«l’intelligenza col nemico. La piaga che più logorò la nostra resistenza fu quella dello spionaggio. Certo nessuna nazione andò immune dal lavoro delle spie, ma da noi le spie sapevano troppe cose, troppo in fretta e con troppa precisione. E, per giunta, rimanevano impunite. Non è una scoperta d’oggi, ma già durante la guerra fatti tenebrosi e altrimenti inspiegabili avevano indotto a gravi sospetti, se non addirittura ad assoluta certezza, sulla intelligenza con il nemico»
Antonio Trizzino, Navi e poltrone, 1952
Direttive trasversali e tradimenti.Come si è potuto fino a qui leggere, la direzione politica delle operazioni militari italiane, nonché la stessa conduzione delle guerre, a partire dall’ottocentesca costituzione del Regno d’Italia, sono tutt’altro che specchiate.
Le vicende umane possono essere complesse, controverse, magari contorte. Chiunque può vedere sorgere in sé stesso dubbi, perplessità, angosce e ripensamenti nel corso della propria esistenza. Tutto ciò fa parte dell’animo umano, delle sue “oscillazioni”, del conflitto di sentimenti ed emozioni nel corso della vita terrestre.
Un altro conto è avere la responsabilità di centinaia, migliaia e decine di migliaia di uomini, tutti alle proprie dipendenze, e accusare sentimenti contrastanti senza essere in grado di gestirli; oppure di non rispondere volontariamente e coscientemente delle proprie azioni. Questo senza tenere conto che tali responsabilità assunte, e qui ci si riferisce innanzitutto a ufficiali superiori delle FF. AA., sono ben pagate e a fronte di una diritta carriera in seno allo Stato. Se non si è in grado di assumersi le proprie responsabilità innanzi ai sottoposti si dev’essere coscienti di dover recedere dal proprio ruolo di comando, dimettendosi. Tutto ciò è tranquillamente comprensibile e accettabile, anche senza dover ricorrere a doveri e sentimenti quali “giuramento prestato”, “senso di responsabilità”, “patriottismo”, “spirito di sacrificio”, ecc. Altro conto ancora è se i dipendenti dello Stato percepiscono da questo uno stipendio e magari pure onori e onorificenze, ma in realtà fanno gli interessi di altri Stati o di “organizzazioni trasversali”.
Quando la Nazione entra in uno stato di guerra le conseguenze di chi non fa il proprio dovere, o peggio di chi tradisce ciò per cui ha giurato (e per cui è stipendiato), sono esponenzialmente più gravi che in tempo di pace e soprattutto costano vite umane.
Costano le vite degli uomini che si deve comandare e i quali ripongono, volenti o nolenti, nel proprio superiore la loro fiducia: pongono la propria vita nelle mani di chi li comanda. Quando la propria Nazione entra in uno stato di guerra ognuno ha la chiara e netta alternativa: combattere o non combattere, ma facendolo in modo chiaro, dichiarato. La vita, come si suole dire, è una questione di scelte, ma parrebbe che nelle guerre italiane le scelte di taluni che comandano siano, con allarmate incidenza, a favore di qualche cosa di non apertamente dichiarato, come si argomenterà in questo e nei prossimi contributi.

Se il 10 giugno 1940 l’Italia entra in guerra al fianco della Germania, l’attacco contro la Francia si risolve in un insuccesso e le motivazioni sono state ampiamente esaminate in svariati libri e articoli durante settanta e passa anni di studi storici. Ma per quale motivo l’Italia entra in guerra? Anche a questa domanda sono seguiti veri e propri fiumi di parole. Vediamo quindi che cosa scrive il Comandante Junio Valerio Borghese sull’inizio del conflitto, ma soprattutto che cosa succede in ambito navale.
In primo luogo Borghese accenna alla supremazia della marina inglese e al fatto che le colonie italiane in Africa sono direttamente coinvolte nella guerra, affermando che «è compito della Marina assicurare il rifornimento continuo in armi e uomini oltremare» (Junio Valerio Borghese, Decima Flottiglia MAS. Dalle origini all’armistizio, Albertelli Edizioni, Parma 2005, p. 31).
