, per l’architettura e i risvolti tecnici, al giovane arch. L. W.  Moretti, mentre la realizzazione della statua del gigante fu affidata allo scultore perugino Aroldo Bellini che aveva già operato nel Foro Mussolini, 13 sue statue erano nello Stadio dei Marmi. Alla costruzione del colosso furono chiamati a collaborare Ernesto Rossetti esperto di fusione in bronzo e Antonio Cocchioni, scultore romano, allievo di Pericle Fazzini e Luigi Bartolini. Si cominciò col “capoccione” poi si passò al piede sinistro, perché? Secondo il vecchio Canone di Policleto la testa è l’unità di misura del resto del corpo di cui rappresenta 1/8. Ma queste proporzioni erano poi cambiate nel tempo, non il fatto che il modulo dell’incipit fosse sempre la testa e guarda caso anche il piede. Probabilmente Bellini utilizzò la proporzione di 1/7, 12 m l’altezza del capo dà 84 m dell’intero corpo cui aggiungere il cappuccio del pallium imperiale. Così nacquero le prime due fusioni in bronzo: testa, piede.

[caption id="attachment_25654" align="alignright" width="203"] Immagine d’archivio presa dal sito apuorazionalismo[/caption]

Ma la conquista dell’Etiopia seguita dalle odiose sanzioni della Società delle Nazioni con conseguente autarchia, costrinsero gli attori dell’opera ad un rinvio per mancanza di fondi ma anche per opportunità politica visti i sacrifici che venivano richiesti al Paese. In conclusione non se ne fece più nulla, del progetto restarono solo alcune fotografie scattate da Alberto Cartoni fotografo dell’Opera Nazionale Balilla, se non erro un plastico e i disegni, schizzi, di Luigi Moretti conservati all’Archivio Centrale di Stato di Roma.  

Luigi W. Moretti era il nuovo che avanzava nell’architettura, almeno per Mussolini che lo considerava l’interprete più geniale dell’architettura fascista ormai spentasi sul binario morto del classicismo caldeggiato dall’onnipresente  M. Piacentini. Non era questione da poco. E’ l’architettura il testimone principe del potere politico, pensiamo all’Acropoli ateniese del dem Pericle, all’Anfiteatro dei Flavi (il Colosseo), al napoleonico Arc de Trionphe, ecc… agli imperatori s’addice la monumentalità cioè il ricordo. Il razionalismo di Terragni, Libera, Pagano aveva perso la battaglia, le arti volgevano decise verso il classicismo accademico più consono a celebrare il ritorno dell’Impero.

Il trentenne architetto, mentre schizzava nel ’36 il nuovo Arengario, lavorava anche alla palestra del Duce nel palazzo delle Terme del Foro mussoliniano. Una sala rettangolare accessibile da una splendida scala elicoidale, dall’interno spoglio arredato solo di attrezzature per la ginnastica, dove il Duce, avrebbe potuto “fare palestra” in perfetta solitudine, tirare di scherma, godersi un’abbronzatura artificiale. Il tutto venne inaugurato nel ’37 e resta un capolavoro poco conosciuto del percorso artistico di Moretti, l’Arengario invece rimase sulla carta, di solido c’erano appunto solo la testa ed un piede del colosso in seguito purtroppo fusi, null’altro.

Leggiamo l’iconografia della statua, per quel che possiamo, dai rarii documenti. Ha gambe divaricate a compasso, saldamente poggiate sull’alto piedistallo prismatico, si erge diritta fino alle braccia alzate verso il cielo, la sinistra forse nel saluto romano, il capo leonino volge al cielo lo sguardo, un lungo mantello scende giù dalle spalle fino al piedistallo, fa struttura di sostegno al colosso, è un  controvento. Una lorica riveste il busto della statua che non presenta armi a corredo come l’Augusto di Prima Porta al quale per significazione si ricollega. Come per la statua della libertà, i visitatori poi avrebbero potuto salire fino alla sua testa con un ascensore e da lì affacciarsi per una scenografica vista panoramica su Roma.

C’è da sorridere, pensate se il colosso fosse stata realizzato, Roma sarebbe tutt’oggi  dominata, nel suo skyline, da Mussolini, orrore, orrore per gli iconoclasti talebani della nouvelle vague antifascista.

Vespasiano fuse con disprezzo il colosso dell’odiato Nerone, un bronzo alto circa 35 metri, raffigurante l’augusto anziate in muliebre nudità con fattezze divine che certo non possedeva, è assai probabile che la stessa sorte sarebbe toccata al gigante dell’Arengario.

[caption id="attachment_25655" align="alignright" width="170"] Ricostruzione del colosso di Nerone[/caption]

Il progetto voleva essere anche, non solo, una testimonianza dell’Italia nuova che il fascismo stava costruendo, un omaggio ad un popolo che si credeva avesse ripreso la sua marcia nel contesto della Storia, quasi un simulacro della dea Patria che procedeva in alto guidata dal suo mentore, un ponte di continuità tra la Roma imperiale e quel presente. L’ultimo ricordo di colosso, rinvenuto in pezzi, è la statua di Costantino collocata nella Basilica di Massenzio (trasferita ai Musei Capitolini), in tutto era alta12 m quanto la sola testa del gigante dell’Arengario ma è l’unico frammentato Gulliver che ci è rimasto.

Emanuele Casalena

Bibliografia

Paolo Nicoloso in Mussolini architettoPropaganda e paesaggio urbano nell'Italia fascista –Einaudi-2011.

www.accademia.edu: Aroldo Bellini e il colosso di Roma.

ilcovo.mastertopforum.net-colosso-littorio.

Mario Ferrari, Luigi Moretti, casa delle armi nel foro Mussolini a Roma, 1933-1938, Ed. Ilios, 2014.

https://wsimag.com/it/cultura/12879-un-colosso-per-ogni-dittatore.Le disavventure artistiche di Aroldo Bellini.

 

 

Demografia: il numero è Impotenza – Roberto Pecchioli

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A metà degli anni 70 del secolo passato, un ragazzo reduce dagli esami di maturità trascorreva un paio di settimane di vacanza nella remota Valbrevenna, entroterra genovese. I tanti paesini della vallata, bellissimi nelle loro costruzioni di pietra, i resti del forno comune, la chiesa ormai sprangata, ciascuno con il monumento ai caduti delle due guerre – tantissimi, lunghi elenchi strazianti di cognomi ricorrenti – erano già semi abbandonati. Qualche borgatella non contava più alcun abitante. Dissanguati dalla guerra, dall’industrializzazione della vicina città, ai nostri occhi adolescenti somigliavano alle spettrali immagini delle città fantasma del vecchio West viste nei film americani. Qualche alpino del posto, reduce di guerra, citava per analogia i libri di Nuto Revelli sui vinti, i valligiani delle alpi cuneesi decimati in Russia, i cui paesi non si erano più ripresi dalla morte dei giovani e dall’esodo a Torino delle donne in età da lavoro e da marito.

Valbrevenna, oltre 40 anni dopo, ha solo parzialmente tamponato il crollo demografico, ma l’intero comune conta meno di ottocento residenti, non pochi dei quali virtuali, poiché in realtà risultano domiciliati in città. Mille e mille altri paesi possono raccontare la stessa storia, che al ragazzo di allora rammentava una canzone di Sanremo del 1971, Che sarà, con la voce inconfondibile di José Feliciano e la versione dei Ricchi e Poveri:

'paese mio che stai sulla collina, disteso come un vecchio addormentato, la noia, l’abbandono, il niente sono la tua malattia'.