E soggiunge: «Cosa avviene al nostro intervento? In quali forme si manifesta il vantaggio di aver noi scelto la data d’inizio? Quale piano d’azione militare, rapido ed improvviso, accompagna la nostra dichiarazione di guerra? Come sfruttiamo il vantaggio della sorpresa? Non succede assolutamente nulla: militarmente accettiamo la guerra sulle posizioni di partenza e con il rapporto di forze preesistente. Non si sviluppa un piano, non si persegue un obiettivo: si temporeggia. Sul fronte francese, sulla difensiva; sul fronte libico, modeste azioni di pattuglie (l’Egitto era, a quel tempo, quasi completamente sguarnito di truppe inglesi); Malta, la base navale inglese situata nel cuore del Mediterraneo sulla rotta Italia-Libia, la cui neutralizzazione avrebbe dovuto costituire da anni l’oggetto degli studi e dei piani dei nostri Stati Maggiori e la cui difesa aerea consisteva, il 10 giugno del ’40, in quattro aerei Gladiator, indisturbata; la flotta inglese del Mediterraneo, suddivisa fra le basi di Gibilterra ed Alessandria, inaccessibile. Questi i dati di fatto: a chi attribuirne la responsabilità, dirà lo storico futuro.[1]» (Ibidem, pp. 31-32) (1).
Sull’operato, o meglio sul “non operato”, dello Stato Maggiore Italiano a inizio conflitto ci si potrebbe tranquillamente scrivere un volume d’enciclopedia.

Rimaniamo nell’ambito delle operazioni sommergibilistiche e di quelle effettuate dagli incursori navali. Possedendo una marina militare di potenza inferiore a quella inglese (2), in Italia ancora una volta si pensa d’impiegare uomini addestrati in modo particolare e che mediante mezzi piccoli possano ottenere successi inversamente proporzionali. In pratica si riprendono in mano gli studi su macchine e ordigni definiti “armi segrete” andando a produrre, come già visto, soprattutto i mezzi d’assalto impiegati dalla Regia Marina Militare Italiana e successivamente, in misura minore per cause belliche, dalla Xa Flottiglia M.A.S.
Trattandosi di “armi segrete” tanto Junio Valerio Borghese quanto Antonio Trizzino sottolineano il fattore “discrezione” e soprattutto come le “faccende militari” debbano essere tenute riservate fin nei minimi dettagli, per ovvie ragioni, ma che queste in realtà divengono spesso ben note all’avversario.
A proposito del reclutamento dei volontari italiani per i mezzi d’assalto, Borghese scrive: «Il segreto, la necessità del più assoluto segreto, non solo sulle armi, sulle esercitazioni, sull’entità e dislocazione del reparto, sui nomi dei compagni e superiori, ma persino sulla propria appartenenza al reparto era il primo requisito richiesto ai volontari e la prima prova a cui erano sottoposti (…). Eppure a questo si pervenne con l’insegnamento, l’esempio e la scuola del carattere: per tutta la durata della guerra non mi risulta che vi sia stato uno solo fra i volontari dei mezzi d’assalto che abbia dato motivo a rilievi per indiscrezioni; e questo sia in Italia, durante i lunghi mesi di preparazione e vigilia, sia in prigionia, sotto il tormento dei continui interrogatori, per coloro cui fu riservata l’ingrata sorte» (Ibidem, p. 34).
Sia come sia: «le prime tre settimane di guerra furono disastrose per i sommergibili italiani. Dal 10 al 30 giugno del 1940, infatti, ne andarono perduti sei nel Mediterraneo (Provana, Diamante, Liuzzi, Argonauta, Uebi Scebeli, Rubino) ed altri quattro nel Mar Rosso (Macallè, Galilei, Torricelli, Galvani) degli otto rimasti a Massaua allo scoppio delle ostilità» (Antonio Trizzino, Settembre nero, Longanesi & C., Milano 1968, p. 8).

Nel 1940 si pensa di attaccare le navi inglesi alla fonda utilizzando gli S.L.C., trasportati da appositi sommergibili in prossimità delle navi avversare alla fonda, e in agosto le operazioni vengono avviate. Rimane evidente che troppe volte l’attrezzatura accusa malfunzionamenti e guasti e che il “segreto militare” appare di nome, ma non di fatto.
- 22 agosto 1940: prima missione contro le navi inglesi alla fonda nel porto di Alessandria d’Egitto. Il sommergibile Iride trasporta quattro apparecchi S.L.C., ma è individuato e centrato da aerosiluranti inglesi. Si ricorda che l’ammiraglio Domenico Cavagnari è il Capo di Stato Maggiore della Regia Marina Militare, l’Ammiraglio Edoardo Somigli, Sottocapo di Stato Maggiore, è al comando di Supermarina; l’Ammiraglio Raffaele De Courten (già visto in contributi precedenti, sempre su Ereticamente) comanda i Mezzi d’Assalto e il Capitano di Fregata Mario Giorgini comanda inizialmente la 1a Flottiglia M.A.S.
Sergio Nesi riporta il commento di Borghese aggiungendo lapidariamente il proprio: «“Così, con la perdita di un sommergibile, di un piroscafo e di molte vite umane, si concludeva il primo timido, estemporaneo e inadeguato tentativo d’impiego della nuova arma della Marina; per l’evidente superficialità e leggerezza nell’approntare il materiale e predisporre l’organizzazione, non v’era probabilità alcuna che esso potesse avere sorte migliore, anche se il siluro nemico non avesse troncato la missione al suo inizio. Era stata ordinata dall’ammiraglio De Courten dal quale, in quel periodo, dipendeva l’impiego dei mezzi d’assalto”. Un preciso siluro» (Sergio Nesi, Junio Valerio Borghese un Principe un Comandante un Marinaio, Editrice Lo Scarabeo, Bologna 2004, p. 120) (3).
- 21 settembre 1940: seconda missione, medesimo obiettivo e dal porto di La Spezia parte il sommergibile Gondar. Ma il 29 un telegramma di Supermarina informa che la flotta inglese è uscita dal porto e quindi il sommergibile deve sospendere la missione e raggiungere il porto di Tobruk (italiano). Individuato e attaccato da navi inglesi è colpito con bombe di profondità; anche questo battello va perduto. Mario Giorgini (Massa 1900 – Firenze 1977) è preso prigioniero a seguito del fatto ed è liberato dalla prigionia nel 1946 (4). Gli subentra il Capitano di Fregata Vittorio Moccagatta.
- 24 settembre: lo Scirè lascia La Spezia trasportando tre S.L.C. che devono attaccare le navi nel porto di Gibilterra, nella baia di Algesiras. Il 29 settembre Supermarina ordina di rientrare perché la flotta inglese ha lasciato il porto. Scrive Borghese: «Come si è detto, ordine analogo, lo stesso giorno 29, era stato impartito al Gondar, avendo anche la flotta di Alessandria inopinatamente lasciato quel porto poche ore prima della data prevista per l’attacco. Furono gli inglesi preavvertiti? Spionaggio? Intelligence Service? O invece pura coincidenza di operazioni delle forze navali, indipendentemente dai nostri piani offensivi? Mistero che non sono in grado di penetrare» (Junio Valerio Borghese, Decima Flottiglia MAS. Dalle origini all’armistizio, op. cit., p. 54).
Scrive Arnaldo Cappellini sul seguito dell’affondamento del Gondar: «I superstiti furono raccolti da una nave inglese e quando Toschi, che nessuno aveva ancora interrogato, sbarcò sulla banchina di Alessandria, con la barba di alcuni giorni e gli sleeps, un capitano di corvetta inglese lo avvicinò e gli disse: “How do you do, captain Toschi?” e in maniera analoga si rivolse agli altri superstiti. Gli Inglesi sapevano tutto, aspettavano il sommergibile, avevano fatto uscire le navi, e conoscevano i nomi degli operatori. Da chi avevano saputo? Chi avvertiva la Flotta inglese degli attacchi italiani?» (Arnaldo Cappellini, Torpedini umane contro la flotta inglese, Edizioni Europee, Milano 1947, p. 79).