Negli anni immediatamente precedenti della pubertà, ci sembrava frutto di vecchiaia e incapacità di comprendere il nuovo una frase ricorrente della nonna, stupita del fatto che tutti i giovani andassero alle scuole superiori: ma se studiano tutti, chi andrà a lavorare? Un'altra osservazione della vecchia signora – che iniziò a lavorare a 8 anni e aveva allevato figli e nipoti – la capivamo ancora meno. Nel laboratorio sociologico inconsapevole che era diventata Genova, iniziava a manifestarsi una certa denatalità, la tendenza ad avere uno, massimo due figli, in anticipo sul resto d’Italia e d’Europa. Nonna Luigia, lettrice scrupolosa del quotidiano locale, era al corrente di tutto, e commentava nel suo dialetto antico: se non nascono bambini, finisce il mondo! Aveva ragione su tutta la linea, dall'alto di più di 80 anni di vita e dal basso di un’istruzione fermatasi alla seconda elementare di fine secolo diciannovesimo.

Adesso, i nodi sono venuti al pettine. L’Italia batte ogni anno record di denatalità, non è più così lontana o folle l’idea dell’estinzione biologica degli italiani di stirpe. Tutto ha un termine e l’eventuale fine del popolo italiano non sarà che un episodio nella storia umana. Si dà il caso, tuttavia, che si tratti della nostra storia, ed allora merita qualche riflessione in più, oltre l’indifferenza o il distratto de profundis di qualcuno. Mussolini usava affermare che il numero è potenza; forse sbagliava, ma il numero che scende è sicuramente impotenza. Non solo in termini culturali – una nazione il cui numero di membri cala disperde un patrimonio incalcolabile – e non solo in termini storici o sentimentali. Il nostro è il tempo del dominio dell’economia. Qui, davvero, il numero è potenza, il declino demografico impotenza.

Proviamo ad osservare un paese dei tanti del nostro territorio. Il calo delle nascite produce la chiusura di reparti di ospedale per concentrare i cosiddetti “punti nascita”, ma, a catena, significa il ridimensionamento e poi la chiusura delle scuole. Entro pochi anni, l’invecchiamento della popolazione porta alla cessazione di molte attività commerciali, l’inverno demografico costringe a concentrare altrove servizi essenziali, come le poste, i servizi sanitari, le farmacie, chiudere i commerci di prossimità. Le attività produttive tendono ad abbandonare il territorio, gli abitanti devono trasferirsi, persino gli anziani sono costretti ad emigrare, impossibilitati a rimanere in zone prive di servizi. E poiché il moto è “in fine velocior”, i fenomeni si manifestano e esplodono all’improvviso. Intere province, anzi regioni intere, in Italia e in Europa, si vanno svuotando a ritmi accelerati.

In molte città, chiudono i negozi e finanche diversi supermercati, sostituiti da attività gestite da stranieri, mentre si moltiplicano i negozi che vendono prodotti destinati agli animali domestici: figli no, canarini e amici a quattro zampe sì. L’immigrazione diventa l’unica possibilità di rigenerazione biologica, per quanto ci turbi ammetterlo. Pochi giorni fa, il presidente Gentiloni ha espresso una sgradevole e sgradita verità, a margine del vertice italo francese. Parlando dei flussi migratori, ha affermato “di quella gente avremo bisogno”.

E’ fin troppo evidente che le nostre classi dirigenti (politiche, culturali, economiche, finanziarie) sono le prime colpevoli di quanto stiamo vivendo, per cui non possiamo accettare i discorsi metà buonisti e metà rassegnati del primo ministro, ma dai fatti non si prescinde. Il 2018 che stiamo vivendo ci ricorda che è passato giusto mezzo secolo dal fatidico 1968, l’anno dell’ultima rivoluzione, sia pure incruenta, dei popoli europei e occidentali. Cinquant’anni sono tanti, tantissimi, in epoche caratterizzate dalla rapidità dei cambiamenti. Eppure, tutto cominciò lì, giusto una generazione dopo la fine di una guerra che mandò al potere il mercato e l’economia, l’apoteosi del secolo americano.

Il 68 iniziò e prese forma nelle università californiane e sbarcò poi a Parigi. Anticapitalistico, antiautoritario e antiborghese, si trasformò nella vittoria schiacciante di un capitalismo nuovo, ansioso di liberarsi di ogni limite posto dalle idee del passato. Marcello Veneziani sottolinea il declino post-sessantottino della famiglia e dell’amor patrio, dell’autorità e dei sentimenti religiosi, un cambiamento radicale che ha svolto il lavoro sporco utile agli interessi del capitalismo, di una nuova cinica borghesia predatoria traslocata nel progressismo di maniera e nel sinistrismo salottiero. Il 68 fu parricida, ma, prosegue acutamente l’intellettuale pugliese:

“dopo aver sognato la società senza padri, fondò la società senza figli. Nacque collettivista, corale, orgiastico, ma finì individualista, egocentrico, narcisista.”

Cinquant’anni è anche il tempo entro cui la tradizione ebraica prescriveva la remissione dei debiti: sette volte sette, e tutto doveva ripartire da zero. Non è più possibile: siamo immersi nel debito e insieme nel presente. Non è un mondo per vecchi, ma neppure per bambini e ragazzi; un altro paradosso, mentre chiamiamo “il mio bambino” il cagnolino o il gatto di casa e ci auguriamo il rapido trapasso degli anziani della famiglia, tranne se la loro pensione mantiene noi, nostro figlio disoccupato o precario e qualcuno dei nostri capricci.

Paolo Gentiloni alza le mani dinanzi all’invasione dall’Africa, ma è il capo di un governo che si è vergognato di un’iniziativa, magari improvvisata e un po’ sgangherata nella forma come il “fertility day” promosso da Beatrice Lorenzin, ministro della Salute. Rilevato il solito assurdo di italiani che parlano tra loro in lingua straniera, come se mancassero, nel vocabolario, parole e sintagmi in grado di promuovere l’idea della fecondità, quella è stata comunque l’unica iniziativa che ha posto nell’agenda politica il tema decisivo della natalità: primum vivere. Nella città di Genova, amministrata da pochi mesi dal centrodestra, l’assessore alla cultura, una giovane di sentimenti assai liberal, ha autorizzato i dipendenti municipali a portare in ufficio i loro animali. Nuova cultura…

Per i bambini, per il figlio dell’uomo, nulla. Vorrà pur dire qualcosa il fatto che anche le comunità immigrate in Italia vedono diminuire drasticamente le nascite, segno che è la nostra civilizzazione quella che respinge la vita, ed il contagio raggiunge tutti. Le cronache ci raccontano di una nazione in cui non solo mancano gli aspiranti operai o artigiani, ma che accusa carenza di medici. Troppo lunga la fase degli studi, tra laurea, specializzazione, anni di guardie e precariato, la chiusura di un Paese vecchio, sospettoso, escludente, dove si fa strada se si è figli di qualcuno o sodali di qualcun altro. Laureati in medicina che non possono curare i malati, dottori in giurisprudenza non abilitati alle professioni forensi, economisti impossibilitati ad aprire studi di commercialista e così via. Un’Italia a numero chiuso, tranne per chi arriva senza essere invitato. O forse sì, l’invito è implicito.

Un uomo di campagna, piccolo imprenditore agricolo, ci ricordava che per certi aspetti i tempi non sono così mutati. La raccolta delle olive avveniva a mano, nei soleggiati poggi di Liguria: occorrevano mani piccole e pazienza infinita. Dalle alte valli scendevano le giovani contadine povere; un duro lavoro a termine, quasi niente soldi, ma portavano a casa l’olio per la famiglia. Uguale era la condizione delle mondine padane. Oggi non ci sono più figli di contadini, tutti in città o a fondovalle a studiare per un futuro impiegatizio o professionale, quindi bisogna ricorrere agli stranieri. Lo sfruttamento è ancora peggiore, ma tutti vogliamo frutta, verdura e carne a buon mercato.

Contraccezione, aborto e pillole del giorno dopo mettono al riparo da gravidanze indesiderate per egoismo o carrierismo, ma chi mette al mondo dei figli sa che non potrà contare sul sostegno pubblico. Nessuna politica fiscale a sostegno delle famiglie, scarsi o nulli diritti sociali, farmaci costosi, gli asili e le scuole scomode, poche e lontane, orari difficilmente compatibili con il lavoro, imprenditori, anzi padroni, che non vogliono impiegate in gravidanza o con figli, orari di lavoro di molti settori che rendono difficile occuparsi dei bambini. Il doppio risultato negativo è la scarsità delle nascite e la crescita di generazioni iperprotette o lasciate a se stesse, bulli o bambocci. Chi volesse una prole numerosa (ce ne sono ancora, incredibilmente) ha anche il problema di trovare una casa abbastanza grande, che il mercato non offre più, tranne, ovviamente, per chi ha ampia disponibilità economica.

Un clima ostile alla vita unito all’indisponibilità diffusa ad assumere responsabilità a lungo termine. Pochi matrimoni, anche le convivenze sembrano in crisi, figurarsi se si accettano i figli, che, come i diamanti, sono per sempre e, ahimè, costano e durano più di cani e gatti. Nel fatidico 1968, Paolo VI scrisse la sua ultima enciclica, la Humanae Vitae. La Chiesa cattolica era stata sino ad allora la grande patrona e promotrice della famiglia, e il problematico papa bresciano, finito il concilio, intese ribadire gli insegnamenti di sempre, in materia di morale familiare e sessuale. La recezione dell’enciclica fu pessima, non solo nel mondo laico che si avviava a diventare antireligioso, ma nella stessa Chiesa, tesa all’inseguimento dello spirito dei tempi portato a termine mezzo secolo dopo dall’ex chimico argentino residente in Santa Marta con l’esito disastroso di chiese vuote, vocazioni in caduta libera e indifferenza generalizzata agli insegnamenti cattolici. Sbigottito, il povero Montini parlò poi del fumo di Satana penetrato dalla Chiesa, ma tacque sino alla morte avvenuta nel 1978, e l’enciclica rimossa è diventata il simbolo di un’istituzione che non crede più ai suoi principi.

A proposito del rapporto tra demografia negativa, crisi economica e decadimento civile di Europa e Occidente, è interessante l’opinione di Ettore Gotti Tedeschi, economista, banchiere, autore di libri importanti, esponente di punta della cultura cattolica molto vicino a Benedetto XVI prima e durante il suo papato. Gotti Tedeschi ha più volte sottolineato gli errori morali che hanno originato l’attuale crisi sociale, di cui stiamo sperimentando molteplici sfaccettature. Secondo colui che fu presidente della banca vaticana, povertà, disuguaglianze, migrazioni, squilibri geopolitici, fine della democrazia, esasperazione ambientalistica hanno le loro radici contemporanee “nel crollo delle nascite nel mondo occidentale, pertanto nel [crollo del] valore della vita.” E’ una convinzione maturata e motivata, a cui non è estranea la diserzione cattolica di cui è simbolo il rigetto diffuso della Humanae vitae”.

Sostiene Gotti che se potessimo tornare indietro, saremmo più ricchi e felici con più figli. Non ci sarebbero gli enormi problemi delle migrazioni, che avremmo potuto contenere ed assorbire in un sistema in crescita, né dovremmo fare i conti con lo scempio ambientale. Infatti, il sistema non avrebbe avuto la necessità di far esplodere il consumismo parossistico per compensare il calo del PIL dovuto alla perdita di popolazione. Non avremmo conosciuto il collegato fenomeno della delocalizzazione industriale. La disoccupazione sarebbe residuale, probabilmente il carico fiscale non supererebbe, in Europa, il 30 per cento.

Si può accogliere il pensiero di Gotti con perplessità, contestarne le conclusioni e i nessi di causalità, ma si tratta di una voce importante, che proviene da qualcuno che conta, uno che certamente ha partecipato a conversazioni e decisioni riservate delle élite. Per quanto riguarda la quota di denatalità legata agli aborti, in Italia ne sono stati praticati legalmente circa cinque milioni, proprio il numero di immigrati regolari censiti, segno che sussiste una relazione tra calo delle nascite e nuovi arrivi. Una parte rilevante dell’immigrazione è dunque sostitutiva delle fasce di popolazione carenti o mancanti. Con l’equilibrato succedersi delle generazioni per riproduzione naturale e moderato aumento progressivo della popolazione, la presenza di manodopera locale avrebbe mutato profondamente il panorama sociale, costretto il sistema capitalistico a venire a patti, reso più difficile l’attuale condizione di bassi salari, concorrenza al ribasso, fuga delle imprese, senza contare il drammatico buco della previdenza, dovuto alla prevalenza numerica degli anziani sui giovani.

Altrettanto, si può affermare che popoli coesi, in grado di trasmettere con la vita la propria eredità culturale e civile appreso rendono più difficile trasformare milioni di persone in docili consumatori, plasmarne gusti, idee, modi di vita. Prima, con il 68, hanno screditato ed abolito ogni tradizione e autorità, poi l’hanno sostituita con il mito del progresso, dell’individualismo, del consumo, della liberazione da ogni vincolo. Come ha capito Veneziani, aboliti i padri, vengono meno anche i figli. Le migrazioni, poi, comunque le si valuti, provengono sempre da popolazioni giovani, più decise, portatrici di speranza e di vita.

Esattamente il contrario del nostro angolo di mondo, ripiegato su se stesso, preda di paure, egoismi, incapace di guardare lontano. Per i giovani, il programma stabilito è quello del nomadismo come progetto di vita, dell’instabilità spacciata per opportunità, del consumo come valvola di sfogo. Consumo delle cose, delle persone, della vita. Il latino Terenzio scrisse nella commedia Phormio che la vecchiaia stessa è una malattia. Oggi sappiamo che è la verità non solo nella vita personale di ciascuno, ma anche nell’insieme delle comunità organizzate. Nell’Italia di oggi, la figura della badante è diventata centrale. Un esercito di donne povere, generalmente straniere, la cui occupazione è accudire una popolazione senescente e non più autosufficiente. E’ un cambiamento epocale, che lascerebbe sbalordite le nostre nonne, abituate piuttosto a bambinaie, ostetriche, giovani madri.