- 21 ottobre 1940: lo Scirè salpa da La Spezia trasportando tre S.L.C. e l’obiettivo è nuovamente il porto di Gibilterra. Supermarina avvisa che le navi da battaglia sono nella rada e il giorno 30 vi è l’attacco. Tutti e tre i Maiali accusano gravi malfunzionamenti e così pure alcuni auto respiratori a ossigeno (A.R.O.) degli incursori, tant’è che la missione non consegue alcun affondamento di naviglio avversario.
Sergio Nesi riporta la relazione scritta da Teseo Tesei il quale, a rientro dalla missione, a proposito dei malfunzionamenti scrive: «“1°) Constato: Un forte annebbiamento del quadro strumenti in corrispondenza della bussola. 2°) L’irregolare funzionamento della pompa di travaso”» (Sergio Nesi, Junio Valerio Borghese un Principe un Comandante un Marinaio, op. cit., p. 131).

Nel prossimo XII contributo si parlerà delle operazioni compiute nel 1941 e di Duran de La Penne; intanto, in chiusura, ecco una nota di Borghese: «Un ufficiale di marina inglese del servizio segreto navale, destinato a Gibilterra durante la guerra, dice: “Lo Scirè, al comando del principe Valerio Borghese, portava tre equipaggi di mezzi d’assalto per un attacco alle navi da battaglia inglesi di Gibilterra. Cominciava così una guerra di tre anni, combattuta in silenzio sotto la superficie della baia di Gibilterra. Al prezzo di 3 morti e 3 prigionieri, le unità dei mezzi d’assalto italiani vi affondarono o danneggiarono 14 bastimenti alleati, per un totale di 73.000 tonn.» (Junio Valerio Borghese, Decima Flottiglia MAS. Dalle origini all’armistizio, op. cit., p. 68).
Complessivamente le perdite furono maggiori, anche solo pensando alla vicenda del Gondar e dell’equipaggio catturato, ma la sostanza non muta.
Note.1) Nota [1]: «In un colloquio avvenuto nel 1942 a Palazzo Chigi, Galeazzo Ciano ebbe a dirmi: “Quando il Duce decise l’entrata in guerra, chiese a Badoglio: ‘Quali piani avete per Malta?’ ‘Nessuno’ rispose questi» (Ivi).
Gloster Gladiator: biplano, aereo cacciatore (caccia) inglese il cui primo prototipo è del 1934. Secondo altre fonti i Gladiator presenti ed efficienti a Malta alla data del 10 giugno 1940 erano tre.
2) Almeno secondo Antonio Trizzino occorre fare un’eccezione per la flotta sottomarina, la quale «era stimata la prima al mondo, non soltanto per numero di unità, ma per l’addestramento dei suoi equipaggi e la perizia dei suoi ufficiali» (Antonio Trizzino, Settembre nero, Longanesi & C., Milano 1968, p. 7). Numericamente era superiore quella sovietica, ma era troppo frazionata e molti battelli (sommergibili) erano di piccolo e piccolissimo tonnellaggio.
Borghese, pur non negando l’affermazione, puntualizza che nel periodo trascorso a Mamel sul Mar Baltico, in un corso istituito dai Tedeschi, constatò «che il personale dei sommergibili tedeschi, dai comandanti agli equipaggi, non era né individualmente né collettivamente sotto alcun aspetto superiore al nostro: ma usufruiva di un prolungato ed eccellente tirocinio teorico-pratico che dava ai tedeschi, in fase di addestramento, un’esperienza e capacità che i nostri comandanti di equipaggi acquisivano soltanto attraverso le missioni di guerra: ciò che, naturalmente, valeva solo per i sopravvissuti al duro tirocinio» (Junio Valerio Borghese, Decima Flottiglia MAS. Dalle origini all’armistizio, op. cit., p. 44).