Il ciclo della vita si chiude non nel tramonto dell’Occidente, ma nella sua fine come autonoma civiltà. Un poeta e musicista contemporaneo, Giuseppe Benozzo, ha scritto a proposito della vecchiaia, di “graduale declino, un lento approssimarsi alla morte, una moltitudine di individui dai capelli bianchi che non può più far parte del meccanismo produttivo”. Colpisce, fa riflettere, ma non stupisce del tutto che l’acuta sensibilità dell’artista tocchi il nervo scoperto della nostra epoca, ovvero l’inutilità dell’anziano in quanto estraneo al processo della produzione. Non più il ciclo naturale dell’esistenza, ma la partecipazione o meno alla fabbricazione di cose. Produzione, ma non riproduzione. Abbiamo un esercito di badanti perché viviamo più a lungo, certo, ma soprattutto perché figli e nipoti sono assenti o inesistenti. E’ interrotto, per usare il lessico del deserto morale, il ciclo della produzione dei nostri discendenti. Il sistema che ha promosso tale catastrofe antropologica ha la soluzione: l’importazione massiccia di altri esseri umani. Chiederanno poco, almeno per una generazione, saranno facilmente manipolabili e sono già adulti.

L’oligarchia ha orrore di tutto ciò che è improduttivo, e i bambini lo sono più degli anziani. Devono essere accuditi per anni, sono un costo economico e sociale tremendo, diventano la ragione di vita dei genitori, che al contrario non devono essere distolti dalla lotta per la carriera e dal consumo. Meglio, molto meglio l’importazione di uomini e donne nel fiore degli anni. La logica devastante del denaro, del tornaconto, del bilancio agli azionisti non conosce vergogna.

Ma il numero, quando crolla, è impotenza. Stanno spingendo al suicidio gaio i popoli che più possiedono il pensiero critico, l’idea di persona, il senso del diritto. Il futuro non tanto lontano è quello che Wittfogel chiamò il dispotismo asiatico: un esercito spersonalizzato di lavoratori e consumatori eterodiretti dalla tecnica, un universo iperproduttivo e soffocante simile alla Cina, la potenza dominante del secolo. In questa parte del mondo, i ranghi si assottigliano a ritmo crescente, i giovani italiani ed europei sono una rarità, presto diverranno soggetti da museo di antropologia. Non siamo i primi, non saremo gli ultimi a scomparire dalla scena del mondo. Certo, siamo gli unici a farlo con allegria o indifferenza, una scrollata di spalle e via.

Nel passato, le popolazioni venivano decimate dalle carestie, dalle pestilenze, dalle guerre. Noi, più civilizzati, ce ne andiamo da soli, senza disturbare. In Svezia, metà della popolazione già vive e muore in perfetta solitudine, i figli, quando ci sono, si fanno i fatti loro, molti anziani lasciano in bella vista il denaro per le spese funerarie, che gli assistenti sociali faranno oggetto di apposita verbalizzazione e regolare ricevuta dell’ente competente. Il trionfo di un’ordinata impotenza: l’ultimo spenga la luce. Quella sì che è civiltà! Altrove, nel vasto mondo e grazie a Dio, la vita continua.

ROBERTO PECCHIOLI

  FONTE COPERTINA

Teurgia. Riti magici e divinatori nell’età tarda-antica

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Con il termine Neoplatonismo gli studiosi sono soliti indicare tutti quegli insegnamenti filosofici che, ispirandosi principalmente al pensiero di Platone, si svilupparono in un arco di tempo databile tra i primi decenni del III e la fine del V secolo d.C. Questa fase del platonismo iniziò con Ammonio Sacca (175-242) e Plotino (205-270), ed è ritenuta la fasi terminale della fi­losofia antica.
Il Neoplatonismo si rifaceva a Platone come moto ispirativo, ma formalmente vi trovavano rifugio una molteplicità di temi e argomenti ad esso estranei. Su tale frequenza si collocava la «Bibbia» dei filosofi neoplatonici, gli Oracoli caldaici, una serie di componimenti poetici contenenti invocazioni, visioni e ammaestramenti di dèi, nei quali compariva per la prima volta la parola «teurgo», colui che possedeva l’«arte di creare gli dèi».
A differenza della magia comune, la cosiddetta goeteia, incline a conseguimenti materiali e coercitivi, la teurgia era una tecnica rivelata dagli stessi dèi per stabilire un contatto con l’umanità belluina. Grazie a rituali e giaculatorie ignote ai più, era possibile entrare in comunicazione con il dio che prometteva di liberare l’individuo dal «gregge del fato», l’insieme dei pecoroni belanti popolanti il mondo.
Nel panorama librario italico mancava un’opera che trattasse in maniera organica questi suggestivi argomenti. Il formidabile testo di Muscolino colma oggi tale lacuna. Certo l’enfasi non è da recensione «asettica», ma è poco per sottolineare il pregio di una ricerca che introduce in modo chiaro e preciso ai principali temi della magia antica. L’esperienza teurgica è infatti presentata nei suoi fondamenti teoretici e rituali.
La teurgia era un agire non convenzionale e il teurgo, accreditato presso gli dèi e diventato egli stesso dio, operava una creazione in un nuovo piano di realtà. Per la prima volta, in un’opera in lingua italiana, i rituali teurgici, le evocazioni di divinità e ombre, sono presentati e ricostruiti a partire dai testi originali. Oggetti rituali, parole e gesti evocatori, sono resi nella loro integralità: gran parte del libro è infatti una metodica ricostruzione di come i magoi e teurghi antichi agissero nei loro rituali più segreti. Filosofi come Porfirio, Proclo e soprattutto Giamblico hanno conservato nei loro scritti ampi frammenti rituali. Proclo era un esperto in magia meteorologica e nella tecnica dell’evocazione, vedeva fantasmi luminosi mandati dalla dea Hekatē, praticava le purificazioni caldaiche, era stato iniziato all’arte teurgica dalla figlia di Plutarco, Asclepigenia, la quale, al modo della tradizione magica egiziana, l’aveva ereditata dal padre. Un esempio fra i tanti.
La teurgia, consentiva di elevarsi verso le realtà immutabili, ma non solo; l’immortalità era a portata di mano: Giuliano Imperatore, restauratore di un paganesimo in declino, era un grande seguace degli Oracoli caldaici, nella orazione Alla madre degli dei(812, 25-32), celebrava i theourgoi makarioi, i «beati teurghi» iniziati ai misteri caldaici, una minoranza detentrice di un immenso patrimonio magico. Le anime dei teurghi raggiungevano gli «spazi angelici» dove potevano vivere esistenze parallele.
Il libro di Muscolino è ancora più importante perché è una delle rare organiche ricostruzioni di un tempo e di un clima culturale unici: il trapasso dalla religione antica al cristianesimo. Pochi hanno saputo donare agli aspetti magici e visionari del mondo tardoantico una colorazione così intensa. Un libro prezioso e di facile lettura, anche a un pubblico non specialista che voglia capire cosa veramente fosse la magia antica.
Ezio Albrile

Giuseppe Muscolino, Teurgia. Riti magici e divinatori nell’età tarda-antica, Edizioni Ester, Bussoleno (Torino) 2017, pp. 356, Euro 30,00

Ianus Pater il più antico degli dèi – Anna MB

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Giano annuncia l’anno nuovo e dà inizio a ogni cosa. Fu considerato dai romani come il custode del mondo, preposto alle porte del cielo, cioè all’oriente e all’occidente, della terra e a tutto quello che ha principio e fine. Era raffigurato con due facce, i suoi attributi erano una chiave nella mano sinistra e un bastone nella destra perché egli era guida di tutte le strade e aveva facoltà di aprire e chiudere ogni porta, così come di dar fine a un periodo di pace e inizio alla guerra. Da lui iniziava l’anno che scorre silenzioso (tacite labentis, Ovidio, Fasti, III, 65) senza che i mortali se ne accorgano; il primo mese (Ianuarius) era a lui sacro; il primo giorno dell’anno nuovo era dedicato alle celebrazioni pubbliche in onore di Esculapio. Dio del passaggio e della transizione – non della nascita, nel qual caso vi presiederebbe Giunone, è patrono degli inizi in senso anche più astratto dell’atto di attraversare un confine (è uno “stato dell’essere). È associato al mattino: Orazio lo apostrofa «Padre mattutino (matutine pater), [...] Giano [...] apri tu il mio poema» (Satyrarum libri, 2, 6, 20-23). Curiosamente, gli si attribuisce l’epiteto «dio dei dolci» e delle feste (Cibullius: Giovanni Lido, de Mensibus, 4, 2) poiché si era soliti offrirgliene (πόπανα) ed esisteva un dolce chiamato proprio ianual preparato in occasione delle Calende di gennaio a lui dedicate e di cui Ovidio (Fasti, 1, 127 ss.) ci fornisce persino la ricetta¹:

"Quindi il mio nome è Giano. Ma quando il sacerdote mi offre una torta d’orzo e farro mescolati con un pizzico di sale, sorrideresti nel sentire che egli con tono sacrificale mi invoca chiamandomi Patulcio e Clusio". 

(Epiteti che vengono da pateo, aprirsi, e claudo, chiudersi, alludendo alla sua funzione di soglia e porta.) Veniva festeggiato anche il 30 marzo; Ovidio dice (Fasti, 3):

"Poi, per quattro volte il pastore avrà rinchiusi i capretti pasciuti, per quattro volte i prati avranno brillato di fresca rugiada, e si dovrà venerare Giano, e con lui la mite Concordia e la Salvezza di Roma e l’altare della Pace".

Il suo tempio era di marmo bianco con ornamenti di bronzo dorato e candide le vesti dei fedeli che vi accedevano per pregare, consentendo che la cerimonia si svolgesse in maniera ritualmente propizia con parole e pensieri che fossero di fausto presagio (linguis animisque favete, letteralmente: favorite le lingue e gli animi, Fasti, 1, 71). Il tempio del dio sorgeva sul Campidoglio perché, nella tradizione romana non solo poetica (anche Livio lo afferma, 1, 55), Roma è caput rerum e nulla c’è al mondo che non sia romano. Dinanzi al tempio del dio si svolgeva il rituale, descritto da Ovidio (Fasti, Libro I, cap. II), di insediamento dei consoli che inaugurava la loro magistratura presso il tempio di Giove Ottimo Massimo. Le fiamme dei sacrifici splendono e odorano di incenso e di aromi, illuminando di riflessi e bagliori del predetto tempio di Giove Capitolino che sorgeva di fronte, e sugli altari crepitano i fili del più pregiato zafferano di Cilicia.

Chaos e bicefalia

Dio di ogni inizio e di ogni fine, è perciò identificato, nella dotta ricerca ovidiana, con il vuoto originario da cui ebbe origine il mondo:

"Me Chaos antiqui vocabant" (Fasti, 1, 101 ss.).

Colui che si manifesta al poeta non trova riscontro in nessun dio greco, e a questo proposito il suo bifrontismo ne è una caratteristica precisa e inconfondibile: il caos o condizione primordiale, memoria delle “origini” in cui ancora non era stato fondato il mondo come lo si conosce (nel caso di Roma l’“ordine”, anche rituale, corrisponde alla civitas), può implicare uno “sconfinare” da una condizione all’altra, allora può avvenire che alcune divinità che risalgono a quei tempi anteriori portino ancora le tracce di un’esistenza caotica e indifferenziata, come certi dèi primigeni che presentano entrambi i generi sessuali (l’orfico Phanes), oppure oscillano da una natura umana a una ferina, mostrandosi a volte in aspetto teriomorfo, altre antropomorfo. Così sarebbe anche la bicefalia di Giano, simbolo di una funzione «precisa e del tutto peculiare»² di questo dio del passaggio, e alla luce di questa considerazione appare più chiaro anche il passo ovidiano. Ancora nel V secolo ev si afferma vi fosse presso il foro di Nerva una statua di Giano rappresentato nella sua quadriplice forma, che rispecchia la quadripartizione dell’anno secondo solstizi ed equinozi (statua che, secondo Macrobio e Servio, sarebbe stata portata a Roma da Faleria); lo riporta il bizantino Giovanni Lido (490 ev) nel già citato de Mensibus (su roger-pearse.com il link della versione inglese, da cui sono tratte anche la traduzione e le note del testo che segue), dove nel libro IV, dedicato a gennaio, descrive anche gli epiteti del dio:

"è chiamato Janus Consivius per via del consiglio o Senato; Janus Cenulus e Cibullius, che pertiene alle feste, da cui la parola romana cibus; Patricius ovvero del luogo, indigeno; Clusivius, che pertiene ai viaggi; Junonius, “aereo”; Quirinus, campione e combattente; Patulcius e Clusius, come di una porta; Curiatius, patrono dei nobili...".

Gli epiteti Cenulus e Cibullius lasciano sorpresi e non trovano riscontro in nessun’altra fonte, e potrebbero essere connessi a una funzione agricola sottintesa alla complessa figura divina di Giano. Patricius sta per pater, da cui il legame con la patria, rientrando in quella schiera di di patrii indigetes (dèi indigeni) a cui i romani riconoscevano uno status specifico. Ma Giano, continua Lido, è chiamato anche Aeonarius, per essere il padre di Aeon, poiché i greci chiamano l’anno enos [...] Messalo invece ritiene che Giano sia Aeon stesso, per questo gli antichi celebravano una festa a Aeon il quinto giorno di questo mese [quinto prima delle Idi, i.e. il 9 gennaio]; [...] è chiamato anche Saturno,cioè Crono [...] oppure è il Sole, secondo la sua capacità di guardare in ogni direzione, a levante come a ponente.