3) Massimiliano Capra Casadio nella prima parte del corposo contributo sulla storia della Xa accenna anche alle sue imprese, ma curiosamente non parla di quanto argomentato da autori quali Borghese, Nesi e Trizzino in merito ai costanti malfunzionamenti di mezzi e attrezzature nonché sulle “fughe” d’informazioni militari che avrebbero dovuto essere tenute segrete. Fanno eccezione alcuni rari e brevi passi, come ad esempio un’affermazione sull’operazione a Gibilterra dell’ottobre 1940: «I piloti degli SLC non riuscirono ad attaccare nessuna nave nemica a causa di varie avarie dei mezzi e degli autorespiratori» (Massimiliano Capra Casadio, La storia della X Flottiglia MAS 1943-1945. Analisi di una politica oscillante. Prima parte: dalle origini all’8 settembre 1943; i giorni dell’armistizio; la nuova Decima e l’adesione alla R.S.I., in Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, Periodico Trimestrale, Anno XXIII, Marzo, Ministero della Difesa Editore, Roma 2009, p. 141).
Ma Capra Casadio non si spinge a scendere né in dettagli né tantomeno in personali considerazioni. Sarebbe invece utile e illuminante poter comparare i documenti segreti della Regia Marina riguardanti le operazioni e la perdita dei nostri mezzi con quelli inglesi e sui medesimi fatti.
4) Famiglia dalla storia interessante, quella dei Giorgini. Vediamo, seppur brevemente non essendo il tema del presente contributo, alcuni tratti di Giovanni Battista Giorgini (1898-1971), fratello del Capitano di Fregata Mario Giorgini, con le parole di Letizia Pagliai: «A Firenze nel 1924 fu ricostituita l’Associazione Cristiana dei Giovani (ACDG), il corrispettivo italiano della Young Men’s Christian Association (YMCA), organizzazione cristiano-evangelica fondata a Londra nel 1844, fortemente sviluppatasi negli Stati Uniti e in Canada sullo scorcio del XIX secolo. Il movimento, le cui linee programmatiche erano state delineate da John R. Mott, protagonista indiscusso del movimento ecumenico, voleva essere uno spazio di pacificazione universale per ricomporre le grandi famiglie cristiane che sotto le varie denominazioni protestanti erano separate dalla Chiesa; l’intento era quello di far conoscere al mondo intero l’evangelo, pur prescindendo dalle conversioni individuali, attraverso la ramificazione e la diffusione dell’organizzazione» (Letizia Pagliai, Unionismo fiorentino negli anni Venti. L’Associazione Cristiana dei Giovani di Firenze, in AA. VV., Annali di Storia di Firenze, VII, Rivista “Storia di Firenze”, Firenze University Press, Firenze 2012, p. 195).
Più avanti leggiamo: «Giorgini [Giovanni Battista. N.d.A.] era stato lasciato nella piena libertà di coscienza di decidere tra le due confessioni di famiglia, cattolica e protestante, ma aveva finito per accogliere dalla madre valdese, Florence Rochat (1860-1942), un’educazione religiosa in senso riformato. Il contatto fra i liberali Giorgini e il ramo toscano dei Rochat, facoltoso e impegnato nella vita sociale, che aveva nella Svizzera francofona un’antica ascendenza, era avvenuto nella seconda metà dell’Ottocento al Forte dei Marmi. L’Ottocento e il Novecento toscano ebbero indubbiamente in quattro generazioni di Rochat, a partire dal patriarca Jacques Henri, primo a stabilirsi a Firenze dopo aver fatto richiesta al Comune di L’Abbaye dell’acte de bourgeoisie, un gruppo di personalità di spicco che arrivarono a occupare posizioni ragguardevoli nella vita locale» (Ibidem, p. 199). Inoltre: «Quando l’ACDG fu presentata ufficialmente a Firenze in via de’ Serragli il 18 novembre 1924, il Consiglio provvisorio della neocostituita associazione incaricò ufficialmente Giorgini del ruolo di ‘ambasciatore’ affinché nei suoi giri per affari negli Stati Uniti portasse un’eco italiana, e fiorentina, ai responsabili delle varie sedi YMCA nelle città in cui avrebbe sostato per lavoro» (Ibidem, p. 200).