Dio, daimon ed eroe

Aeon (Aiôn, greco Αἰών) può essere inteso qui anche come nome comune nel senso di tempo, eternità, ma non convince l’ipotesi che il nome di Giano (Ianuarius) derivi da una qualche forma di Aeon; altra ipotesi è l’etimo da eo, prima persona del verbo ire (andarsene), riferito al suo rappresentare un passaggio, un attraversamento; l’Aeon citato da Lido potrebbe alludere anche al dio leontocefalo dei misteri orfici e mitraici, e l’atto di “andare” di Giano si configurerebbe ora in uno scenario cosmico, ciclico, dove l’ἴα ὤν (essere uno) diventa αἰών. Lido riporta inoltre un’altra spiegazione del nome, secondo cui la radice rimanderebbe a ianua, porta, perché, stando all’interpretazione di certe fonti del nostro autore, Giano sarebbe stato un eroe civilizzatore, che per primo ha costruito case e porte d’ingresso nelle dimore e nei centri abitati. Secondo un altro punto di vista, invece, [gli hierophantes romani] ritengono che sia un daemon che governa sulle due Orse [le costellazioni Ursa Major e Ursa Minor] e che in lui si esprimano le più alte e divine anime del coro lunare. Il termine greco daimôn designava da principio ogni sorta di divinità, ed è solo con Platone che assume il significato più specifico di entità intermediaria tra gli dèi e gli uomini. Giano è «una delle divinità centrali» del politeismo romano e tra queste è il “meno greco”¹; nel culto pubblico è contraddistinto da tratti del tutto specifici: nel sistema calendariale non solo occupa la prima posizione rispetto all’inizio dell’anno solare, ma il suo culto è continuo poiché viene invocato in apertura di tutti i sacrifici – oltre che ogni primo giorno delle Kalendae.

Il primo di quattro re

La funzione iniziale di Giano è espressa anche in un mito che, sorprendentemente, per 5-6 secoli non ha subito variazioni sostanziali e che viene riportato dalle principali fonti classiche (cfr. Virgilio, En., 7, 45 ss., 177 ss.; 8, 319 ss.): si tratta di uno dei miti che riguardano l’origine della romanità, ovvero della città di Roma intesa come fondamento dell’ordine “cosmico” (prendendo a prestito un abusato termine greco) e racconta dei primi quattro mitici re latini che sono stati (in successione) Giano, Saturno, Pico, Fauno e dopo di lui Latino, re eponimo. I quattro re avrebbero condotto la popolazione da una condizione semiselvaggia alla “civiltà” attraverso la fondazione di città e culti religiosi, l’introduzione di tecniche agricole, di una legislazione ecc. Fin qui nessuna contraddizione con quanto sappiamo di Giano e delle sue funzioni iniziali né con la sua interpretazione quale eroe civilizzatore. Quello che interessa a un’analisi storico-religiosa è piuttosto, nota Angelo Brelich, l’accostamento di queste quattro figure divine molto diverse tra loro: durante il regno di Giano sarebbe arrivato via mare Saturno esule, scacciato dal proprio pantheon dalla vittoria di Zeus e degli Olimpi, e nel Lazio avrebbe trovato accoglienza da parte di Giano, stabilendosi questi sul monte Ianiculus (Gianicolo), l’altro sul monte Saturnio. Anche di Giano si diceva provenisse da oriente via mare, dalla Tessaglia per la precisione, ma questo non vuol dire che il suo culto fosse stato “importato” da un politeismo straniero, quanto piuttosto che le sue qualità di “re civilizzatore” e fondatore possono aver attratto elementi mitici caratteristici, nella tradizione romana, di questa tipologia di personaggi (Enea ne è un altro celebre esempio).

Dunque due re, due capi di pantheon, due divinità solenni legate alla sfera cittadina; poi, però, la successione genealogica prosegue con Fauno, figlio di Saturno, e Pico: il primo popolarissimo dio del bosco, del secondo, il cui nome rimanda a una origine teriomorfa (il picchio), manca invece ogni traccia che ne attesti la presenza – una festa, un tempio, insomma mancano del tutto documenti che ne rivelino un culto. Entrambi, però, sono legati alla sfera oracolare: Ciò disse Fauno; uguale è il parere di Pico. «Liberaci dai legami», Pico aggiunge tuttavia; «Giove verrà qui, condotto dalla nostra valida arte. L’oscuro Stige mi sarà testimone della promessa». Che cosa facessero, liberi dai legami, quali formule pronunciassero, con quale arte traessero Giove dalle sedi celesti, è vietato all’uomo sapere. (Ovidio, Fasti, III, 319-325, trad. di L. Canali)

Anch’essi mitici fondatori (di culti, leggi, cioè della vita civile), quello che accomuna i quattro re sarebbe, ciascuno nel proprio ordine, di svolgere una funzione civilizzatrice, di aver permesso il passaggio (qui Giano doveva essere il primo) da quel periodo “arcaico”, caotico, di cui via via si va perdendo la memoria, e che il mito riattualizza.

Appendice: januae caelestis aulae Aggiornamento del 4 01 2017. A seguito di una discussione su Facebook (si vedano i commenti a questo post) ho avuto modo di approfondire l’occorrenza di “porte del cielo” (januae caelestis aulae) in connessione con il percorso del sole nella volta celeste da est a ovest. Ovidio (Fasti, 1, cap. 2, 70) afferma: «[parla Giano] Sic ego perspicio caelestis janitor aulae, Eoas partes, Hesperiasque simul», così io, quale custode (delle porte) della reggia celeste, vedo a un tempo le parti dell’oriente (Eeo) e dell’occidente (Espero).

Quando Lido, nel de mensibus (IV), parla di Giano e della sua quadruplice forma, scrive: «A causa di questo [si riferisce sopra al rapporto di Giano con tutto l’anno solare e non solo con il suo inizio] [sottinteso μυθολογοῦσι, è detto essere] di quadruplice forma per via delle quattro mutazioni». Il termine greco è τροπῶν, che significa rivolgimento, ritorno, mutazione, cambiamento e anche, quando è solo, in maniera specifica solstizio d’inverno (cfr. vocabolario Rocci, ad vocem).

Note:

1. Cfr. G. Dumézil, La religione romana arcaica, Bur 2001, pp. 290-5. 2. A. Brelich, Tre variazioni romane sul tema delle origini, cap. 3: I primi re latini, in particolare parr. 1, 4-5, Editori Riuniti university press, Roma 2010, pp. 83 ss.; sul bifrontalismo in particolare cfr. ivi, p. 130. * Fonti classiche: i Fasti di Ovidio; Liber de mensibus, Giovanni Lido.

  Anna MB (https://lamisuradellecose.blogspot.it/)    

PERCORSI INIZIATICI ALTERNATIVI. Parte seconda: 6 settembre 1666 – Gianluca Padovan

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«Per intendere l’opera che la massoneria ha avuto nella Rivoluzione francese, bisogna estendere l’immagine dei “microbi” sociali, nel senso di precisare che, per produrre la disgregazione di un organismo, o per accelerarla, tre fattori sono necessari: occorre una condizione generale favorevole, per così dire una predisposizione in certe parti dell’organismo; occorre poi che le forze, che potrebbero reagire, siano intaccate; infine occorre la azione attiva del microbo, per dare agli elementi in via di dissolversi la direzione desiderata. Tutte e tre queste condizioni si sono sistematicamente realizzate nella Rivoluzione francese, sotto la direzione generale della massoneria e dei suoi emissari»

Julius Evola, Scritti sulla massoneria
   

Parlando dello «statuto Massonico» Gaspare de Luise scrive: «nel primo articolo fondamentale si dichiara che l’ordine de’ Liberi Muratori appartiene alla classe degli ordini cavallereschi, e che ha per fine il perfezionamento degli uomini. Furono chiamati i Massoni Liberi Muratori da Roberto Brus incoronato re di Scozia, che li riunì legalmente e se ne dichiarò Gran-Mastro circa gli anni 1313 o 1314. Essi si chiamano cavalieri per indicare la stretta unione che avevano con i templari. Nel 1155 (come si legge nel loro Acta Latomorum tomo V, pag. 5) un Gran Maestro de’ templari li governava. Quando poi si unirono in una sola e indivisibile famiglia tutti si chiamarono Cavalieri, innalzandosi i Massoni all’eguaglianza coi templari, e dando a questi reciprocamente il loro nome. Ma riflettete, i Massoni nel primo articolo del loro statuto si protestano di essere così, del rango di coloro che sono distinti nella società, sieno pure assolutisti o papisti, basta che sieno cavalieri; i Liberi Muratori li affiancano per emulare la nobiltà. Perché vi si legge degli ordini, non già dell’ordine cavalleresco. Ha per fine la framassoneria perfezionare gli uomini, deve supporsi che si credono essi di essere perfetti».24

    Alla ricerca delle presunte origini.

Nicholas Hagger, docente di Letteratura inglese nelle università di Baghdad, Tripoli e Tokyo, riporta che la Massoneria «risalga, alternativamente, all’Egitto di Thutmose III del XV secolo a.C., all’Israele del saggio sovrano Salomone del X secolo a.C. e, più di recente, ai tagliatori di pietra medievali e ai costruttori di cattedrali di York e di Colonia, rispettivamente nel 926 e nel XII secolo. Sia come sia, si è spesso pensato che la massoneria inglese sia fondata da Francis Bacon il quale, nel 1579, all’età di diciotto anni, sentì il bisogno di studi che fossero tenuti segreti sotto un “giuramento da fratelli di sangue”».25

Sostanziando alcuni passi dello scritto di Hall (M. P. Hall, America’s Assignment with Destiny, The Philosophical Research Society, USA, 1951, pp. 59-60) Nicholas Hagger scrive: «Ma è probabile che, data l’età particolarmente influenzabile, Bacon entrò in contatto con un gruppo il cui simbolismo si era riflesso nella massoneria inglese nascente del 1579. Si trattava probabilmente di un gruppo di esuli catari dei Pirenei, che erano fuggiti da Montségur, sud-ovest francese, quando il movimento fu soppresso nel 1244; più facilmente, si trattava di un gruppo di rifugiati templari fuggiti dalla Francia nel 1312, che reagirono al rogo del loro Gran Maestro Jacques de Molay avvenuto nel 1314 dando vita a una società segreta al di là del confine. Ebrei cabalisti esiliati avevano portato in Linguadoca i misteri ebraici dal Medio Oriente e dalla Gerusalemme mussulmana, fra cui quello del tempio di Salomone, ed è possibile che proprio da alcuni di loro Bacon venne a conoscenza del tempio di Salomone».26

Proseguendo e citando un proprio lavoro (N. Hagger, The Secret History of the West, O Books, UK, 2005, appendice 6) Hagger afferma: «Si deve inoltre ricordare che Settimania, l’ultima regione della Gallia a essere posseduta dai visigoti di Spagna, la cui capitale era Narbonne, fu sotto il dominio islamico dal 720 al 759 e governata dagli ebrei dal 768 al 812. Essa fece da calamita per gli ebrei della diaspora che si stabilivano in Linguadoca e fu la culla dell’Età dell’Oro ebraica in Francia e in Spagna dal IX al XIII secolo (vale la pena di ricordare che la leggenda del Graal emerse nei pressi di Toledo, in Spagna, nel XII secolo). Questa zona vedeva la presenza di molte scuole cabalistico-manichee dalle quali, secondo gli autori del libro Il Santo Graal, provenivano i catari (piuttosto che i bogomili bulgari). In poche parole, è possibile che Bacon fosse entrato in contatto con il sapere segreto ebraico, al confine tra Spagna e Francia, mentre era ancora adolescente».27

Tornando ai Massoni: «Essi credevano che l’America sarebbe diventata una Nuova Atlantide, creando un mondo migliore non cattolico, non spagnolo e il ripristino della scomparsa Età dell’Oro di Atlantide, citata da Platone (…). Entro il 1586 l’Ordine [Order of the Knights of the Helmet. N.d.A.] diede vita ai Fratelli rosacroce, che divenne un grado dei Knights of the Helmet».28

Ancora Hagger dice che il puritanesimo soprattutto olandese era collegato ai Rosacroce e «Il templarismo formò l’America in cui nacquero i Padri fondatori tanto quanto la massoneria rosacrociana inglese. Tutti i Padri fondatori e i rivoluzionari americani appartenevano a logge templari, società segrete socialmente desiderabili nelle quali la rivoluzione poteva essere fomentata, ma anche tutte le forze coloniali inglesi appartenevano a logge inglesi rosacrociane, associazioni segrete ugualmente desiderabili a livello sociale dove si poteva discutere la soppressione della rivoluzione in tutta sicurezza».29

    6 settembre 1666.

Gianfranco Pecoraro (Cosenza 1958), il cui pseudonimo è Giovanni Francesco Carpeoro, iscritto dal 1981 alla Massoneria di Rito Scozzese, già Sovrano Gran Commendatore e Gran Maestro della Legittima e Storica Piazza del Gesù, asserisce che «la vera data in cui nacque l’anarchia della massoneria moderna è quella del 6 settembre 1666», lasciando intendere che la massoneria primigenia, ovvero quella operativa, affondi le radici in un momento storico precedente.30

Difatti, sempre secondo Pecoraro, l’architetto Inigo Jones (1576 – 1652) è stato Gran Maestro della Massoneria inglese e successivamente lo è stato anche sir Christopher Wren (1632 – 1723). Architetto, astronomo e matematico, Wren è l’ultimo Gran Maestro della Massoneria operativa. Ora veniamo all’anno: 1666. Nella storia di Londra è rimasto infausto perché il 2 settembre, nel panificio reale di Pudding Lane, nell’area della City che noi oggi conosciamo, è divampato un incendio. Un forte vento lo ha propagato rapidamente e per quattro giorni è imperversato distruggendo circa 13.000 abitazioni e poco più di un centinaio di monumenti e chiese. Il progetto di ricostruzione viene quindi affidato a Wren affiancato da Robert Hooke (1635 – 1703), fisico, naturalista, matematico e massone. Ancora Pecoraro afferma che Wren non volle ricostruire «il Tempio della Libera Muratoria».31

Maurice Caillet, medico francese ed ex massone, ci dice che la Massoneria speculativa risale ai primi del XVIII secolo: «Mentre tutti conoscono san Pietro, primo Vescovo di Roma a cui Gesù ha affidato la sua Chiesa, le origini della massoneria speculativa sono contese; tuttavia, molti storici riconoscono che è nata dalla trasformazione e dalla fusione di quattro logge della massoneria operativa (costruttori di cattedrali) a Londra, nel 1717, sotto l’impulso di due pastori: Anderson, presbiteriano, e Désaguliers, anglicano, influenzati segretamente da Isaac Newton, celebre fisico, notorio eretico, dedito alla pratica della magìa ed ammiratore del divino Nostradamus e dei filosofi detti dei Lumi».32

Il pastore presbiteriano scozzese James Anderson (1679 – 1739) nel 1723 pubblica un testo fondamentale per lo sviluppo della Massoneria, il Libro delle Costituzioni: «revisione radicale delle antiche Costituzioni gotiche del 1390, per esaminare la storia della Massoneria, nobilitandone e stabilendone l’indipendenza dal credo politico o confessionale».33

Nei decenni successivi si rileva l’espandersi della Massoneria anche e non solo in Europa «assumendo nuovi connotati: accanto agli ideali filantropici e umanitari di Anderson, prese sempre più consistenza a partire dal 1760 l’interesse per l’esoterismo, dalla magia alla geometria sacra, alla kabbalah, con una caratterizzazione aristocratica di ispirazione vagamente cristiana. Le logge di Parigi, fin dal 1735 chiesero alla Gran Loggia d’Inghilterra il permesso di costituire una Gran Loggia Provinciale, che obbedisse a Londra. Il primo Gran Maestro della Gran Loggia di Francia fu il Conte di Clermont, il quale facilitò lo Scozzesismo. C’è chi ha visto in tutto ciò la longa manus dei Gesuiti, che si sarebbero infiltrati nelle logge, dopo la soppressione della Compagnia di Gesù nel 1773, e avrebbero tentato di riconquistare vasti settori della cultura e della società, tentando di indebolire così la Massoneria Azzurra laica. Si posero quindi le premesse per la nascita delle due anime della Massoneria moderna: quella misticizzante degli Illuminati e quella politicamente impegnata».34

    Una prima loggia francese.

La prima loggia francese pare sia stata istituita nella prima metà del XVIII secolo: «La prima loggia fu impiantata in Francia intorno al 1726 ad opera di alcuni cattolici inglesi in esilio (“Giacobiti”) ed assunse il nome di “Saint-Thomas”. Dobbiamo perciò supporre che all’inizio non avesse alcun carattere sovversivo. Tuttavia, a poco a poco, vi si infiltrarono degli elementi protestanti che finirono col prendere le redini e disperdere i membri cattolici».35

Inoltre: «Un esempio dell’origine massonica del club dei Giacobini ci viene da Tolosa. Il 6 maggio 1790 è fondato il Club littéraire et patriotique, che si trasforma nel club dei Giacobini. “Qui – scrive Taillefer – l’impronta della massoneria è irrecusabile”».36

Tra le tante “operazioni” attribuite o effettivamente compiute dalla Massoneria figura la Rivoluzione Francese e sull’argomento vi è una nutrita letteratura chiaramente spartita tra più correnti tanto a favore quanto contro.

Henry Joseph Delassus (Estaires 1836 – Sarnéon 1921) è ordinato sacerdote nel 1862 e ai primi del XX secolo diviene membro del Solidatium Pianum, organizzazione di cattolici integrali contro il modernismo, fondata da monsignor Umberto Benigni. A proposito della Massoneria e dell’organizzazione della rivoluzione in Francia scrive: «Tuttavia vi erano degli adepti fin dal 1782, i deputati delle logge che erano stati ammessi al segreto, al tempo dell’assemblea di Wilhelmsbad. I due più conosciuti, e che dovevano avere la parte più funesta erano Dietrich, sindaco di Strasburgo, e Mirabeau. Questi, incaricato d’una missione in Prussia dai Ministri di Luigi XVI, si legò intimamente con Weishaupt e si fece iniziare a Brunswick alla setta degli Illuminati, quantunque appartenesse da lungo tempo ad altre società segrete. Ritornato in Francia, egli illuminò Talleyrand ed altri colleghi della loggia Les Amis réunis. Egli introdusse eziandio i nuovi misteri nella loggia chiamata dei Philalèthes. I capi della congiura si occupavano allora principalmente della Germania. Mirabeau affermò loro che in Francia il terreno era mirabilmente preparato da Voltaire e dagli Enciclopedisti e che potevano mettersi all’opera con tutta sicurezza».37

Parlando del Grande Oriente in Francia Henry Joseph Delassus dice: «Il quadro della sua corrispondenza ci mostra, nell’anno 1787, non meno di 282 città che avevano, ciascuna, delle logge regolari sotto gli ordini di questo Grande Maestro [Weishaupt. N.d.A.]. Soltanto in Parigi, se ne contavano fin d’allora 81: ve ne erano 16 a Lione, 7 a Bordeaux, 5 a Nantes, 6 a Marsiglia, 10 a Montpellier, 10 a Tolosa, e quasi in ogni città un numero proporzionato alla popolazione. Le logge della Savoia, della Svizzera, del Belgio, della Prussia, della Russia, della Spagna, ricevevano dal medesimo centro le istruzioni necessarie alla loro cooperazione. In questo medesimo anno 1787, si contavano, dice Deschamps, secondo fonti storiche molto sicure, 703 logge in Francia, 623 in Germania, 525 in Inghilterra, 284 in Scozia, 227 in Irlanda, 192 in Danimarca, 79 in Olanda, 72 in Svizzera, 69 in Svezia, 145 in Russia, 9 in Turchia, 85 nell’America del Nord, 120 nei possedimenti d’oltre mare degli Stati europei. La parola di Luigi Blanc non è che troppo vera: “Alla vigilia della Rivoluzione francese, la framassoneria aveva preso uno sviluppo immenso: sparsa in tutta l’Europa, essa presentava dappertutto l’immagine d’una società fondata su princìpi contrari ai princìpi della società civile”».38

Si ricorda che la ricorrenza della presa della Bastiglia, avvenuta il 14 luglio 1789, è ancora oggi la principale festa nazionale francese.

      Note   24 Gaspare de Luise, La Framassoneria e la Giovine Italia. Esame critico, Seconda Edizione, Tipografia e Libreria Poliglotta de propaganda fide, Roma 1866, pp. 195-196.

Cosa curiosa da ricordare: nel film di Mel Gibson del 1995, Braveheart (Cuore impavido), compare il conte Robert I Bruce, il quale tradisce il libero cittadino e patriota scozzese William Wallace, ma comunque successivamente conduce gli Scozzesi alla conquista della libertà. Dal punto di vista storico i Clan scozzesi sconfissero le truppe inglesi nella battaglia di Bannockburn (23 e 23 giugno 1314).

  25 Nicholas Hagger, Il segreto dei Padri fondatori. La nascita degli Stati Uniti fra puritani, massoni e la creazione del Nuovo Ordine Mondiale, Arethusa Editore, Torino 2011, p. 130.   26 Ibidem, p. 131.   27 Ibidem, pp. 131-132.   28 Ibidem, pp. 132-133.   29 Ibidem, p. 155.  

30 Giovanni Francesco Carpeoro, Dalla massoneria al terrorismo. Come alcune logge massoniche sono divenute deviate e come con i servizi segreti vogliono controllare il mondo, Revoluzione Edizioni, Orbassano 2016, p. 10.

  31 Ivi.   32 Maurice Caillet, Ero massone, Edizioni Effedieffe, Proceno (Viterbo) 2013, p. 12.   33 Roberto Quarta, Roma massonica, Edizioni Mediterranee, Roma 2014, p. 11.   34 Ibidem, pp. 13-14.   35 Gian Pio Mattogno, La massoneria e la rivoluzione francese, Quaderni del Veltro XXVIII, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1990, p. 9.   36 Ibidem, pp. 82-83.   37 Henri Delassus, Il problema dell’ora presente. Antagonismo fra due civiltà, Volume I “Guerra alla civiltà cristiana”, Edizioni Effedieffe, Proceno 2014, p. 150.   38 Ibidem, pp. 151-152.
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